martedì 31 dicembre 2019

Incertezze permanenti.


          

            Non saprei. Difficile scegliere qualcosa se non sei abituato. Così resto perplesso, e ogni giorno vado avanti soltanto per abitudini, mantenendo una stretta monotonia nei comportamenti, generalmente disinteressandomi di tutto quello che non conosco, e frequentando sempre le medesime persone. Ho un fratello che vive con la sua famiglia poco lontano dalle mie due stanze scalcinate in affitto, così una volta o due alla settimana vado da lui a pranzo o all’ora di cena, per mangiare con loro qualcosa di buono che in genere prepara sua moglie, perché normalmente, da solo come sono, non mi va di cucinare a casa mia, mettere in mezzo pentole e piatti, scegliere ingredienti e tutto quello che serve; preferisco acquistare un paio di panini imbottiti o dei tranci di pizza ad un bar poco lontano, e mangiarmi quelli davanti al televisore in funzione.
            Mio fratello mi impone di cambiarmi i vestiti per andare da lui: mettermi una camicia pulita dopo aver fatto una doccia e cose del genere, perché sa che per me torna facile lasciarmi un po’ andare, ed un paio di volte che mi sono presentato con l’alito di vino ed i vestiti un po’ trasandati, non ha avuto tentennamenti nel mandarmi via, senza neanche aggiungere troppe parole, perché forse non c’era proprio bisogno di spiegare un bel niente. Lo so che mi vuole bene, e vorrebbe che me ne volessi anche io, che mi curassi di più, che mi dessi un contegno; però da qualche anno io ho perso la fiducia nelle mie capacità, e così lascio spesso che tutto rotoli in avanti senza preoccuparmi di niente. Certe volte lui mi mette dentro una tasca anche qualche soldo, ma di nascosto a sua moglie, che al contrario mal mi sopporta e non vorrebbe che lui facesse così.  
            Ho un furgoncino a tre ruote, e con quello giro al mattino per tutte le zone dove fanno i mercati, recuperando tutti i pianali di legno che trovo, e quando faccio il pieno li porto in un posto poco lontano dove mi pagano sempre qualcosa, specialmente se la merce che scarico è ancora in uno stato accettabile. Tiro avanti in questa maniera, anche se non può durare in eterno questo modo di sopravvivere, e certe volte chiedo a qualcuno se abbia bisogno per caso di un lavoratore, anche se fare domande del genere mi costa moltissimo. Vorrei non pensare, per questo certe volte nella solita bettola alzo un po’ il gomito, perché così mi si annebbiano le idee e tutto sembra procedere per il verso giusto, tanto che anche la mia tristezza congenita in quelle serate scompare. Poi mi dispiace, perché dopo è anche peggio di prima, e penso a mio fratello che non vorrebbe mai vedermi così.
            Nel quartiere mi conoscono tutti, ma a parte qualcuno che si ferma qualche volta a parlare con me, il resto della gente si limita a salutarmi senza concedermi mai una gran confidenza, forse perché ho un aspetto un po’ minaccioso, penso io; o forse perché hanno pena di uno come me, che si trascina in questa maniera senza mai decidersi a niente. Già, perché in fondo il mio problema è proprio questo: decidere. Magari di andarmene via, imbarcarmi sopra una nave mercantile o andarmene all’estero; oppure di restare, ma cambiando vita, e forse accettare un aiuto concreto e sostanzioso da mio fratello, come certe volte mi ha ventilato, ed impegnarmi seriamente in qualcosa che mi possa davvero aprire il futuro. Però non è facile, e certe volte alla sera, quando mi basta sdraiarmi sul letto rigirandomi alla meglio in una coperta ancora vestito come mi trovo, per non dover fare i conti con le lenzuola e tutte le altre cose, mi ritrovo a chiudere gli occhi e a dormire soltanto per qualche minuto, perché poi inizio a pensare, e questi pensieri mi danno il tormento, paiono un’ossessione, proprio come qualcosa da cui vorrei in tutti i modi sfuggire; e l’angoscia qualche volta mi prende e mi porta lontano, fin dove finalmente non ho più bisogno di decidere, o di mettermi in ghingheri per stare con gli altri.   

            Bruno Magnolfi

domenica 29 dicembre 2019

Vuoto.


          

            Ridono, quando sono insieme. Gli altri per esempio hanno sempre un'immancabile birra con cui gingillarsi, ma loro due no, a loro sembra che basti poter stare all'aria aperta e scambiare le riflessioni più sconclusionate che riescono a tirar fuori quando si ritrovano. Li guardano ogni tanto, ma in fondo tutti nel gruppo si sonno abituati al loro comportamento: inizialmente sembrava ironia quella che mettevano assieme con i loro modi, poi tutti quanti si sono lasciati convincere che loro due sono proprio fatti così, differenti dagli altri, vicini ai ragazzi certe volte, ma in tutte le altre occasioni lontanissimi da tutti. Qualcuno non comprende neppure il perché si facciano vedere quasi ogni giorno al loro solito posto di ritrovo, anche se spesso arrivano insieme, come qualche altra volta se ne vanno via insieme. Ma poi all’improvviso uno dei due non si è più fatto vedere. L’altro si, ma restando sempre ai margini della comitiva.
            Difficile stabilire che cosa sia potuto accadere, anche perché a nessuno sembra interessare anche soltanto parlarne. Perché questo è il comportamento ufficiale di fondo: ognuno è padrone di sé, si va e si torna a proprio piacere, nessuna spiegazione, si respira la libertà a pieni polmoni, anche quella di non suscitare alcuna curiosità. Si sorseggia la birra e poi basta. Lui dice che stasera è passato da qui perché non sapeva che fare. Poi ride, come per aver detto qualcosa di divertente, e gli altri lo guardano un attimo, e buttano giù un sorso, senza trovare commenti da fare. Soltanto uno su due: in fondo va bene, visto che quell’uno soltanto riempie un piccolo vuoto, lo stesso che fino a poco fa riempivano in due. Non ha alcuna importanza cosa possa essere accaduto, se nessuno ne parla, lo chiede, se nessuno ne ha qualcosa da dire, vuol dire che va bene così, le variazioni vanno presto ricucite, ridotte in fretta alla normalità.
            In seguito anche lui non si fa più vedere, ma tutti se lo aspettavano, non c’è niente di strano, doveva succedere: spesso è solo questione di tempo, poi le cose assumono poco per volta il comportamento che era stato già immaginato, e così non c’è proprio niente da aggiungere, era quasi previsto, non c’è da meravigliarsi di niente. Infine ritornano, tutt’e due, e ridono come niente fosse successo anche se nessuno dei ragazzi ha voglia di chiedere loro qualcosa. Ci saranno stati dei buoni motivi, sicuramente, o forse era semplicemente un momento in cui le cose non potevano andare altrimenti, proprio così, senza mettersi minimamente di mezzo a preoccuparsi di un qualsiasi comportamento. Invece loro due adesso parlano, magari ridendo, proprio come sempre, ma in questo momento sembra abbiano voglia di dire le cose.
            “Siamo contenti di venir qui”, dice uno dei due; “anche se non c’è molto da fare, oltre a sentirsi insieme, poi ridere, guardare qualcuno che si beve una birra, o che guarda per terra. Non è molto, però va bene anche così, perché non ci devono essere dei veri motivi per sentirsi compresi, è già sufficiente stare seduti sulle sedie all’aperto di questa casa del popolo, e ascoltare qualcuno che dice una cosa, poi un altro magari che gli risponde, gli altri che restano perennemente in silenzio, e tutti che non si aspettano niente da questa serata, o da un’altra, o anche da tutte quelle altre che verranno in futuro. Va bene così, perché nient’altro è importante.

            Bruno Magnolfi

giovedì 26 dicembre 2019

Calmo viatico.


