venerdì 30 ottobre 2015

Salvezza insperata.

            

            Uscendo dal locale dove per più di un’ora si è intrattenuto con alcuni conoscenti a bere diversi bicchierini, giusto per trascorrere in qualche modo quella lunga serata ordinaria e quasi inutile, lui adesso non si sente neppure perfettamente in sé, pur riuscendo ancora a camminare quasi diritto e a vedere piuttosto ben definiti sia la strada che il marciapiede di fianco, le cui pietre umide appaiono fortunatamente rischiarate dai lampioni che indicano anche tutto il percorso in direzione della sua piccola abitazione poco distante. Si ferma, una volta apprezzato il fresco della sera e l’aria tersa, quindi incamera un profondo respiro quasi normalizzatore del suo stato, e infine si avvia.
            Non c’è niente di male nel fare un po’ di baldoria ogni tanto, pensa ad alta voce mentre prosegue a camminare. Per istinto, ma non senza un briciolo di preoccupazione, affonda le mani dentro le tasche del cappotto alla ricerca della chiave del portone, già pregustando il suo rientro tra le mura domestiche, ma in mezzo alla stoffa nessun oggetto del genere sembra presente in questo momento. Gli è sufficiente una breve e sofferta ricognizione mentale per rendersi conto di come tutto il suo mazzo di chiavi, così importanti adesso, sia probabilmente rimasto dimenticato magari sopra al tavolo di casa, oppure addirittura nella tasca della giacca indossata al mattino, che adesso è naturalmente riposta dentro l’armadio. In ogni caso l’ora è ormai tarda, e le possibilità per rientrare al suo domicilio appaiono all’improvviso estremamente difficili.
            Ciò nonostante, lui prosegue imperterrito a camminare nella medesima direzione, quasi riponendo così tutte le sue speranze in un qualche miracoloso avvenimento, ma anche immaginando di trovare tutto il coraggio che gli serve per suonare il campanello alla sua odiosa vicina di casa, convincerla della sua sventura, e infine chiederle la possibilità di lasciarlo salire sopra al terrazzino confinante, e da lì, sporgendosi pericolosamente, permettergli di saltare fino alla sua finestra, ammesso naturalmente che questa sia rimasta aperta. Con questi pensieri continua a camminare, pur rallentando leggermente l’andatura ad ogni passo, e in un primo tempo riesce quasi a convincersi come tutto possa davvero andare a buon fine in quella situazione, ma quando ormai è in vista del condominio dove abita, le sue speranze all’improvviso precipitano in maniera quasi definitiva. 
E’ tardi, le finestre sono tutte buie, la sua vicina sicuramente già a letto, e soltanto disturbarla adesso a lui pare un’impresa. In più, nella giornata seguente, coloro che lo conoscono sapranno che il loro vicino chissà come si è trascinato fino là completamente ubriaco, e che senza alcun criterio ha avuto l'impudenza di interrompere la calma e la rispettabilità di un intero condominio, ridendo sguaiatamente per strada assieme a chissà quali amici di bevute, e svegliando tutte le persone ammodo nel pieno della notte. Una persona sgradevole, diranno; uno verso cui non si può più rivolgere neppure un saluto cortese; una figura da isolare e da allontanare al più presto, proprio per evitare in futuro ulteriori sconvenienze del genere. Diranno subito che è stato visto poco sobrio ogni sera, e chissà da quanto tempo a questa parte, che è un tizio ignobile, e soprattutto non merita niente, neppure un minimo di tolleranza da parte di chi lo conosce anche solo di vista.
Con questi pensieri giunge disperato ad appoggiarsi al portone, lo accarezza, osserva i pulsanti dei campanelli così a portata di mano, cerca il nome della sua vicina, anche se uno sgomento improvviso lo prende. Allunga un dito tremante, è quasi sul punto di fare quel passo irreversibile, quando invece si ritrova ad infilare la mano dentro la tasca, quasi con un gesto di orgoglio. Ed ecco, incredibilmente, la sua chiave è proprio lì, in una semplice piega di quella stoffa dove prima non aveva cercato; è salvo, indubbiamente, anche se soltanto per questa volta.


Bruno Magnolfi

martedì 27 ottobre 2015

Pensieri piccoli.

