lunedì 31 marzo 2014

Qualunque serata (piccola commedia n. 2).

            

Scorre lentissimo il tempo certe volte; resto seduta davanti alla televisione, mio marito nella stanza di là sento che muove qualcosa, probabilmente è ancora indaffarato con il suo lavoro, penso. Mi alzo dalla poltrona senza alcuna idea in testa, fuori è scuro, cammino per la stanza e poi, quasi rispondendo ad un automatismo, indosso la mia giacca pesante ed esco di casa, con calma, senza dire niente, e mi allontano da lì senza che forse abbia mai fatto in questo modo una cosa del genere. Non ho uno scopo, cammino lentamente, mi pare quasi che sia sufficiente una boccata d'aria per riprendere lo slancio, ma mentre scorrono i minuti sento che questo non è proprio vero.
Mi accosto ad un bar, dopo aver vagato per diverse strade, tentenno un attimo prima di prendere una qualsiasi decisione, infine entro dentro al locale, alla prima occhiata mi pare poco più di una bettola, ma in fondo penso che questo non abbia alcuna importanza. Mi siedo semplicemente davanti ad una tazza di caffè caldo, un uomo poco distante sembra quasi che mi osservi un po’ troppo. Buonasera, dice infine, io lo lascio avvicinare, lui spiega di chiamarsi in un certo modo, ed io annuisco senza grande interesse. Le serate certe volte sono tristi, dice, specialmente se qua dentro ci trovi sempre le medesime persone. Ma in certi casi spunta una stella e tutto sembra improvvisamente differente.
Lo lascio dire, sono i soliti discorsi, penso. Termino il caffè e poi mi faccio offrire qualche cosa di più forte. Lui dice che potrebbe portarmi in un posto più carino, io sorrido leggermente, lusingata, e poi chiedo a mezza voce se gli vada di passare la notte con me. Certo, dice lui, così chiede quanto gli potrebbe costare la faccenda, ma io faccio spallucce: niente, dico; mi va soltanto di non starmene da sola.
Usciamo dal locale, lui mi apre la macchina, io mi siedo. Mette in moto, appoggia una mano sopra la mia gamba, sorride, sorrido anch’io, senza sapere neppure che cos’altro debba fare. Lui inizia a dire un sacco di sciocchezze sulla sua vita, poi anche su di me, e che si immagina le cose in un modo, e che se le immagina anche in un altro, e che forse inizialmente si era immaginato davvero tutta un’altra cosa. Infine arriviamo, si entra in un portone e poi si sale fino al terzo piano. Quando lui chiude la porta del suo appartamento mi abbraccia, poi mi spoglia, mi tocca, e mi prende lì, in piedi, senza neanche cercare alcuna comodità. Lo lascio fare, in fondo tutto dura poco tempo, meno di quanto mi sarei aspettata, poi gli chiedo del bagno, mi guardo allo specchio, mi lavo, mi sistemo alla meglio, e quando esco gli dico con fermezza che adesso devo proprio andare.
Lui non dice niente, prende le chiavi della sua macchina e mi chiede soltanto se può rivedermi qualche volta. Certo, dico io, ci vediamo al bar, adesso per favore lasciami là davanti. Ci salutiamo, prendo a piedi la strada verso la mia casa: non ho detto niente, penso, non è successo niente, tutto prosegue nella stessa identica maniera. Rientro nel nostro appartamento, mio marito mi guarda stupito mentre abbassa la cornetta del telefono. Ero preoccupato dice: tu, tutto bene? Si, rispondo; è tutto a posto.

Bruno Magnolfi


venerdì 28 marzo 2014

Scienza dell'ipocrisia (piccola commedia n. 1).

            

Al fondo di me stessa ho una ferita ancora aperta, dice Anna. L'altra non le risponde niente, osserva distrattamente qualcosa nella sua tazza di caffè, poi torna a guardare senza grande interesse le espressioni della sua amica mentre parla. C'è sempre la necessità che il tempo riesca lentamente a digerire tutto quanto accade, dice ancora Anna; magari restituendoci un presente migliore, forse più apprezzabile, ma alcune cose sfuggono del tutto a questo meccanismo, e restano negli anni né più né meno quello che in verità si sono sempre dimostrate.
Al tavolo del bar, dove le due donne rimangono sedute, si avvicina un loro conoscente sorridendo, le due si voltano distrattamente verso di lui, e lui chiede: disturbo, conservando il medesimo sorriso, come se in quella domanda fosse già implicitamente scontata una risposta negativa. Le due amiche lasciano che il nuovo venuto si sieda accanto a loro, e Anna riprende: certe volte vorrei poter dimenticare tutto, guardare avanti con occhi nuovi, lasciare indietro questa pesantezza che non mi abbandona quasi mai.
L’altra prende un sorso di caffè, forse vorrebbe chiudere con quei discorsi, e dopo un attimo, se forse aveva sperato che l’arrivo dell’uomo avrebbe dato ad Anna la possibilità almeno di affrontare quegli argomenti in modo più leggero, improvvisamente sembra quasi annuire alle ultime parole che ha ascoltato, come se, essendo già d’accordo con ciò che è stato detto, adesso fosse possibile addirittura parlar d’altro. Il conoscente invece si sente subito di troppo, spenge sulla sua faccia quel leggero sorriso che aveva impostato per automatismo, e pensa subito soltanto a trovare la maniera per alzarsi e per andarsene, naturalmente senza passare per sgarbato ed evitando quindi di interrompere in qualche modo quei discorsi che reputa noiosi però forse importanti.
Riusciremo ad essere ancora più indifferenti a tutto, dice Anna adesso rivolta all'uomo. Voltare le pagine seguenti senza più curarsi delle pagine passate, aprendo volta per volta scenari sempre nuovi in cui far proseguire la commedia. Lui volge lo sguardo per un attimo verso l'altra, l’amica che prosegue a starsene in silenzio, ma senza trovare alcun conforto nella sua espressione; poi pensa qualcosa da dire a sua volta, una qualsiasi, ma pur concentrandosi non gli viene niente. Anna lo guarda senza giudicarlo, lui si sente ancora di più al posto sbagliato, l'amica prende un nuovo sorso di caffè dalla sua tazza.
Verranno tempi sempre più difficili, dice ancora Anna; dobbiamo prepararci già da adesso; sarà come sentirsi in guerra tutti i  giorni, quasi vedere negli altri continuamente il proprio nemico. Tutto avviene sotto la copertura di questa ipocrisia che ci lascia fingere continuamente, come se stessimo davvero, ma solo in apparenza, tutti quanti dalla stessa parte.
L’altra si volge adesso verso l’uomo, lui stringe le labbra come a mostrare un qualche disappunto, Anna non si accorge neppure che tra i due qualcosa sta lavorando come all’unisono. Infine l’amica si alza, solleva la sua tazza di caffè ormai vuota, va verso il banco del bar, e l’uomo la segue. Anna guarda il vuoto, poi sorride: non importa, dice tra sé; dovremo tutti quanti cominciare a contarci, a non farci più alcuna illusione su chi ci appare troppo vago. Quando sarà il momento sapremo bene chi siamo, non ci sarà più alcun dubbio, e forse sarà tardi per alcuni cercare di mostrare convinzioni dalle quali non si sono fatti mai neppure minimamente sfiorare.


