giovedì 30 maggio 2013

Personalità sfuggenti.

            

            Lui era entrato dentro al negozio di giocattoli quasi con noncuranza: le mani dietro la schiena, il passo rallentato, la faccia di qualcuno che cerca soltanto di perdere del tempo; ci mancava soltanto che fischiettasse. La commessa dopo il buongiorno non aveva detto altro: ecco uno di questi fantasmi che vagano tra gli scaffali, aveva pensato; persone che poi spariscono per sempre, come se in seguito non ricordassero neppure di essere entrati per sbaglio qua dentro.
            Invece lui si era trattenuto a lungo, meravigliandola, concentrandosi per tutto il tempo sul reparto dei trenini elettrici, volgendo la testa ora da un lato e ora dall’altro, forse a sincerarsi, ammirato, di quello che realmente si trovava sotto ai suoi occhi. Si sarebbe detto quasi timoroso che qualche altro cliente si fosse potuto trovare là dentro, ma invece c’era soltanto la commessa con lui, che più per curiosità che per interesse professionale continuava ad osservarlo ogni tanto, ma sbadatamente, in realtà proseguendo a concentrarsi su certi elenchi cartacei di una serie di articoli. Lei inizialmente gli aveva anche detto qualcosa, in fondo una semplice parola interlocutoria tanto per mostrare con maggiore chiarezza la sua presenza e il suo ruolo, ma quello non l’aveva quasi per niente considerata, proprio come se, trovato ciò che maggiormente gli interessava, tutto il resto quasi meritasse soltanto di scomparire, almeno ai suoi occhi.
            Si vede che è un intenditore, aveva pensato la commessa; non un semplice curioso, o un perditempo che ama gingillarsi oziosamente nell’osservazione apparentemente attenta di qualcosa che neppur lontanamente si sognerebbe mai di possedere. Dentro al negozio intanto continuava a non esserci altre persone che loro due, ma alla commessa non interessava affatto se quell’uomo proseguiva a perdersi dietro le sue contemplazioni, anzi, forse in qualche modo quella presenza giustificava il suo ruolo, e probabilmente poteva incoraggiare qualche ulteriore cliente ad entrare a sua volta, perciò tutto andava bene, pensava, lei non intravedeva il minimo problema.
            Ovviamente si era accorta dell’ammirazione con cui quell’uomo, piuttosto elegante nel vestiario e nei modi, aveva continuato ad osservare quel Tenderlok Rivarossi degli anni ‘40, un prodotto eccellente sotto qualsiasi punto di vista, uno dei pezzi maggiormente di pregio, almeno per tutti coloro che se ne intendevano. E si aspettava naturalmente che da un momento all’altro lui le chiedesse qualche ulteriore notizia tecnica su quel modello, se non addirittura il prezzo finale; ma incomprensibilmente, dopo dieci minuti almeno di stazionamento davanti a quel modellino, si era spostato quasi con indifferenza verso lo scaffale dei peluches, ed adesso pareva osservasse gli orsacchiotti allineati là sopra con lo stesso preciso interesse manifestato poco prima per i trenini elettrici: un comportamento assurdo, incomprensibile, in contrasto completo con l’idea che lei si era fatta di questo bel tipo.
            Purtroppo, anche ad osservarlo con maggiore attenzione, non c’era alcun dubbio, pensava sgomenta la commessa: questo signore è soltanto un mezzo svitato, uno di quei personaggi che tra breve probabilmente non ricorderà neppure qualcosa di tutto ciò che si è dato la briga di vedere, e tranquillamente se ne andrà da qua dentro lasciando nell’aria una buonasera priva di qualsiasi personalità. Facilmente andrà a vagare anche in altri negozi, e proseguirà a trascorrere la sua giornata in questo modo insensato, praticamente passando il tempo senza rendersi conto di niente. Così avvenne difatti, ma soltanto diversi minuti più tardi la commessa volle dare uno sguardo nel reparto dei trenini elettrici, quasi a riguardare la zona di cui era maggiormente orgogliosa; e ciò fu sufficiente per accorgersi che là sopra il Tenderlok del ’40, ormai, non c’era più.


            Bruno Magnolfi

martedì 28 maggio 2013

Tutto dietro le spalle.

