lunedì 27 giugno 2016

Tentativi di dialogo.



            Va bene, le dico: sto fermo, non faccio niente, se vuole smetto persino di pensare.  Lei mi guarda con una certa serietà, peraltro inadeguata alla mia ironia, ed aspetta ancora un po’ prima di uscire dalla stanza con tutte le provette, probabilmente proprio per vedere se riesco davvero a rispettare le sue regole, anche se poi sembra decidere di allontanarsi almeno di qualche passo fuori dalla porta, tornandosene indietro subito dopo però, magari soltanto per rendersi conto se sono rimasto ancora fermo allo stesso posto, immobile, proprio come mi ha detto; oppure se sia il caso per lei di intervenire più duramente, come d’altronde ha già fatto altre volte con me. Attendo qualche minuto su questa sedia, devo lasciare agire il farmaco, mi ha detto sia la dottoressa che la sua assistente, poi torno a guardare le mie mani, quasi per un moto spontaneo di autocommiserazione: forse vorrei mettermi addirittura a piangere, ma subito rifletto come non sia proprio il caso di fare una cosa di quel genere davanti a loro due, anche perché ho ormai deciso da tempo che non devo mai più lasciarmi andare a sensazioni così basse e prive di personalità, che peraltro non servono a niente ed a nessuno.
            Hai visto, mi dice con voce bassa l’operatore intervenuto mentre sistema gli attrezzi dell’ambulatorio: l’hai fatta arrabbiare, e alla dottoressa non succede neppure di frequente. Io tengo gli occhi bassi: forse non volevo neppure mostrarmi troppo contrariato per questa ennesima e lunga visita medica, per quei prelievi così invadenti e fastidiosi, quell’essere trattato una volta di più come una cosa qualsiasi, un oggetto in mano alla scienza, giusto per lasciar comprendere a qualcuno quali saranno i prossimi pezzi di me pronti a guastarsi, in questo organismo ormai così fragile, logorato dagli anni, in cui tutti gli elementi sembrano preparati a rendere difficile sia la loro singola sopravvivenza, che quella di tutto il resto del corpo. A volte non lo sento neppure più mio, questo corpo, così asciutto, ormai, cascante e pieno di rughe, per me irriconoscibile, anche se mi dicono tutti che non devo mai pensare cose di quel genere.
            Invece vorrei essere ancora capace di meravigliare qualcuno in qualche maniera, mostrare una parte di me che non sia così scontata come tutti sembra che pensino. Eppure adesso qua dentro non conta più niente la mia vita, le mie esperienze, i miei ricordi, le mie sensazioni passate. Vorrei tornarmene a casa, penso certe volte, piuttosto che stare ancora in questo ospedale per vecchi; ma anche questo pensiero non ha molto senso: sono quello che sono, mi ripeto certe volte, in qualunque luogo io mi trovi. Poi l’operatore mi prende sottobraccio e mi porta fuori da questa stanza orribile. Parlare con qualcuno significa ripercorrere con i discorsi sempre le medesime cose di ogni giorno, gli stessi argomenti consunti che non servono più a niente, e così la maggior parte delle volte scelgo di starmene completamente in silenzio. Eppure vorrei esprimermi, spiegare cosa sento, dire a qualche persona che abbia voglia di ascoltarmi come sono per davvero, e come sia tutto diverso certe volte, rispetto a ciò che appare.
            Torna la dottoressa, proprio quando mi sono spostato nel salone a rilassarmi, e mi chiede con decisione come stiano andando le mie cose; prendo tempo, rispondo giusto qualcosa privo quasi di un senso compiuto; ma subito dopo le sparo che la mia testa è confusa, e non riesco più ad avere dei giudizi definitivi sulle persone che mi circondano, tanto che in qualche caso non so proprio cosa pensare anche di me, visto che in altri tempi normalmente avrei evitato il più possibile qualsiasi contatto con certi individui, ma che adesso, oltre a doverli subire, mi trovo quasi a cercarne il loro appoggio. Lei resta perplessa, è chiara la mia provocazione, ma lei non vuole raccoglierla. Così mi guarda, sorride leggermente, mi tocca un braccio e dopo se ne va. Non lo so, penso, ma forse qualcosa potrebbe anche cambiare, prima o poi, tra me e questa persona.     


