venerdì 27 aprile 2012

Verso una dimensione dissimile.


            
            In silenzio, dentro una stanza vuota, aspetto. Lo so che forse non accadrà un bel niente, che oltre la porta chiusa c’è soltanto un’altra stanza vuota e altro silenzio, eppure resto in attesa degli eventi, come se qualcosa dovesse pur accadere, indipendentemente da tutto ciò che mi immagino, indifferentemente dalle mie convinzioni.  Poi sento nell’aria un leggero movimento, come se stesse accadendo davvero ciò che fin dall’inizio avevo addirittura escluso da ogni possibile sviluppo. Si apre una sottile crepa in ciò che pareva solido ed irremovibile, e si spande nell’aria una finissima polvere, quasi come se tutto si corrodesse, rilasciando un rimasuglio di usura causato dal tempo lunghissimo in cui le masse si sono caricate di grande energia, a riprova del fatto che ogni cosa, pur integra fino ad un attimo prima, è destinata a corrodersi.
            Certo, provo uno stato improvviso di meraviglia e paura, constato immediatamente che qualcosa di fondamentale sta avvenendo sotto ai miei occhi, sta scuotendo il mio involucro, quello che fino ad adesso sembrava un ottimo guscio protettivo, ed avverto il bisogno immediato di uscire da qui, di mettermi in salvo, di allontanarmi velocemente dall’epicentro di instabilità in cui mi sento coinvolto. Mi procura un brivido improvviso e profondo constatare di aver perso in un attimo l’equilibrio che dava solidità a questo mio stato, ma reagisco d’impulso, esco da questa stanza, mi getto fuori, affronto il destino, qualsiasi esso sia.
            Un’atmosfera arida accoglie il mio corpo, mi accorgo che devo sostituire parecchie convinzioni per riuscire ad accettare il nuovo che adesso mi sta circondando. Mi allontano lungo un viottolo sassoso ed anonimo, e avverto alle spalle il crollo di tutto ciò che ho appena lasciato. Incontro qualche persona, gruppi di gente che mi guarda con occhi spauriti, come se potessi rappresentare un pericolo; resto in silenzio, non ho necessità di chiedere niente, vado avanti cercando qualcosa di familiare a cui riferirmi, ma la mancanza di ogni confronto con ciò che conosco, mi porta a smettere di guardare, e a procedere oltre senza più indugi, nel buio del giorno che muore.

            Bruno Magnolfi      

mercoledì 25 aprile 2012

Lo studio della fiducia.


            

            Il signor Piero non si sentiva particolarmente a suo agio varcando la soglia dell’edificio che ospitava la biblioteca pubblica del suo quartiere, ed un sottile malessere generalizzato sembrava continuare a rendergli tutto un po’ più difficile di quanto gli era parso in un primo momento. Si era riproposto di cercare là dentro delle informazioni riguardo ad un personaggio piuttosto noto nella storia della cultura nazionale; suo figlio, nei giorni appena trascorsi, aveva portato avanti, secondo lui in maniera superficiale e svogliata, una ricerca scolastica intorno a quel letterato vissuto nel secolo precedente, e quella sera, una volta a casa, il signor Piero si era ripromesso di porgli delle domande in modo da appurare il suo grado di preparazione su quell’argomento. (...)

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            Bruno Magnolfi

venerdì 20 aprile 2012

(Profilo n. 19). Attualità.


            
            Certe volte giro per strada, incontro persone differenti tra loro, ma in genere a me paiono identiche, indifferenti ai pensieri che ho, quasi come se io non esistessi neanche. Altre volte avverto una specie di leggera ostilità da parte di tutti, della quale fortunatamente riesco a sentirmi distante, quasi come non mi riguardasse per nulla. Ma i momenti maggiormente importanti, a cui aspiro di più, durante i quali reputo che la mia mente si liberi da ogni legame e che i miei passi sui marciapiedi assumano davvero connotazioni importanti, è quando riesco a sentirmi completamente da solo e circondato dal niente, come se la realtà fosse una semplice stanza, un ambito vuoto con le quattro pareti dipinte di bianco.