            
            Attendevo qualcosa o qualcuno che adesso neppure ricordo, così cercavo la posizione migliore per non mostrarmi agli altri che passavano da quelle parti come un nullafacente, un vagabondo, uno scansafatiche. Mi ero appoggiato ad un muro, inizialmente, e avevo lasciato sprofondare le mani dentro le tasche, con il fare di chi si disinteressa del mondo, quasi senza impiegare un solo muscolo in quella posizione, ma in seguito mi ero mosso lungo diversi metri quadrati di quello stesso marciapiede, al bordo di un viale cittadino alquanto trafficato, evidenziando con la mia andatura un leggero nervosismo, ma giusto per darmi importanza.
            Non mi sentivo a mio agio, questa è la verità, però non avrei voluto per nessuna ragione mostrare preoccupazione attraverso il mio comportamento. Immaginavo una bionda che trovandosi a passare in quella zona fischiasse con la bocca per attrarre la mia attenzione, l’espressione del viso sorridente e incoraggiante, colpita dal mio portamento o forse dall’aspetto generale della mia persona. Cercavo di immaginare che cosa potesse davvero aver apprezzato quella donna dal suo punto di osservazione, e mi veniva da ridere per quel minimo di timidezza che ancora mi era rimasta, così avrei abbassato lo sguardo in quel caso, senza dar seguito al suo gesto.
            Mi muovevo ancora, un piede avanti all’altro, allargavo un po’ il giro, e allungavo la traiettoria fino all’angolo di quel caseggiato, osservavo qualcosa lungo la strada che si apriva oltre quel punto, e poi tornavo indietro, per più di una volta, fino a riprendere il medesimo posto di prima. Avrei potuto fermare qualche passante, pensavo; chiedergli l’ora, ad esempio, oppure l’indicazione per arrivare da qualche parte, una piazza, un locale di quel quartiere. Ma assurdamente in quel momento non ricordavo più neppure il motivo che mi aveva spinto in quel tratto di via, che cosa stessi aspettando e perché, e infine non avrei saputo neppure verso dove dirigermi.
            Immaginavo allora un appuntamento galante, una persona conosciuta da poco tempo che avesse promesso di passare a prendermi con la sua auto nuova, proprio in quel punto, e farmi fare un bel giro lungo tutti i viali della città. Certo non avrei dovuto farmi trovare indispettito per il leggero ritardo, oppure in attesa rancorosa per quel suo arrivo poco puntuale, però provavo la sensazione adesso di essere stato trattato con sufficienza, come per onorare un impegno ormai preso, da rispettare prima di tutto, che non era assolutamente possibile revocare una volta giunti a quel punto. Eppure ricordavo perfettamente, o forse mi pareva soltanto di ricordare, l’insistenza con cui ero stato invitato, e il corteggiamento che mi era stato rivolto per quell’incontro.
            Così, perse ormai le speranze, stavo quasi pensando di arrivare al bar d’angolo, farmi dare qualche moneta dal cameriere e telefonare dall’apparecchio pubblico per prenotare un taxi, una vettura che in capo a pochi minuti mi portasse via da quel luogo e da quella situazione spiacevole. Si, non c’era proprio nient’altro da fare, anche se mi sentivo dolente per quell’alzata di orgoglio, per quel mio mostrare carattere e personalità forse in misura maggiore del necessario, dovevo fare così. Mi ero spostato di poco osservandomi attorno e cercando la forza per compiere quanto avevo pensato, ma in quell’attimo ecco che arrivava il mio autobus, quello che aveva il potere di trasbordarmi fino dalle parti dove abitavo, perciò salivo su, libero, alleggerito da ogni preoccupazione, lasciando alle spalle ogni altra cosa.


            Bruno Magnolfi 

lunedì 20 maggio 2013

La fine del tempo.