Bruno Magnolfi   

lunedì 24 marzo 2014

Suggestioni del tempo (cortometraggio n. 6).

            

Molti anni dopo che tutto quanto si sia svolto, la donna ormai attempata scende dal treno alla stazione del paese, sorride con leggerezza a chi incontra camminando con il suo passo svelto, e giunge velocemente, come fosse proprio la sua meta, fino al ristorante dove tanti anni prima ricorda di aver quasi insediato il proprio ufficio di relazioni sociali. Ricorda di essere apparsa soltanto una straniera quando tutto era accaduto, questo il punto, ma forse lo è quasi più adesso di una volta. Un cameriere anziano del locale però la riconosce, la invita a sedersi, le porta come gesto di cortesia l’aperitivo della casa, proprio come tanto tempo prima accadeva con frequenza.
Lui viene subito avvertito, non passano neppure molte decine di minuti, e alla fine, quasi fosse stato lì, come in attesa, si fa avanti lentamente nella sala, poi la guarda, la saluta pur senza grande enfasi, e ambedue rimangono per un attimo in silenzio; infine spiega in due parole come lui sia rimasto sempre fedele a quel piccolo paese praticamente di frontiera. La donna si commuove alla sua vista, cerca di spiegare in fretta come abbia dovuto affrontare mille volte dentro di sé quel nodo enorme di problemi che si erano andati accumulando in quel periodo, e di come sia riuscita, pur impegnandosi, a darne solamente una soluzione provvisoria, tale che le è risultata soltanto sufficiente, almeno fino a quel momento, per riuscire giusto a sopravvivere.
Lui spiega come adesso sia tardi per qualsiasi cosa, lei annuisce mostrando in qualche modo il suo dolore: in fondo lei sta lì soltanto per cercare di espiare la sua colpa. Il cameriere di poco prima a sorpresa le serve un antipasto, come fosse stato ordinato in qualche modo chissà da chi, ma lei sorride, ne è felice, sembra quasi possa essere esattamente ciò di cui aveva proprio bisogno; non c’è alcuna nostalgia in tutto questo, pensa chi assiste a quella scena, solo puro ricordo. La donna assaggia il piatto, l’uomo le sfiora una mano, ma poi in fretta si inchina, l’osserva in silenzio per un lungo attimo, e dopo se ne va, con un saluto quasi fumoso, come forse si scambiavano una volta; lei è caparbia, intende trattenersi ancora a lungo, pensa che deve assaporare ancora molte cose, deve addirittura ritrovare quell’atmosfera sospesa che forse le manca, per esempio, e deve ancora vedere quelle espressioni che adesso forse le appaiono un po’ distanti, ma che a tratti, se si concentra, sembra quasi riuscire a riconoscere.
Infine si alza, il suo tempo sembra ormai quasi esaurito, così esce dal locale, si incammina anche se non sa di preciso neppure verso dove andare. E’ esattamente in quel momento che l’uomo la raggiunge, la ferma sulla strada, così le prende le mani, la guarda in fondo agli occhi con grande intensità; poi tira fuori da una tasca un paio di orecchini rimasti come a mezz’aria dentro al tempo. Lei li prende, è una sorpresa, qualcosa che sicuramente non si poteva attendere, e forse per quel gesto vorrebbe addirittura piangere, sfogarsi di qualcosa che potrebbe risultare persino difficile da trattenere ulteriormente, ma assumendo un’espressione superiore al semplice stupore, adesso riesce nello stesso attimo a mostrarsi già più forte di qualsiasi sciocco sentimento.
In ultimo la donna torna alla stazione per risalire sopra al treno che l’ha portata soltanto poche ore prima fino lì. Forse per la prima volta in vita sua sarebbe perfino disposta ad accettare le cose come sono, proprio come le vede adesso, di fronte a sé, senza provare, come sempre è stato, il desiderio irrefrenabile di tentare con caparbietà a cambiarle tutte. Ma ora è veramente tardi per essere diversa, pensa: il tempo della vita ormai si è preso tutto, non ha lasciato molte differenti possibilità; e questa bestia vorace ha anche preteso per sé qualsiasi ulteriore riflessione, fino a far diventare il resto quasi un niente, forse solamente una banale suggestione.