         

            Inizialmente doveva pensarci, almeno certe volte, e fare ogni cosa quasi per una auto imposizione, come una decisione ormai presa una volta per tutte; ma adesso, dopo tutto questo tempo, le viene assolutamente naturale, come qualsiasi altro gesto che si compia senza neppure riflettere. Sono trascorsi ben dieci anni da quando lui se n’è andato, quasi senza lasciarle una spiegazione plausibile, una motivazione razionale, un elemento, almeno abbozzato, di riflessione accettabile sulle ragioni per cui la loro relazione non avesse avuto fortuna, esclusi quei tre o quattro anni iniziali, quando tutto era parso perfetto, almeno per lei. Adesso che non ha più qualcuno a cui dedicarsi, nessuno a cui dovere delle spiegazioni, o motivare la propria condotta, quei suoi gesti e tutti i movimenti che prosegue a compiere in modo anche meccanico dentro l’appartamento in cui è rimasta da sola, si sono perciò come dilatati, e lei ha rallentato tutto quanto, quasi che il tempo da trascorrere le fosse apparso poco per volta ben più importante di ogni azione da compiere.
            Persino quando la sua vicina di casa le suona il campanello, le rare volte in cui questo accade, lei arriva fino in fondo al corridoio per aprire la porta con una lentezza quasi estenuante per chi non ne conoscesse le ragioni profonde. Molte volte le è già accaduto di osservare un oggetto che rotola sopra il suo tavolo di cucina, e infine cade, senza che lei muova in fretta una mano per evitare che questo succeda, o per provarne almeno un blando tentativo. Le ha lasciato una rendita lui, un bel gruzzolo che le permetta di non preoccuparsi di nulla, almeno da quel punto di vista, ed il senso di inutilità in cui lei si è sprofondata pian piano è tale da costringerla in una specie di sfera del tutto personale e intoccabile. “Come va, oggi?”, le chiede la vicina mentre lei con tutta la calma del mondo la lascia entrare dentro la sua casa. L’osserva, si ferma, muove una mano, si inumidisce le labbra prima di rispondere, e poi spiega: “direi bene, tutto sommato; ho pensato persino di uscire nel pomeriggio, ma poco per volta ho finito per abbandonare l’idea, e così eccomi qua”.  
            Ogni parola naturalmente è ben scandita, ogni frase quasi una nenia interpretata al rallentatore, ma oramai non sembra affatto che reciti, e piuttosto, almeno chi non la conosce, sarebbe quasi portato a pensare che la sua è una qualche strana malattia ti tipo nervoso, come una specie di stato di agitazione al contrario. Forse è proprio questo il senso finale che lei intende mostrare soprattutto a se stessa, ma alla fine anche agli altri: niente per lei è più come una volta, anzi lei stessa è diversa, come attaccata da un male incurabile, un morbo tanto complesso e quasi unico, tale da produrre in una persona fragile e sensibile quale lei si ritiene, un comportamento di difesa così semplice e contemporaneamente stravagante. “Se ha bisogno di qualcosa”, le dice ogni volta la vicina che mantiene un atteggiamento deferente ma distaccato con lei, “non si periti a suonare il campanello del mio appartamento”. “Grazie”, generalmente è la sola risposta che ottiene, e mentre va via, aspettando con calma che lei le manovri la porta che dà sul pianerottolo in comune, non manca mai di pensare che in fondo è soltanto una povera donna che forse andrebbe aiutata.   
            Lei sorride mentre non manca di dare un giro di chiave al portoncino del suo appartamento, e poi in maniera estenuante si volta, e torna a muovere dei passi lentissimi generalmente fino a tornare al suo posto preferito per stare in casa seduta: vicino alla finestra cioè; ma non tanto perché da lì è possibile osservare qualcuno che si muova lungo la strada, quanto perché riesce, vicino ai vetri, ad apprezzare appieno, osservando le chiome degli alberi allineate lungo il viale, la saggia e caparbia lentezza della luce del sole durante ogni giorno, quasi un viatico per i suoi pensieri.

            Bruno Magnolfi

martedì 24 dicembre 2019

Come gli altri.


       

            “Non mi sento bene”, dico a tutti i colleghi che in questo momento sembrano contenti di essere quasi arrivati alla fine dell’orario di lavoro. In quattro si voltano verso di me, mi scrutano, mi chiedono qualcosa, ed io intanto mi accascio leggermente sulla mia scrivania. Qualcuno mi solleva delicatamente la testa, gli altri si accostano e fanno delle domande, cercano probabilmente di capire se io sto solo scherzando o se davvero sono preda di un improvviso malessere. Mi rimetto a sedere in maniera composta: “adesso passa”, dico senza convinzione; “però vorrei andare in bagno a bagnarmi la faccia”. Mi aiutano, mi sorreggono, mi aprono la porta, poi mi lasciano solo davanti allo specchio del lavandino. Osservo riflessa di fronte a me un'espressione sinceramente assai sofferente, anche se non avverto particolari dolori in nessuna parte del corpo.
            Esco dal bagno, torno verso la mia scrivania, e i miei colleghi, forse per paura che dica chissà cosa, non mi pongono neppure delle domande, lasciando casomai che sia io a spiegarmi, sempre che abbia intenzione di dire loro qualcosa. Invece non dico niente, mi limito ad aprire un cassetto, guardare che cosa c’è dentro e poi chiedere un bicchiere d'acqua da bere. Qualcuno va a prenderlo nel corridoio, dove c’è una macchinetta per queste cose, poi torna, lo appoggia sul piano del tavolo, un altro mi chiede se forse sia il caso di telefonare a casa mia, magari per non andarmene via da solo al momento del termine dell'orario della giornata.
            "Provo un'uggia", dico come a me stesso; "qualcosa che mi lascia senza alcuna forza, anzi senza volontà, come se non mi fosse più possibile fare niente". Gli altri mi guardano con sopportazione, ripongono con metodo tutte le loro cose, poi, con i cartellini elettronici già pronti in mano, iniziano ad uscire. Per ultima una collega mi chiede se mi vada di scendere con lei in ascensore, magari per sorreggermi e per vedere se ce la faccio a tenermi in piedi e ad uscire da là. La ringrazio, impugno la mia borsa, mi lascio tenere sottobraccio fino in corridoio, poi mi fermo, le dico che non ha importanza, “adesso sto meglio; tu vai pure, io ti seguo tra cinque minuti”.
            Così torno a sedermi da solo mentre il palazzo di uffici si svuota. Vado con calma vicino ad una finestra ed osservo tutti quanti che si salutano mentre sono ormai sulla strada e si avviano verso le loro macchine o i mezzi pubblici. Potrei rovesciarmi sul pavimento e restare qui penso, almeno fino a quando il personale delle pulizie non arriva più tardi anche in questa stanza. Oppure potrei infilarmi in un armadio per i documenti, uno di quelli più grandi, e restare là dentro tutto il tempo che serve, almeno fino a quando il personale in divisa potrebbe venire a controllare il palazzo.
            Non ho più intenzione di essere ancora uno come tutti, trascorrere la giornata chino su queste scrivanie davanti ad un terminale elettronico, e poi tornarmene a casa compiendo lo stesso tragitto di sempre e trascorrere la serata come tutte le altre serate, esattamente uguali a quelle che trascorrono sicuramente tutti i miei colleghi. Ci deve essere un corto circuito da azionare penso, qualcosa che se viene messo in moto tutto comincia ad andare in un’altra maniera, una maniera che nessuno di noi avrebbe mai immaginato fino ad un attimo prima. Ho bisogno di uscire dal ruolo che svolgo, dalle azioni che compio, dalle cose di sempre, da tutto ciò che mi fa essere una persona qualsiasi, senza distinzioni di sorta. Devo pensarci molto seriamente, devo trovare una via d’uscita da questo tremendo percorso che a volte appare del tutto inarrestabile. Infine esco anch’io da questo palazzo di uffici, proprio come già hanno fatto gli altri.