            Bruno Magnolfi

mercoledì 22 giugno 2016

Chiusura.

    

            Secondo me è proprio quella ragazza il nostro vero problema, dice un tizio al telefono in una birreria semivuota ma con una voce sufficientemente alta tanto da riuscire a farsi sentire quasi da ognuno presente là dentro. Al suo stesso tavolo l’altro ascolta con apparente distrazione quelle parole, quindi butta giù ancora un sorso della sua birra, poi gira lo sguardo come per il tentativo di ignorare il suo amico che adesso ha appena interrotto quella comunicazione, ma subito dopo gli invia giusto un cenno di rimprovero scuotendo la testa, come per fargli capire che non ritiene del tutto giustificati quei discorsi che ha fatto. Non molto distante da lì, lei invece sistema le sue cose con calma prima di uscire da casa, indossa uno dei suoi abiti un po’ più ricercati, ed attende. Osserva con serietà la strada dalla finestra, quasi già si aspettasse dalla serata qualcosa di ostile, sentendosi comunque pronta a fronteggiare qualsiasi possibile critica, magari mettendo in campo anche una certa fermezza che sente di avere, ed infine si avvia.
            Lui l’attende come sempre all’angolo della strada, dentro la sua vecchia macchina con lo stereo ben acceso, e quando la vede le apre subito lo sportello, la saluta, anche se giusto con una buffa espressione del viso, poi avvia il motore e riparte. Percorrono alcune strade in silenzio, sembra quasi non abbiano neppure qualcosa da dirsi, salvo forse trattenere i propri pensieri per esprimerli soltanto al momento in cui saranno tutti e quattro riuniti. Quando, dopo il breve tragitto, entrano nello stesso locale dove gli altri due dovrebbero attenderli, il ragazzo che concitatamente parlava di lei poco prima al telefono, in questo momento non c’è, sembra quasi non abbia voluto aspettarli, così loro due vanno a sedersi al tavolo dell’altro componente del gruppo, che al contrario sembra piuttosto compiaciuto di quel loro arrivo.
            Infine torna anche il tizio che aveva telefonato, saluta appena la donna e l’altro componente della loro band, poi si siede anche lui, ma dopo appena un attimo dice in fretta che le cose si stanno mettendo piuttosto male, e che non ci sono molte illusioni da farsi, anche secondo quello che ha appena sostenuto il loro agente al telefono. Lei lo guarda, finge una sicurezza che in realtà adesso non sente di avere, poi però chiede con calma che cosa sia mai a preoccuparlo in quel modo. Il signor Marchi sembra non riesca a trovarci nessun nuovo ingaggio, spiega lui, e poi ci sono dei segnali che io reputo soltanto negativi: proprio per questo negli ultimi giorni mi sento nervoso, non riesco a concentrarmi sui pezzi come vorrei, non ho neppure più voglia di fare le prove, e poi avverto il tempo che prosegue a passare sopra di noi senza che possiamo farci un bel niente. Se ora non riusciamo ad approfittare di quel piccolo successo che siamo riusciti a raggranellare, siamo proprio fregati, ecco quello che penso.
Ma queste sono soltanto valutazioni tue personali, dice lei; riguardano semplicemente la condizione che vivi, le tue preoccupazioni, il tuo modo di porti di fronte alle cose. Va bene, interviene il ragazzo che l’ha portata fino lì; però adesso cerchiamo di trovare una soluzione: non possiamo continuare a stuzzicarci ogni volta che ci vediamo, senza peraltro concludere mai niente. Va bene, fa lei, comunque ho messo giù un pezzo nuovo, certo va ancora elaborato, ma è questo il nostro compito, piuttosto che studiare strategie. Il tizio dice ancora qualcosa tra sé, forse vorrebbe soltanto continuare ad affibbiare la colpa di tutto il suo nervosismo alla cantante della loro band, come in fondo ha cercato di fare già diverse volte negli ultimi tempi, ma alla fine rinuncia, si arrende, ascolta anche lui la piccola registrazione di voce e chitarra che lei fa ascoltare anche agli altri. È buona, dice uno degli altri ragazzi, mi viene in mente già qualche idea per arrangiare il pezzo e cavarne qualcosa di ricercato. Anche l'altro mostra di apprezzare quella traccia, e soltanto lui rimane in silenzio, forse senza neppure la voglia o le capacità per esprimersi. Non va bene, dice alla fine, non riusciremo a combinare un bel niente con roba del genere; io penso sia meglio chiuderla qui col nostro gruppo: smetterla una volta per tutte, piuttosto che cercare dei palliativi che non porteranno mai da alcuna parte.