Bruno Magnolfi   

domenica 23 marzo 2014

Ultimo erede.

            

Non credo vivrò molto a lungo. Già da qualche tempo provo dei dolori infidi in varie parti del corpo, e grazie a quelli non riesco più a dormire dei veri e propri sonni tranquilli. Anzi, proprio per questo motivo, ormai mi sveglio sempre molto presto al mattino, ancora prima che si inizino ad avvertire lungo la strada, pur molto lontani, i rumori delle auto e dei mezzi pubblici. Allora ascolto il silenzio, rifletto sul da fare, mi rigiro più volte sotto le coperte di questo grande letto e di questa smisurata camera, e avverto praticamente dappertutto la mia sostanziale incapacità a riprendere sonno.
Certe volte vado a sedermi prendendo da uno scaffale qualche vecchio libro di filosofia appartenuto forse a mio padre oppure ai nonni, e così ne leggo qualche pagina, in fondo non coltivando un vero e proprio interesse per questa materia, ma solo affidandomi al ritmo e al gusto di quelle parole che trovo così piene di cultura. È in questo modo che da tempo ho iniziato a pensare alla morte, quasi assaporando il gusto di questo argomento così dibattuto in quei volumi.
Infine mi alzo dalla mia vecchia poltrona dello studio, cammino per le stanze e per le sale, arrivo fino ad una delle finestre del palazzo ad osservare la prima luce del giorno mentre fuori iniziano i rumori di tutta la città, giungendo in qualche modo fino a questa mia residenza. Proietto il mio corpo facilmente oltre la vita insulsa che mi trovo a vivere, e mi sento subito meglio, so che posso trovare una motivazione, se voglio, a tutte le mie turbolenze, ai miei malesseri, a questo soffrire quasi di niente, anche se tutto avviene forse in un elemento sostanzialmente extracorporeo.
Le mie dita picchiettano ritmicamente sul piano del tavolo mentre cerco dentro di me quella voglia e quell’entusiasmo che sicuramente servono per iniziare bene la giornata. Alla fine, quando le cose sembrano ormai prendere la piega giusta, sento quasi di avere esaurito ogni energia, e la mia voglia di essere e di fare si è ormai scomposta in tante piccole scaglie di una superficie che agisce sostanzialmente come scudo, quasi avessi soltanto da difendermi da ciò che mi prospetta l’esistenza.
La servitù che si occupa della mia casa, si muove tra le stanze come cercando la prosecuzione di ogni abitudine a cui chiunque sia stato qui probabilmente si è sempre come assuefatto, ed io provo fondamentalmente un dolore vero mentre osservo ognuno di loro tentare di procrastinare una fine che sembra ormai scritta e definita, forse persino nel testo più nobile di tutta la biblioteca di questa abitazione.
Sono l’ultimo, penso; il piccolo tratto finale di qualcosa che si mostrerà assolutamente irripetibile. Mi guardo attorno, faccio forza su qualcosa che non so neppure io dove potrà portarmi. Poi, attraversando ancora qualche stanza, provo un dolore nuovo, una fitta che neppure ricordavo tra tutto l’elenco degli acciacchi, e se mai l’avessi provata precedentemente. Alla fine mi accascio, rotolo come un sacco di patate sopra i preziosi tappeti calpestati negli anni chissà da chi, perdendo ad ogni attimo la consapevolezza persino della mia dignità. Fortunatamente interviene il cameriere, mi tira su, mi fa sedere per carità sopra una poltrona da me poco distante, e cerca di riportarmi alla realtà e forse alla vita. Mi fai schifo, penso però in un attimo di lui, senza provare alcun ritegno per questa riflessione: sarà la mia morte, immagino soddisfatto, la chiusura definitiva del tuo ruolo.


Bruno Magnolfi

mercoledì 19 marzo 2014

Identica voragine.

            