            Bruno Magnolfi  

lunedì 23 dicembre 2019

Rapidamente vita.


         

            Presto. Oggigiorno non si può certo permettere con indifferenza che per una sciocchezza qualsiasi si debba impiegare del tempo. Si deve affrettare ogni aspetto, tutto deve essere compiuto alla svelta, non si può gettar via le ore e le giornate con delle semplici cose per le quali è sufficiente impiegare appena qualche minuto. Lei scende le scale, è cosciente del suo leggero ritardo, ma forse non ha molta importanza, con pochi passi affrettati sarà subito là davanti al solito posto, dove di nuovo si è data appuntamento con Carlo, giusto per prendere con lui un semplice caffè, scambiare quattro chiacchiere di circostanza, forse decidere il giorno in cui andare insieme a teatro, e poi via, un breve saluto e di corsa verso gli acquisti da fare.
            Un sacco di cose da scegliere e da provare, impiegare il minor tempo possibile per riuscire a decidere la giacchina e la gonna che ha in mente, forse anche una camicetta, qualcosa comunque da spendere poco, proprio il minimo indispensabile. E ancora fare un salto al mercato, prendere pane, formaggio, la frutta e la carne, non più di una busta per tornare a percorrere tutta la strada a ritroso, fino a tornarsene a casa, evitando che le dita delle mani inizino ad indolenzirsi per tutto quel peso da sorreggere mentre cammina. Prepararsi qualcosa da mangiare, forse restando anche in piedi, mentre prosegue a consultare qualcosa tra il telefono ed il suo elaboratore portatile, naturalmente con un occhio sugli ultimi comunicati che intanto trasmette la televisione, prestando importanza solo alle cose di vero interesse.
            Quindi via, verso il lavoro, per attaccare subito con il turno pomeridiano, dove dentro la sala insieme ad altre venti persone bisogna rispondere con le cuffie a tutti coloro che hanno bisogno di informazioni, di dati, notizie, dettagli, però subito, adesso, immediatamente, perché non c’è un solo minuto da perdere, e va tutto risolto nel minor tempo possibile. Sinapsi che si attivano giusto in un lampo, parole che vengono lanciate a destra e a sinistra senza imbrogliarsi, espressioni del volto che oramai rinunciano persino a formarsi per lasciare agli occhi e alla bocca tutto l’impegno che serve al cervello per lavorare e conservarsi costantemente sotto pressione.      
            Nelle piccole pause che a volte si formano pensare qualcosa che valga per quel poco di tempo che resta della giornata una volta terminato quel turno, insieme all’orario del suo lavoro: tornarsene a casa, fare un salto da una sua amica, accettare un passaggio da qualche collega; scelte da fare, da architettare in un attimo, senza sbagliare un bel niente, prima di ritrovarsi a fare qualcosa che lei non avrebbe voluto, come una serata sbagliata, delle giustificazioni da dare, alcune spiegazioni da mettere avanti, moltiplicando frasi e discorsi che sembrano non essere mai sufficienti a risolvere tutte le cose e a mostrare la sua vera volontà.
            D’altra parte è questa la vita: riuscire a reggere il passo che tutto quanto prosegue a richiedere, mentre si seguita costantemente a comprimere tutto ciò che serve di meno, le cose che giorno per giorno si sono ridotte ad essere ben poco importanti, di cui forse ce ne importa di meno, così ininfluenti oramai che vanno a comprimersi, in un attimo appena, nella folla indifferenziata delle dimenticanze, un cumulo informe che forse dovremo riprendere in mano un giorno o quell’altro; d’accordo, ma non certo adesso.  

            Bruno Magnolfi

domenica 22 dicembre 2019

Argine a tutto.


    

            L'acqua che scorre in questo punto si vede subito che ha molta forza, anche se con questo buio serale di pioggia continua e sottile riesco soltanto a vedere l'onda schiumosa che forma il ruscello vicino alla strada, al margine della quale sto fermo in questo momento, senza provare nessuna particolare tensione. Conosco questo luogo, so perfettamente che più a valle il canale impetuoso si allarga, la corrente rallenta, la profondità tende subito a moltiplicarsi, e non ci sarebbe per me, o per chiunque cadesse nell'acqua da queste parti, nessuna possibilità di salvezza. Lasciarsi andare è solo questione di un attimo, la sensazione sgradevole dei vestiti che ti si bagnano addosso ed impediscono qualsiasi movimento, della corrente che ti trascina velocemente, e della lotta del tutto umanissima che l'istinto di sopravvivenza ti costringe a intraprendere, mentre provi ad intrattenere una impari lotta con la forza della natura.
            Posso sorridere pensando alla meccanica dei fluidi, alla sua complessità, ai gorghi che si formano per mille diversi motivi là in mezzo, ma alla fine rimane soltanto un piccolo passo, però di grande demarcazione, tra un prima ed un dopo. Potrei scivolare, camminando sul margine bagnato e fangoso, così da non prendermi direttamente alcuna responsabilità per quanto accaduto: un incidente, potrebbero dire in paese domani, un'imprudenza essersi avventurato in quel punto senza nessuna illuminazione, proprio in una serata di quel genere poi. Muovere all'impazzata le braccia e le mani, tentare di volgere la faccia e la bocca spalancata verso l'aria, spingere con i piedi qualcosa che non è minimamente capace di darti una spinta: sentirsi immergere dalla furia del liquido, la mancanza impellente di aria, dei polmoni che ne reclamano adesso, che ne hanno bisogno in questo istante preciso, sempre di più, sempre più ora, fino al respiro terminale di acqua fangosa, che riempie ogni parte dove non era mai giunta fino a questo momento, quello terminale, e che immediatamente ti stordisce, ti fa perdere i sensi, ti uccide in un attimo, senza che si possa fare più niente. Acqua nei polmoni e dentro la pancia, la stessa esatta maniera di andarsene come, per volontà o per disgrazia, è già capitata a tantissimi altri.
            C’è un albero qui accanto, ed io lo abbraccio come un amico mentre proseguo a guardare l’acqua che scorre. Mi tengo a lui come fosse la mia ultima possibilità di salvezza. Chiudo gli occhi, in fondo che cosa mai importa continuare a pensare qualcosa che tra un attimo non avrà più alcun valore, immaginando forse che esista un fermo immagine tale da farti immortalare i tuoi ultimi istanti con tutte le riflessioni che lasci a chi sopravvive, pronto a chiedersi se c’erano dei veri motivi per affrontare un rischio del genere, oppure se il rischio faceva già parte di tutto il progetto. A nessuno interessa ragiono, come non interessa la fine che scegli, come la scegli, oppure se è lecito sceglierla; o se invece sei destinato ad accoglierla in un momento qualsiasi, quando magari non sei ancora preparato per questo, e la tua completa sorpresa rimane un elemento tra gli altri: destino, purtroppo, che tanto domani dovremo soltanto dimenticare, più lentamente o più in fretta. Resta l’albero a dirlo, su questo argine.

            Bruno Magnolfi

sabato 21 dicembre 2019

Almeno per oggi.