            

            Sto fermo, soltanto mi piego per un attimo leggermente in avanti, ad osservare le mie scarpe con le stringhe ben allacciate, ed il pavimento intorno, che noto di un colore verdastro, praticamente indefinibile; poi torno a posizionarmi nella mia normale posizione eretta, in piedi, immobile, con le mani dietro la schiena, solo, dentro a questa spoglia sala d’attesa, dove non trovo nulla da fare per riuscire a riempire in qualche maniera questo tempo che non serve a nulla, praticamente un vuoto assoluto, uno spazio da neutralizzare alla svelta per poi dimenticarsene in fretta.
            Arriva una ragazza, dice buongiorno, si siede subito su una delle poltroncine in fila lungo la parete maggiore. Insignificante, rifletto; non scambierò neppure una sola parola con una persona del genere, penso guardando qualcosa nel vuoto. In fondo perché mai dovrei parlare con una persona che neppure conosco, con la quale non ho sicuramente niente in comune, se non ritrovarmi a dividere con lei questa breve fase temporale tutta soltanto da stringere, da appiattire, da annullare nella maniera più indolore possibile.
            Le sorrido guardandola un attimo, i pensieri nella mia mente sembrano quasi battute di spirito; sorride anche lei, la ragazza, ma soltanto per mostrare una stupida condivisione con questa situazione insensata, poi chiede: è molto che attende? Mezz’ora, rispondo alla svelta senza espressione. Torno a guardare qualcosa sul pavimento, anch’io adesso mi sono seduto su una delle poltroncine, di fianco ma a rispettosa distanza da quella ragazza, anche se non c’è niente da guardare su questo pavimento, e meno che mai sulle pareti, niente che valga la pena anche solo di pensare qualcosa che possa in qualche maniera provare a riempire un luogo del genere.
            All’improvviso però rifletto con calma maggiore, e immagino la ragazza completamente indifferente a qualsiasi stimolo fuori dai suoi comportamenti abituali: una persona fredda nei confronti di chiunque non rientri nella sua cerchia degli individui preferiti da lei, pronta a parlare con chiunque delle cose più stupide e superficiali proprio per non parlare di niente, per mostrare la sua distanza da tutti. Forse dovrei impegnare le mie risorse per mostrarmi il più possibile simile alla gente che lei frequenta abitualmente, penso senza convinzione, forse potrei addirittura riuscirci; ma cosa importa in fondo tutto questo: tra un attimo probabilmente sarà il mio turno, rifletto rassicurandomi, potrei uscire completamente in un attimo da questo vago imbarazzo, niente di questa stanza e di questa presenza in seguito mi tornerà mai più a mente, in qualsiasi caso, e uscirò di colpo e per sempre da questa assurda perplessità.
            Ascolto il silenzio venato da una sottilissima vibrazione elettrica: forse la ragazza sta cercando le parole per dirmi qualcosa, qualcosa di ordinario di cui si usa parlare in casi come questi. Forse sta pensando di chiedere come mi chiami, oppure quanti anni abbia, o ancora il motivo che mi ha spinto fin qui in una giornata qualsiasi di un maggio piovoso. Provo terrore nell’immaginarmi le cose che potrebbe dire, così penso di spiegarle qualcosa che la lasci sgomenta, impossibilitata persino ad esprimersi. Passa ancora qualche minuto nel silenzio vibrante: sento la fronte sudata, questo vuoto apparente in realtà risulta pieno di cose superiori alla capacità di contenimento.
            Mi alzo, guardo con severità la ragazza, prendo aria per dirle qualcosa che probabilmente non dimenticherà per un pezzo, lei mi guarda nell’attesa delle mie parole, ma nello stesso momento sento il mio nome nell’aria: è il mio turno, penso, devo entrare nell’altra stanza, tocca proprio a me. Il tempo dell’attesa è finito, rifletto con gioia: buongiorno, dico allora con enfasi alla ragazza; mi dispiace, sarà per una prossima volta. 

            Bruno Magnolfi

mercoledì 15 maggio 2013

Delusione.