È proprio nell'attimo stesso in cui rientra a casa, quando chiude la porta alle sue spalle, che Lucia si sente profondamente sola, pur avendo magari passeggiato fino ad allora in compagnia soltanto dei suoi pensieri. Sua mamma è lì, come sempre, davanti alla televisione, e la saluta nel solito modo; poi come fa spesso le chiede subito qualcosa, e lei inizia a risponderle male, sbuffando e quasi per automatismi, usando le solite frasi di sempre, i medesimi argomenti. Non ha niente contro di lei, anzi, a giudizio di tutti in fondo è l'unica compagnia della sua vita, ma è sufficiente però la sua presenza per farla sentire molte volte quasi disperata.
Lucia ha un piccolo lavoro che svolge al mattino nel quartiere, e forse è questa la parte del giorno che le piace di più. Vuole bene alla sua mamma, è indiscutibile, ma quando la ritrova sempre identica nei modi e in tutto il resto, vorrebbe quasi strangolarla. Per questo esce spesso anche nel pomeriggio, arrivando certe volte fino ad un circolino dove giocano a tombola. Oppure va al centro commerciale senza però avere nulla da acquistare; o magari se ne sta in giro per strada, senza neanche una meta. Lucia non la guarda neppue quando le chiede cosa le possa andare per cena, o quando la aiuta a stendere le gambe sopra al cuscino, o ad alzarsi dalla poltrona dove passa gran parte della giornata. Succederà qualcosa di brutto, pensa molto spesso, quasi ad esorcizzare tutto ciò che senza neppure volerlo le passa in automatico dentro la testa.
Poi certe volte entra in bagno, si guarda dentro lo specchio e le viene subito da piangere. Forse vorrebbe essere più cortese con la sua mamma, magari anche premurosa, e qualche volta sforzandosi ci ha persino provato; ma non le riesce, questo è il punto, e se ci pensa le balla una palpebra, e sente montarle il nervoso ogni volta che si trova nella stessa stanza con lei, senza che possa far niente.
Quello che soprattutto non riesce a sopportare, ma che avverte profondamente, e le basta soltanto vederla, ritrovarla lì, nella stessa posizione di sempre, è questa necessità della sua mamma di riuscire a far pena, di dimostrare ad ogni istante che ha bisogno di lei, che è nelle sue mani, che non potrebbe in alcun modo vivere senza Lucia. E Lucia proprio per questo la sente distante, diversa, lontanissima, quasi che in casa di loro due fosse ormai rimasta soltanto una fotografia sfocata e sbiadita di ciò che potrebbe essere stata la mamma che lei avrebbe voluto.
Devo uscire, le dice già con il cappotto addosso e le chiavi dentro la mano. Non mi dici dove vai? fa la sua mamma. Torno presto, si limita a rispondere Lucia, quasi avesse chissà quali impegni segreti. Poi si ritrova per strada, gira a caso, cerca uno scopo nelle vetrine dei negozi che vede. Si perde tra i pensieri che le vengono e la realtà che vede o che immagina. Infine rientra, almeno subito prima che la sua mamma inizi a provare il più piccolo barlume di preoccupazione; e quando apre la porta sa già che farà gli stessi gesti di sempre, pronunzierà le identiche parole di ogni volta, si muoverà nel piccolo appartamento così come sa che sua mamma si aspetta da lei; anche se è totalmente cosciente che è come se sprofondasse ogni volta nella medesima voragine.


Bruno Magnolfi

sabato 15 marzo 2014

Aria fresca su Fiesole.

           

Tutto questo tempo è trascorso così in fretta che non avrei mai immaginato di ritrovarmi già a doverne tirare le somme, dice lei con voce bassa, come parlasse tra sé. Lui la guarda per un attimo, senza pronunciare alcuna parola; forse vorrebbe sorridere per la frase che ha ascoltato, mostrando in qualche modo superiorità rispetto a quella che reputa una sciocca ed ordinaria debolezza, ma non fa niente; si limita a pensare qualcosa di vago, provando solo un leggero senso di fastidio, e così prende un altro sorso di caffè, lentamente, lasciando che quel piccolo gusto aromatico sul suo palato sia sufficiente.
Lei senza guardarlo resta poi in silenzio, non le piace sentirsi scoraggiata nelle sue riflessioni, perciò, dopo quella pausa forse un po’ pesante, dice semplicemente che in fondo non si sente ancora vecchia, e che tutte le cose che vede rimangono comunque nella sua mente in continua trasformazione, almeno secondo il suo modesto parere, e che si tratta soltanto di averne coscienza, almeno di una buona parte. Lui adesso annuisce, ancora non sa intervenire su quelle parole che in fondo non indicano niente; guarda qualcosa fuori dalla saletta del bar dove loro due si sono rifugiati, poi pensa a cosa potrà fare più tardi, e nient’altro.
Il cameriere arrivato in quel momento nel locale a dare rinforzo per i tè e gli aperitivi della sera, con perfetta cortesia saluta i due che conosce da tempo, lasciando loro soltanto un sorriso professionale. Lei vorrebbe parlare di qualcosa di leggero adesso, ma avverte come se il pomeriggio tra loro due ormai si fosse incupito: potremmo fare due passi, dice allora tanto per cambiare argomento. Lui raccoglie la frase proponendo alternativamente una passeggiata con la sua macchina. Va bene, dice lei, ma allora arriviamo almeno fino a Fiesole, tanto per vedere il tramonto sulla città. Lui fa cenno di si, si alza, paga velocemente le consumazioni, apre la porta e fa uscire la sua compagna.
L’aria è ancora fresca, si potrebbe dire, ma pur pensandolo nessuno dei due si azzarda a dirlo. Salgono in auto e si avviano lungo i viali ingombri del solito traffico. Lui spiega che a quell’ora la luce del giorno è fantastica, lei annuisce, poi dice: non riesco ad avere una voglia precisa; anche se penso intensamente a qualcosa che potrei fare, subito dopo sento che me ne manca l’entusiasmo, così finisce che mi affido alle solite attività di sempre, che non impegnano la mia capacità decisionale, anche se in seguito, lo so da subito, finisce che mi sento soltanto delusa.
Lo capisco, fa lui; occorre sempre più spesso un motivo forte per spingerti a fare qualcosa di nuovo, è come se le abitudini ti imbrigliassero sempre di più, fino a lasciarti preda soltanto delle solite cose. Forse anche noi due siamo soltanto un’abitudine. Può darsi, fa lei, però spesso trovo qualcosa di nuovo in ciò che riusciamo a scambiarci, come se il nostro impegno non volesse diminuire con facilità, anche se mi rendo conto di quanto sia molto più semplice ripiegare su qualche vecchio comportamento. Dobbiamo sforzarci, dice lui; spingerci a vicenda, forse stimolarci.
Lo so, fa lei sorridendo, però guarda questo tramonto, osserva il profilo di questa città ai nostri piedi: lo avremo visto migliaia di volte, però ci regala comunque un’emozione nuova ogni volta. E’ vero, dice lui; nonostante quest’aria sia ancora fresca.


Bruno Magnolfi 

mercoledì 12 marzo 2014

Equivoci.