                 

            Il bambino sale ancora una volta la piccola scala dello scivolo nei giardinetti di quel quartiere, anche se oramai non ride quasi più mentre si lascia scorrere per quell’attimo di tempo che dura il divertimento lungo la breve striscia metallica ben levigata. Suo padre, seduto sulla panchina vicina, legge senza interesse qualche articolo di un vecchio giornale che ha trovato là sopra, quasi per sentirsi impegnato in qualcosa. Il pomeriggio pare portarsi avanti con una certa lentezza, come se persino la vegetazione del piccolo parco cittadino mostrasse indolenza, con le foglie gialle degli alberi ed i rami scheletrici, rispetto alla misura del tempo. "Mattia", inizia a dire l'uomo per richiamare l’attenzione del suo bambino; "ultimo giro e poi ce ne andiamo", gli fa, con una voce che cerca di tranquillizzarlo. Suo figlio, nonostante forse si stia già annoiando, sembra però quasi non ascoltarlo: "questo è il mio spazio” pare che pensi, "ed anche se non mi diverto quasi per niente a giocare da solo così, questo è comunque il massimo che posso ottenere da una giornata qualsiasi, senza nessuna novità".
            Il padre piega il giornale e quindi lo lascia esattamente dove lo ha trovato, poi va incontro a suo figlio, che si rialza in piedi dopo l’ultima identica discesa, e con rassegnazione e lo sguardo un po’ basso prende la mano che gli viene offerta. “Mio papà da quando è disoccupato passa molto tempo con me”, sembra pensare mentre tornano verso casa; “però non ha più voglia di ridere come qualche volta accadeva”. Lui sta aspettando da tempo almeno una risposta positiva da qualcuna di quelle aziende alle quali ha spedito le carte con l’elenco preciso delle proprie esperienze, ma tutto per lui sembra come sospeso. Domani andrà di persona in un posto che gli hanno indicato, e dignitosamente, a chi vorrà ascoltarlo, spiegherà che oramai è arrivato agli sgoccioli, non ce la più a tirare avanti con un figlio piccolo da crescere, senza un lavoro.
Forse gli diranno le solite cose, non è il momento giusto, non stiamo cercando del personale, siamo a posto cosi; oppure gli chiederanno se è disposto a fare trasferte, o ad accettare mansioni rischiose, oppure a lavorare di notte, su dei turni precisi e pesanti. "Ho un figlio piccolo", dovrà rispondere lui, come se fosse la sua palla al piede, il suo cruccio, l'impedimento più grande di tutti; "e purtroppo non ha più una madre". Tireranno un sospiro, osserveranno le loro carte sopra la scrivania ordinata, e poi diranno: "le faremo sapere", come dicono sempre. Ma lui tornerà da Mattia e gli dirà una volta di più che va tutto bene, presto inizierà a svolgere un nuovo lavoro, e potranno permettersi qualcosa di più delle ristrettezze in cui vivono adesso.
Certe volte si sveglia presto, mentre il bambino sta ancora dormendo, e allora arriva fino ai mercati, dove servono braccia per sistemare le casse, spostare i pianali dagli autocarri, farsi vedere attento, preciso, uno che sa darsi da fare senza tanti problemi, e i caporali lo lasciano fare, gli indicano i posti dove sistemare le casse, magari gli allungano anche un paio di guanti, per non farsi male su una scheggia o su un chiodo. Quando tutto è finito gli danno qualcosa, certe volte gli chiedono di farsi vedere l’indomani mattina, ma spesso anche no, ed allora lui se ne torna alla svelta verso il suo appartamento, dove dorme ancora suo figlio, ma sa almeno che adesso può comprare qualcosa per lui, per mangiare in maniera decente, almeno per oggi.

Bruno Magnolfi

      

giovedì 19 dicembre 2019

Volontà soffocata.

      

            Lo so che è colpa mia. Oramai mi avete convinto: se le cose proseguono ad andare così la responsabilità non può che continuare a ricadere sopra di me. E nonostante io sia sicuro che per tutto ciò che succede tante giustificazioni si troverebbero facilmente se soltanto si avesse la volontà di cercare i motivi ispiratori, non ho comunque più intenzione di combattere ancora, e accetto già da adesso quello che da ora in avanti verrà deciso. Non riesco più a difendermi da tutti gli attacchi che ricevo, ed anche se forse potrei, non ho più la voglia di rigettare le accuse che mi vengono mosse. Perciò ho deciso di abbassare la testa, come probabilmente tanti hanno già fatto prima di me, ed accettare in silenzio tutto quello che verrà deciso nei miei confronti.
            Così esco dal supermercato dove lavoro da parecchi anni come magazziniere, ed invece di salire sull’autobus come in genere faccio, mi dirigo semplicemente a piedi verso il mio appartamento, che dicendo la verità rimane anche piuttosto distante, ma che stasera intendo raggiungere con tutta la calma che serve, disinteressandomi perfino della cena, nonostante l’ora, e tentando, con il moto costante delle mie gambe lungo il tragitto, di farmi passare il dolore allo stomaco che mi porto dietro oramai da più di un giorno. Sul marciapiede incrocio qualcuno che ride, ragazzi che scherzano di chissà che cosa, e per certi versi sento di invidiare chi riesce come loro ad avere dentro se stessi la leggerezza che emanano in questo momento, poi però non resisto e mi infilo dentro una birreria dove tutto in un attimo sembra assumere un contorno diverso.
            Mi siedo nel mezzo al bancone in un posto lasciato libero, scambio un veloce saluto con il tizio di fronte a me che adesso sfrega con energia una spugna sul piano e poi serve le birre e i panini alle persone presenti, quindi ordino qualcosa che leggo alle sue spalle, sulla parete, pubblicizzata con grandi immagini sopra a dei nomi caldi ed appetitosi. A fianco a me un tizio mi dice che chi mangia qualcosa in un posto del genere probabilmente ha qualche problema, ed io gli sorrido, perché in fondo siamo tutti in balia di una stessa corrente. Mi spiega che è appena stato mollato da una tizia che non gli ha neppure fornito una spiegazione plausibile, e che improvvisamente lui si sta sentendo perduto, come se non si fosse mai reso conto di aver delegato a lei per un tempo lunghissimo, tutta la sua capacità di rientrare nell’alveo delle persone normali. Così adesso si sente fuori da tutto, incapace persino di riacquistare un ruolo sociale.
            Mi fa bene ascoltarlo, mi porta subito lontano da tutti i problemi che ho, perciò ci offriamo l’un l’altro diversi giri di birre, fino al punto in cui tutte le cose diventano semplici, e non c’è più bisogno di parlare parecchio per capirsi perfettamente e senza problemi. Infine lo saluto, esco da questo locale con il cuore un po’ alleggerito, e riprendo pur con un certo fastidio la strada per tornarmene a casa. Cammino, mi guardo attorno, osservo le luci serali e le macchine che corrono chissà verso dove: domani sarà una giornata del tutto simile a questa penso; però i miei pensieri saranno diversi, prometto. Sarò un po’ più simile agli altri probabilmente, a tutti coloro che riescono a galleggiare senza grossi problemi, perché ho già deciso in partenza che se qualcuno in ogni caso mi vuole così, non sarò certo io ad oppormi alla sua volontà.  


            Bruno Magnolfi
       

      

mercoledì 18 dicembre 2019

Bastare a se stessi.


  

