lunedì 30 dicembre 2013

Giornate ordinarie.

            

Ecco, escono insieme da casa, come sempre a quest'ora peraltro. Lui sicuramente pensa che forse ha indossato una giacca troppo pesante, considerata la temperatura mite di questa metà pomeriggio, lei muove le labbra per dirgli che sicuramente si è vestito in maniera troppo pesante per il clima che è. Si guardano attorno, danno ambedue una lunga occhiata in tutte le direzioni della strada, poi l’attraversano in prossimità del passaggio pedonale, lui una mano sopra al braccio di lei, lei impegnata con la sua borsetta, certe volte anche con un paio di guanti.
Si fermano al caffè poco lontano, e lui immagina, prima ancora di entrare, di farsi servire oggi una sfoglia calda alla crema insieme al suo immancabile cappuccino, e lei gli dice sottovoce che se vuole può mangiarsi una bella brioche o qualcosa del genere. Non si siedono mai nel locale, restano in piedi accanto al bancone per il tempo appena sufficiente alle loro consumazioni, poi lui paga quanto dovuto alla cassa, lei lo attende accanto all’ingresso, e infine escono insieme lasciando in aria un saluto formale.
Affrontano una piccola passeggiata, la camminata mai troppo veloce, le espressioni seriose sempre rivolte in avanti, spalla contro spalla, fermandosi raramente davanti a qualche vetrina lungo la strada. Lui pensa spesso che se fosse da solo camminerebbe senz’altro più velocemente di così, forse soltanto per un’ansia repressa che comunque riesce facilmente a contenere, lei quasi lo provoca spiegando quanto sia bello, secondo il suo parere, passeggiare in questa maniera, senza alcuna fretta, godendosi appieno il tempo e tutte le cose da cui sono circondati.    
Lei aggiunge che dovrebbero prima o poi affrontare gli argomenti più spinosi che hanno lasciato in sospeso, primo fra tutti la risposta da dare al loro amministratore di condominio circa la nuova pittura al vano scale del palazzo dove abitano. Lui ascolta e intanto pensa che quello sia l’ultimo argomento di cui vorrebbe occuparsi. Lei insiste, di fronte al silenzio di lui, che prima o poi dovranno pur prendere una decisione, lui sorride mostrando con la mano qualcosa che ha visto dentro un negozio.
Si fermano appena un momento, poi lei prende a dire una volta di più che quell’amministratore non le è mai piaciuto davvero, e che spesso i suoi modi sono quelli soltanto di un affarista, uno che non ha proprio scrupoli quando si tratta di intascare dei soldi. Lui pensa che lei abbia proprio ragione a dire così, però sa benissimo non dovrà mai sostenere una cosa del genere davanti a lei, pena dover ripetere tutto quanto anche agli altri condomini ed al vicinato.
Infine tornano indietro, qualche volta passando da una strada diversa, ma quasi sempre scegliendo semplicemente il marciapiede opposto della medesima via. Il ritmo dei loro passi è lo stesso di prima, le espressioni sui loro visi non sono mutate. Lui pensa che tra poco finalmente entrerà in casa, si metterà comodo nel suo piccolo studio, e potrà starsene da solo a preoccuparsi soltanto dei suoi piccoli affari, ma lei dice quasi con un certo sarcasmo che c’è sicuramente da fare la lista delle cose che servono per la dispensa, e che è necessario quanto prima uscire di nuovo per andare a far spese.

Bruno Magnolfi 


sabato 28 dicembre 2013

Diritto di parola.

            
Mi avete profondamente stufato, dico a voce alta dalla mia finestra del quarto piano, riferendomi alla confusione di gente e di traffico lungo la strada di fronte. Probabilmente nessuno può sentirmi, immagino, il rumore così forte copre qualsiasi altra cosa, ma in ogni caso io continuo a guardare quelle persone che corrono di qua e di là e sento dentro di me un intenso ribrezzo per i loro comportamenti, per quel loro modo di camminare e di parlare sempre apparentemente corretto e rispettoso di tutto, nonostante la confusione che creano.
Mi pare impossibile dover sopportare una vista del genere, ma è tale il disgusto che non riesco a staccarmi da qui, non ce la faccio a disinteressarmi di loro, a chiudere la finestra e preoccuparmi di altro. Poi mi accorgo che un tizio dal marciapiede si è girato verso di me, mi guarda, sta fermo con la faccia rivolta in alto, ma senza dire niente, come osservando qualcosa di curioso per lui, che probabilmente non ha proprio nient’altro da fare. Forse ha sentito le mie parole, penso, ma adesso non sono proprio disposto a ripeterle per assicurarmi che abbia del tutto capito.
Lo guardo, il tizio ugualmente continua nella sua osservazione, prosegue a non perdermi d’occhio, come se si aspettasse da me qualche gesto del tutto clamoroso. Mi innervosisco, vorrei mettermi persino ad urlare, a spiegare a voce gridata che non è in questa maniera che il mio disprezzo diverrà meno intenso. Poi vedo, con la coda dell’occhio, qualcosa sul tavolo della mia stanza: un bel vasetto di fiori pesante, forse di porcellana, o di terracotta, non so. Lo prendo, lo impugno con forza, lo lancio d’impulso verso quel tizio, misurando in qualche maniera le forze, ma si va a rompere in mille frammenti in una zona della strada dove non c’è proprio nessuno.
L’uomo però ha visto bene la scena, chiama qualcuno là attorno per informarlo, adesso mi indicano con una mano, forse vorrebbero impedirmi di dire di nuovo quello che penso, vorrebbero contrastare questo starmene qui a questa finestra, a dire ciò che mi va. Mi pare impossibile che ci sia qualcuno che non riesce neppure a comprendere che devono andarsene tutti, filarsene via, lontano dalla mia vista, con quei loro passetti identici e quel modo falso di sorridersi a vicenda.  
Il tizio pare non perdersi neppure una mossa dei miei comportamenti, gli altri complottano qualcosa tra loro: a me adesso viene perfino da ridere tanta è la rabbia che mi fanno quei perditempo schifosi che non hanno altro da fare che starsene tutto il giorno a transitare sotto a questa finestra. Forse potrei trovare qualcos’altro da tirare addosso a loro, ma in fondo adesso mi hanno annoiato del tutto, rientro, chiudo i vetri e tiro le tende.
Che cosa m’importa se chiederanno di me al vicinato, se forse saliranno le scale per suonare questo campanello dell’appartamento, per poi alla fine parlare con qualcuno della mia famiglia, mio fratello magari, oppure la mia anziana mamma: non me ne importa un bel niente, quello che dovevo dire l’ho detto e senz’altro continuerò a ripeterlo, perché è una verità sacrosanta, persino più importante di quello che può fare o immaginare ciascuno di loro.


Bruno Magnolfi

venerdì 27 dicembre 2013

Veri valori.

            
            Sono tutti così, magari ti stanno apparentemente a guardare, ma in realtà neppure ti vedono. L’anziana donna si lamenta con la sua vicina: mi hanno dato una spinta mentre camminavo sul marciapiede, sono caduta in mezzo a diverse persone che fortunatamente mi hanno soccorsa, e così ho potuto rialzarmi, solo una sbucciatura sopra un ginocchio, niente di grave, anche se adesso ho paura, paura di quelle persone che si nascondono in mezzo agli altri, e pensano soltanto a se stessi.
            La vicina la guarda in silenzio, con espressione incredula riflette tra sé che di una vecchia così non se ne fa niente nessuno, ed a lei perlomeno, che è di molti anni più giovane, sembra soltanto un fastidio, e magari vorrebbe semplicemente avere quei soldi che tutti qui sanno che tiene nascosti da qualche parte, ed essere finalmente a posto, felice di spendere e di togliersi qualche soddisfazione, non come lei che non sa neppure come impiegarli. Però annuisce, l’osserva, dice soltanto che oggi non ci si può fidare di niente, tutto è diventato uno schifo, e l’indifferenza regna sovrana, poi la saluta.
            Anche l’anziana saluta, si ritira nel suo appartamento, ma dopo poco torna a suonare il campanello della sua vicina. Volevo farle un regalo, dice, ma non riesco a pensare niente che possa davvero servirle, così le ho portato una busta con qualche risparmio che tengo in casa, in fondo ad un cassetto qualsiasi. La vicina la guarda quasi incredula, accetta quel dono con grandi espressioni di ringraziamento, ma solo quando ha richiuso la porta si accorge che dentro la busta ci sono soltanto pochi soldi, qualche banconota che lascia praticamente il tempo che trova, senza cambiare di un millimetro le cose come sono.
            Si sente quasi offesa, quella vicina di casa, vorrebbe andare a bussare a sua volta la porta alla vecchia, dirle che può tenerli i suoi spiccioli, non è di questi che lei sente il bisogno, con una famiglia da mandare avanti e tutti i problemi che ha, e non prova certo la voglia di ringraziare qualcuno per un’elemosina. Ma poi alla fine pensa bene di tenere la busta, decide soltanto che visto il tipo di gratitudine di quella vecchia per tutte quelle volte che lei si ferma ad ascoltare quei suoi discorsi e a darle un sostegno morale, eviterà d’ora in avanti di perdere con lei ancora del tempo.
            L’anziana signora più tardi torna ad uscire dal suo appartamento per andare ad acquistare qualcosa, scende le scale condominiali, incrocia proprio sul portone la sua vicina di casa che è scesa per chiamare il figlio più piccolo mentre gioca in fondo al cortile, le dice che è veramente contenta di avere come dirimpettaia una persona come lei, una conoscenza preziosa, le spiega, così consapevole dei veri valori, ma l’altra non l’ascolta neppure. Si volta verso suo figlio che intanto è corso a raggiungerla, gli prende la piccola mano, getta un’occhiata come di grande rancore alla vecchia, e poi rientra dentro al palazzo. L’anziana rimane stupita, ma solo un momento: poi ride, si mette una mano sopra la bocca e continua a ridere; osserva la sua sbucciatura sopra al ginocchio senza smettere un attimo solo di ridere. Non c’è niente di male, pensa infine tra sé: bisogna imparare a conoscerle bene le persone per riuscire davvero a difendersi.