            
            Mi sono fermato a guardare il miracolo di uno stecco piantato a terra mentre lasciava germogliare da se stesso foglie e fiori. Poi ho osservato il cielo in alto, ed ho intuito che sarebbe venuto a piovere di lì a poco, così sono andato a ripararmi sotto ad una pensilina dove già stavano altre persone. Un uomo mi ha guardato con indifferenza, le sue mani parlavano di lavoro, di necessità di fare, di utilità nei confronti degli altri, ed ho avuto invidia di lui, così proteso verso qualcosa sicuramente di importante, lo stringere a sé un compito che senz’altro ne innalzava l’esistenza. Allora, visto che la pioggia non si decideva ancora a cadere, mi sono spostato da quel luogo ed ho iniziato a camminare tra la gente della strada, girando attorno alla piazza antistante, anche per riflettere meglio su questi aspetti, ed entrando alla fine dentro un caffè, giusto per incontrare qualcuno, una donna, che probabilmente era già ad un tavolo ad attendermi.
            Ci siamo salutati, e per un po’ siamo rimasti seduti soltanto a guardarci e a sorridere, davanti a noi qualcosa da bere a piccoli sorsi, e tra i desideri probabilmente migliaia di momenti simili a quello, pur con la consapevolezza che non si sarebbero mai verificati. Certe volte sono perplessa, diceva lei: mi occupo di qualcosa rispondendo semplicemente a degli automatismi, ma sempre più spesso da qualche tempo mi trovo a criticare questo mio comportamento. Così mi prendono i dubbi, e alla fine non so mai di che cosa sia meglio interessarsi, e di cosa invece sia meglio non preoccuparsi affatto.
            Io continuavo ad ascoltare quelle sue parole, e comprendevo perfettamente quale potesse essere il problema che la stava assillando. Non so, le dicevo, però credo che per sopravvivere si debba essere maggiormente ottimisti; e forse semplicemente evitare tutto ciò che non ci procura almeno un minimo entusiasmo. Poi restavamo in silenzio, senza altre parole a cui affidarsi. E Infine ci salutavamo sulla soglia del locale, lei se ne andava dalla parte opposta di quella dove dovevo andare io, e così tornavo a passi lenti verso la pensilina sotto alla quale c’erano ancora molte persone. All’improvviso iniziava a piovere, dapprima senza impegno, in seguito con maggiore intensità. Attendevo senza fretta cercando con gli occhi l’uomo che avevo notato in precedenza, ma adesso c’era soltanto una gran confusione di gente che cercava soltanto un riparo, e nessuno, tra tutti coloro a cui mi sfioravo, che avrei veramente voluto vedere.
            La pioggia si calmava alla fine, ed io prendevo la strada verso casa, ma sopra un marciapiede incontravo di nuovo l’uomo che avevo visto poco prima: adesso però sembrava serio, quasi corrucciato; fermo, guardava qualcosa dalla parte opposta della strada, come forse avrei potuto fare io stesso, ma probabilmente in assenza ormai di quello spirito positivo che pareva emanasse dalla sua persona fino a poco fa, e come se ogni buona impressione che avevo avuto di lui, si fosse in quel momento del tutto dileguata. Gli andavo vicino, allora, lo salutavo sorridendo, gli stringevo la mano senza neppure dargli una spiegazione del mio gesto, forse solo dettato dal bisogno di far nascere di nuovo in mezzo alla sua faccia quell’espressione da cui ero rimasto così colpito in precedenza. E infine me ne andavo, deluso, come sempre.

            Bruno Magnolfi

domenica 12 maggio 2013

Due calci.


            