            Ormai trascorro da sola quasi tutto il mio tempo. Non voglio dire che siano diventate carenti le occasioni per stare con gli altri, è soltanto che spesso non sono d'accordo con le cose che mi vengono dette quando sono insieme a loro, e non riesco ad essere così accondiscendente da sorridere a tutti e dire sempre di sì. Preferisco non dare occasioni per intavolare polemiche, e quindi evitare di fornire costantemente la mia opinione su di una cosa o sull’altra, perché soprattutto mi sembra sacrosanto continuare a pensare quello che voglio, senza dover giustificare in qualche modo le mie azioni oppure le mie parole. La solitudine non mi spaventa, anzi ritengo che formi una qualità della giornata addirittura superiore a qualsiasi altra possibilità. Non parlo in casa a voce alta come mi hanno detto a volte fanno altri solitari come me, però cerco sempre di confrontare i miei pensieri con coloro che mi immagino abbiano opinioni diverse dalle mie. Perciò rifletto molto, qualche volta fino a rimanerne confusa.
            Quando vado dal medico per farmi prescrivere qualche medicinale, generalmente lui mi invita a raccontargli la maniera in cui trascorro le mie giornate, così il dottore alza gli occhi dai suoi ricettari, mi guarda da dietro gli occhiali di metallo dorato, e poi mi fa qualche domanda per verificare se riesco ancora a rispondere in una maniera che tenga conto dell’ambito sociale, oppure se sono già passata a far parte della categoria degli appartati, quelli che parlano soltanto di se stessi, dei loro mali, dei propri guai o delle proprie speranze, e vivono in una sfera isolata, separati da tutti. Normalmente sorrido per fargli capire che ancora resisto: leggo il giornale, sono curiosa di ciò che avviene, mi interesso della vita che scorre nelle città e nelle strade. Riesco ogni volta a rassicurarlo insomma, ed anche se lui per sicurezza prosegue a prescrivermi delle pillole che dovrebbero stimolare la mia attività relazionale, sono convinta davvero di non averne bisogno, e per questo motivo non me le faccio mai dare dalla mia farmacista.
            Quando proprio mi va, arrivo fino al centro anziani a vedere cosa stanno facendo, ma generalmente mi metto da una parte ad ascoltare i discorsi di chi è lì presente, e alcune volte mi invento che ho un’infiammazione così fastidiosa dentro la bocca che non mi permette neppure di parlare, così nessuno mi chiede più nulla, ed io me ne posso stare tranquilla. Secondo me loro dicono sempre le medesime cose, ed io quasi sempre mi annoio così tanto da sbadigliare vistosamente, anche se non vorrei. Quando saluto tutti e me ne torno verso il mio appartamento, sento di aver perso soltanto del tempo passando da lì, e in ogni caso sono quasi felice di ritrovarmi per strada da sola, con le mani sprofondate dentro al cappotto, e con la testa piena di tutti i pensieri che voglio. Forse non dovrei neanche dirlo, ma certe volte credo proprio di sentirmi al di sopra delle persone che frequentano quel centro anziani: è tutta brava gente, questo è certo, però a loro manca oramai la capacità di sapere davvero guardarsi all’interno; sentire le cose, provare ancora emozioni, mettere in dubbio i propri stessi pensieri, ed alla fine, proprio come al contrario riesco a fare io, essere autonomi, tanto da riuscire a bastare a se stessi.   

            Bruno Magnolfi

martedì 17 dicembre 2019

Aggiornamento di stato.

            

            La televisione continua a ripetere da stamani le medesime notizie, forse nel caso in cui qualcuno si fosse distratto, magari mostrando una evidente incapacità a lasciarsi debitamente informare. Nel corridoio degli uffici pubblici lui continua a cercare una specifica bacheca chiusa con delle vetrine, in cui gli hanno spiegato esserci affissi degli elenchi cartacei riportanti probabilmente anche il suo nome, in qualità di iscritto al nuovo corso di aggiornamento peraltro del tutto necessario per continuare a svolgere il proprio mestiere. Il problema di fatto è che il corridoio appare lunghissimo, con le pareti coperte di avvisi e di variegate bacheche, ed anche affollato di persone probabilmente alla ricerca di qualcosa che le riguardi, ed in questa  baraonda a lui non pare di vedere nulla che sia riferito alla sua situazione.
            Chiede a qualcuno nel caso in cui si trovasse davanti ad una persona nelle sue stesse condizioni, ma nessuno sembra neanche dargli troppo retta, forse soltanto per l’indole legittima di non evidenziare le proprie cose ad uno sconosciuto. Lui perciò dopo mezz’ora si stufa, da’ per scontato che la bacheca e l’elenco ci siano da qualche parte, e che il suo nome sia riportato in calce là sopra, per cui se ne va, senza preoccuparsi di altro. Lo chiamano poco dopo al telefono portatile, quando è già uscito lungo la strada, e gli chiedono senza mezze misure quale numero gli sia stato assegnato nell’elenco del corso di aggiornamento. Lui dice che non lo sa, ma dalla reazione che ottiene dall’altro ricevitore capisce che non è stata una buona idea rispondere così.
            Perciò decide di rientrare negli uffici pubblici, ma prima si ferma in un locale per un caffè, tanto per concedersi una pausa. Qualcuno al bancone del bar dove si è appoggiato, dice con calma che ci sarà da arrabbiarsi sul serio uno di questi giorni, e che coloro i quali tirano le fila della situazione generale, hanno deciso che tutti quanti devono possedere una propria posizione definita. Quando lui infine rientra nel lungo corridoio pubblico degli uffici, molte persone se ne sono ormai andate, e regna adesso una certa calma, tanto che viene subito in avanti un usciere volenteroso per fargli presente quale sia la vera bacheca che lo interessa, e di cercare esattamente là sopra il proprio nome. In un elenco infinito scritto in caratteri minuscoli, appare, nell’ordine alfabetico con cui è stato stilato, anche il suo nome difatti, con a fianco, divergendo dagli altri, la dicitura "inevaso". Il portiere, rimasto alle sue spalle, gli consiglia di andare subito al piano superiore per chiedere chiarimenti, e lui sale frettolosamente la scala di marmo fino a ritrovarsi davanti ad uno sportello con un impiegato occupato a svolgere delle timbrature.
            Attende, poi dice "scusi", timidamente, e l'altro con fare scocciato gli chiede che cosa desideri, ma proprio nel momento in cui lui cerca di spiegare ciò che gli sta succedendo, l'altro si volta per scartabellare qualcosa in uno schedario, quindi torna allo sportello, e mentre pronuncia le parole "ripresentare domanda debitamente compilata", gli allunga un foglio di carta scritto con bei caratteri e firmato presumibilmente da qualche profilo superiore di quegli uffici, riportante le stesse esatte parole. Poi l'impiegato chiude la feritoia attraverso cui gli parlava, e sparisce nelle stanze sul retro, lasciandolo solo. Evidentemente qualcosa non è stato fatto come avrebbe dovuto, pensa lui, e mentre va a riprendere le scale per scendere al piano sottostante trova l'usciere di prima che a gesti lo indirizza verso una piccola e ripida scala di servizio, tramite la quale lui si ritrova direttamente sulla strada, senza alcuna spiegazione aggiuntiva. Così torna a casa, e la sua televisione, rimasta accesa forse per svista, sembra ancora ripetere le medesime cose di prima, anche se adesso è una donna che legge con voce melodiosa le varie notizie.


            Bruno Magnolfi
          

domenica 15 dicembre 2019

Voci di corridoio.

          