            Bruno Magnolfi    


giovedì 26 dicembre 2013

Cambio di vita.

            
            Devo spostarmi, penso; ormai lo hanno capito che passo qui quasi ogni notte. Lo so che sarebbe forse meglio lasciarmi portare dentro facendomi beccare con le mani dentro una borsa di qualche signora, oppure fare il furbo al mercato, però mi farebbero subito un processo per direttissima, e in un paio di giorni sarei di nuovo fuori a ricominciare tutto da capo. Se ci penso per bene non me ne importa proprio un bel niente di quello che sarà domani o tra qualche altro giorno. Bevo dal cartone questo vino aspro da ottanta centesimi, e cerco il più possibile di sentirmi intontito, senza possibilità di riflettere niente.
            C’è stato un tizio nel pomeriggio, aveva una chitarra sfondata e suonava con quella delle cose che non avevo mai ascoltato. Bisogna fare dei miracoli per uscire davvero da questo settore, penso; si può essere bravi a fare cose che attirano momentaneamente la gente, e farti dare in un pomeriggio un sacco di spiccioli, ma poi devi smettere, devi cercarti un posto dove passare la notte, ti compri qualcosa di aspro da bere e ti vieni a sdraiare sopra ai cartoni, come noi tutti.
            Ormai non ti guardano neppure più: passano oltre, tutti quanti, come se neppure esistessi: puoi suonare le cose più incedibili di questo mondo, ragazzo, penso di dirgli; nessuno ti dà ascolto davvero, sentono che ci ha messo l’impegno, sei bravo, ma tutto questo non serve a un bel niente. Qualcuno applaude, ride, si diverte delle cose che riesci a mettere insieme, ma nessuno è sincero, devi stare al tuo posto, pensano tutti, farci divertire magari in un pomeriggio così, e poi basta.
            Gli batto una mano sopra la spalla: mi piaci ragazzo, vorrei quasi dirgli; si sente che hai della stoffa, che hai avuto soltanto sfortuna, altrimenti chissà dove saresti a quest’ora. Lui mi guarda nella stessa maniera che si guarda qualsiasi altra cosa. Sistema in un angolo la sua chitarra sfondata, sogna che qualcuno passi da lì, che dica un giorno di questi che quel ragazzo riesce a suonare qualcosa che non si è mai riusciti a sentire. Non ci sarà una persona così, vorrei dirgli. Non ti arriverà davvero un aiuto, anche se hai la stoffa e meriteresti parecchio, ma non devi illuderti, da questo settore non riuscirai ad uscire con quella tua stupida chitarra.
            Decido di passare ancora una notte qui, nel posto di sempre, con i cartoni ed il resto. Il ragazzo è poco distante, ha sistemato la sua chitarra sfondata subito accanto al suo giaciglio, stiamo bene, ci guardiamo l’un l’altro, non ci può succedere niente. Invece al mattino la sua chitarra non c’è. Qualcuno l’ha presa, forse uno scherzo, forse una cattiveria gratuita. Non ha importanza, vorrei dire al ragazzo; facciamo a meno di qualche cartone aspro di vino, ne troviamo un’altra, potrai ancora suonare le tue cose incredibili. Ma lui è disperato, va via, non so dove vada, la vita è la sua, la può gestire come meglio decide. Anche io me ne vado, in fondo sono amareggiato almeno quanto lo è lui: non si riesce ad essere niente, vorrei dirgli, se non si sta al proprio posto, a farsi osservare dagli altri come le tigri dentro la gabbia.
            Arriverà un giorno che forse avrai ancora la tua chitarra, ragazzo, vorrei dirgli ancora; e sarà forse a quel punto che ti renderai conto che non riesci più neppure a suonarla, perché è passato già troppo tempo: e quello che era stato una volta non sarà più.


            Bruno Magnolfi

mercoledì 25 dicembre 2013

Oltre se stessi.

            

In certi giorni esco di casa, costeggio il marciapiede a fianco della mia strada, e proseguo oltre uno scalcinato muro di mattoni accanto ad un giardinetto che si allarga subìto dopo. Attraverso il viale in prossimità del semaforo, poi vado ancora avanti, lungo alcune costruzioni anonime, fino ad arrivare davanti ad una vecchia casa ormai disabitata, dai muri tutti ingialliti e dall'intonaco cadente. Nel giardino là attorno staziona quasi sempre una colonia di gatti randagi che sembrano perennemente in attesa solo di qualcuno che proprio come me, quasi ogni giorno, si infili tra quei cespugli polverosi prendendosi cura di loro: porto là qualche scatoletta di roba da mangiare, pulisco i rimasugli di roba rimasti dalla volta precedente, osservo se per caso siano nati dei nuovi micini, ed in genere faccio qualche coccola a quelli che si lasciano avvicinare più volentieri.
Però rifletto ogni volta e sempre più spesso se sia il caso di continuare a fare cose del genere: mi sento insulsa certe volte, preoccupata di niente, alla ricerca soltanto di qualcosa che mi impegni, e di nient'altro. La mia solitudine forse è diventata più preoccupante di quanto doveva essere, penso; dovrei cercare attorno a me qualche novità, idee differenti, elementi che valgano davvero la pena di un vero impegno. Così qualche sera arrivo in prossimità della casa dei gatti e invece di fermarmi vado oltre, senza neppure sapere bene in cerca di cosa, ma con le mani perennemente ingombre di elementi che dimostrino in qualche modo un mio compito preciso, perché di questo ho bisogno.
A volte penso che oltre quel pezzo di strada che continuo così spesso a praticare, ci possa essere forse qualcosa che abbia per me un senso più importante del resto, anche di questi gatti egoisti, però credo sia difficile trovare davvero l’elemento giusto che mi trascini in una zona diversa, verso altre strade, in luoghi che non so neppure io immaginarmi, perché è come se la mia personalità riuscisse a muoversi solamente all’interno di ciò che conosco, di ciò che ho sempre praticato. Vado avanti con le scatolette e le mie buste piene di roba, sento i gattini che miagolano nel buio, forse perché mi riconoscono, forse solo perché hanno fame, sanno che qualcuno si occupa di loro.
Oggi però arrivo velocemente alla fine di questa strada, mi fermo ad un angolo, osservo da ogni parte pensando verso dove possa dirigermi pur di scappare da lì, ma non è facile, senza lo scopo dei gatti tutto pare improvvisamente insignificante, senza un fine preciso. Un uomo sul marciapiede di fronte mi osserva, forse comprende il mio contrasto interiore. Mani in tasca, con tutta la lentezza possibile però si avvicina, mi guarda, vede che ormai sto quasi piangendo, la mia emotività ha uno sbocco che non riesco del tutto a controllare. Cosa succede, mi chiede; io lo guardo, non saprei neppure come spiegare quel mio disagio, così non dico niente, lascio vedere che tutto il mio impegno per gli altri è ridotto ad un niente nelle mie mani, che forse ho perduto la strada, la voglia, il filone a cui avevo dedicato fino adesso tutto il mio tempo.
Lui mi viene vicino in silenzio, prende le buste che ho ancora nelle mani e va al posto mio a sistemare a terra le cose che ho portato da casa, poi torna indietro, non dice niente, mi prende a braccetto e mi spinge più avanti, fino ad arrivare davanti ad un caffè dove andiamo a sederci, e a farci servire qualcosa di caldo.
Sono oltre, penso guardandolo ma ancora senza parlare, ho già superato l’ostacolo che avevo di fronte: ho di nuovo voglia di piangere, perché in fondo era facile riuscire in questa stupida impresa, poi penso a quei poveri gatti che forse non avranno più me nei prossimi giorni a prendersi cura di loro; ma non ha alcuna importanza, rifletto: i gatti randagi sanno benissimo come riuscire a campare, siamo solo noi che vogliamo vederli indifesi, ma per un limite nostro, per il nostro bisogno di essere caritatevoli, spesso sbagliando indirizzo. Sorseggio il caffè, guardo ancora la persona che mi trovo di fronte: è proprio di questa parentesi che avevo bisogno.

Bruno Magnolfi

domenica 22 dicembre 2013

A volte può darsi.