Bruno Magnolfi

venerdì 17 giugno 2016

Normali malori.

            

            Sono anni che la mia gamba malata non mi permette quasi di uscire da casa. Mi trascino per tutto il giorno dentro la stanza che i miei familiari mi hanno assegnato, e per trascorrere il tempo continuo a mordermi sempre le unghie delle mani, quasi fosse l’unica cosa che riesco a fare, tanto che alla fine le mie unghie si sono ridotte semplicemente a delle piccolissime lunette. Nessun dottore ha mai saputo spiegare che cosa abbia davvero questa mia gamba, ma per me è soltanto come se una parte del mio corpo, fin da quando ero un ragazzo, non avesse mai avuto voglia d’essere collaborativa col resto. Proseguo a tirarmela dietro, giorno dopo giorno, quasi come un impaccio, un ostacolo alla normalità, ma spesso vorrei addirittura non averla neppure, tanto riesco ad odiarla. Per questo la maggior parte del tempo la trascorro seduto, senza occuparmi di niente, anche se i miei familiari insistono che invece dovrei muovermi, cercare almeno come posso di camminare, e tentare di riabituare la gamba al suo moto spontaneo.
            A me però piace il buio, e preferisco sopra tutto starmene in casa, così tengo quasi sempre gli scuri socchiusi alle finestre della mia stanza, e dimentico in questa maniera le ore che passano, visto che la piccola quantità di luce del giorno, cosi come mi appare, filtra quasi fosse sempre la medesima dalle fessure, sia di mattina che di pomeriggio. Non voglio incontrare nessuno, e penso che la cosa migliore sia che ognuno coltivi in disparte i propri malesseri, e tutti coloro che come me non ce la fanno neppure a camminare, secondo il mio parere non devono mai dare adito alla commiserazione degli altri. I miei familiari mi lasciano in pace, alzano giusto le spalle quando ogni tanto aprono la porta della mia stanza per darmi un’occhiata: io resto qui, come sempre, lascio che tutto vada per conto proprio, e cerco di non dare fastidio.
Certe volte però mi innervosisco, ed allora mi arrabbio, la mia famiglia dice che il motivo sta nel fatto che non mi occupo proprio di niente, ma io so come tutto derivi invece dalla temperatura e dall'umidità delle giornate. Ci sono persone sensibili a queste variazioni, non sono certo il primo a sostenerlo, ed io mi reputo assolutamente tra queste. Quando va a piovere riesco ad accorgermene prima di tutti, perché la mia gamba si dimostra subito più dolorante; e quando invece si va verso il caldo, ecco che quella mi prude, terribilmente. Indosso una specie di guaina, dal piede fino alla coscia, e prima di calzarla cospargo quasi sempre la pelle di un olio specifico, o in certi casi di una polvere fatta per uno scopo più terapeutico; ma il più delle volte massaggio i piccoli muscoli rimanenti attorno alle ossa, semplicemente con una pomata che dovrebbe tonificarli. Non so cosa si voglia ottenere da tutto questo, ma io mi assoggetto volentieri ai consigli dei medici, perché so che in questa maniera i miei familiari riescono ad apprezzare me e i miei tentativi.
Domenica scorsa mi portano fuori per pranzo: è il compleanno di mio fratello, e così è stato riservato un lungo tavolo solo per noi. Mi vestono bene, mi portano con loro sorreggendomi continuamente: ridono, scherzano, anche sulle mie condizioni, e dicono a volte che io sono il più dritto di tutti. Ci sediamo, ed io sento subito di non stare bene: ma non vorrei rovinare la festa, così cerco di resistere, stringo i denti e lascio che tutti facciano le loro fotografie anche a me, che sento di non essere in grado di arrivare alla fine. Tento di alzarmi, ad un tratto, proprio per cercare di lenire un dolore diffuso che forse nasce proprio dalla mia gamba, ma che adesso sembra come estendersi a tutto il mio organismo. Nessuno mi aiuta, parlano e ridono tra loro, ed io dopo un attimo vado a cadere disteso sul pavimento, senza alcuna possibilità di reggermi in piedi. Mi rialzano, tento di scusarmi, mi trascinano in bagno. Lasciatemi qui per favore, dico a quelli rimasti fuori dalla porta ad aspettarmi: c'è buio a sufficienza se spengo la luce, sto bene se resto qua dentro da solo: tornerete a prendermi, se vorrete, giusto quando ci sarà da andar via.