            

            Tutto oramai è fuori controllo, penso. Inutile illudersi, a me basta girare per le strade di questo quartiere per rendermi conto che ognuno di noi è preso soltanto dai propri problemi, e che non riesce nemmeno a immaginare quali siano i temi che invece riguardano tutti. Mi soffermo qualche minuto ad osservare un palazzo di recente costruzione, poi però vado avanti, a cercare ancora quegli elementi che restano a mostrare le cose così come sono sempre state.
            Gianni, dice qualcuno da dietro. E’ un amico di sempre che mi chiama, uno dei pochi che ancora frequento. Facciamo assieme due passi, propone. Va bene, rispondo con un sorriso, devo soltanto andare alle poste centrali, quelle di piazza Repubblica. Camminiamo affiancati perciò, e lui mi spiega le proprie piccole difficoltà nel sentirsi a suo agio in questa realtà capricciosa, zeppa di elementi antipatici e negativi. Io però gli sorrido: era nell’ aria che tutto sarebbe prima o dopo diventato così, gli faccio presente, una realtà piena di fastidi e di grandi sospetti per tutto e per tutti. Vorrei che qualcosa cambiasse, fa lui, ma non so neanche io di preciso che cosa. Rallento, mi fermo, gli assesto una debole pacca ironica sopra le spalle, e sorrido, dico che questi sono i soliti argomenti che non portano proprio da alcuna parte. Dobbiamo fare, dico, essere precisi, ribellarsi, tirare fuori le proprie opinioni e farne bandiera.
Lui non mi guarda, forse c’è rimasto male, penso; dice che adesso comunque ha qualcos’altro da fare, deve perciò andarsene, e così quasi all’improvviso mi saluta, e se ne va subito per una delle vie laterali senza neppure voltarsi. Forse ho esagerato, penso; adesso vorrei quasi corrergli dietro, cercare di spiegarmi meglio con lui, dirgli che in fondo siamo tutti nella medesima barca, e parlando con cordialità aggiungere molte altre cose del genere, ma lui adesso è già lontano, anzi, è ormai sparito in mezzo alla gente. Forse devo trovare un maggiore equilibrio, rifletto; qualcosa che mi permetta di dire sempre quello che penso, ma senza dare sui nervi a nessuno.
Alle poste centrali c'è molta gente, mi metto così in fila di fronte ad uno sportello. Sto lì, attendo il mio turno, ed intanto mi viene voglia di cantare qualcosa, un motivetto senza alcun impegno, tanto per rompere la noia del momento. Qualcuno si volta mentre intono una vecchia canzone, forse si pensa che questo sia il luogo più insolito dove fare cose del genere, ma a me non importa un bel niente. Torna il mio amico, mi vede, si accosta, dice che forse adesso dovrei smetterla, probabilmente sto dando fastidio, e che tutti anche se fingono non ci sia niente di strano, in realtà non riescono a sopportare facilmente un comportamento del genere. Va bene, gli faccio, per me era soltanto il tentativo di coprire almeno in parte il profondo brusio monotono di queste ampie sale. Lui sorride: sei soltanto un bambino, dice; bisogna sempre lasciarti fare quello che vuoi, altrimenti metti su il broncio.
Va bene, dico io: forse hai ragione. Ma adesso non riesco neppure a rammentare la ragione per la quale ero venuto fin qui: forse dovevo ritirare qualcosa, o spedire una lettera, non so, non ricordo. Mentre parlo continuo a passare in rassegna le tasche, e quasi subito così trovo una busta già indirizzata. Ecco, gli dico al mio amico, ecco la risposta ad alcune questioni: qua dentro ci sono le mie parole di disprezzo per molte delle cose che vengono o non vengono fatte, indirizzate direttamente al nostro Presidente. E’ il mio messaggio nella bottiglia, il mio grido di dolore, una sciocchezza qualunque, mi dirai sicuramente; ti do ragione, in fondo, ma io adesso non starei affatto bene se non riuscissi a consegnare nelle mani di qualcuno questo mio piccolo semplice pensiero.


Bruno Magnolfi

giovedì 22 ottobre 2015

Presupposti cambiamenti.