            Il primo calcio Enrico lo aveva sferrato nel buio con tutta la forza che aveva, senza neppure pensare alle possibili conseguenze del suo gesto, ma quasi d’istinto, forse per allontanare il più possibile da sé quella minaccia, come per una sorta di spontanea autodifesa, immediata, semplicemente naturale. L’altro, pur piegandosi in due dal dolore al basso ventre, aveva proseguito a brandire il coltello dentro la mano, come fosse l’ultimo elemento a cui affidare la sua persona e i suoi gesti, quasi una sorta di finale possibilità per essere ancora se stesso. Si era appoggiato a terra con l’altra mano, forse imprecando qualcosa di incomprensibile o piangendo per il dolore, ed Enrico aveva immediatamente fatto uno scatto in avanti, giusto per ritrovarsi alla fine del vicolo buio da cui stava passando, e sfuggire il più velocemente possibile alla morsa di quell’agguato assurdo di cui non sapeva neanche darsi una spiegazione, se non ci fosse stata quella sua borsa per documenti, piena di cartacce in realtà, però vistosa, quasi elegante.
            Si era subito vergognato del suo gesto poco maschile: colpire in quella maniera la persona che lo aveva minacciato non era da lui, e così aveva percorso quei pochi metri per uscire dalla zona più pericolosa per poi voltarsi indietro, quasi a rendersi meglio conto di ciò che effettivamente era accaduto. L’altro si era già rialzato, adesso sembrava volesse guardarlo pur proseguendo a respirare con grande affanno, e forse conservando nell’espressione una specie di prolungamento dei suoi modi aggressivi, anche se in realtà faceva più pena che altro. Enrico si era fermato, probabilmente volendo chiedergli qualcosa magari usando un modo sprezzante: che cosa avesse creduto di fare in quella maniera, per esempio; ma non gli era venuto in mente che il suo comportamento potesse sembrare soltanto un modo per umiliare l’avversario e cercare di stravincere.
            L’altro, ancora piegato in avanti, con difficoltà aveva fatto semplicemente un passo o due, infine aveva gettato a terra il coltello, quasi in senso di resa, come volesse mostrare che era pienamente consapevole della sua stupidaggine. Enrico aveva proseguito a guardarlo, si era meglio reso conto della sua giovane età, dell’aspetto malmesso, immaginando lo stato di miseria in cui versava la sua situazione. Avrebbe voluto fare qualcosa piuttosto che andarsene via come dettava una norma di prudenza, ma non era facile, non voleva neppure essere male interpretato, e comunque non gli sembrava il caso di correre a quel punto altri rischi. Così aveva proseguito a restare immobile, forse sperando semplicemente che qualcun altro passasse da lì.
            Alla fine si era mosso leggermente verso il ragazzo che adesso pareva stringersi dentro le spalle, come se un attacco di febbre lo avesse portato a provare dei brividi di freddo; gli aveva chiesto davvero che cosa avesse creduto di fare, poi, a scanso di equivoci, gli aveva chiarito che non aveva soldi o preziosi con sé, che quell’aggressione era un assurdità. Mentre parlava però gli montava la rabbia, come una semplice reazione al pericolo, e quasi per scandire bene le sue parole, si era avvicinato ancora a quell’altro, fino a ritrovarsi ad una distanza solo di un paio di metri. Il ragazzo stava ancora in silenzio, il coltello distante, lo sguardo basso, quasi come a provare vergogna.
            Era stato allora che Enrico gli aveva assestato il secondo calcio, piazzandolo con tutte le forze che aveva, e stavolta non più per paura o per allontanare un pericolo, ma per puro disprezzo, quasi un colpire con il peggio di sé quello che all’improvviso gli pareva inaccettabile, lontano, distante dai suoi modi e dalla sua vita. Il ragazzo era subito caduto a terra, si era rotolato su di sé dal dolore, neppure tentando una reazione, non accorgendosi neppure che il suo avversario era già uscito dal suo campo visivo. Aveva soltanto sentito qualcuno ridere, ormai in lontananza.

            Bruno Magnolfi

martedì 7 maggio 2013

Appassionatamente velista.