            

Può darsi delle volte che lei durante la notte si alzi dal letto, vada in cucina, si versi un po' d'acqua da bere, e osservi fuori dalla finestra le luci dei lampioni lungo la strada, restando come colpita da quel chiarore rosato nell'aria dato dalle lampade del casello autostradale poco lontano, osservando tutto quanto dal suo piccolo appartamento periferico dove si è ritrovata alla fine ad abitare da sola, senza neppure il conforto di una vista migliore. Qualche volta si guarda allo specchio nella sua camera: si trova ancora in forma, un bel figurino, la faccia ancora da giovinetta, ma poi sorride e trascorre le sue serate a guardare qualche programma trasmesso in televisione.
Può darsi che ci sia un suo vicino di casa che qualche volta l'osserva mentre lei passa velocemente lungo il cortile: la saluta cortesemente quando la incontra, e lei gli risponde alla stessa maniera, ma sempre senza mai incoraggiarlo, perché ogni volta che cammina sopra quel selciato polveroso, sente in qualche modo che il suo vicino è lì, da qualche parte, forse alla finestra, la sta guardando, probabilmente fa pure delle congetture di qualche tipo sopra di lei, e chissà con il pensiero fino dove sia già riuscito a spingersi, se ci riflette davvero non osa neppure pensarlo.
Può darsi poi che lei ami questa sua solitudine, specialmente alla domenica quando non deve andare neppure a lavorare. Guarda la sua casa, il frigorifero, sa di avere tutto ciò che le serve per trascorrere una giornata come si deve. Poi prova qualche vecchio vestito, mi sta ancora bene pensa, prima o dopo ci sarà l'occasione  per metterlo ancora. La sua cucina è pulita, tutto è in ordine, si può permettere di stare seduta a leggere un libro o a pensare qualcosa, a pensare che magari questa sua vita di adesso più o meno è forse la stessa di quella che in qualche modo ha sempre desiderato.
Può darsi che lei ogni tanto esca con una sua amica, vada ad un cinema, per esempio, ma più volentieri in giro per la città a visitare negozi e a guardare vetrine; parlare del più e del meno, lasciare che i suoi pensieri sgorghino senza ritegno tramite le parole, come se ci fosse una strada aperta, diritta, forse un modo per sfogarsi del tutto fino a sentirsi migliore; poi però si sente sempre un po' stringere il cuore quando torna da sola con l'autobus verso il suo appartamento. Non c'è niente di male, ha fatto un po' tardi, non c'è neppure il suo vicino a guardarla rientrare.
Può darsi che il giorno seguente provi una grande fatica per alzarsi ed andare al lavoro. Dà un'occhiata a quell'alba rosata fuori dalla finestra della cucina, mentre si prepara qualcosa per colazione, e non riesce neppure a distinguere se è il sole che sorge o sono ancora i lampioni della notte lungo l'autostrada poco lontano; sa solo che ha di fronte una giornata intera da vivere, e che tornerà con i piedi ormai gonfi, stanca, sfinita, e magari ci sarà ancora il vicino di casa a guardarla mentre passa svelta lungo quegli ultimi metri. Forse lei stasera lo saluterà con un'enfasi maggiore di qualsiasi altra volta, pensa per scherzo; si fermerà un attimo con lui per dirgli qualcosa, magari soltanto per fargli presente che non vede l'ora di farsi un caffè, di gustarlo con tutta la calma e la tranquillità ritrovata, e può pure darsi che gli chieda se gli va di prenderne una tazza anche a lui.


Bruno Magnolfi

sabato 21 dicembre 2013

Alla moda del nuovo chef.

            

Devo impegnarmi a fondo per essere maggiormente determinato, pensa Gino durante quel primo giorno in cui deve affrontare la sua nuova occupazione come cuoco del ristorante “Il pepe rosa”. Gli hanno detto che non è facile andare d'accordo con il resto del personale che in quel locale ci lavora già da anni; e magari, immagina Gino, proprio per questo il vecchio chef se n'è andato; ma lui, dopo la chiusura definitiva della trattoria dove ha cucinato per per parecchio tempo, adesso si trova nell’impellente bisogno di passare il più presto possibile ad un'altra occupazione. Ha notato durante il colloquio ed il sopralluogo alla cucina con il proprietario, che  tra tutti c'è una cameriera di mezza età sicuramente antipatica e piena di sé, con la quale si è sentito subito fuori sintonia, gli è bastato appena uno sguardo, un sorriso forzato, una frettolosa presentazione: partirò mettendo subito lei al proprio posto, pensa adesso, e poi con il resto del personale cercherò di fare subito il duro, anche se adesso la preoccupazione è indubbiamente per tutto l’insieme, magari persino quella di non essere perfettamente all'altezza del tipo di locale, peraltro molto diverso da quello in cui ero abituato, con una clientela differente, con modi estremamente diversi di lavorare.
Gino poi si sente in tensione anche per altre cose: ha già studiato a fondo i nuovi menù da proporre in questo ristorante, li ha caldeggiati al proprietario come senz’altro molto attuali e di moda, proprio per fare bella figura, ma questi in fondo si è mostrato scettico anche se solo in parte, perché se da un lato ha fatto il generoso ed il disponibile a parole, di fatto poi ha cambiato e rifiutato diverse proposte tra i suoi piatti, anche se tutte le variazioni che gli ha fatto apportare sono risultate alla fine non troppo importanti. Devo mostrarmi subito deciso in quello che faccio e che voglio far fare agli altri, ha pensato Gino mentre si è sistemato addosso il cappello e il grembiule. Non devo concedere alcuna confidenza a nessuno, ha pensato ancora: solo lavorare a testa bassa e nient'altro. Poi si è sentito osservato mentre tirava fuori le padelle e sistemava il resto; ma in fondo è normale, dobbiamo giungere a lavorare come in un meccanismo perfetto, evitando ogni sotterfugio; ed io devo soltanto cercare di essere fermo e deciso con tutto il resto del personale, nessuno escluso.
La cameriera di mezza età, che quasi gli sembra il parafulmine del suo bisogno di autoritarismo, ad un certo punto però lo ha guardato con determinazione: lui ha già sistemato parecchie delle cose che vuole portare avanti al meglio delle sue possibilità, ma lei attende semplicemente il completamento della comanda per il tavolo sette. Gino si sente osservato, è quasi in difficoltà, mescola  in fretta un sugo sopra ai fornelli, controlla qualcosa nel forno, gira tra i piani di cottura e quelli di acciaio dove si preparano le cose da cucinare, e alla fine si volta con falsa decisione verso di lei: non ci sono problemi, le dice, soltanto un attimo e tutto sarà pronto. Lo so, risponde la cameriera con un sorriso, ne ho già parlato anche con gli altri: sarà nostro compito trovare il modo per lavorare stasera e ogni altro giorno in perfetta sintonia; per noi non ci sono problemi, e comunque se mai ci fossero, vogliamo affrontarli insieme, come una vera e propria squadra, perché abbiamo una piena e completa fiducia nel nostro nuovo chef, che al “Pepe rosa” è senz’altro il benvenuto.


Bruno Magnolfi

mercoledì 18 dicembre 2013

Quasi per sempre.

            
Si rifiutavano quasi ogni volta i gesti eclatanti di distensione, non ce n’era affatto bisogno, almeno non quando eravamo impegnati nella ricerca di una linea obiettiva da tenere tra noi. Non eravamo d’accordo su niente, era chiaro, ognuno doveva per forza tracciare una linea distintiva per tenere separate le aree di pensiero utilizzate. Però si sfociava con facilità in quella leggerezza insospettabile e tenuta nascosta, e ci si scopriva bambini con grande rapidità, pronti a piangere di niente, e spesso a ridere praticamente per nulla.
Oltre c’era sempre un mondo migliore, però immeritato, tanto che nessuno sognava mai di fare anche soltanto un passo verso quel fine. Restava sempre l’urgenza, la voglia infinita di protendersi verso quel lido, anche se quello cadeva d’importanza al solo cercare di avvicinarlo. Ci si nascondeva da tutto, anche io come gli altri, e si evitavano costantemente i luoghi comuni. Mi ritrovavo quasi sempre in una piccola piazza con altri cinque o sei dei nostri, che neppure conoscevo troppo bene, ma ci piazzavamo seduti sui gradini di pietra, e poi si stava lì esattamente come si sarebbe potuti rimanere in qualsiasi altro posto.
Alla fine si restava regolarmente in due, e quasi sempre ci si teneva per mano per quel senso di sintesi che si provava, ed a quel punto si andava generalmente da qualche altra parte, a godersi la città quasi deserta in quegli orari desueti. E ci si baciava qualche volta, io e lei, in qualsiasi luogo potevamo trovarci, ma la cosa più importante di tutte era il lungo e profondo abbraccio che riuscivamo a scambiarci ogni volta che si provava di nuovo quel profondo brivido, quel senso inspiegabile che ogni poco ci prendeva, lo stesso che ci faceva sentire diversi da tutti, e del tutto irraggiungibili dagli altri. Era dolore puro lasciarci, comprendere che forse non ci sarebbe più stato per noi un giorno così, o almeno una serata del genere, o una notte come quella che stavamo vivendo e che dovevamo purtroppo interrompere.
Le percezioni si affinavano poi ulteriormente una volta da soli: tutto diveniva immediatamente un grande ricettacolo di qualsiasi piccolissimo elemento di cui trattenere l’essenza profonda, di cui parlare, lo stesso giorno seguente, la sera stessa, appena possibile, appena risvegliati dal sonno irrinunciabile, purtroppo sempre presente. Ma nel riposo lavoravamo ugualmente, la radio accesa in un angolo, una piccola lampadina soffusa da qualche parte, coperta da una stoffa a nostro modo di vedere assolutamente preziosa. E poi una mano fuori dalle coperte a cercare qualcosa, sempre qualcosa, quella stessa medesima cosa che in genere stava raggomitolata anche nella nostra mente, ma secondo la quale bastava un gesto, quel gesto, quel piccolo tocco, per ritrovarsela lì, accanto a noi.
Poi c’erano i lunghi silenzi dopo le tante parole scambiate, e la convinzione profonda che sarebbe stato impossibile dirsi davvero tutto quello che avremmo voluto; così guardavamo insieme e contemporaneamente verso qualche parte, impressionati da una realtà che forse nessun altro vedeva, e ci lasciavamo andare rapiti da quella magia che soltanto noi riuscivamo a comprendere. Il resto era distante, di nessun interesse, forse addirittura incapace di far parte davvero del nostro mondo: per questo sapevamo di essere estranei, anche se in fondo avevamo coscienza che tutto quanto non sarebbe mai potuto durare per sempre.