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            Bruno Magnolfi   

giovedì 19 aprile 2012

Per un'eccezione (ritratto n. 4).


           

            Certe volte in paese qualcuno diceva che il figlio di Elvio stesse facendo una grande carriera nella metropoli del nord dove si era trasferito, ma da lui non arrivava mai una sola parola che avvalorasse quella voce, come se neppure ne fosse orgoglioso. Naturalmente nessuno osava mai chiedergli niente a questo proposito. Un saluto a tutti, diceva a voce bassa ma corposa, quando entrava nella sala del Caffè Centrale, ma erano quelle quasi le sole parole che da quell’uomo con le rughe sul viso e la barba bianca e curata, si potevano ascoltare là dentro. (...)

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            Bruno Magnolfi 

martedì 17 aprile 2012

La forma della realtà.


            
            Colmo di monotonia ero uscito da casa, ma fuori non c’era niente di diverso rispetto a qualsiasi altro giorno. Avevo girato a caso lungo le strade, poi mi ero accostato alla vetrina di un negozio di bigiotteria, ad osservare qualcosa che a dire la verità non mi interessava neppure. Gli oggetti esposti parevano addirittura incapaci di attrarre realmente l’attenzione di qualcuno, ma a ben guardare c’era una scatola mezza aperta, al cui interno si intravedeva qualcosa di curioso.
            Sembrava come se qualcuno si fosse dimenticato una cartaccia appallottolata dentro una confezione piuttosto elegante, della spazzatura infilata di forza in un involucro bello e curato, ed era stato evidenziato un prezzo piuttosto alto, forse a mostrare, quasi con ironia, la preziosità dell’oggetto. Forse era una dimenticanza, pensavo, forse una qualsiasi sbadataggine di chi aveva curato quella vetrina, ma tutto il resto appariva posizionato con attenzione, addirittura con metodo, tanto da far pensare, in ultima analisi, ad una provocazione nei confronti di chi si soffermava a guardare.
            Mi ero voltato, in fondo non mi interessava per niente quel tipo di esercizio, ma tutto quanto intorno, lungo la strada, mi era sembrato composto dalle solite sciocchezze, così ero tornato per un attimo ad osservare la scatola. Una commessa mi aveva notato mentre guardavo nella vetrina, e dall’interno del suo negozio aveva sorriso, come a sottolineare che era uno scherzo, qualcosa a cui non dare troppa importanza. Io, invece di contraccambiare il sorriso e disinteressarmi di quanto veduto, avevo proseguito ad appuntare lo sguardo, mi ero sistemato addirittura gli occhiali sul naso, e avevo mostrato quanto fossi interessato all’oggetto, tanto, forse, da prendere fortemente in considerazione l’idea di acquistarlo.
            Avevo spinto la porta vetrata, a quel punto, ed ero entrato dentro al negozio, con l’espressione del viso più seria che mi riusciva di avere. La commessa alla fine non era parsa neppure troppo sorpresa, ed alla mia richiesta aveva subito preso in mano la scatola, mi aveva fatto vedere il suo contenuto, e si era prodigata a spiegarmi che qualcuno aveva sottratto qualcosa, una grossa collana di vetro multicolore, senza che fosse stato possibile capire come ci fosse riuscito. Così era nata l’idea di lasciare comunque la confezione ed il prezzo nella vetrina, quasi una sfida nei confronti del ladro, e questo sembrava fosse diventato in pochi giorni un elemento di curiosità per parecchie persone.
            Decisi di acquistare la scatola vuota, o meglio piena di quella cartaccia, ed alle rimostranze della commessa, mi lasciai andare addirittura ad un’offerta di prezzo superiore a quanto era esposto. A quel punto la ragazza aveva messo insieme la confezione in piena serietà, appoggiato la scatola in un grande foglio di carta, e impacchettato con precisione tutto quanto, consegnandomi quell’acquisto perfetto. Tornai sui miei passi convinto di aver compiuto solo un’altra delle mie scelte assurde, e quando arrivai al giardinetto nei pressi della mia abitazione, senza farmi notare, appoggiai il pacchetto su una panchina dove non si era seduto nessuno. Mi allontanai con naturalezza, e appostato a diverse decine di metri coperto da qualche cespuglio, potei vedere, dopo appena dieci minuti, che qualcuno si era già incuriosito della mia scatola. In fondo era così quasi per tutte le cose, pensavo tra me rincasando; dentro ad una confezione pur accattivante, spesso non c’era nulla che avesse un vero valore.  