            
            Dentro di me non c’è niente, inutile illudersi. Fingo interesse, ma lascio che tutto si muova senza il mio aiuto. Gli oggetti che adopro un giorno o l’altro si sciuperanno, penso, stupido sarà appellarsi a delle abitudini. Poi giro per strada, entro in caffè pieni di gente, mi guardo attorno, sorrido, sorseggio con calma un aperitivo.
            Al lavoro i colleghi mi parlano, spiegano cosa gli passa dentro la testa, dicono come hanno trascorso il loro tempo libero, o che cos’hanno creduto di fare quando hanno fatto qualcosa. Spiegano come si comporteranno la prossima volta che avranno altro tempo da spendere per sentirsi migliori, trovare delle forme per dimenticare la vita ordinaria, o almeno per accantonarla, e certe volte ridono già, quasi divertendosi soltanto alle idee che riescono a mettere assieme. Anch’io sorrido con loro, sorseggio il mio aperitivo e annuisco, pur conscio di non avere il medesimo spirito di quelli che parlano. Vorrei anche io occuparmi di qualcosa che magari sia anche di moda, penso ancora; una barca ad esempio, ed impegnarmi a fondo nella sua manutenzione, interessarmi di tutto ciò che ne riguarda il suo uso, fino a parlarne in giro con tutti, spiegarne i dettagli, le mie preoccupazioni, quasi continuamente.
            Qualcuno mi guarda dentro al caffè, ognuno sorseggia con tranquillità il proprio aperitivo, tutti sorridono, fingono. Un giorno di questi andrò via con la mia barca, penso; osserverò le scotte che si consumano, le bitte già logore, l’opera viva coperta di vegetazione, e scambierò tutto questo con la mia stessa esistenza, come non ci fosse alcuna diversità. Mi sento ancora vuoto di tutto, ma credo che la cosa migliore sia quella di fingere un interesse concreto, qualcosa per cui perdere veramente la testa, trovare la strada che riesca a tenermi in piedi almeno nei confronti degli altri.
            Tornerò a bazzicare i caffè subito dopo, meravigliandomi della loro frequentazione così assidua da parte di tutti, e mi guarderò ancora in giro, a scandagliare le facce e le espressioni di quei tanti clienti, mentre sorseggiano aperitivi e sorridono, come ci fosse ancora la possibilità di sentirsi sollevati nell’avere attorno la gente, e così forse mi sentirò come tutti, con la propria barca di cui parlare, il sartiame da cambiare, forse un gioco di vele da revisionare. E’ importante sentirsi parte di un intero sistema, sapere che le stesse parole che puoi adoperare sono le medesime che usano tutti, e che ci sono argomenti che ti collegano, ed se anche dentro di te permane il senso di vuoto, almeno puoi fingere che il tuo problema finalmente è stato brillantemente risolto.
            Alla fine mediterò a lungo tutti quanti questi pensieri, cercherò naturalmente di prendere tempo, e poi riprenderò ad infilarmi dentro ai locali dove ancora si parli preferibilmente di barche, dicendo la mia con naturalezza, lamentandomi di questi skippers di oggi che non sono certo neppure somiglianti a quelli di una volta, ma poi proseguirò a sorseggiare l’aperitivo e a sorridere, proprio come gli altri, perché oggi è così che si fa, lo sanno tutti.

            Bruno Magnolfi

domenica 5 maggio 2013

L'uomo dal berretto di lana.


            
            Elisa non aveva neppure osservato la strada davanti a sé, neanche aveva concesso un’occhiata al condominio dove aveva abitato in quegli ultimi tre anni: semplicemente era salita sulla sua automobile e ne aveva avviato il motore; poi era partita. Facile andar via, pensava, quasi sorridendo tra sé; anche senza una destinazione precisa. Qualcuno le aveva detto che in fondo non era così facile, ma a lei, che da un po’ di tempo gli avvenimenti apparivano estranei quasi fosse diventata insensibile, tutte le cose adesso pareva scorressero per conto proprio, in autonomia. Le complicazioni a seguito ci sarebbero state, era evidente, ma questo non aveva alcuna importanza: ormai era avvenuto il passaggio principale, lei adesso non si sentiva più la stessa di sempre.
            La vettura di Elisa, quasi in sintonia con i suoi pensieri, ronzava tranquilla, la direzione imboccata la spingeva verso la costa, sul mare, e una volta da quelle parti avrebbe deciso senza fretta il da farsi. In tasca aveva una riserva di soldi, alle spalle il rapporto con una persona tutta da dimenticare. Ma non era questo il motivo della sua fuga. Anzi, la sua non era neppure una fuga, bensì un semplice allontanarsi, prendere una pausa dalla vita di sempre, andare a vedere e a respirare qualcosa di diverso.
            Immaginava un gruppo di balordi scappati fuori da una baracca di legno lungo la spiaggia. L’avrebbero rincorsa, fatta cadere sulla sabbia calda e poi violentata, una volta strappati con rabbia i vestiti da dosso. Elisa sorrideva, non aveva paura di retaggi del genere, le persone non sono nate cattive, pensava, ci sono delle condizioni che le fanno diventare così, ma lei si sentiva tranquilla, avrebbe vigilato con molta attenzione sulla sua solitudine, in quel suo dormire di notte dentro quella automobile circondata soltanto da cose essenziali.
            Ecco, forse era proprio questo il tema principale di tutto: avere con sé soltanto lo stretto necessario, tornare a sentire attraverso la pelle il caldo ed il freddo del giorno, il vento, gli odori, respirare l’aria libera, decidere qualcosa senza alcun obbligo. Forse anche correre qualche pericolo, ma anche questo faceva parte del gioco, non era evitabile. A tratti, guardando l’asfalto davanti a sé,  ad Elisa le pareva di vivere l’America di qualche decennio più indietro, ma era chiaro come non fosse questa la cosa importante: non c’era nessuno a cui volesse neppure minimamente assomigliare, cercava qualcosa di se stessa, ritrovare una persona che col tempo forse si era assopita, nient’altro.
            Per prima cosa tolse le scarpe e mise i piedi nudi nell’acqua, poi camminò a lungo da sola sulla sabbia scura e levigata del bagnasciuga. Non c’era nessuno in quel tratto di costa, ma quando arrivò l’uomo dal berretto di lana, a lei parve che tutta la spiaggia fosse piena di gente. Lui disse qualcosa, lei gli rispose, infine si avviarono insieme, verso qualcosa che probabilmente non era chiaro a nessuno dei due, ma che in quel momento pareva quasi avere la precedenza su tutto.