            

Quando ho cercato di uscire dall'ufficio postale mi sono subito reso conto che qualcosa non andava. Difatti avevo appena starnutito, cosa per me piuttosto usuale in questo periodo, ma una lunga striscia di muco mi si era impataccata sopra la giacca. Perciò mi sono subito rivolto ad un impiegato chiedendogli dove fosse il bagno, ed immediatamente mi sono chiuso dentro la piccola stanza che quello mi ha indicato. Mi era parso comunque, fin da quando ero arrivato, anche se non avrei saputo dire per quale motivo, che qualcos'altro non andasse per il verso giusto, come se fosse accaduto qualcosa dentro a quegli ambienti, ed adesso tutti gli impiegati stessero come sospesi, sovrappensiero, imbambolati per problemi più importanti delle cose sostanzialmente abituali dentro ad uffici di quel genere.
Ho cercato di ascoltare i discorsi che sentivo fare oltre la porta chiusa, ma non sono riuscito a capire quasi niente, se non i lamenti di qualcuno tra i dipendenti al lavoro, nei confronti di quel pubblico sempre troppo critico, pretenzioso, capace solo di alzare la voce di fronte al più piccolo problema. Mi sono ripulito alla meglio, ma poi, quando sono tornato ad uscire, mi sono reso conto che tutti quanti in quell’ambiente mi stavano osservando. Frettolosamente sono tornato indietro fingendo di essermi dimenticato di qualcosa e chiudendomi di nuovo in quel piccolo bagno, e provando contemporaneamente un sentimento astratto di vergogna, in realtà anche per me quasi impossibile da decifrare.
Sono rimasto ancora a lungo là dentro, seduto su di uno scatolone, chiedendomi cosa avrei potuto trovare di fronte a me quando avessi tentato nuovamente di uscire. Nel dubbio profondo ho tardato quanto più mi era possibile, accorgendomi ad un certo punto che forse avrei dovuto attendere semplicemente che gli impiegati si fossero dimenticati del tutto di me. A questo proposito ho guardato il mio orologio da polso: non mancava molto alla fine dell’orario mattiniero di apertura al pubblico, così ho pensato che se fossi uscito dal bagno subito oltre quel limite, probabilmente non avrei trovato i dipendenti delle poste ancora seduti agli sportelli, ma indaffarati sul retro degli uffici, cosa per me estremamente favorevole.
Purtroppo dopo poco è intervenuto qualcuno a bussare energicamente alla mia porta, mi ha chiesto anche qualcosa con tono deciso che però non ho propriamente compreso, e così mi sono limitato a rispondere con voce pacata che sarei uscito dal bagno fra qualche minuto. Invece non ho trovato più il coraggio, e abbandonandomi ad un fatalismo per me praticamente inusuale, ho fatto scattare la serratura, lasciando in questo modo a chiunque la possibilità di aprire la porta e di farmi trovare seduto sullo sgabello improvvisato.
Così è stato difatti, ma forse avvisato dai rumori dei tacchi delle scarpe che ho sentito avvicinarsi subito prima, mi sono posizionato chino, con la faccia affondata dentro le palme delle mani, come se tutto in me fosse perduto, perfino l’orgoglio. Si sente male, ha detto o chiesto qualcuno sulla soglia, ed io senza guardare ho fatto cenno di no con la testa; poi, chiunque fosse stato a pormi la domanda, è tornato a riaccostare la porta e ad andarsene. A quel punto mi sono prontamente alzato, ho preso tutto il coraggio necessario e sono finalmente uscito. Praticamente non c’era più nessuno, solo un paio di impiegati che in quel momento mi voltavano le spalle, occupati con il loro lavoro. Così ho guadagnato la porta e sono uscito frettolosamente sulla strada, ma uno di loro mi ha raggiunto altrettanto velocemente, prima che si chiudesse la porta scorrevole dietro di me: ha lasciato questo allo sportello, mi ha detto in fretta ma con decisione; e mi ha mostrato il mio portafogli di pelle nera.


Bruno Magnolfi

lunedì 10 marzo 2014

Bisogno di vento.

            
            Il vento muove gli alberi, Piero resta seduto su una vecchia panchina di legno, nel sole pomeridiano. Se n’è andato da casa, ha detto semplicemente alla sua compagna che sente il bisogno di un periodo di riflessione, e così ha lasciato per qualche giorno la sua famiglia con il bambino ancora piccolo, che non può comprendere minimamente la sua assenza, e si è rifugiato lì, senza neppure sapere adesso cosa sia meglio fare. Quella casa di campagna che gli ha prestato un amico è bella però poco confortevole, ma questo fatto forse adesso non ha alcuna importanza, Piero non sente alcuna voglia di tirare avanti come ha fatto fino ad oggi: non riesce a vedere il domani, non riesce a comprendere neppure cosa dovrebbe fare, quali scelte introdurre nelle sue giornate.
Si guarda attorno, Piero, cerca ispirazione nella natura verde dell'erba, dei cespugli, dei fiori spontanei; ha già passeggiato a lungo per i viottoli, costeggiando i fossati che delimitano qualche campo coltivato, ed ha incontrato qualcuno che naturalmente non conosceva, salutandolo da lontano, come pensa si faccia in luoghi come questi. Si sente fuori posto, questo è sicuro, però ammira tutto ciò che fa parte di località come queste. La sua intenzione è quella di perdersi completamente nell’entusiasmo che gli genera la campagna, ma anche nel prendersi cura di sé, nell’accarezzare qualsiasi pensiero gli passi dentro la mente, e dedicarsi alle piccole attività quotidiane che qui, più che in qualsiasi altro luogo, si mostrano del tutto necessarie.
Rientra dentro l’abitazione, Piero, assapora il fresco dei muri di pietra, si versa un bicchiere d'acqua dalla caraffa, infine si siede presso il grande tavolo della cucina. Ha il telefono portatile con sé, in qualsiasi momento potrebbe interrompere quella sospensione che sta vivendo. Poi si alza, gli è venuta voglia di farsi del tè, ne trova nella dispensa, mette l'acqua nel bollitore, accende il fuoco, prepara la tazza, il filtro, tutto quanto gli serve. Torna a sedersi, ma si sente nervoso, è come se avesse bisogno di decidere qualcosa urgentemente, senza mettere altro tempo di mezzo. Guarda fuori dalla finestra i pochi alberi attorno alla casa, gli sembrano soli nel vento, privi di qualsiasi possibilità per sentirsi in altra maniera.
Torna a sedersi, Piero, prende una matita, um foglio di carta: il pensiero di suo figlio che probabilmente si chiede dove lui sia, lo prende quasi come dentro una morsa. Scrive qualcosa che vorrà leggere in seguito a lui e alla sua compagna, qualche parola che indichi la sua sofferenza, il suo stato di incertezza completa, ma tira più di una volta una riga sulle parole che scrive, e infine accartoccia tutto quanto, gettando via ogni pensiero.
Infine si alza, Piero, il sibilo del bollitore lo chiama, va verso il fornello, toglie l'acqua dal fuoco, ma prima di spengere la fiamma la sciarpa che ancora tiene al collo si incendia in un attimo. È solo un momento, lui schizza verso l'acquaio, si getta addosso la caraffa d'acqua lì accanto,  si strappa i vestiti di dosso, corre ad aprire la finestra, che il vento porti via in fretta l'odore acre di stoffa bruciata. Respira, Piero, a pieni polmoni, poi compone il numero di telefono: aiuto, dice affannoso alla sua compagna; ho bisogno di voi.