Bruno Magnolfi

martedì 14 giugno 2016

Accettazione di sé.

          

            Se mi sforzo per un po’, riesco a rammentarmi perfino di tutto quello che sono riuscito a fare ieri: che cosa ho mangiato, se mi sono recato da qualche parte, insomma come ho trascorso per intero la mia giornata di insegnante a riposo; ma se mi rilasso, come spesso mi accade accomodandomi come sempre su questa mia poltrona, esattamente come ho fatto anche questo pomeriggio, soltanto per starmene tranquillo, riposarmi e per mezz’ora non fare e non pensare più a un bel niente, ecco che tutto si va ad ovattare dentro la mia mente, e le cose sembrano subito confondersi quasi per gioco tra di loro, lasciandomi come all’oscuro di tutto quanto, quasi che a questa età non si dovesse avere più niente di cui riuscire a ricordarsi.
Lui sembra tranquillo adesso, e con questa sua vicina di casa parla del suo annoso problema usando tutta la calma necessaria; lei è uscita subito dalla porta sul retro, dove ci sono i loro giardinetti comunicanti tramite un cancello che tengono sempre aperto, e lo ha fatto giusto per capire cosa mai avesse da urlare adesso quell’anziano professore che abita a fianco della sua dimora. Perché se all’improvviso non si rammenta di qualcosa, ecco che va subito ad innervosirsi, e poi sbraita, alza la voce anche se abita da solo, urla perfino, anche se oramai non può riuscire a far tornare dentro la sua testa ciò che forse oramai ha dimenticato.
La memoria ce l’ho, dice adesso lui con maggiore calma, ma è necessario tutto il mio impegno per riuscire a trattenerla, per farla funzionare bene, ed appena smetto di conservarla ben salda dentro di me, ecco che quella se ne va via, e mi lascia come un guscio vuoto, privo praticamente di qualsiasi cosa. La vicina gli dice che ci vuole una certa dose di pazienza, e che la cosa migliore per tenere impegnata la mente è sempre quella di leggere un buon libro, oppure anche un giornale, anche se sono attività alla lunga un po' stancanti. Questo è vero, fa lui, ed io cerco di fare esattamente questo, dando fondo a tutti i libri che possiedo, ma poi non posso certo continuare a leggere per tutto il santo giorno, e peraltro ci vorrebbe anche un interesse forte e preciso per attirarmi verso questa attività, e a me dopo che ho lasciato ormai da ventiquattro anni l'insegnamento della matematica, ogni passione che avevo viene sempre più a mancarmi.
La vicina lo guarda, forse ha quasi pena di quell'uomo: le porto un caffè leggero, gli dice, poi esce dall'abitazione per andare a prepararlo. Quando torna, il professore ha già accostato il finestrone, come si fosse dimenticato perfino del caffè. La donna bussa ai vetri, poi spinge l'anta. Non mi ero scordato di lei, le spiega subito il professore, ho soltanto immaginato che fosse meglio presentare un diaframma tra me e l'esterno, come per proteggere anche così la mia persona. Vede, prosegue mentre si siede e prende la tazzina, se io mi impegno non posso assolutamente dimenticare nulla. Soltanto lasciando andare le cose come pare a loro, non potrò mai riuscire a trattenerle. Mi costringo certe volte ad essere addirittura un genere di persona a cui non mi sento di appartenere quasi per nulla, così ripenso alle mie lezioni tra i ragazzi del liceo, e mi sforzo il più possibile di tirare fuori anche i dettagli di tutta quella parte della mia vita e della mia carriera.
Ma forse, al contrario, dovrei abbandonarmi del tutto a questa mia natura più forte anche di me, quella che tende a trascinarmi verso qualcosa che in questo momento neanche conosco: ma ho paura sempre più di essere somigliante ad una larva, come uno di quei tanti vecchi che ci stanno in giro, che non sanno più neppure quale sia la loro storia, e non hanno neanche la coscienza di cosa stiano diventando loro stessi. Probabilmente però è la mia stessa personalità a portarmi verso questa china: magari dovrei accettarla, sorbirla esattamente come questo suo caffè; e poi disinteressarmi del tutto della vita e della mia memoria: in fondo se questo è il mio percorso stabilito, dovrò pur accettarlo una buona volta, e magari smetterla di essere così riottoso a ciò che di nuovo si presenta.