Bruno Magnolfi

lunedì 16 dicembre 2013

Vicino al mare.

            

Il punto di osservazione, dall’alto della sua abitazione, è senz’altro invidiabile: da lì si vedono tantissime cose, ma soprattutto si tiene sott’occhio quasi interamente la strada centrale del centro abitato che, scorrendo proprio di fronte, degrada lentamente da lì fino al mare, costituendo generalmente la passeggiata quotidiana per quasi tutti i suoi compaesani. Lui, sul suo terrazzino di casa all'ultimo piano di quel caseggiato, osserva passare tutti quanti quasi ogni sera, certe volte sfoggiando addirittura un pesante binocolo nero a tracolla con il quale finge di interessarsi dei profili delle due isole che si stagliano lontano sul mare, sopra i tetti davanti, all'orizzonte, e che nei giorni di tramontana regalano effettivamente una vista meravigliosa con le loro verdi vallate di macchia mediterranea e di affascinanti  insenature di coste frastagliate, battute regolarmente, nei giorni di burrasca e di tempo avverso, dai venti e dai marosi.
Forse non c'è niente di realmente interessante da vedere, pensa lui mentre qualche volta sta lì, lasciando freddare il caffè dentro al suo solito bicchierino di vetro, sopra al tavolinetto che tiene accanto alla sedia. Eppure c'è un richiamo fortissimo in quella visuale pur sempre identica, come l'attendersi improvviso di una variazione sostanziale, per esempio, o l'accadere inaspettato di qualcosa lungo la strada, qualcosa però che non sa neanche lui. Osserva, riguarda la camminata lenta e particolare di qualche ragazza, riconosce poco per volta tutte le persone che scendono fino alla piazzetta sul mare per un sospiro di salsedine e che poi tornano su, verso di lui.
Le isole sul fondale di questo teatrino restano sempre identiche, a parte le giornate più o meno chiare, e spesso risultano come sorvolate da grandi nuvole vaporose, evidenti e arrossate la sera, su quel bellissimo tratto di mare al tramonto, scuro e increspato. Lui appoggia il binocolo agli occhi nella convinzione di assistere ad un avvistamento precedentemente sfuggito, qualcosa che forse valga la pena, una variazione importante di tutta l'immagine. Ma tutto invece si mostra identico, tanto che ultimamente non sa più come giustificare neppure con se stesso quella sua bramosia di uscire su quel terrazzino.
Ma stasera una donna si ferma lungo la strada, sembra quasi guardarlo, ma non si può essere del tutto sicuri. Infine lei alza una mano, con il suo binocolo lui adesso la vede benissimo, ne inquadra tutta la persona, e gli fa un gesto di saluto, sorride perfino, come se lui dovesse addirittura risponderle. Lui abbassa il binocolo, poi lo riposiziona sugli occhi: lei è sempre lì, come prima, la stessa espressione sul viso, la stessa maniera inedita di fargli capire che ha scoperto il suo vizio, sa cosa lui stia facendo. Conosce quella donna, è evidente, l’ha già vista altre volte camminare lungo la strada, ma non sa proprio chi sia realmente, e soprattutto perché abbia deciso così all’improvviso di salutarlo.
Rientra dalla terrazza fin nel suo appartamento, sente quasi il suo viso andargli in fiamme, beve un po’ d’acqua, non riesce a tornare al suo punto di osservazione, ma non può neppure starsene in casa senza fare niente. Decide di uscire, indossa la giacca, si precipita lungo le scale, raggiunge velocemente il portone, infine la strada, percorre un breve tratto di marciapiede, ma di quella donna non c’è già più niente, si è dissolta, forse un miraggio uguale al salmastro nelle serate di mareggiata. Affonda le mani dentro le tasche e infine si volta: lei è lì, con quel sorriso quasi stampato sopra la faccia. Volevo solo vedere se riuscivi ad uscire, gli dice; lui non sa cosa rispondere, fermo come si trova. Poi la prende delicatamente a braccetto e percorrono insieme la strada, fino sul mare.


Bruno Magnolfi   

domenica 15 dicembre 2013

Perfetto.

           
            Il primo giorno non accadde quasi niente, tutti si limitarono a fingere indifferenza anche se era evidente quanto apparisse un comportamento poco consono a quanto si respirava nell’aria. Anche il giorno seguente pressappoco tutto fu uguale, senza alcun risultato tangibile; ma soltanto durante il terzo appuntamento qualcuno con determinazione riuscì a dire che era assolutamente il caso di prendere una posizione precisa. Uno di noi allora ai alzò in piedi, disse con le lacrime agli occhi che non se la sentiva di continuare così, e in questo modo si fece evidentemente coprire di fischi da tutti, riuscendo però finalmente ad uscire da quell’aula magna insieme ad un manipolo di altre persone, pur conservando, come chi si vergogna, la testa abbassata.
            Si propose così, forse per evitare ulteriori defezioni, di tornare indietro al secondo o addirittura al primo giorno, per cercare cioè di tirare giù un elenco definitivo e fondante di cose sostanziali attorno a cui trovare un costruttivo dibattito, ma avvenne immediatamente uno spaccamento nel direttivo: qualcuno diceva che era prioritario approcciare un certo argomento, altri sostenevano che era necessario preoccuparsi di altro. Naturalmente non si fu capaci di trovare un terreno comune di discussione, e in questo modo si chiuse anche questa giornata con un nulla di fatto, rinviando ogni proposta al giorno seguente.
            Finalmente, al quinto appuntamento proposto per una seria discussione su quanto c’era da decidere, tre membri effettivi dissero che non c’era assolutamente nient’altro da fare: semplicemente si doveva prendere atto che mancava del tutto la piattaforma, perciò era doveroso nominare al più  presto la commissione che avrebbe definito il documento di proposta su cui discutere, ma, nei minuti che seguirono queste parole, tutto quanto venne fatto naufragare da una serie di fischi e di altrettante proteste, probabilmente giustificate solo dal tempo già perso. Qualcuno regolarmente si inalberò, come in fondo era giusto, ma ogni polemica venne ridotta ad un altro niente di fatto, lasciando che ognuno trovasse qualcosa per cui non sentirsi d’accordo su niente.
            Le cose andarono avanti per diversi altri giorni, fino a che qualcuno più coraggioso disse che quella assemblea era ormai assolutamente delegittimata, se non altro per la sua incapacità nel prendere decisioni concrete, e questo, in mezzo alle invettive che riuscì a scatenare, fu un dato che mise d’accordo parecchie persone. Così si sciolse il raduno, ma qualcuno, forse più nostalgico di altri, tornò il giorno seguente nella piccola piazza dove precedentemente si erano riuniti da sempre, e tutto parve ad un tratto continuare quasi nella stessa maniera, pur all’aperto, portabandiera i convinti assertori di quel qualcosa fondato soltanto sulla  ricerca di sostenitori per la loro idea, ed altri che a voce più bassa continuavano semplicemente a criticare di tutto, persino la stessa capacità per ciascuno di loro nel riuscire a proporre qualcosa di rilevante.
            Con l’andare dei giorni seguenti le cose praticamente poco per volta si ridussero a niente, com’era sempre stato peraltro, e quando qualcuno disse che tutti quanti stavamo perdendo un’opportunità irripetibile, ripartirono da ogni lato le ridde di fischi e di improperi, lasciando che la mancanza di coordinamento e di condivisione diventasse finalmente il giusto elemento portante su cui basare ogni atto seguente, non fosse altro che per confermare almeno la negazione di tutto.


            Bruno Magnolfi

giovedì 12 dicembre 2013

Basta una volta.