            "Le sento, le ho sentite anche stamani, mentre stavo a casa da solo", dico con una certa irruenza al medico che prosegue a guardarmi con espressione dubbiosa, come se io fossi capace di esprimere soltanto delle sciocchezze. "Sono qui, dentro di me, queste voci, e sembrano di persone che ogni volta continuano a parlare tra loro, tanto che io non riesco neppure a comprendere quello che dicono. Bisbigliano, gemono, sfottono, fanno delle pause, poi una di loro a volte sembra persino iniziare a cantare, come le tornasse naturale allungare le vocali ed intonare qualcosa. Sembra ogni volta un gruppo di svariate persone riunite insieme chissà per quale motivo, ma non si riferiscono mai a me direttamente, perché è come se si intrattenessero l’un l’altro in una stanza diversa, una stanza lontana, in fondo ad un corridoio. Poi ridono, scherzano, prendono in giro, e di nuovo mi fanno innervosire, come sapessero che io le ascolto. Alla fine però smettono, si acquietano tutte, e non si fanno più sentire per chissà quanti giorni".
            Mi alzo dalla sedia dove il dottore ha detto di sedermi per spiegare con calma i miei sintomi; in fondo non volevo neppure venire fin qui a parlare di quello che spesso mi accade, perché già lo sapevo che ciò che sto tentando di spiegargli non sarebbe mai stato creduto. E poi so benissimo che non c’è alcuna cura messa a punto magari da qualche illuminato studioso per una malattia di questo genere, semplicemente perché non si tratta di una malattia, è soltanto la verità di ciò che mi accade ogni tanto, senza che io possa impedirlo. Il medico prosegue a guardarmi in una strana maniera, mi chiede di tornare a sedermi, poi prende appunti, sembra pensieroso, e ad un tratto fa intervenire una sua silenziosa assistente. Le dice di preparare un certo medicinale, e poco dopo la donna, certamente un'infermiera, torna dal retro dello studio con una siringa già pronta. Lui viene verso di me, mi guarda, poi mi preme l'ago in un braccio, senza darmi alcuna spiegazione, ed alla fine mi fa sdraiare sopra al lettino accanto ad una parete.
            Avverto stanchezza, un ronzio nelle orecchie, un brusio piuttosto confuso che non è affatto quello a cui sono ormai abituato, ed improvvisamente ho quasi voglia di prendere sonno, di chiudere gli occhi e di lasciarmi andare ad un assopimento leggero. Invece il medico bruscamente torna a chiedermi le stesse cose di cui abbiamo precedentemente parlato, mi dice di ripeterle, di spiegarle ancora una volta, perché adesso, afferma lui, saranno più vere. Allora riprendo a parlare di quelle voci e di quella stanza lontana, del canto e delle risate, ma mentre dico tutto questo, mi sembrano sempre più oscure queste vicende, quasi una storia inventata, tanto che mi prende il dubbio sensato che tutto quello che dico non sia mai accaduto davvero.
            Chiudo gli occhi mentre continuo a parlare, e la stanza del medico improvvisamente mi pare come allontanarsi, e la mia voce confondersi, mescolarsi con quelle di altri, tanto che alla fine mi trovo a bisbigliare, lasciare andare dei gemiti, fare una pausa, e forse vorrei anche sfottere come si merita questo dottore, per poi alla fine allungare qualche vocale mettendomi a cantare a bassa voce, tra me, quasi ridendo. Al mio interno però avverto una pausa, un momento di silenzio in cui tutto sembra sospendersi come per prendere tempo. Quando infine torno ad aprire gli occhi e ad alzarmi, non c'è più nessuno dentro lo studio, la porta della stanza è stata spalancata, ed il corridoio appare deserto. Così, lentamente, prendo e me ne vado; che tanto non avrei neppure dovuto venirci qua dentro.


            Bruno Magnolfi
         

        

giovedì 12 dicembre 2019

Divise per secoli.

           

            "Sono una moglie", immagino di dire con voce ferma in mezzo agli individui che mi circondano. "So stare al mio posto, anche se ci sono persone che fanno di tutto per scardinarmi da questo ruolo". Forse non c'è alcuna necessità di ribadire ogni giorno quello che siamo, penso poi in un secondo momento, magari mentre sbrigo qualche faccenda casalinga. Eppure mi sento orgogliosa di quello che sono, indipendentemente dal fatto che la maggior parte delle donne vivano la mia stessa condizione. Lavoro, mando avanti la casa, mi sento certe volte il perno attorno a cui ruota tutta la mia famiglia. Però non mi basta, vorrei che qualcuno riconoscesse il mio ruolo, vorrei che qualcuno oltre ai miei familiari mostrasse gratitudine per quello che faccio.
            Un impulso mi muove in ogni momento: la necessità perenne di fare. Certe volte non ha neppure troppa importanza ciò di cui decido di occuparmi in un preciso momento; però va fatto, è indiscutibile, e questo principio vola più in alto di qualsiasi stanchezza o mancanza di volontà. Poi mi ritrovo nel solito negozio di generi alimentari cercando di organizzare la cena di un giorno qualsiasi, e dopo qualche sorriso di convenienza con qualche conoscente, un’altra donna, in apparenza proprio come posso essere io, ma forse soltanto più giovane di me, e forse con delle aspirazioni diverse dalle mie, e magari anche con qualche idea nella testa differente da quelle che ho io, subito dopo che è stato servito un cliente, spiega a tutti che “adesso è il turno della massaia”, guardandomi in un modo vagamente sprezzante, quasi con un velato disgusto.
            Non capisco cosa possa esserci dietro ad un’espressione del genere; cioè non comprendo se questa donna veda in me ciò che lei non vorrebbe mai essere: forse una potenziale nemica quindi; oppure se la definizione troppo precisa dei compiti che crede io stia rivestendo, le divenga motivo, nei miei riguardi, per dare su di me e su tutte coloro che mi assomigliano, un giudizio definitivo di disarticolazione dal genere femminile. “Le donne devono far altro”, potrebbe pensare lei in questo momento, “che preoccuparsi della famiglia, o del proprio marito, oppure di altri che non siano esattamente se stesse”. Rifletto, mentre completo gli acquisti che ho in mente, ma agisco con vero disinteresse per ciò che ho appena avvertito.
            Immagino che per qualche donna da ora in avanti la vita femminile debba essere molto diversa da quello che è stata fino quasi ai tempi attuali: che si siano aperti cioè degli orizzonti che non lasciano più alcuna possibilità di interpretare questo ruolo da parte di coloro che ancora credono si possa tirare su una famiglia in termini sufficientemente tradizionali. “L’argomento è spinoso”, vorrei dire a chi ancora mi ascolta; “però è proprio da qui che passa il futuro, perché nessuno strappo improvviso potrà concedere una nuova verità”. Il tema è aperto, penso improvvisamente; però non credo che una sciocca contrapposizione possa portare qualcosa di buono né all’una né all’altra categoria femminile. Per questo, uscendo con tutta calma dal negozio di generi alimentari, adesso, alla ragazza di prima, passandole vicino, dico soltanto: “tocca a te adesso, mia cara amica; tu che sei diversa, moderna, portatrice di nuove notizie; a me non resta altro che sperare nella nostra futura coesione; perché è soltanto così che potremo sconfiggere quel che ci ha tenuto divise e distanti per secoli”.


            Bruno Magnolfi   
       

         

mercoledì 11 dicembre 2019

Buon andamento aziendale.

        

            Torna facile dare appuntamento senza alcun preavviso ad una persona già forse impaurita dalle voci che corrono ultimamente in azienda, chiedendole perentoriamente di farsi vedere negli uffici della direzione al termine dell’orario del suo turno di lavoro. Lui è uno di quei dipendenti ormai segnato, che va costretto a dimettersi, o almeno lasciare alla svelta quel suo ruolo di supervisore del ramo produzione, troppo ambiguo il suo comportamento negli ultimi tempi, così poco consono alle esigenze di produttività dell'impresa ed alla linea che desidera tenere la nuova proprietà. Non c'è bisogno di spiegare neppure troppe cose, basta convincerlo che i suoi metodi non sono adeguati, e che può rivolgersi tranquillamente alla concorrenza, se vuole conservare un profilo simile a quello che riveste in questo momento, oppure accettare un forte abbassamento di livello e rientrare nei ranghi più produttivi, al massimo come caposquadra.
            Non si può essere troppo flessibili, c’è bisogno di dare una sferzata alle sacche di stanchezza del personale che ultimamente si sono venute a concretizzare, e senz’altro far circolare la voce che tra i dipendenti dell’area produttiva è stato colpito qualcuno che reggeva le fila di un certo andazzo, può essere la svolta giusta che in questo momento ci vuole. Naturalmente non interessano a nessuno gli anni di esperienza e le capacità dimostrate dal dipendente nel galleggiare tra i capireparto senza mai pestare i piedi a qualcuno, e non è comunque un tipo di figura intermedia troppo amata dai dipendenti dentro l’azienda; peraltro non appare dalla sua schedatura neanche uno con delle simpatie sindacali, forse soltanto per compiacenza verso i suoi superiori, per cui, senza alcuna difesa, dovrà rassegnarsi rapidamente, magari anche su due piedi, alle novità che incombono attorno alla propria carriera.
            In seguito non ci saranno dei grossi problemi: colpito lui e qualcun altro del genere, gli altri abbasseranno velocemente le orecchie e saranno maggiormente disposti ad aumentare tutti i ritmi di lavoro, e quindi anche accettare senza battere ciglio gli straordinari richiesti. Certo, di controparte lui potrebbe rifarsela con qualche superiore, magari prenderne di mira l’auto con cui lo ha visto dentro al parcheggio, e di nascosto forare una ruota o graffiare la carrozzeria, ma anche questo può essere un problema aggirabile, magari facendogli spiegare segretamente da qualche dipendente di cui si fida, che se avverranno cose del genere sarà lui il primo ad esserne incolpato. Per vie legali naturalmente non avrebbe alcuna possibilità di cavarsela, ed anche se cercasse di mettere contro la direzione un qualsiasi gruppo di dipendenti che per qualche motivo tengono dalla sua parte, sarà facile disinnescare qualsiasi volontà in questo senso.
            Così non resta che starsene in ufficio almeno in tre, ad attendere che lui arrivi all'orario pattuito, e senza neppure invitarlo a sedersi, fargli un paio di domande specifiche per metterlo il più possibile a disagio, fino a quando, lasciandogli intercettare degli ambigui sguardi ammiccanti tra coloro che ha di fronte, inizierà a balbettare e a comprendere sempre meno che cosa gli viene davvero richiesto. Nessun sorriso, nessuna benevolenza, soltanto un’aria di ostilità riversatagli in faccia da chi è fermamente convinto delle sue scarse qualità, tanto da dover mettere in pratica, per costrizione, tutte le misure necessarie per il futuro buon andamento aziendale.