            
            Adesso lui se ne sta soprattutto in casa, spesso per quasi tutta la giornata; dice che la sua salute è precaria, che deve riguardarsi, e che non può permettersi più quella vita che faceva un tempo. Certe volte, durante i pomeriggi di sole, pare che esca soltanto sul balcone, semplicemente per piazzarsi seduto lì, a leggere qualcosa e ad osservare il passaggio della gente lungo la strada di fronte a sé. Chi lo ha conosciuto tempo addietro dice che non sembra più neppure lui: parla poco, è sempre serio, evasivo, si guarda attorno senza cambiare quasi mai espressione, limitandosi spesso ad osservare qualcosa come di invisibile davanti a sé.
            Franco va a trovarlo certe volte, gli parla degli ultimi avvenimenti, degli amici comuni, ma anche delle innocue scorribande che ancora loro si permettono di fare qualche volta. Sciocche attività fatte in piena leggerezza, che tolgono forse alle giornate il loro carico di responsabilità. Lui accenna un sorriso, ascolta tutto quanto gli viene raccontato con una certa attenzione, almeno in apparenza, ma è come se avesse superato da tempo tutto questo, come se la sua dimensione attuale fosse ormai un’altra, ben lontana e differente da certe suggestioni. Franco gli chiede di sfuggita della sua salute, tanto per parlare, ma lui qualche volta sembra come evadere la domanda, e in altri casi si limita a rispondere soltanto a cenni, in modo estremamente vago, come non volesse addirittura dire niente di questo argomento, o quasi per sottolineare che non c'è proprio da dirne assolutamente niente. Quando Franco se ne va, lui lo saluta appena facendosi vedere un ultimo attimo sopra al suo terrazzino, quasi fosse quella proprio la volta finale, il suo congedo terminale da un percorso che oramai non lo interessa più.
Agli amici del bar Franco non sa neppure cosa riferire: alza le spalle, spiega che lui sta là, ma è come se non fosse più neppure la medesima persona. Forse ha ragione però, dice ancora: siamo destinati tutti a cambiare prima o dopo, non credo neanche ci sia un’altra soluzione. Probabilmente dobbiamo presto trasformare anche noi i nostri comportamenti e tutte le abitudini, questo è il punto. Gli altri lo ascoltano senza guardare neppure dalla sua parte, ed alzano le spalle, non sanno neppure loro cosa dire. E’ facile che in qualche modo lui coltivasse da sempre dentro di sé qualcosa di quel genere, fa uno dopo un po’; siamo noi che magari non ce ne siamo mai neppure accorti. Forse, fa un altro; però allora quello che accade a lui potrebbe succedere anche a noi nella medesima maniera. Può darsi, dice Franco, oppure lui era di un’altra pasta fin dall’inizio, chi lo sa.
Poi riprendono a giocare al biliardo e a fare le solite battute spiritose. Ci ha superato, indubbiamente, dice uno quasi tra i denti mentre prova un difficile rinquarto. A suo merito però dobbiamo dire che il cambiamento lui non l'ha subito, anzi, lo ha addirittura cavalcato, e peraltro senza alcun indugio. E poi anche noi non si può pretendere di restare sempre uguali, dobbiamo mettere nel conto che la realtà va usata e poi gettata via, come quasi tutto al giorno d’oggi. Quindi siamo noi i deboli, i nostalgici, i conservatori, dice Franco. Forse, dice un altro. D'accordo, dicono in due o tre alla fine del discorso: però terminiamo almeno questa partita; poi così tutti quanti insieme potremo finalmente voltare questa pagina.


Bruno Magnolfi

venerdì 16 ottobre 2015

Voglia di niente.

            