Bruno Magnolfi


sabato 8 marzo 2014

Eventuali sciocchezze.

            

Tutte le cose si sistemeranno, uno di questi giorni. Si tratta solo di avere pazienza. Paolo pensa molto mentre cammina, l'attività cadenzata gli fa sentire tutto più vicino,  quasi possibile, ed ogni idea realizzabile con facilità. L'aria è ancora frizzante, gli alberi del viale hanno le prime gemme sui rami, Paolo, conservando il suo passo svelto, va verso l'ufficio. Non gli hanno promesso niente, a dire la verità, però gli sembra che tutti abbiano preso a cuore il suo caso, lui è sicuro che qualcosa di positivo uscirà fuori.
Forse avrebbe dovuto prendere l'autobus, la strada è un po' lunga, ma camminare gli piace. C'è anche un bar poco più avanti, così Paolo si ferma, entra dentro, prende un caffè. È ancora presto, pensa, c'è tutto il tempo per immaginare il colloquio che gli faranno. Certo, lui è sempre stato un tipo semplice, senza pretese, non potrebbe neppure essere diverso, ma sarà questa la mia carta migliore da giocare, pensa adesso mentre sorseggia il caffè. Poi si avvicina un tizio, dice subito di conoscerlo, di averlo già visto da qualche parte. Paolo non dice niente, però gli sorride, non c'è niente di male nei discorsi che fa quest’uomo, pensa. Quello spiega di certi suoi affari, di certe vicende che ha vissuto e che in anni passati lo hanno visto vincente, anche ad alti livelli.
Paolo lo guarda mentre ascolta tutti questi discorsi, si immagina di avere davanti un affabulatore, un venditore di fumo e di chiacchiere vuote, così aspetta soltanto il momento migliore per uscire ed andarsene. Ma quello insiste, lo vuole addirittura accompagnare fino all’ufficio, poi gli paga il caffè, lo tratta ormai come fosse un suo grande amico. Escono insieme dal locale, Paolo non riesce più ad avere pensieri, sono tutti coperti dalle parole dell’altro, così non ce la fa a prepararsi all’incontro in ufficio, perciò prova disagio, e a un certo punto finge di dover salutare qualcuno dalla parte opposta della strada, attraversa di fretta e prende per una piccola via là vicino.
Compie un giro completo di tutto il quartiere prima di riprendere la strada di prima, del tizio adesso sembra non ci sia più alcuna traccia, e in compenso lui ha potuto ricominciare a concentrare i pensieri sulle cose a cui probabilmente deve rispondere, e ad affrontare al meglio quelle domande che quasi senz’altro gli sottoporranno. Osserva l’orologio, deve affrettarsi, ormai non c’è quasi più tempo, tutte le cose nella sua mente stanno improvvisamente precipitando verso una conclusione che all’improvviso non riesce neanche più ad immaginare, come se i prossimi minuti si mescolassero confondendosi tra loro.
Arriva all’ufficio, chiede subito della persona con la quale ha preso l’appuntamento, gli dicono intanto di sedersi e di compilare un questionario. Paolo guarda il foglio, le domande gli paiono difficili, ma non si perde d’animo, scrive quello che può, tralasciando le risposte che non conosce. Giunge nella saletta una persona, si siede accanto a lui: è il tizio di prima, quello lo saluta, guarda il suo questionario, gli dice quali siano le risposte giuste da dare, lui scrive, e quando è arrivato alla fine l’uomo si alza e dice che lo aspetterà sul marciapiede, per sapere al momento che uscirà come gli sarà andata.
Infine arriva una signorina, prende il foglio dalle mani di Paolo, dice gentilmente che adesso non c’è più tempo, ma verrà contattato di nuovo nei prossimi giorni, e che comunque dovrà essere analizzato il suo questionario; va tutto bene, aggiunge, stia pure tranquillo. Paolo esce un po’ frastornato, l’altro è lì, lo guarda, poi gli sorride: non preoccuparti, gli dice, conosco bene la persona con cui devi parlare, gli dirò io che sei affidabile; il resto peraltro sono tutte sciocchezze.