            Bruno Magnolfi  
          

          

martedì 10 dicembre 2019

Precipizio.

          

            "Si sta consumando lentamente", dico con una voce appena sussurrata a questa nostra vicina di casa che oggi è passata a vedere come possono andare le cose dopo il lungo periodo di ospedalizzazione di mia moglie. "D'improvviso tutto diventa una sciocchezza, al confronto”, le dico; “ed in certi momenti sembrano venire a mancare perfino le forze per continuare ad andare  ancora avanti". Non voglio commuovermi, penso trattenendomi, anche se ne avrei una gran voglia. D’altra parte appare evidente come tutto quello che era l’andamento normale di una casa, di una famiglia, di tutte le abitudini consumate nel giro di tanti anni, degli stessi comportamenti maturati tra noi due, ed anche quei semplici pensieri messi a punto giorno dopo giorno come una vera strategia di esistenza, adesso siano completamente infranti, finiti, spazzati via da qualcosa che è come un incubo a cui però non resta che adattarsi. La vicina mi stringe la mano senza parlare, e poi se ne va, mesta, triste, come già si immaginava di dover essere, fin dal momento in cui aveva suonato il campanello alla porta.
            Resto da solo a guardare gli oggetti di sempre, nel silenzio dell’appartamento ammalato, foderato di un sottile dolore che non c’era fino a qualche settimana più addietro, e che adesso è diventato l’elemento più forte, più invadente, prevaricatore di ogni altro aspetto. Mi guardo attorno, ed anche se niente è stato cambiato o spostato, tutto comunque ha ormai assunto una colorazione diversa e uniforme, come a mostrare una patina di irrealtà purtroppo vera. Preparo del caffè, controllo le scatole dei medicinali in primo piano, guardo l’orologio da muro inflessibile, mi dedico a togliere della polvere immaginaria da sopra il piano della credenza in cucina, tanto per occupare le mani e la testa in una sciocchezza qualsiasi, qualcosa che mi riporti a dei gesti consunti, usuali, e verso quella normalità per cui adesso pagherei qualsiasi cifra.
            La sospensione che avverto è pressoché insopportabile. Il mio respiro, le mie dita, il passato che torna prepotente a dirmi com'erano le giornate soltanto l'anno scorso, o quello prima, o durante un tempo che nei pensieri diventa lungo e indefinito, per certi versi: tutto adesso mi arriva addosso insopportabilmente, proprio come un corpo estraneo e nemico in mezzo ad un organismo ancora vivo. Questa forse la sensazione più forte, quella di affrontare i prossimi giorni e le prossime ore con la coscienza che tutto sarà caratterizzato da attimi differenti, e che si dovrà modificare leggermente tutto il percorso, a seconda dei passi successivi che il male richiede. Infine torno in camera da letto, e lei è lì: apre gli occhi, mi guarda, sa cosa penso, conosce benissimo cosa io possa avere in mente durante questi momenti. Io la guardo, sorrido, dico qualche sciocchezza, anche se è soltanto una maschera di cortesia, e lei distoglie lo sguardo quasi cercando di nascondere il pallore oramai assunto dalla sua faccia.
            “Mi dispiace”, dice poi con grande presenza di sé, forse vergognandosi per la situazione che è andata così rapidamente franando. Le prendo una mano, vorrei dirle chissà cosa, ma non ha alcuna importanza: sono qui, penso; sarò con te quando le cose precipiteranno.


            Bruno Magnolfi
         

      

lunedì 9 dicembre 2019

Mai più.

       

            "Non ci sto", dico sottovoce agli altri di getto, senza neanche aver capito del tutto quanto propongono. Generalmente parlo poco, resto in compagnia con questi ragazzi quasi più per abitudine che per una voglia effettiva, perché sinceramente la cosa che a me in assoluto piace di più è quella di rimanermene in giro da solo, e non sentire sempre l'obbligo di star qua e rispondere alle loro battute spiritose, anche se il più delle volte quando mi parlano mi limito a guardare altrove e ad alzare le spalle con disinteresse. Anche stasera forse non vorrei proprio stare con loro, ma non ho proprio alcuna alternativa, anche se in ogni caso mi piacerebbe proprio anche stavolta che tutte le cose scorressero come sempre accade, senza tanti intoppi, quasi come respirare o guardarsi attorno, insomma come se non ci fosse assolutamente niente da decidere, soltanto lasciarsi andare alle chiacchiere e alle battute nel corso di un paio d'ore o tre, proprio come accade tutte le altre volte, e soprattutto che nessuno avesse voglia di mettere in mezzo delle proposte strane, poco convincenti, forse inaccettabili.
            Perciò dico in questo modo, e già che ci sono mi alzo dalla sedia sul retro di questo locale per uscire dalla porta ed andarmene, ma qualcuno mi dice subito che non posso levare le tende proprio adesso, quando ci aspetta qualcosa di importante: devo rimanere, mi spiegano ridendo, non ho alcuna scelta. Lascio che dicano quello che vogliono, intanto che osservo la punta delle mie scarpe, e perdo tempo cercando di capire che cosa desiderano di preciso da me, senza guardare nessuno, solo ascoltando quello che dicono, anche se è tutto confuso. Poi salgono tutti sopra le macchine, ed uno mi dà una leggera spallata come per rompere l’incertezza che mi è rimasta legata addosso, e così mi ritrovo col sedermi sul sedile posteriore di un’auto stretto insieme a degli altri. Ridono, dicono che ci sarà solamente da divertirsi, ma io sento soltanto la voglia di andarmene, magari di tornarmene a casa alla svelta, per conto mio. Fanno fischiare le gomme sopra l’asfalto, perché sembra che si vada tutti di fretta verso un locale che non ho mai sentito, e che forse un locale non è, ma soltanto un modo di dire, o qualcosa del genere.
            Si girano un sacco di strade e qualcuno si è messo pure a fumare delle sigarette pestifere che si passano tra tutti. A me viene soltanto da tossire per tutto quel fumo e loro continuano a ridere, dicono che stasera è una serata speciale, e che si va fuori città. Su una curva la macchina sbanda, sento tutti che urlano, l’altra macchina dietro probabilmente per evitarci va fuori strada, ed io mi volto a guardare nel preciso momento in cui la vedo rovesciarsi coi fari che scoppiano e il fumo. Si scende di corsa, io sono confuso, resto da una parte, non so proprio che fare, gli altri tirano fuori i ragazzi mentre nel buio la macchina rovesciata sembra prendere fuoco. Qualcuno telefona per dei soccorsi, ma io me ne vado, prendo di corsa lungo la strada e vado via, torno a casa, non volevo neppure venirci stasera. Poi mi fermo, è buio, ho paura, torno indietro, ho voglia di piangere, trovo quello che avevo accanto e lui mi dice di stare tranquillo, andrà tutto bene. D’accordo, penso senza rispondere niente, siamo una squadra, bisogna restarcene insieme anche quando i momenti si fanno difficili. Però non c’è niente di bello nel fare le cose da idioti, continuo a pensare; e da ora in avanti non ci andrò più in quel locale con questi ragazzi.