            Bruno Magnolfi

sabato 14 aprile 2012

Contesto metropolitano.



Ronny sottovoce aveva detto frettolosamente qualcosa a Ferdinand, qualcosa che Stephen non era riuscito a comprendere, percependo soltanto la leggerissima risata di quest’ultimo, ma tutto ciò gli era già sembrato sufficiente per sentire anche dentro di sé un pizzico di buon umore. Gli piaceva stare lì ad attendere il sonno, tutti e quattro coricati ognuno nella sua branda appoggiata ad una parete diversa, in quella stanza assurda che a volte pareva addirittura sufficientemente spaziosa. Dalla finestra arrivavano i rumori della strada, e questo lo faceva sentire vivo, immerso dentro alla città, dove le cose succedevano, e tutto assumeva importanza, come una grande macchina in movimento, un meccanismo a cui forse partecipavano addirittura loro quattro, durante tutto il giorno, ma che funzionava inevitabilmente anche di notte, mentre continuavano a dormire. 
Si sentiva bene, Stephen, a stare lì sdraiato ripensando alle ore del suo monotono lavoro, immaginarsi tutte quelle persone che generalmente incontrava per strada e che proseguivano a guardarlo, ma soltanto per un attimo, giusto forse per rendersi conto se da lui poteva arrivare una minaccia oppure no. Coglieva spesso, come un messaggio chiaro e incontrovertibile, il senso di estraneità che gli presentava quel mondo in cui comunque cercava con sforzo di rimanere immerso, e la differenza tra lui e tutto il resto, gli appariva spesso sempre più grande e irriducibile. Brian tra loro, era invece quello che sembrava più integrato: si addormentava subito quando si sistemava nel suo letto, sembrava non avere mai preoccupazioni, e al mattino si svegliava già con la voglia di uscire ed incontrare la città.
Stephen invece stava lì, una volta spenta la luce, ad ascoltare il respiro regolare dei suoi coabitanti, come fosse quello un elemento di conforto, quasi una protezione dal resto, e poi un’intimità che non trovava in nessun’altra parte della sua giornata, anche se lui aveva conosciuto gli altri solo da poco. Quei rumori della strada, ascoltati da dentro quella camera, sembravano sempre positivi, quasi porzioni di un mondo ostile ma che in qualche maniera stava salvando tutti e quattro, anche se in modi diversi, e a lui riservava un ruolo, un compito preciso, che gli sembrava serio ed importante, quasi un incoraggiamento a proseguire così.
Loro quattro non si vedevano mai fuori da lì, e in quella stanza dormitorio, l’unica che potevano permettersi, non parlavano quasi mai dei problemi di ciascuno: ognuno conservava per sé i propri guai e i propri pensieri; e così avevano semplicemente stabilito degli orari in cui coricarsi, o comunque mantenere il più possibile il silenzio, e tutti si attenevano a quella regola precisa. Il resto era lavoro e sofferenza, quasi sottrazione del pensiero riferito ad un futuro che non fosse appena la giornata che seguiva. Certe volte a Stephen pareva proprio che non ci fosse niente nella vita delle persone come erano loro, che avevano per abitare soltanto quella stanza, e non potevano permettersi neanche un amico, perché di ciascuno c’era da guardarsi, anche là dentro, e così era meglio parlare poco e fingere di avere solo da badare ai fatti propri. Eppure gli sembrava doveroso andare avanti, spingersi oltre quelle giornate insulse, quegli attimi privi di qualsiasi colore.
Così si era voltato di nuovo sotto alle sue semplici coperte, aveva ascoltato il respiro regolare della stanza e della strada, e si era sentito bene, ancora una volta, immaginando il sonno che stava giungendo su di lui, come fosse quello l’elemento principale per cui vivere.