Camminano piano lungo la strada poco frequentata di quel quartiere. Dicono che prossimamente non ci saranno variazioni. Ridono, quando uno di loro riesce ad essere in qualche modo ironico, ma in fondo provano un senso leggero di amarezza, consapevoli dello stallo che si è creato. Poi si fermano, si guardano di sfuggita, accendono delle sigarette, scherzano, però intanto non sanno neppure di preciso verso dove dirigersi.
Uno cerca con calma di spiegare il proprio punto di vista su qualcosa, ma viene subito interrotto con qualche battuta, e lui così non riesce a tirare nemmeno le conclusioni che aveva nella mente, mentre il suo argomentare si spenge. Non importa, pensano tutti, siamo comunque d’accordo, non c’è neppure bisogno di dirselo.
Quando riprendono a camminare qualcuno ha già voglia di tornarsene indietro. Via, arriviamo fino alle panchine, dice lei. Così vanno avanti e si trascinano per qualche altra decina di metri, fino a sedersi. Sarebbe bello adesso parlare di qualcosa di importante, pensa qualcuno di loro. Ma a nessuno viene a mente un qualsiasi argomento che ne valga davvero la pena, perciò proseguono a dirsi le solite cose e nient’altro.
Lei tenta di avere uno spunto di entusiasmo: dice che ci sarebbe da andare al cinema, una delle sere a venire, ha letto qualcosa di una pellicola che merita. Tutti sono d'accordo, persino chi resta in silenzio, ed uno dice che se volessero potrebbero addirittura andarci in quello stesso pomeriggio. Non ci sono i soldi per tutti, questo è il punto, ma si rovesciano le tasche e tramite una rete di prestiti si raggiunge la cifra. C'è da prendere il tram, si fa presente, e così tutti si alzano, anche se un po’ svogliatamente, e si avviano a raggiungere la vicina fermata.
Uno però spiega che non ci sta, che se ne va a casa, non ha voglia di cinema, e aggiunge che ha comunque qualcos'altro da fare, senza spiegare che cosa. Altri due bofonchiano qualcosa di simile, e alla fine restano soltanto in tre a raggiungere la fermata del tram. Lei dice a questo punto che forse potrebbero persino rimandare, e anche gli altri in fondo sembrano d'accordo. Così si infilano in un baretto lì accanto, si prendono una birra per uno e si sistemano ad un tavolino.
Sono stanca, dice lei, non si combina mai niente, ci trasciniamo in giro senza avere ogni volta nemmeno un'idea nella testa. E’ vero dice un altro, ma non è colpa nostra se per noi non ci sono delle vere possibilità. Da domani comunque io provo a cambiare, fa il terzo: non ci vuole poi molto, basta volerlo. Continuano a bere e a starsene lì per una buona mezz'ora, infine quando escono, la sera si è già fatta avanti, e praticamente è quasi l'ora per darsi i saluti.
Non te la pigliare, dicono a lei gli altri due: cosa vuoi pretendere da questo buco di città dove ci ritroviamo; tutto scorre in mezzo ad una normalità sconcertante, anche soltanto per questo andarcene in giro come facciamo c’è di sicuro chi ha da ridire qualcosa. Non cambierà mai nulla, bisogna convincersi, tanto vale che almeno noi evitiamo di farci influenzare da questo andazzo. Poi restano tutti in silenzio, arrivano presto ad un angolo e senza aggiungere nulla si salutano con la testa bassa e senza grande enfasi.
Lei, rimasta da sola, preme il pulsante dell’ascensore del suo palazzo: sono soltanto tre piani di scale, pensa con calma; ma stasera non ho proprio voglia di farmeli a piedi.

Bruno Magnolfi 


mercoledì 14 ottobre 2015

Conclusioni progettuali.

            