Bruno Magnolfi 

venerdì 10 giugno 2016

Ricerca di niente.

          
            Scalcio un po’ con i piedi, a volte, anche quando me ne sto seduto a fare i compiti di scuola sopra al tavolo della cucina. Nella mia cameretta non c’è proprio posto per la scrivania. O meglio, forse ci sarebbe, ma mio fratello occupa quasi ogni spazio con tutta la sua roba. Lui lavora come ausiliario al pronto soccorso, e fa sempre i turni, di giorno e anche di notte, tanto che certe volte lo incrocio nel corridoio appena per un attimo e poi basta, perché magari si mette nel letto e dorme per tutto il tempo che gli resta, oppure se ne va via subito per rientrare in ospedale. E’ lui che qualche volta mi ha detto di muovere i miei piedi, di non stare mai immobile quando sono seduto, ed io seguo sempre quello che mi dice.
            I miei genitori spesso alzano la voce dentro casa, ma a me non importa proprio niente. Non li ascolto neppure, perché il mio mito è soltanto questo fratellone che mi ritrovo, anche perché lui riesce sempre a starsene in silenzio, persino quando mio padre gli dice in malo modo di andarsene dai piedi una buona volta, e di mettere su una famiglia per conto proprio; ma mio fratello si limita a fare un buffo grugno con la faccia, come se avesse ascoltato qualcosa di estremamente spiritoso, e dopo resta lì a guardare semplicemente da tutta un'altra parte. Non si sa che cosa pensi, forse niente, però io sono convinto che lui ascolta sempre e perfettamente tutto quanto.
Con me invece ci parla, mi racconta quello che vede, le cose strane che succedono certe volte durante il suo turno di lavoro, e poi mi spiega come preservarmi da questo mondo stupido e spesso incomprensibile, che secondo lui alla fine è soltanto brutto e basta. Non gli ho mai chiesto perché non se ne vada ad abitare per conto proprio, ma credo sia perché non ha neppure una ragazza sua; e comunque io vorrei tanto che non lo facesse mai, e che restasse sempre insieme a noi, almeno fino a quando non avrò ormai raggiunto la sua età di adesso.
Quando capita che abbia un pomeriggio libero, mio fratello mi porta sempre con sé, a scoprire il mondo, come a volte dice, anche se finisce che andiamo semplicemente ad osservare il fiume, che per lui è una cosa estremamente importante, anche se io in qualche caso un po’ mi annoio; oppure ai giardinetti, per renderci conto di quanto alcuni tra i cani che stanno lì al guinzaglio, assomiglino incredibilmente ai loro padroni, o anche viceversa. Io lo seguo, rido, lo ascolto, mi sembra comunque una grande fortuna la mia, quella di poter contare sempre su una persona come lui.
Poi ci salutiamo, qualche giorno fa, in apparenza come facciamo sempre incrociandoci nel corridoio di casa; però avverto subito qualcosa anche di diverso, una sfumatura che fino ad allora non avevo mai notato. La sua roba è rimasta come sempre al proprio posto, tutta ancora dentro la nostra cameretta, così ci sono le sue divise, le scarpe bianche, le sue cose, i suoi borsoni belli pieni, ma lui non c'è, non si trova più da alcuna parte, e anche al pronto soccorso non sanno proprio cosa dirci. Ho deciso che domani arriverò da solo fino al fiume: non so cosa mai potrò trovare, probabilmente niente, ma forse inizierò a capire che cosa c’era di così importante che sicuramente lui adesso sarà andato a cercare chissà dove; e per una volta, presumibilmente, per conto proprio.