Bruno Magnolfi

giovedì 12 aprile 2012

La scansione del tempo.


           
            Del primo quarto userei, per uno scopo certamente più definito di quello che appare inizialmente, le ultime parti dei gruppi da cinque minuti ciascuno, muovendo semplicemente il piede destro dall’undicesimo fino al decimo, dal sesto al quinto, aggiungendo, poi, soltanto l’ultima frazione, e arrivando così alla fine del tempo totale dopo aver preso in considerazione e scartato altre ulteriori possibilità. (...)
           
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            Bruno Magnolfi

mercoledì 11 aprile 2012

Caffè letterario.


           

            Non so bene per quale motivo io sia entrato in questo locale, forse soltanto per cercare di mettere in difficoltà la mia naturale avversione per i luoghi pubblici, gli ambienti spesso affollati di persone, molte delle quali, come per una regola non scritta, proseguono, specialmente in caffè come questi, a ridere e a parlare a voce alta, indifferenti all’importanza del silenzio ed al rispetto per l’individualità, a favore di un finto socializzare che si respira qui in ogni angolo. Probabilmente sono io che sbaglio, penso senza soffermarmi sui particolari, così mi siedo ad un tavolo libero e lascio che mi servano una birra chiara, mentre guardo attorno a me le facce e le espressioni dei presenti. Bevo un sorso dal bicchiere, osservo le luci dell’ambiente, le pareti adorne di manifesti pubblicitari d’epoca, il bancone del bar, bene in mostra, massiccio ed invitante, proprio come immagino dovrebbe essere. (...)
           
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            Bruno Magnolfi

lunedì 9 aprile 2012

La ricerca del niente.


            
            Gli ospiti si erano ritirati quasi tutti nelle proprie camere, naturalmente aiutati dal personale della casa di riposo a sistemarsi nel miglior modo possibile per passare bene la notte. Soltanto due vecchietti, sopra le loro sedie a rotelle, si erano attardati a dormicchiare nella sala della televisione, ma sicuramente non ne avevano per molto, e tra pochi minuti avrebbero anche loro fatto suonare il campanello per essere portati nelle loro stanze....
          
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            Bruno Magnolfi 

venerdì 6 aprile 2012

(Profilo n. 18). Vicino di casa.


            

            Osservo con calma, dalla finestra del mio appartamento di sole due stanze, il cortile condominiale un po’ angusto, circoscritto da queste abitazioni popolari, nella speranza che lui non ci sia; lui, il mio nemico, quel maledetto vicino che abita proprio là, di fronte a me, e perde molte delle sue giornate infastidendo tutti coloro che vivono qua nei dintorni, e inventando sempre qualcosa ai miei danni. Sono già quasi due anni che non lo saluto neppure quando ci incontriamo per strada o in queste vicinanze: dopo l’ultima litigata ho pensato che avrei dovuto convincermi che lui non esiste, ma non è facile ignorare una presenza ingombrante come la sua....
          
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            Bruno Magnolfi    

mercoledì 4 aprile 2012

Oltre il giudizio.