            

Qualche volta Mauro sembra nervoso, abbassa la testa, sembra quasi altrove, perso in pensieri indecifrabili dei quali forse è più una vittima che un vero attore. Ed anche se provi a chiedergli qualcosa, generalmente lui risponde a monosillabi, quasi sottovoce, scansando vistosamente ogni possibile replica che ognuno in fondo potrebbe tranquillamente contrapporgli. Tutti dicono di lui che nell’insieme sia una gran brava persona, però porta con sé qualcosa di strano, di indefinibile, come se dentro se stesso ogni tanto ci fosse un altro individuo dalle caratteristiche completamente diverse da quelle che normalmente appaiono agli altri.
Qualche volta qualcuno degli amici dopo il lavoro paga un caffè o una bevuta a Mauro, generalmente nella solita birreria che frequentano tutti i ragazzi di questo quartiere. Lui è un tipo che quasi sempre sa stare con gli altri, dice spesso delle battute con la sua espressione da serio, sta al gioco, e tutti in fondo lo seguono, ridono di gusto, gli battono a volte una mano sopra le spalle. Non è un vero e proprio spiritoso, uno che cerca sempre e in qualsiasi caso di far ridere gli altri, però riesce spesso a mettere, dove in genere manca, la parola giusta e divertente in mezzo a tante chiacchiere poco significative, e chi lo frequenta in fondo cerca proprio di tirar fuori da lui quelle cose.
Qualche volta di Mauro si dice che abbia delle idee un poco strane: sembra addirittura che quando lui torna a casa, come tutti quanti dopo il lavoro, al contrario degli altri si interessi però di argomenti che poi non tira mai fuori in altre occasioni, e anche se a nessuno questo aspetto riguarda, visto che in fondo lui è libero di fare quello che crede, per alcuni questa faccenda appare sufficiente per giudicarlo uno strano, sfuggente, diverso da tutti, forse anche ambiguo.
Qualche volta capita a Mauro che qualcuno dei ragazzi cerchi di evitarlo in maniera evidente, ma non per una vera e propria cattiveria, quanto forse per timidezza, per cercare di non cadere nel tranello di non sapere poi cosa dirgli, o di non riuscire a rispondere alle domande che lui a volte pone, in molti casi anche senza preavviso. Pare buffo all’improvviso ritrovarsi da soli con Mauro: se parla delle sue cose è sempre difficile riuscire a seguirlo, se provi a parlargli di altro, non sei mai sicuro d’essere capace di interessarlo davvero.
Qualche volta Mauro prende di colpo e dice che se ne va, magari lasciando tutti gli altri proprio sul più bello, e per qualcuno questo comportamento qualche volta è sembrato vagamente offensivo. Nessuno ce l’ha veramente con lui, però qualcuno dice che una lezione in questo caso forse non sarebbe sbagliata, giusto per fargli capire che gli amici vanno comunque rispettati, e quando sono tutti insieme non si può tagliare la corda come qualche volta fa lui.   
Qualche volta Mauro passerà un guaio, dicono da un po’ di tempo in diversi; capiterà che qualcuno lo aspetti da qualche parte buia fuori dal bar dove vanno tutti, e magari gli dia addosso con un bel bastone di legno. In quel momento forse lui si ricorderà all’improvviso di non essere mai stato del tutto al gioco degli altri, di aver coltivato nell’ombra qualcosa di diverso da tutti, di aver cercato di tradire gli amici, i colleghi, i compagni di lavoro; perché queste in fondo sono le persone che gli vogliono bene, e sono anche le stesse a cui, per lo stesso esatto motivo, lui deve voler bene per forza.


Bruno Magnolfi

mercoledì 11 dicembre 2013

Tra le cose dimenticate.

            

Nel piccolo ingresso del mio appartamento c'è uno specchio verticale alto quasi quanto me, ed essendoci una poltroncina proprio di fronte, certe volte mi siedo lì,  a guardarmi riflessa, fino quasi a stancarmi. Accanto rimane ben chiusa la porta che dà sulle scale condominiali, e così certe volte sento passare sul pianerottolo i miei vicini che escono, che vanno a far spese, o al lavoro, o forse a trovare gli amici. Li sento, ascolto le loro voci smorzate, i passi di fretta, qualche parola detta ridendo e quasi sempre per me incomprensibile. Per ogni evenienza di sicurezza ho la chiave dell’appartamento dove essi abitano, me l'hanno consegnata proprio loro alcuni mesi fa, ringraziandomi pure e a lungo per la cortesia.
A volte sorrido quando mi rendo conto di avere nelle mie mani la loro stessa sorte, così guardo la chiave che tengo riposta dentro al cassetto della credenza e mi sento subito bene, so che ho quasi un dominio sopra di loro, che praticamente se voglio posso gestire molte faccende di questi miei vicini. Lascio normalmente che escano, che vadano pure a fare le loro cose, a divertirsi se vogliono, perché io posso entrare quando mi va in quelle stanze, magari spostare appena qualcosa che li metta in conflitto tra loro, o che instilli nella loro coscienza, giorno dopo giorno, la consapevolezza di aver forse perso ormai la memoria, o la pratica capacità di tenere tutto sotto controllo.
Ma poi non faccio mai niente di quello che penso, sorrido tra me e mi limito a starmene qui, a guardarmi rilassata e immobile in questo specchio neutrale, e a sospirare della vita che gli altri mi pare gettino via dietro qualcosa che secondo me non riveste alcuna importanza, per come sono sicura del senso di certi comportamenti.
Quando esco mi guardo sempre attorno per vedere se sono da sola lungo le scale, altrimenti abbasso la testa, mi raccolgo nel mio cappotto, lascio andare forse un frettoloso saluto verso chi incontro, senza fare nient'altro, perché sono convinta non ci sia assolutamente bisogno di mettersi tanto a parlare del più e del meno con gli altri, specialmente se sono quasi estranei. Sto bene solo quando torno nelle mie stanze, quando chiudo la porta alle mie spalle, quando immediatamente lancio uno sguardo rapidissimo dentro lo specchio, appena un’occhiata, ma giusto per vedere che tutto sia a posto.
Durante le prossime feste i miei vicini mi hanno fatto capire che partiranno per qualche giorno, che forse dovrò vegliare oltre che su di me, anche sul loro appartamento: sentissi qualche rumore sospetto, oppure un odore di gas giungere dal loro portone, o altre cose del genere, non devo aver remore a chiamare soccorsi, mi dicono. Sorrido, non succederà niente del genere, penso; semplicemente magari darò un'occhiata alle loro cose, dentro ai cassetti più remoti dei mobili, di questo penso non potrò farne a meno, anzi, praticamente ormai non vedo l'ora di andare a rovistare da qualche parte.
Cercherò di capire da queste incursioni che tipi sono, il grado di intimità dei loro comportamenti, e quel modo sentimentale e mieloso di fare sempre le cose assieme, quasi fossero inseparabili. Penso già che non riuscirò a resistere alla tentazione di mettere qualcosa fuori di posto, di far trovare qua e là qualche oggetto che possa incrinare la loro fiducia reciproca. Non c'è niente di male, penso, bisogna anche saper affrontare delle variabili che non abbiamo considerato, io nel caso riuscirò sempre a negare di aver fatto qualsiasi cosa al di fuori di quanto pattuito. Male che vada li porterò a vedere lo specchio, e ripeterò tutto quanto davanti a loro mentre mi guardo riflessa: impossibile mentire in certi casi, lo sanno tutti.


Bruno Magnolfi

martedì 10 dicembre 2013

Diversamente convenzionali.

            