Bruno Magnolfi

mercoledì 5 marzo 2014

Meravigliosa semplicità.

            

Certe volte lei si sente disperata. Non perché abbia un motivo preciso per sentirsi così. Al contrario, è proprio perché non ha nessuna vera ragione per cui soffrire. Si sente svuotata di tutto, ecco, come se non avesse motivi neppure per tirare avanti. Durante qualche pomeriggio, nel corso della settimana, si vede con sua cugina, passeggiano, vanno a sedersi dentro un caffè, e spesso rimangono lì a parlare e a sfogarsi ognuna dei propri guai, ma lei non tira mai fuori la cosa che la affligge di più. Pur consapevole che non si possa stare così come sta lei, però soltanto parlarne le parrebbe un'assurdità, in questa maniera prosegue a far finta che in fondo tutto vada abbastanza bene, lamentandosi solo delle sciocchezze di cui si lamentano sempre tutti.
Sua cugina a volte la guarda in silenzio, è probabile sospetti qualcosa, che lei nasconda una personalità contorta dietro ai suoi discorsi ordinari, per esempio; una volta le ha chiesto addirittura se si sentiva un po' giù, deducendo forse qualcosa dalla sua aria svogliata, dai suoi modi distanti. Poi, quella volta, dopo alcuni convenevoli, lei ha detto a sua cugina che non c'era da preoccuparsi, le cose andavano bene, ed anche se ultimamente si ritrovava  spesso a pensare con perplessità al suo futuro, sapeva dentro di sé che tutto era a posto, i suoi piccoli affanni si sarebbero sicuramente risolti. Rimasta da sola, al contrario, ha subito avuto voglia di piangere, e le sue mancanze le sono sembrate ancora una volta estreme, senza alcuna speranza.
Per questo, con delle scuse, ha cercato in seguito di diradare sempre di più le sue uscite con sua cugina. Preferisce starsene da sola come per prepararsi ogni giorno ad affrontare il giorno seguente. La finzione mi deprime ancora di più, pensa adesso, molto meglio evitare. Così cerca di uscire poche volte in piena solitudine, e gira in mezzo alla gente e non tenta neanche più di confrontarsi con gli altri che incontra per strada. Riconosce il suo presente come elemento senza speranza, tira avanti quasi per inerzia, senza preoccuparsi di altro.
Poi entra dentro al solito caffè, si siede, e riconosce come sempre che non c’è via d’uscita. Ma arriva sua cugina all’improvviso, si siede di fronte a lei e le dice senza perifrasi che non le va di lasciarla andare in giro da sola. La guarda: ho capito il tuo cruccio, le dice; per me non c’è alcun bisogno di altro: saprò starti vicina tutte le volte che ce ne sarà la necessità, e quando ti sarò di peso non avrai da far altro che dirmelo.
Lei sente che tutto sta come prendendo una piega che non si era aspettata, guarda negli occhi sua cugina, sorride, forse si tratta soltanto di lasciarsi un po’ andare, pensa; di allentare quei freni che è sempre stata capace soltanto di tenere tirati. Lascia che l’altra le prenda la mano, in silenzio, sente che qualcosa di estremamente importante per loro sta avvenendo, senza che nulla di forzato le abbia portate fino a quel punto. Forse davvero tutto quanto può essere anche diverso, pensa adesso; forse non c’è alcuna necessità che io pensi a domani come ad un’altra giornata di solo grigiore. C’è il presente che assume valore, e la mia disperazione improvvisamente si stempra così, con una semplicità meravigliosa.


Bruno Magnolfi

lunedì 3 marzo 2014

Aspetti importanti.


Cammino, non posso fare altro. Raggiungo rapidamente il luogo indicato dagli altri, quello che anche il mio intuito e la mia sensibilità hanno recepito come il posto giusto; quindi mi fermo, attendo magari che accada qualcosa, oppure, anche se non succede proprio un bel niente, resto immobile almeno per qualche momento, a godermi la soddisfazione di stare esattamente dove desideravo. Qualcuno mi osserva, certe volte ritengo addirittura di essere invidiato, e comunque chi non nutre per me un sentimento del genere, è solamente il tipo di persona che non riesce a rendersi conto delle cose che hanno veramente importanza.
Non ha alcuna importanza, al contrario, che io spesso me ne stia in giro da solo; sono perfettamente cosciente che quello che ha davvero valore è semplicemente la consapevolezza di ciò che si è, e nient’altro. Lo so che ci sono delle persone che spesso fanno apparire tutto quanto un comportamento abituale per molti, quasi come un comportamento di massa, ma in fondo non ci si deve fare neppure troppo caso: la guida che il proprio fiuto riesce a fornire è qualcosa di superiore ad ogni altra cosa, capace di annullare di colpo ogni possibile critica.
Ciò che mi ripeto ogni volta è soltanto questo: esserci; solo questa è la cosa fondamentale; sapere che ciò che si è scelto è l’elemento più giusto, quello che differenzia te stesso da tutti. Certe volte sorrido a chi incontro per strada, in certi casi faccio in modo addirittura che qualcuno mi noti, che si capisca che non sono in quel luogo per caso. Così oggi sono entrato in una galleria d’arte dove un pittore esponeva il proprio lavoro. Era in corso addirittura un rinfresco inaugurale, perciò mi sono accostato a tutti quanti, ed ho sorriso ai discorsi che venivano pronunciati. Qualcuno mi ha lasciato addirittura il suo posto, riconoscendo forse in me la personalità che mancava. Mi sono sentito subito bene, perfettamente a mio agio, sicuro delle mie capacità e delle mie doti.
Infine tutti hanno iniziato a salutarsi, stringendosi le mani ed alcuni addirittura abbracciandosi, così io ho osservato ancora un po’ quelle tele, mi sono accostato con delicatezza al pittore, cosa non facile perché circondato da molti, e l’ho salutato dicendogli bravo, semplicemente; poi sono uscito. Qualcuno però mi ha seguito, così ho cercato di rallentare il passo quando mi sono reso conto di questa strana faccenda, provando soprattutto il bisogno di vedere chi fosse che continuava a venirmi alle calcagna. Quando mi sono girato ho visto che era lo stesso pittore a inseguirmi, perciò mi sono fermato, lui ha chiesto con cortesia ferma che cosa intendessi dire poco prima, ed io ho lasciato una pausa, come per fargli comprendere che la sua domanda probabilmente aveva poco senso. Ma l’artista mi ha guardato negli occhi con grande fermezza, lasciando in aria una pausa pari alla mia, e infine ha detto soltanto: lei è un falso, come fosse la peggiore offesa del mondo, tornando immediatamente sui suoi passi.
L’ho guardato a lungo mentre si allontanava, ho avuto pena per la sua scadente personalità, e infine ho pensato che una persona del genere non può aver compreso un bel niente: quindi anche il suo lavoro sicuramente ha uno scarso valore. Così l’ho richiamato in maniera poco elegante, lui si è girato di scatto, ed io ho detto semplicemente: lei ha ragione; e con ciò sono andato.