            
            Mi gira la testa, dice la donna mentre sta in piedi sulla grande terrazza all’ultimo piano di quel grande palazzo dove abita da quasi due anni. L’altra, vicino a lei, la osserva per qualche momento in silenzio; abita anch’essa in un appartamento di quel caseggiato, e loro due si incontrano lì, certe volte, durante qualche pomeriggio di sole, in quel grande spazio condominiale da dove si ammira una larga porzione della città, dove parlare diventa un esercizio estremamente piacevole, e i discorsi si fanno leggeri, scorrevoli, e forse, proprio per questo, spesso anche importanti. Lei si siede sulla vecchia panca di legno accosto al muretto, e si tiene per un momento la faccia dentro le mani, immobile, cercando di capire che cosa le stia succedendo. L’altra le tiene un braccio, come per darle un sostegno morale.
            Poi dice: ho il ciclo, in questi giorni, forse dipende da quello, e comunque, non preoccuparti, mi sta già passando. L’altra allora l’abbraccia con intensità, e le accarezza i capelli. Forse è la prima vera volta che si toccano in questa maniera, però non c’è niente di male, pensa la donna. Non è molto tempo che hanno iniziato a vedersi là sopra, a fumare una sigaretta nel debole vento, a parlare e lasciar scorrere mezz’ora e certe volte anche di più. Infine si alza, vorrebbe come scrollarsi di dosso qualsiasi malessere, ma l’altra va lentamente a sedersi sopra la panca dove era stata lei fino ad allora. Lei si volta, a due passi appena di distanza, la guarda, sente che è quasi un peccato rompere quella sospensione piena di pensieri che adesso si è creata, così resta ancora in silenzio.
            Vorrei che a te non succedesse mai niente di brutto; mi piacerebbe proteggerti, se solo potessi, dice l’altra distogliendo lo sguardo. In fondo questo piccolo spazio che ci siamo date è qualcosa che va ben oltre lo star qui a perdere soltanto del tempo. E’ vero, pensa lei restando con il fiato sospeso, senza trovare il coraggio per confermare le parole appena ascoltate. Se ci riflette, vorrebbe forse darle un segno della sua amicizia, dei suoi sentimenti di gratitudine, ma non le piacerebbe che venissero scambiati per altro, così cerca di assumere un atteggiamento leggermente distante, come se i loro comportamenti dovessero restare su un piano più impersonale.
            L’altra si alza, con lentezza, le va vicino, le sfiora una mano. Senti, dice lei con voce bassissima; non vorrei che tu maturassi delle aspettative nei miei confronti. Silenzio. Poi, quasi come uno sbaglio, sente una lacrima scenderle piano lungo una guancia; forse non vorrebbe sentire questa intensità, ma in fondo ci sono molte cose tra loro, inutile e assurdo negarlo, perciò sente tensione nell’aria, sa perfettamente che al punto in cui sono arrivate, una frase sbagliata potrebbe decidere del loro continuare o meno a vedersi così. Non sto bene, dice ancora; ma non so dirti quale sia il vero motivo. L’altra allora si gira, appoggiandosi al corrimano, a guardare la città che si muove e che pulsa. Dice: non preoccuparti di nulla, ti capisco, non dobbiamo neppure parlarne ulteriormente. Va bene in questa maniera, non dobbiamo cercare altre cose.
            C’è un’appendice alla loro intimità, dopo queste parole dettate dalla saggezza: ambedue indulgono nella loro posizione, restando a distanza così ravvicinata; poi si sfiorano il viso con il viso, le labbra con le labbra, e infine sorridono. No, non c’è niente di male nel pensare di volersi bene, niente che debba essere giudicato.

            Bruno Magnolfi

domenica 1 aprile 2012

Immotivatamente straniero (ripresa cinematografica n. 11).