Alla fine, dopo innegabile incertezza, lui si è seduto alla lunga tavola cerimoniale scegliendo un posto qualsiasi, senza stare neppure troppo a controllare chi tra tutti gli invitati si sarebbe trovato vicino, preoccupandosi piuttosto e soltanto di restare abbastanza al di fuori dagli obiettivi delle macchine fotografiche e da ripresa, pronte ad immortalare qualsiasi minima mossa degli sposi durante quel pranzo. La tarda mattinata è andata avanti con grandi vestiti firmati, baci a chiunque e chiacchiere di ogni genere, anche con lui che in fondo rimane solo il cugino quasi dimenticato di quella ragazza vestita di bianco che gli è parsa peraltro sempre piuttosto antipatica, almeno quelle poche volte che si sono incontrati, cioè durante qualche natale, o a pasqua, oppure in qualche altra ricorrenza del genere, ma che adesso neppure ricorda.
Tutto ciò in questo momento non ha comunque alcuna importanza: lui ci doveva essere, lo aveva saputo fin dall’inizio, fin da quando gli era arrivato l’invito alla cerimonia scritto su biglietti talmente di pregio da apparire ridicoli, seguiti peraltro anche da diverse telefonate di altrettanti parenti. Ma tu sei ancora da solo?, gli avevano chiesto quasi tutti ridendo, come già altre volte avevano fatto; e lui si era schernito pur di non dare alcuna precisazione. Difficile in verità sarebbe stato scegliere di presentarsi in questo giorno alla presenza del suo amore vero: meglio lasciare che tutti proseguissero a ridere, convinti della sua incapacità ad essere persona esattamente come loro, convenzionale cioè, affogati, come lui li vedeva, nella evidente incapacità di riuscire ad immaginarsi qualcosa di più o di diverso. 
Divertente il caleidoscopio di situazioni che si può  generare in un giorno come questo, ma in ogni caso lui ha proseguito con il suo atteggiamento serio e vagamente distaccato da tutto quanto, come a dimostrare, quasi per un innato principio, la sua estraneità a cose del genere. Qualcuno lo ha squadrato forse con severità, ma lui si è mostrato a questi individui come una persona praticamente indifferente, mentre nei confronti di altri che hanno cercato di chiedergli qualcosa, è riuscito con abilità a far cadere qualsiasi loro domanda diretta, facendo comunque in modo di apparire almeno uno strano, diverso da molti, forse un personaggio addirittura inventato, e quindi quasi del tutto incomprensibile ai presenti.
Tra non molto tutto è finito, ha pensato più di una volta; il mio impegno doveroso compiuto, e tutto con saldezza è rimasto evidentemente al suo posto; cioè, in poche parole, non sono sopravvenuti problemi. Qualcuno però, verso la fine, lo ha osservato più di quanto fosse stato necessario, e lui si è anche accorto di come una persona, che neppure conosceva, lo abbia indicato ad un'altra, facendolo quindi irritare, proprio per quella sua volontà di non stare al centro di chissà quali malelingue, o di certi discorsi pronunciati a mezza voce, detti magari senza sapere niente della sua verità sacrosanta. Infine una battuta grossolana di una donna molto scollata e loquace, lo ha fatto definitivamente montare di rabbia, senza neppure aver compreso bene il riferimento preciso.
E’ stato allora che si è sentito in dovere di dire qualcosa a tutti quanti, usando forse un tono di voce più alto di quanto fosse necessario, ma quando si è alzato per andarsene, gelando la sala, nessuno in fondo ha cercato veramente di trattenerlo. Forse è molto meglio così, ha pensato lui quasi sicuramente: in seguito avrebbe sempre potuto inviare le sue scuse.


Bruno Magnolfi

domenica 8 dicembre 2013

Lentissimamente.

           

Sono uscito dal ristorante dove quasi sempre alla domenica consumo il mio pasto di mezzogiorno, ed ho pensato immediatamente ma con leggerezza a che cosa avrei potuto fare in quest'immediato dopo pranzo: però non mi è venuto a mente niente di particolare di cui interessarmi, così ho semplicemente camminato in lungo e in largo per le strade del mio quartiere, cercando semplicemente di perdere del tempo.
È difficile immaginare che tutto quanto di ciò che gira attorno a noi, abbia comunque qualcosa da offrirci. C'è da guardarsi accanto, certamente, sorridere magari di qualcosa che può capitare, forse lanciare un timido saluto all'indirizzo di qualche faccia già vista, ma poco altro. Invece trovo una donna, la invito a sedersi con me su di una panchina ai margini del viale, e lei accetta. Non c'è alcun bisogno di presentarci, anzi, questo renderebbe tutto più sciocco e forse anche più squallido, così le dico, stendendo le gambe in questo bel sole d'inverno, che in genere io ho molto tempo, certe volte anche troppo. La donna invece non dice niente, si crogiola anche lei a questa meravigliosa luce invernale, sorride quasi tra sé, senza guardarmi, e nient'altro. Poi restiamo in silenzio, la giornata procede da sola, ci muoviamo qualche volta sui nostri posti, infine lei si alza, quasi all’improvviso, mi saluta con cortesia, e quindi se ne va.
Resto seduto, attendo un pensiero che riesca a trascinarmi via da questo posto, ma stenta ad arrivare, ed io in fondo non faccio niente per incoraggiarlo. Il sole si rifugia poco per volta dietro le cime degli alberi, improvvisamente sento un poco di freddo, mi alzo dalla panchina, riprendo senza voglia la mia camminata. Incrocio la donna di prima, non dico niente, lei però mi sorride, si ferma, mi invita a prendere un caffè in un locale poco lontano. Entriamo, ci sediamo ad un tavolino ma ancora senza parlare, quasi mimando le cortesie che la vita ci ha fatto conoscere, poi aspettiamo che ci raggiunga il cameriere, ed allora ordiniamo qualcosa.
Bello starsene in compagnia, penso, però non oso neppure dirlo. Lei invece dice che viene spesso in quel caffè, in genere ci trascina qualche sua amica per l’ora del tè. Annuisco, guardo meglio le espressioni di questa donna mentre parla senza neppure dare l’impressione di riferirsi a qualcuno. Forse mi piacciono i suoi modi, non so, però sorseggio il mio aperitivo concentrandomi su qualche altra cosa. Lei spiega che non è affatto importante essere amici per starsene assieme seduti in un posto del genere. Siamo tutti conoscenti, dice, ed io annuisco, non potrei fare nient’altro.
Infine mi stufo, pago le nostre consumazioni, dico che adesso ho qualcosa da fare. Lei mi guarda come se riuscisse a vedermi per la prima volta, sorride, acconsente, ma prima di lasciarmi andare dice che il giorno seguente ci sarà la presentazione di un libro in questo stesso locale. Potremo rivederci domani in quella occasione, spiega in poche parole. D’accordo, dico con un certo entusiasmo, poi esco da lì. Ormai è tardi per impostare una serata diversa, penso quindi che tornerò verso casa, ma rallento il mio passo, fino a fermarmi più di una volta ad osservare qualche vetrina che non mi interessa neanche. Quando rientro è esattamente l’ora che mi piace di più: è stata una giornata magnifica, penso mentre sfilo la giacca. Assolutamente qualcosa di cui ricordarsi.


Bruno Magnolfi

venerdì 6 dicembre 2013

Spuma leggera di un piccolo dolore.



Quando esco di casa, in genere vado a sedermi ad uno dei tavolini di plastica al circolo degli sportivi, nei pressi del piccolo stadio del mio paese. Non è che mi interessi qualcosa degli sport, però lì mi conoscono tutti, mi dicono delle cose da ridere e spesso mi offrono da bere una spuma all'arancia. Mi piace molto rendermi conto che qualcuno mi vuole bene, che sono accettato volentieri, che in molti vengono da me per salutarmi. In certi giorni invece mi girano male le cose, e allora non do' retta a nessuno. Lo dico subito che non è una bella giornata per me, così nessuno mi infastidisce.
Starsene da soli però è qualcosa di insopportabile, viene voglia di sbattere la testa nel muro, non c'è niente che ti aiuti a far passare le ore. Certi giorni che non mi girava troppo bene ho camminato fino a stancarmi, fino a pensare che non ce l'avrei quasi più fatta a tornarmene indietro. Già, perché ogni volta il problema è quello di riuscire a recuperare tutto quanto, ritrovare la strada, la mia abitazione, gli amici del circolo, le cose che mi piacciono di più. Lo so che non dovrei essere così, pensare di andare lontano da tutti senza neppure riflettere sulle conseguenze di una cosa del genere. Eppure, ogni tanto, mi ritrovo a camminare, quasi senza pensarci, e ad aver voglia di andarmene, anche se non so verso dove.
Ci sono dei ragazzi che mi prendono in giro, qualcuno lo ha sempre fatto; dicono che non sono normale, che mi dovrebbero rinchiudere, però ci sono anche degli altri che dicono invece che sono il migliore, che ho capito già tutto quanto ci sia da capire. Non lo so, non vorrei dar noia a nessuno, penso, però la solitudine è la peggiore cosa possa capitare ad una persona. Così cerco sempre di essere amico con tutti, anche se ci sono dei giorni in cui non riesco a sopportare nessuno, e allora mi tengo alla larga, mi siedo al mio tavolino, e me ne sto rincantucciato in un angolo.
Non mi piace per niente starmene da solo, eppure certe volte non ho voglia di avere nessuno intorno a me: mando avanti i miei piedi, uno dietro l'altro, mi allontano da tutto, anche dagli amici, anche dalle cose che in genere mi piacciono. Ti ho visto, mi dice qualcuno al circolo degli sportivi, eri quasi arrivato nei pressi del fiume, cosa ci facevi laggiù? Non so rispondere, non riesco a dire niente, sorrido, faccio vedere che va tutto bene adesso, questo è quello che conta, ho davanti a me la spuma all'arancia, saluto gli amici, sono in forma perfetta.
Poi mi alzo, qualcuno mi offre la spuma, ma adesso non ne ho proprio più voglia, così cammino lungo il viale alberato che costeggia lo stadio, e che poi si perde lungo dei campi che sembra quasi non finiscano più. Non lo so dove vado, forse ad un certo punto potrei ancora tornarmene indietro, penso, tornare al circolo, bere la spuma all’arancia che qualcuno mi offre, accettare e ricambiare i saluti degli altri, ma mi pare tutto superfluo, una grande sciocchezza che non serve mai a nulla.
Non tornerò più, una di queste volte, sento che andrà a finire così: mi fermerò a piangere appoggiato ad un albero, e poi riprenderò a camminare fino a farmi del male, fino a perdermi chissà in quali luoghi. Gli amici del circolo non immaginano una cosa del genere, ma io lo so, sarà qualcosa che spiazzerà tutti quanti, una cosa che loro non sapranno spiegarsi, così forse metteranno sul tavolino di plastica un bicchiere di spuma all'arancia, e lasceranno che le risate di sempre coprano qualsiasi piccolo dolore.