            Bruno Magnolfi

mercoledì 1 maggio 2013

Memoria del niente.


            
            Quasi ogni giorno vengo qui, ad osservare questo pezzo di terra dopo le ultime case del mio paese. Non c’è niente di particolare qui: gli alberi rimangono in fondo, dove inizia il bosco, il muretto di pietre costeggia la strada da dove non passa nessuno; e questo campo incolto, abbandonato da chissà quanti decenni, dove qualche volta un pastore della zona spinge una ventina di pecore a brucare l’erba, mostra soltanto la pace e la calma del niente.
            Torno indietro, rientro in paese, saluto qualcuno, raggiungo la piccola piazza ed entro dentro al caffè, a perdere un po’ di tempo e bere una birra. Qualcuno mi ha detto che è stato acquistato quel pezzo di terra, gente che non si conosce, un altro si chiede chissà cosa faranno. E’ solo un pezzo di terra, dico alle persone che conosco di più, non si può farne molte cose, forse costruirci un capannone, oppure villette a schiera, o farci una serra per coltivazioni intensive.
            Così tutti i giorni torno a vedere se qualcosa è accaduto, se siano arrivate le ruspe, le gru, gli operai, a cambiare l’immagine di tutta la zona. Non me ne importa moltissimo, non si può essere nostalgici di tutto, addirittura per quello che non è ancora accaduto, ma in ogni caso mi pare quasi ci sia qualcosa di me in quel pezzo di terra, e vorrei tanto non gli succedesse niente di brutto.
            Mi siedo sopra una pietra, aspetto qualcosa, come se le mie stesse giornate dipendessero soltanto da quanto forse è già stato deciso. Le ortiche e i papaveri continuano a crescere su quel pezzo di terra, ed io mi sento con loro, con quella maniera casuale e distaccata che hanno le piante spontanee di uscire fuori da una parte o dall’altra. Poi, qualcuno che sa, mi tocca una spalla, mi dice che non accadrà proprio un bel niente, nessuno ha intenzione di fare nulla in quel luogo, se non lasciare le cose così come stanno.
            Mi sento quasi deluso, torno al caffè, sulla piazza, saluto qualcuno e mi faccio servire una birra: siete soltanto paurosi, dico a tutti i presenti; non sapete affrontare le cose. Vi basta non mettervi mai in discussione, o che qualcuno non venga a togliervi le vostre abitudini. Io sono pronto, al contrario di voi, ad ogni variazione possibile. Perciò cerco di conservare un atteggiamento vigile e critico, che non significa semplicemente far niente, bensì un comportamento che tenga conto di quanto possa accadere, se mai accadrà, e di guardare le cose col valore che hanno nel tempo, perché tutto è destinato a cambiare, questo caffè, questo paese, noi e le nostre stesse espressioni.
            Poi bevo un sorso della mia birra, gli altri mormorano qualcosa senza rispondere niente. Per questo dobbiamo avere memoria, riprendo; ricordarci perfettamente di quanto è accaduto ieri ed il giorno prima, perché niente, una di queste volte, sarà ancora com’è sempre stato, e noi ci abitueremo alla svelta ai nuovi modi, ai cambiamenti avvenuti, e saremo diversi, per forza, senza neppure riuscire a rammentarci da dove tutto questo in un giorno qualsiasi è potuto uscir fuori.

            Bruno Magnolfi