Bruno Magnolfi


sabato 1 marzo 2014

Minima considerazione.

          

Quando ogni giorno giunge l'ora per uscire dal palazzo composto da uffici dove lavora come impiegata nel reparto che si occupa del personale della sua azienda, lei prova sempre un senso di vuoto. Tutti i suoi colleghi si salutano generalmente con allegria al piano terra mentre strisciano il proprio cartellino nella fessura prima di andarsene, ma lei prova sempre un brivido e certe volte vorrebbe quasi abbracciarli tutti, uno per uno, per chiedere loro di trattenersi ancora, di rimanere almeno un po’ a parlare, o ad occuparsi  di quelle pratiche rimaste sopra le scrivanie, e di stare nuovamente tutti assieme, insomma, per affrontare con solidarietà anche solamente le cose usuali di ogni giorno.
Invece la giornata lavorativa, quando poi si ritrova lungo la strada, cede immediatamente il passo a quella sua solitudine pesante, a quel suo sentirsi senza identità, lasciandola alla sua perenne incapacità di vivere per conto proprio, senza nessuno con cui confrontarsi. Non è tanto la monotonia che la spaventa, quanto il fatto di non avere realmente uno scopo in comune con gli altri, niente e nessuno di cui prendersi cura, per cui sentirsi almeno utile.
Si sente stringere il cuore quando sale  sull'autobus che la riporta verso il suo appartamento; gli altri passeggeri le paiono omogenei tra loro, a suo parere hanno tutti qualcosa di cui occuparsi: salgono, scendono, corrono verso uno scopo, e poi parlano tra loro, rispondono ai telefoni cellulari abbozzando grandi sorrisi, perseguendo relazioni sociali, apprezzamenti, piccole oppure enormi probabili soddisfazioni. Anche a questi qualche volta lei vorrebbe chiedere di tenerla con loro, di portarla magari chissà dove, da qualche parte qualsiasi, in luoghi forse dove riuscire a perdere persino la propria identità. Lei in quel caso non farebbe neppure delle domande, le basterebbe sentirsi completamente unita a tutti quanti, parte di un meccanismo capace di elaborare apprezzabili piccoli avvenimenti, mutuare modi di comportarsi utili a far nascere conoscenze, nuova cultura, magari delle amicizie, forse anche una grande solidarietà per gruppi più o meno estesi di persone.
Il suo non è minimamente egoismo, anche se pensa ogni cosa in prima persona; la sua malinconia non è legata ad un personalismo scontato; è consapevolezza dell’incapacità ad adattarsi in spazi insignificanti, in situazioni che non hanno sviluppi, senza futuro, che alla fine non conoscono mai confronti reali. Poi in mezzo a tutti i suoi pensieri rientra nella sua casa, scivolando lentamente nelle piccole stanze del suo appartamento: non ha senso così, pensa; la volontà di scrollarsi di dosso quel segno negativo che a volte le pare quasi un incubo, non riesce a farle fare purtroppo nessun passo autonomo. Più non vorrebbe, e maggiormente resta incollata ai soliti orari, ai medesimi comportamenti di sempre, addirittura agli stessi pensieri, le solite preoccupazioni che maturano dentro di lei, mentre invece tutto procede da qualche parte in un’altra maniera, probabilmente ad una velocità di molto superiore alla sua.
Lei ne è cosciente e ne soffre, paralizzata come si sente in ciò che in fondo è sempre stata, senza apprezzabili variazioni. Morirò un giorno avvizzita e da sola, immagina mentre prova l'abito da indossare il giorno seguente per andare al lavoro. Si osserva a lungo dentro lo specchio, non si piace, comunque si accetta: domani solleverò la sottana, pensa allora con serietà. Farò vedere a tutti le mia gambe, anche più su, in fondo non ho niente da perdere; qualcuno sarà pronto a sorridere, oppure addirittura a scandalizzarsi, ma io per un momento avrò qualcuno che mi considera, e finalmente ci sarà almeno uno di loro che forse si accorgerà della mia solitudine, e magari accetterà finalmente di trattenersi dopo il lavoro per qualche minuto. Non sarà un bel momento, lo so già fin da ora; però sono convinta di non avere nessuna diversa possibilità.


Bruno Magnolfi