            Spesso io penso troppo. D’altra parte in questa clinica per anziani ho tanto di quel tempo che non saprei proprio in quale diversa maniera impiegarlo. Credo proprio che l’errore principale compiuto su di me fin dagli inizi, fin da quando cioè ero un piccolo bambino qualsiasi, sia stato quello di avermi lasciato scegliere autonomamente la mia strada, laddove al contrario avrei avuto semplicemente bisogno che qualcuno avesse deciso da quel momento in avanti tutto quanto per me, stabilendo ogni passo della mia crescita e della mia maturazione, definendo perfino ogni più semplice particolare per ciò che avrei dovuto essere durante tutta la mia esistenza. Invece ho dovuto sempre arrangiarmi da solo ad interpretare la mia indole e le mie presunte vocazioni, lasciando regolarmente per strada clamorosi errori di valutazione: incredibili perdite di tempo dietro ad elementi perfettamente inutili per la mia carriera, scomposti affaticamenti nella ricerca di affinità spesso inesistenti, fino così ad ottenere come solo risultato quello di arrancare per decenni lungo incredibili pendii in salita che non hanno quasi mai portato da alcuna parte rilevante, lasciandomi quindi quasi incapace di combinare davvero qualcosa di buono. 
            Adesso mi sento depresso e affaticato da tutto questo lavorio senza senso, dal mio perenne sforzo inappagato, e così anche qui, vecchio tra vecchi, in questo dorato rifugio, mi guardo attorno e non mi sento neppure adesso perfettamente a mio agio. Tant’è che ho deciso di fuggire, giusto per dare una spallata al mio infausto destino, ed evitare così di fingere ancora l’accettazione del riposo forzato che in questo luogo mi viene purtroppo offerto continuamente a piene mani.
Peraltro non è affatto difficile penso: non si tratta difatti di correre per chissà quali strade deserte nella ricerca di un qualche rifugio. Ho del denaro, quello che nonostante tutto sono riuscito ad accumulare durante la mia travagliata esistenza, ed è anche sufficiente per un periodo piuttosto lungo, così posso andare a spendere soldi dove meglio mi sembra, anche se il punto sostanziale non è neanche questo. Voglio far perdere le mie tracce, lasciare un grande punto interrogativo dietro di me, ed infischiarmene completamente di parenti, di amici e di conoscenti. Puro egoismo, potrei definirlo, oppure anche l’ultima scelta prima dell'oblio che bussa alla porta.
Scavalcando stanotte la finestra di un ripostiglio del piano terra, posso accedere facilmente al giardino, e da lì uscire tramite un cancellino sul retro di cui mi sono procurato la chiave. Un’auto pubblica con autista mi attende sulla strada in un luogo poco distante, e dalla stazione ferroviaria raggiunta un convoglio di cui ho già il biglietto mi trasborda in sole dieci ore di viaggio in una grande città all’estero. Ed ecco, è proprio lì, in quel luogo straniero, dove ho deciso di sentirmi un uomo libero. Non perché dove sono mi manchi la libertà; quanto perché mi va di scompigliare le carte, rendere complicati ed irrequieti i miei ultimi anni di vita. 
Così tutto è pronto, la piccola valigia è sistemata sotto al mio letto, i vestiti da indossare sono pronti dentro l’armadio, tutto ciò che mi serve non attende altro che me. Eppure questo letto così confortevole mi attira profondamente, la serata mi appare leggera, intorno non sento giungere neppure un rumore. Così mi sdraio nell’attesa, poi mi addormento, e infine sogno d’essere già lì, dove si conclude tutto il mio progetto. Ma il sonno è profondo, il riposo una calamita inestinguibile, i miei pensieri presto si trasformano in svolazzi divertiti che attraversano tutta la notte. Sarà per un’altra volta, penso al mattino, o chissà.


Bruno Magnolfi

lunedì 12 ottobre 2015

Lenta costruzione di uno come tutti.

           
            Anche in mezzo a tutti gli amici, proprio mentre loro si scambiano scherzi e battute come quasi sempre continuano a fare, lui non riesce mai ad argomentare qualcosa di personale che valga la pena di essere ascoltato, limitandosi perciò a seguire gli altri e tutt’al più ad annuire, magari prestando attenzione soltanto riguardo certi argomenti, e in ogni caso sempre senza alcuna insistenza. Qualsiasi cosa venga detta, gli viene naturale confrontarla immediatamente con la propria opinione, anche se poi, attorno a molti temi, gli vengono in testa mille altri dubbi, tanto da non riuscire neppure a capire se sia davvero d’accordo con ciò che si dice tra quei tavolini di quel locale dimesso, oppure no. Pur tentando ogni volta di conservare il massimo possibile di obiettività, facoltà che talvolta purtroppo gli sfugge, il suo parere finale in tutto questo, pur tenuto celato come solo a lui può riuscire, non risulta mai netto e ben definito neppure a se stesso.
            I ragazzi, quando stanno là dentro, in quella solita saletta del bar che frequentano quasi ogni giorno, riescono comunque a non essere mai apatici, anche se in testa non hanno generalmente molte idee. Lui spesso li osserva con insistenza quando parlano, quindi riflette, e qualche volta teme addirittura di essere preso per uno un po’ troppo triste, forse perché appare sempre distante dagli altri, come a rincorrere pensieri divergenti. Si sforza costantemente di essere diverso dall’idea che i suoi amici in certi casi si possono fare di lui, ma non gli risulta per niente una cosa facile.
Proprio per questo, durante un certo periodo, evita addirittura di farsi vedere là dentro. Resta a casa per diversi pomeriggi dopo la scuola, e cerca così di comprendere che cosa voglia davvero, anche se intanto studia qualcosa, si prepara per affrontare delle difficoltà di cui teme, pur non sapendo neppure lui cosa siano. Un paio dei ragazzi dopo due settimane va persino a trovarlo, e così lui li fa entrare per sistemarsi insieme a loro nella sua cameretta, a parlare senza troppo impegno e ad ascoltare un po' della sua musica, anche se  in aria c'è un vago imbarazzo, considerato che nessuno di loro riesce a dire davvero ciò che gli passa dentro la testa.
Ma lui di punto in bianco inizia a descrivere un sogno, e gli amici volentieri lo ascoltano. Mentre parla abbassa il volume della musica stereo, poi si alza in piedi, inizia a gesticolare leggermente anche se con lentezza, cercando come di descrivere in aria, con le mani e con le braccia, quelle stesse proprie parole che dice. Inventa, si lascia anche andare, gonfia le frasi, farnetica quasi, tanto che i ragazzi risultano addirittura impressionati dalle sue capacità fino ad allora ignorate, doti che forse neppure lui immaginava davvero di possedere.
Quando se ne vanno, d’improvviso a lui pare di essere pienamente soddisfatto di sé. Non sa di preciso neppure che cosa abbia detto, ma sa che lo ha fatto bene, che ha espresso qualcosa che teneva in serbo da tempo, e sa che probabilmente ha persino convinto i ragazzi di qualcosa che forse non saprebbe neppure descrivere. Il giorno seguente torna nel solito locale dove si vedono tutti, ed improvvisamente gli altri si fermano, gli lasciano spazio, attendono in silenzio, come ha già fatto, che tiri fuori ancora le sue cose da dire e da spiegare. Lui si siede, con calma, prendendo tempo. Poi dice sottovoce semplicemente che gli dispiace: che loro sono i suoi amici, è vero, quelli ai quali vuol bene. Ma non si devono attendere molto da lui: sono uno come tutti, spiega; nient’altro.