            Giro per strada immaginando che da un attimo all’altro qualcuno si metta a gridare e a inveire contro di me. Però, osservo con attenzione tutto il marciapiede, e sinceramente mi pare che nessuno tra quelli che camminano di fronte ai miei passi, abbia questa intenzione, almeno per il momento. Sospetto comunque, peraltro senza esserne del tutto convinto, che qualcuno possa improvvisamente sentirsi esattamente colui che ha dei motivi fondati per dirmi qualcosa: rimproverarmi per quello che ho fatto, o soltanto pensato di fare, magari ieri o dieci anni fa; trovare assolutamente non adatto il mio semplice essere qui, in questo luogo; che possa lamentarsi, in modo vistoso ed energico, della mia faccia, delle mie espressioni, del mio comportamento. Non credo che esista un vero e proprio complotto ai miei danni, ma il mio spirito resta in fondata apprensione, gli elementi negativi sembrano quasi aleggiare nell’aria che ho intorno.
            Sono sicuro di non aver fatto niente di male, lo penso con convinzione, e continuo a ripetermi questa frase nella mia testa, mentre, sempre più preoccupato, proseguo a percorrere questa strada così ostile, piena di gente che forse vuole soltanto liberarsi di me, persino del mio semplice fatto di esistere. Però sono altrettanto certo che è solo un improvviso colpo di testa quello da cui eventualmente devo difendermi, e la cosa maggiormente antipatica, è che non so da chi possa giungere il gesto ostile, non posso sapere in anticipo da chi e da cosa mi debba proteggere. Non provo paura, sono disposto a lottare per conservare il mio stato: cammino, le mani dentro le tasche, su questa strada che ha larghi marciapiedi, e penso ci sia posto per tutti, secondo me non ha alcuna importanza se nessuno di coloro che la percorrono riconosce le mie peculiarità, le mie caratteristiche specifiche. Almeno mi basta continuare in questo modo, senza che venga ostacolato il mio passo, senza che mi senta assediato per la mia maniera di camminare, per la sola presenza di me che cerca di conservare il suo percorso sul lato di questa strada.
            Infine qualcuno mi chiama da dietro, mi volto lentamente, con preoccupazione, già prevenuto contro quello che avverto quasi come un naturale pericolo. Salve, mi dicono due addetti alla strada sicura; lei non è ben accetto in questo quartiere, deve spostarsi, andarsene da tutt’altra parte, la sua passeggiata rischia di essere una seria provocazione. Rimango per un attimo immobile, poi abbasso lo sguardo, faccio cenno di si con la testa, riconosco la loro autorità, le loro ragioni, quello che mi hanno comunicato. Però non so proprio cosa pensare, non mi aspettavo assolutamente una cosa del genere: avevo ragione intorno a ciò che avevo sospettato fino adesso, però avevo sbagliato la deduzione fondamentale: sono io il vero pericolo per gli altri, sono io quello non adatto a starsene qui, nessuno vuole minacciarmi o farmi del male, è sufficiente però che io sparisca, mi tolga dai piedi di questa gente che troneggia sul marciapiede.
            Gli addetti alla strada sicura proseguono a guardarmi per sincerarsi che io abbia capito, poi mi mettono una mano ciascuno su un braccio, e fanno cenno che saranno loro ad accompagnarmi. Mi lascio guidare, ormai non ho alcuna possibilità di far altro: proseguo nel tenere la testa chinata a evitare guai anche peggiori, e a guardare soltanto a dove metto i miei piedi. Mi fanno attraversare la strada, dicono qualcosa tra loro; infine, sottovoce, cerco di chiedere loro che cosa ho che non va, perché debbo andarmene, cosa fa di me una persona diversa dagli altri. Nessuna risposta, i due addetti guardano avanti e restano adesso perfettamente in silenzio: compiono semplicemente il loro dovere, penso, sto facendo delle domande alle persone sbagliate. Poi usciamo dai confini di zona, loro lasciano completamente la presa, per un attimo mi sento libero, poi mi volto, guardo la strada su cui siamo giunti, e mi accorgo che altre persone mi stanno osservando con severità: non finirà mai, penso, tanto vale adattarsi ad essere come son tutti.

            Bruno Magnolfi