Bruno Magnolfi

mercoledì 8 giugno 2016

Medaglie in evidenza.

          

            Dobbiamo sempre essere pronte; non possiamo distrarci, fingere superiorità o addirittura indifferenza di fronte a cose del genere. L’amica annuisce, conservando la sua espressione quasi severa, poi però rivolge lo sguardo da un’altra parte, distrattamente. Andiamo, fa lei alla fine, tanto qua dentro non ci facciamo più niente. Fuori dal negozio di borse sembra esserci la gente di sempre, quella che nel tardo pomeriggio puoi sempre trovare in giro sui larghi marciapiedi di quel tipo di strada. Loro due si incamminano lentamente senza una meta precisa, ma sanno perfettamente di che cosa dovrebbero parlare, anche se in fondo non sembra ne abbiano neppure gran voglia.
Stavolta non so se mi andrà di perdonarlo tanto facilmente, dice lei alla fine quasi con sforzo. L’amica si ferma un attimo per azionare la sua sigaretta elettronica, poi risponde soltanto: lo credo bene. La cosa più importante è che da adesso in avanti le cose per lui si facciano sostanzialmente difficili, e che ogni piccolo passo in avanti nei tuoi confronti, riesca a conquistarselo soltanto con fatica e mostrando una grande determinazione. Camminano vicine, loro due, ed osservano senza troppo impegno le vetrine di tutti i negozi. Certo, aggiunge lei dopo una lunga pausa: e comunque sarò sempre pronta ad allontanarlo ed a farlo ripartire da capo, di fronte ad ogni pur minimo cedimento del suo impegno nel nostro rapporto. Poi ambedue abbandonano l’argomento, e restano per un po’ in perfetto silenzio.
Potremo fare un salto da Lori, adesso: che cosa ne pensi, fa la sua amica tanto per riprendere a parlare. Lei guarda qualcosa avanti a sé, le pare subito che la sua migliore amica voglia soltanto cambiare discorso e abbandonare il problema, però accondiscende a quanto proposto, forse anche per una semplice abitudine. I suoi occhiali scuri ancora riescono a nascondere, per quanto possono, quel diffuso livido sul viso, ma lei non riesce più a conprendere se dentro di sé possa essere quello il segno del proprio cambiamento da mostrare a coloro che incontra, oppure soltanto il simbolo infamante di qualcosa che molto probabilmente è sempre riuscita a sbagliare. Forse avrebbe bisogno di tempo, di maggiore riflessione, della metabolizzazione completa del suo problema, prima di incontrare qualcun altro che magari conosce, anche perché in questo momento non le va certo di archiviare la faccenda come un qualcosa che a tutte prima o dopo può capitare.
Giungono infine nei pressi del locale, Lorenzo dietro al suo bancone del bar le saluta come fa sempre, ed anche se nota immediatamente quegli occhiali scuri ed ingombranti sopra la faccia di lei, non dice niente, comprendendo benissimo cosa cerchino in qualche modo di coprire. Ci sono altri amici a bere qualcosa, dei conoscenti, e forse proprio per questo lei avrebbe fatto anche a meno di andare là dentro, però alla fine si siede, pur senza salutare nessuno, e cerca in qualche maniera di non farsi troppo vedere. L'amica invece risponde ai saluti, sorride, ordina il suo aperitivo e scambia qualche battuta di spirito con gli altri.
Oggi non mi piace stare qua dentro, le dice lei sottovoce. Ma dai, fa l’amica: in fondo il tuo occhio nero fa parte delle cose che possono accadere a chiunque, non farne una cosa più grande di quella che è. Va bene, risponde lei, non ci sono problemi; e mentre pronuncia queste parole toglie gli occhiali, girandosi verso gli altri per far immaginare bene a tutti cosa le possa mai essere successo. Nessuno le chiede niente, naturalmente, ed anche l’amica sembra solo un po’ imbarazzata di quel comportamento, visto che lei invece adesso sorride, guarda tutti quasi con un’espressione di sfida, e mostra le sue ferite quasi come se fossero delle vere e proprie medaglie.


Bruno Magnolfi