Bruno Magnolfi

mercoledì 4 dicembre 2013

Punto di vista.



Lui era scivolato lentamente in mezzo a tutti, aveva abbassato la falda del cappello quasi come fosse uno famoso che cerca di non essere riconosciuto, ed aveva camminato tra la gente con il massimo di naturalezza. Ci volevano delle fotografie, pensava, delle istantanee che immortalassero quella situazione di incertezza, di mancanza di comprensione, di senso di smarrimento che pareva serpeggiare dappertutto.
Gli ultimi missili avevano colpito una zona abbastanza precisa della città, quella dove chiunque sapeva come vi si nascondessero le frange più estremistiche del movimento, quelle più pericolose, avverse al regime con ogni mezzo. In quelle condizioni era difficile per tutti cercare di mandare avanti una vita normale, ed anche se la paura non aveva ancora preso il sopravvento su qualsiasi altra cosa, di fatto ogni persona girava per strada cercando di arraffare, dai discorsi degli altri, maggiori informazioni possibili, quelle notizie che pareva continuamente mancassero, nonostante i resoconti continui e in diretta forniti dalle radio private finanziate dalle organizzazioni non governative straniere.
Per lui non sussisteva minimamente il problema di cosa politicamente stesse accadendo, ma l’elemento principale da cui si sentiva attratto era proprio la mancanza di comprensione, da parte della gente, per ciò che stava effettivamente succedendo, minuto dopo minuto, e quel bisogno spasmodico che tutti parevano avere, di prevenire la prossima mossa concreta che avrebbero effettuato i poteri statali, oppure il movimento, e chi avrebbe mosso il prossimo attacco militare, e perciò il conseguente pericolo da evitare. Qualcuno si dava da fare per trovare contatti con i clandestini, altri mettevano in campo amici o parenti tra le fila dei miliziani ancora fedeli al presidente.
Difficile fotografare la gente mentre si muove, pensava lui, non rende quasi niente dei veri sentimenti che sono in campo; piuttosto era necessario trovare una singola persona che magari soltanto con la propria espressione rendesse appieno quell’incertezza tangibile, quella sfuggevolezza dei comportamenti. Infine, tramite poche parole scambiate con alcuni che apparivano stranamente sicuri di sé, si era fatto convincere a visitare una specie di rifugio ricavato proprio al di sotto di un cumulo di macerie.   
Molte persone là dentro si stringevano nella certezza che gli attentati che stavano squassando il territorio cittadino fossero una specie di terremoto, una catastrofe naturale, un’alluvione a cui non si potesse opporre alcuna resistenza. Stavano là dentro nella paura, ma anche nella speranza che un prossimo futuro li trovasse vivi, senza troppe ferite, magari indenni da ciò che era accaduto o che stava per accadere. Naturale, umano, persino troppo. Lui aveva fatto delle istantanee di una famiglia con dei bambini piccoli, orgogliosi della loro unione, fiduciosi quasi di tutto, poi era tornato lungo la strada.
Adesso l’aria che si respirava sembrava sospesa, come se tutto fosse in attesa di qualcosa di ancor più incomprensibile. Aveva piazzato la sua reflex sul cavalletto, scattato delle foto di persone che passavano in fretta sui marciapiedi, alcuni addirittura di corsa, e infine si era allontanato, ma soltanto per entrare dentro un negozio aperto di generi alimentari. Una signora cortese dietro al bancone gli aveva sorriso, quasi fosse quella una giornata come tutte le altre, poi gli aveva chiesto cortesemente di che cosa avesse bisogno. Quell’aura di normalità ritrovata, d’improvviso, diventava ai suoi occhi  esattamente quello che lui stava cercando: il tentativo di superare ciò che doveva ancora accadere, il bisogno di ritrovare le cose di tutti i giorni, magari anche la voglia di esserci e di sapere, senza però alcuna frenesia. Quella insomma era proprio la fotografia che andava cercando.


Bruno Magnolfi

martedì 3 dicembre 2013

Interpretazione dei segni.

            

Se chiudo gli occhi vedo spesso una linea che cerca di congiungere due punti distanti, ma praticamente senza riuscirci. Resto come leggermente appoggiato ad una panchina sul ponte del piccolo traghetto che mi sta portando sull'isola, e mi godo questo sole invernale nell'assenza quasi completa di vento. Ho notato un ragazzo passare più volte da questa parte di nave, lui mi ha guardato a sua volta, ed io ho immaginato per quel ragazzo pieno di vita una gita di piacere, o qualcosa del genere. Ogni tanto continuo a fingere di leggere qualcosa del mio giornale, ma la verità è che non ho voglia di leggere, solo di pensare, di riflettere, anzi di lasciare che la mia mente si svaghi soffermandosi sugli argomenti che vuole, senza limitazioni.           
Ecco poi che torna il ragazzo, mi guarda di nuovo, sorride, rientra. E’ piacevole la sua vista, è quasi rassicurante che qualcuno cerchi i miei occhi in mezzo all’indifferenza di tutti. Sfoglio una pagina. Lontano, sull'orizzonte, si vede già l'isola, grigia e affogata nel niente, tra non molto dovrò scendere in garage e salire sulla mia auto, pronto allo sbarco. Torno a chiudere gli occhi: la linea non c'è più, e i due punti sono solo elementi estranei tra loro e distanti. Mi alzo, penso che andrò fino al bancone del bar per farmi servire un caffè prima di scendere, ma mentre mi muovo mi pare che un'onda lunga e piacevole stia facendo rollare dolcemente la nave, quasi  per lasciarci a noi poveri passeggeri un vero ricordo di mare.
            Il tempo sospeso che si respira in questo non essere su di una terra e neppure sull’altra, pare quasi volersi prendere una bella rivincita al momento in cui tutti iniziano ad incolonnarsi per scendere, dando vita ad un affollamento insensato, quando ancora siamo peraltro ben lontani dal porto d’attracco. Mi tengo distante da tutto, cerco di respirare ancora quest’aria così particolare, così vado a sedermi di nuovo su di una panchina del punte. Adesso intorno non ho quasi nessuno, posso tornare a chiudere gli occhi, ad immaginare qualcosa che funga da enigma per divertirmi a trovare soluzioni. Immagino il ragazzo di prima che si avvicini rompendo ogni indugio, dica qualcosa che mostri i valori portanti dell’umanità e del suo essere sociale, si avvicini a me con tenerezza, senza parlare, solo mostrando se stesso.
            Con gli occhi chiusi riesco quasi a vedere l’isola di fronte a me mentre riesce ad accogliermi, a darmi un rifugio, a mostrare quanto a portata di mano può essere una vita migliore, attraversata da una maggiore sensibilità. Sento lo scorrere dell’acqua sotto di me, immagino il fondale di scogli e tutta la vita che si muove là attorno. Avverto il sole d’inverno sopra la faccia, caldo, piacevole, qualcosa di vivo. Torno a riaprire le palpebre, mi guardo attorno per tornare lentamente a dove effettivamente mi trovo, anche se quasi non ne avrei proprio voglia. C’è quel ragazzo vicino, mi guarda, forse sorride. Rispondo al sorriso, non c’è alcuna parola da dire. Lui se ne va, i marinai lanciano le cime verso le bitte, la nave si accosta lentamente al molo di attracco. Scendo al garage, salgo sulla mia macchina, ne avvio il motore: adesso è concluso, tutto quello che potevo immaginare svanisce di colpo; percorro la rampa che mi immette sopra la terraferma dell’isola, osservo un ultimo baluginare di sole, vedo il ragazzo di prima a piedi che si allontana. Vado, il passaggio è definitivamente concluso.


            Bruno Magnolfi

domenica 1 dicembre 2013

Crepuscolo.