            Bruno Magnolfi
          

venerdì 6 dicembre 2019

Originali nascosti.




La donna senza fretta cammina lungo il marciapiede, si sofferma ad osservare una vetrina quasi distrattamente, poi prende una decisione. Entra nella piccola gioielleria con fare piuttosto deciso ed un immancabile sorriso raggiante sulla faccia. È ben vestita, capelli in ordine, ed un trucco leggero sopra la sua espressione, con un rossetto velato sulle labbra, da gran signora. Si sente scaltra lei, in queste occasioni sa che nessuno può tenerle dietro, figuriamoci un piccolo commerciante abituato a mettere sul banco anellini di fidanzamento e qualche girocollo senza importanza. Lei si guarda attorno per un attimo, poi chiede subito di una collana importante, un regalo da fare a sua madre dice, qualcosa che lasci l'anziana donna senza parole. Il gioielliere si schiarisce la voce, balbetta qualcosa, guarda fuori dalla porta a vetri con la chiusura automatica, poi si decide ed apre la cassaforte nascosta dietro un angolo, tirando fuori subito i pezzi migliori tra quelli che tiene dentro al suo negozio.
Lei intanto parla, dice delle cose generali di sua madre, sui rapporti che intrattengono, sul tenore di vita a cui la sua vecchia è da sempre abituata, ma senza esagerare, con metodo, lasciando supporre molti aspetti e mettendo in condizioni il gioielliere di ascoltarla e di annuire alla massa di notizie che gli viene sciorinata. I pezzi le piacciono, ma non è convinta completamente, "perché mia madre", spiega senza smettere un momento di parlare, "è abituata a cambiare i gioielli che indossa anche diverse volte al giorno, a seconda delle circostanze, e per questo le sue amiche, quando si incontra con loro per la partita a carte o per il tè, secondo lei devono sempre rimanere quasi meravigliate di tutto ciò che riesce a sfoggiare".
Il negoziante tira fuori altre cose: spille, bracciali, diademi, i migliori pezzi di tutto ciò che tiene in cassaforte; l'ora è morta, in genere non viene nessuno durante il primo pomeriggio, e lui può intrattenersi senza problemi con una cliente così importante che a guardarla bene gli pare addirittura di conoscere, tanto da aver notato la sua faccia magari in televisione, durante qualche ricevimento d'alta borghesia ripreso dalle telecamere. Lei osserva tutto e fa diverse volte i complimenti al gioielliere per la sua capacità di mettere in vendita anche degli oggetti poco usuali, ma niente riesce a convincerla davvero, e dopo aver fotografato con il suo cellulare un paio di collane, "per averne memoria", spiega all’uomo che non è del tutto convinta, deve pensarci, probabilmente ripasserà durante uno di quei giorni seguenti.
Il gioielliere l'accompagna fino alla porta, le apre e con un gran sorriso le dice che per lei sarà sempre a sua disposizione, in qualsiasi momento vorrà tornare a fare una visita nel suo piccolo negozio. Lei se ne va, con la sua borsetta firmata ed il tailleur elegante sotto al soprabito, e naturalmente soltanto quando lui sta rimettendo a posto gli oggetti sparsi sui velluti del bancone, si accorge che qualcosa manca, il pezzo meno preso in considerazione durante tutta la visita della donna. Ma in fondo tutto ciò non ha neppure una enorme importanza: ciò che lei si è preso è solamente una copia del pezzo originale, il quale resta al sicuro tenuto dentro un fagottino, messo in un angolo come qualcosa senza alcun valore, riconoscibile soltanto per una sigla con cui il gioielliere ama ricordarsi bene quali siano là dentro i gioielli veri e originali.

Bruno Magnolfi

giovedì 5 dicembre 2019

Conforto necessario.



            "Non mi sento bene", dice lui con la sua voce di circostanza, osservando qualcosa nel vuoto mentre sta seduto di fronte alla vetrata del soggiorno che rimanda i bagliori rossastri del sole al tramonto. Lei non risponde, rimane appoggiata con la schiena sulla sua comoda poltrona, a cercare con gli occhi fissi in avanti le aree di variazione quasi impercettibili dei colori nel cielo davanti a sé. “Non saprei descrivere i sintomi", prosegue lui, "ma è come se qualcosa di estraneo si fosse inserito nella mia testa, e mi confondesse continuamente i pensieri". Lei sembra non dare peso a queste parole, impassibile prosegue ad osservare l’incupirsi progressivo ed inarrestabile di ogni sfumatura. “Dovresti prendere un calmante”, stabilisce alla fine; “le prove della Messa da Requiem ti hanno svuotato, ti è rimasto soltanto il solito nervosismo prima di ogni debutto”.
            “Forse hai ragione”, fa lui; “in ogni caso sotto il profilo del concerto di domani mi sento abbastanza tranquillo. Le cose stanno andando piuttosto bene, e non prevedo sorprese, anche se niente gode di completa certezza". Poi si alza dalla sua poltrona, fa qualche leggero cenno incomprensibile con il capo, e poi si volta verso il tavolo, dove si serve qualcosa da bere. "Non è facile tenere sempre un profilo attento e  rigoroso", dice dopo un minuscolo sorso. "Spesso sembra che tutti siano pronti a puntarti un dito contro, nel caso in cui ti lasci andare appena di un niente". Lei improvvisamente lo guarda fisso, come cercando di vedere qualcosa sopra al suo viso che le è probabilmente sfuggito fino a questo momento.
            Squilla il telefono, i soliti auguri di colleghi, di amici e musicisti, poi lui torna a sedersi spegnendo l’apparecchio, forse cercando di nuovo quel punto impreciso che fissava fino ad un attimo fa. “Certe volte immagino delle cose che neppure esistono”, le dice come facendo una confessione dolorosa. “Poi mi vengono davanti delle masse sonore scomposte, come se tutto si muovesse ancora nell’attesa di essere riorganizzato, sistemato a dovere, controllato in maniera precisa e definita”. Per lui la musica è solo pianificazione, severità, mestiere insomma, niente che sfugga alla mano di tutto ciò che viene ogni volta prestabilito. Lei conosce benissimo il suo rigore e la sua disciplina nel portare avanti le cose, come comprende benissimo la sua pausa riflessiva del giorno prima, e così conosce i dubbi inconfessati che sembrano attanagliarlo durante ogni vigilia, anche se qualcosa stavolta sembra diverso.
            “Puoi farti sostituire”, dice lei all’improvviso per dargli una scossa a cui lui certamente non può rimanere indifferente. Invece non ottiene alcun risultato, come fosse esattamente quanto lui sta proseguendo a pensare. Torna a guardarlo girando di nuovo la testa dalla sua poltrona, e vede che piange, che non riesce proprio ad affrontare qualcosa che lo tormenta. “Devo fare il mio dovere”, dice lui sottovoce, come se la sua fosse praticamente una missione, qualcosa di paragonabile alla difesa della propria patria. “Non mi sento sorretto”, dice di botto; “e se fino ad oggi non ho mai provato questa necessità, adesso è diventato qualcosa di estremamente importante”. Lei si alza, gli va vicino, gli accarezza la faccia: è solo un bambino, pensa; soltanto un bambino con le necessità di tutti i bambini, di sentirsi accudito, protetto, confortato.

            Bruno Magnolfi