            

Intorno a lei praticamente non c'è niente. Guarda avanti a sé come aspettandosi di vedere un elemento che forse le somigli, o che magari abbia una qualche relazione con qualcosa di se stessa, ma di fatto continua lentamente soltanto a camminare, senza neppure sapere di preciso verso dove. Niente ha importanza in una giornata come questa, nulla serve per modificare in qualche modo i riferimenti con questa città senza definizioni. Muoversi qui è come una giostra che ruota su se stessa, senza mai arrivare ad un punto differente. Lui la osserva, lei lo lascia fare, guardando sempre altrove.
Poi un dolore sottile attraversa l’aria, un mancamento, il sentore che qualcosa non sarà mai più com’era prima. Il tempo rotola modificando intorno ciò che gli sembra meglio, lei sente che forse il suo profilo non assomiglierà mai più a quello cui si è abituata. Allunga il passo, sicuramente c’è da cambiare in fretta qualche cosa, lui la segue, insieme percorrono un tratto di strada che neppure riconoscono.
Per favore, dice lui dalle sue spalle. Lei si ferma, senza voltarsi, lascia che lui prosegua e si avvicini, che completi il suo pensiero, dica finalmente ciò che sembra venir meno, senza chiedere niente, senza aspettarsi nemmeno un’importante variazione. Un capogiro, dice lui; tutto dentro al suo passo, al suo incedere convinto. Lei si volta, vorrebbe sorridere forse, ma non lo fa.
Una distanza incommensurabile, fa lei; l’impossibilità di comprensione è tutta dentro questi sguardi. La luce varia velocemente, difficile raccogliere in un gesto o in una sola parola quanto accade. Resta il silenzio, un sorriso non accennato, la mancanza completa di una spiegazione. Vorrei seguirti da qualsiasi parte, dice lui; lei fa cenno di comprendere quella sua necessità, ma di non condividerla. Vorrei allontanarmi in fretta da te, fa lei; lui fa cenno di non essere d’accordo. Non conviene a nessuno, dice; dobbiamo trovare quella sola possibilità che ci fa sentire uniti, anche se questa può essere soltanto la traccia di un progetto d’esistenza, una pista che probabilmente non vorremo neppure mai seguire.
I colori variano velocemente, non c’è più niente che funzioni da colla in una situazione di quel genere: lei prosegue verso quel niente che la fa sentire bene, lui lascia che lei velocemente si allontani, indifferente a qualsiasi decisione che possa modificare quel senso d’abbandono. Il tramonto disegna qualcosa d’irripetibile, ambedue vorrebbero provarne quella sensazione forte, senza alcun dubbio tutta da condividere, se non fosse che in questo modo perderebbero probabilmente qualcosa di se stessi; e questo, per quanto possono rifletterci, resta del tutto inaccettabile.  


Bruno Magnolfi

venerdì 29 novembre 2013

Consuetudini.

            

Con il responsabile tecnico dell'impresa ci siamo incontrati dentro al suo ufficio, come pattuito per telefono; poche parole di circostanza e siamo subito andati ad effettuare il sopralluogo per mettere a fuoco qualche dettaglio sulle operazioni che servono alla sua azienda. Più tardi, come proforma, abbiamo firmato un preliminare scarsamente impegnativo per ambedue, ma domani torneremo ad incontrarci in presenza del suo diretto superiore, di fatto per definire gli strumenti in base ai quali avrò il mandato nei prossimi giorni per redigere in esclusiva il preventivo di spesa riguardo ai lavori richiesti alla mia azienda.
La mia camera d'albergo, in questa zona quasi interamente industriale, è talmente anonima che mi sento fortemente a disagio, e vorrei subito scappare da questa periferia, almeno per farmene un giro per la città, anche se purtroppo questa sera devo sistemare i miei appunti frettolosi, e almeno definire un piano ed una relazione sul mio pc portatile, a cui probabilmente allegherò tutte le fotografie scattate durante il pomeriggio.
Dovrei telefonare a mia moglie, prima di cena, rassicurarla, magari scambiare con lei qualche frase usuale, ma all'improvviso, mentre ci penso, mi sembra tutto falso, e non sono più neppure sicuro di riuscire a tirar fuori le parole giuste. Domani mattina riceverò una chiamata dal mio capotecnico, mi chiederà qualche dettaglio sui preparativi, dovrò utilizzare tutta la mia arte diplomatica per fargli capire che me la sto cavando bene, che tutto è sotto controllo, e che la nostra impresa è in buone mani. Più tardi cenerò tristemente da solo nel ristorante dell'albergo, cercherò di convincermi ancora di più che in fondo tutto sta andando perfettamente bene, e che questo è il mio lavoro, che porto avanti la mia vita come sempre, e soprattutto non c'è proprio motivo per doversi preoccupare.
Forse però qualcosa non sta andando nella maniera che vorrei, penso con maggiore profondità; magari ho bisogno di svagarmi, di pensare ad altro che non siano queste solite cose usuali per risolvere i miei piccoli problemi. La verità è che ho voglia di fuggire, anche se ho paura persino di pensarlo, anche se so benissimo non farò mai una cosa così sciocca. Sto dentro al sistema, devo andare avanti senza scoraggiarmi, mi ripeto, essere contento di ciò che riesco a fare, trovare le ragioni migliori per proseguire ad essere me stesso.
Già, me stesso; chissà cosa potrei mai fare per tirare fuori veramente qualcosa di me: inventarmi una pazzia, far perdere a tutti le mie tracce, dare in escandescenze in un locale pubblico, oppure ridere in faccia al titolare dell'azienda. Mi convinco che le cose sono quelle che volevo, ciò che forse ho sempre sognato: faccio una doccia, mi cambio per la cena, controllo le annotazioni stese. La mia auto aziendale nel parcheggio dell'albergo aspetta solo me, ceno velocemente, poi scendo e ne avvio il motore. Andarmene, ecco quanto dovrei fare, continuo a ripetermi. Accendo la radio, ascolto una canzone, penso a quando ero bambino e all'improvviso non mi sembra più di provare alcun malessere. Spengo il motore, torno in camera: devo andarmene a dormire, penso, domani sarà una giornata lunga, tra un attimo sarà il fine settimana, dovrò essere contento di tutto ciò che son riuscito a fare. Spengo la luce: non ho telefonato a mia moglie; accidenti, penso, domani mattina sarà la prima cosa di cui dovrò occuparmi.


Bruno Magnolfi

giovedì 28 novembre 2013

Qualsiasi diversità (Bionda, naturalmente).

          In fondo alla strada, sulla destra, si vede soltanto un muro che circonda un giardino, ma dalla parte opposta c'è la piccola casa di July. Nessuno di noi è mai entrato là dentro, ci siamo sempre limitati ad osservare appena per un attimo la faccia arcigna e sfuggente di quella pazza di sua madre, quando si affaccia alla finestra proprio nel momento che l'accompagniamo fino lì, quasi abbia un sesto senso per individuare quell'attimo esatto e vedere chi sta assieme a lei; per il resto tutto quanto per noi è sempre stato solo vedere un portone scuro che si apre, per poi richiudersi velocemente dietro alle spalle di July. Lei spesso ci affascina, anche se comprendiamo perfettamente come possa essere difficile vivere in una situazione del genere, con una madre che non è come tutte le mamme; ma in ogni caso, quando l'ora delle serate estive diventa quella stabilita dai nostri genitori per rientrare nei nostri appartamenti, tutti assieme arriviamo fino davanti a casa sua, forse solo per una curiosità inconfessata, magari aspettandoci qualcosa di strano, o forse solo perché è quello l'ultimo attimo dei giochi di tutto il giorno, per noi adolescenti, senza che ne abbiamo mai avuto neppure propriamente coscienza. 
          Forse ci fa anche paura, quella donna, e nessuno di noi riesce a comprendere come possa essere davvero la mamma di July. Lei è dolce, dice un sacco di cose carine, certe volte sembra quasi che cresca da sola, seguendo un proprio progetto, quasi con indifferenza nei confronti di tutto il resto. Qualche volta le facciamo qualche domanda un po’ impertinente, perché ci pare impossibile che le cose possano scorrere per lei in modo così naturale, pur restando così diversa da noi, ma July generalmente pare sfuggirle, limitandosi a guardare qualcosa con serietà, qualcosa di invisibile che a tratti sembra vedere soltanto lei, e la maggior parte delle volte a cambiare discorso. Qualcuno dice addirittura che non sia la vera figlia di quella strega che le apre la porta di casa, in ogni modo la sua diversità a noi ci appare come qualcosa di estremamente importante, anche se non sappiamo bene perché. 
          Anche per questo però la cerchiamo continuamente, e sappiamo con certezza che prima o poi se ne andrà dal nostro quartiere, non perché July ci parli di questo, o perché sia questo il progetto della sua vita, quanto perché ci sembra che guardi sempre lontano, rispetto a noi, da qualche parte diversa, oltre le cose comuni di cui noi, che siamo i suoi pochi amici, generalmente ci accontentiamo, e che ci rassicura avere d’intorno. Certe volte ci siamo fermati a guardare la casa dove lei abita, una volta rientrata, e ci è parso di immaginare un interno oscuro, delle stanze fredde, quasi senza oggetti, prive delle cose familiari che abbiamo noi. 
          Quando lei e sua madre sono poi andate via veramente dal nostro quartiere, siamo quasi rimasti male, tutti quanti, anche se avevamo sempre saputo fin dall’inizio che era così che doveva finire, e che forse non avremo mai più sentito neppure parlare di July, persa lungo chissà quali contrade, dietro a problemi che non avremmo mai saputo neanche immaginare. Però abbiamo continuato ugualmente a cercarla, e soprattutto a parlare di lei, e di quanto in fondo sapevamo che c’era, dentro July, tutto ciò che noi non saremmo mai riusciti neppure ad immaginarci, nonostante tutto l’impegno che potevamo impiegare; e certe sere, quando ci siamo fatti già un po’ più grandi, l’abbiamo forse sognata ad occhi aperti, come qualcuno che si sogna perché sappiamo che non ritornerà mai più insieme a noi, forse perché non c’era neppure mai stato sul serio; e infine è proprio rimasta dentro ai nostri ricordi, insostituibile, come quelle cose importanti che purtroppo capita a volte di perdere, senza neppure sapere quanto in seguito potranno infinitamente mancarci. 

          Bruno Magnolfi