Bruno Magnolfi 

lunedì 5 ottobre 2015

Legittima condanna.

           

            Me ne sto immobile davanti a te che continui ad osservarti attorno quasi ignorandomi. In realtà ci sono troppe  persone in questo locale per poterti essere davvero accorta di una persona che si limita a guardarti con profondità solo qualche volta e quando si ricorda che ci sei. E poi mi chiedo per quale motivo in mezzo a tutti dovresti fare caso proprio ad uno come me, così ordinario ed anonimo, addirittura, almeno in apparenza, senza alcun dettaglio interessante. Perciò mi disinteresso momentaneamente dei tuoi occhioni belli e della tua faccia così espressiva, per riprendere a sorseggiare la mia birra e leggere qualcosa sopra una rivista che ho trovato sul mio tavolo.
            Tu però poco dopo ti alzi, sistemi la gonna corta con la mano e sorridi ad un paio di persone che comprendono la tua manovra e ti lasciano passare volentieri. Ti guardi ancora attorno, ti muovi con destrezza, si vede che sai benissimo come riuscire a farti notare, scorri in avanti e con tutta calma arrivi fino al bancone del locale, forse per chiedere qualcosa. I camerieri però sono tutti impegnati, così ti guardo ed attendo ancora qualche momento; poi anche io mi alzo, raccolgo il mio giornale e infine mi accosto con indifferenza proprio vicino a te, e quasi stupidamente chiedo se per caso posso esserti utile. Tu mi guardi soltanto per un attimo, assumendo una vaga aria di rimprovero, scuoti appena la testa, e poi aspetti semplicemente che il cameriere venga da te e risponda per mestiere a tutti i tuoi desideri.
            Il mio tentativo è andato male, penso, non ho proprio neppure il coraggio di insistere su questa strada, così abbasso gli occhi semplicemente sopra la mia rivista e ripiombo nella mia ordinarietà, definitivamente, credo. Con il massimo di banalità ordino una nuova birra piccola, e mi disinteresso di qualsiasi altra cosa mi circondi, anche se inaspettatamente è lei adesso che dice: scusi, scusi; non vorrei apparirle inopportuna, mi spiega mentre mi guarda; però lei adesso non può d’un tratto ignorarmi così, lasciare che tutto cada nel nulla in questo modo. Poi subito ride, come a spiegare che la sua personalità è ad un livello molto più alto della mia, e che ancora prima di far nascere dei fraintendimenti, preferisce troncare così qualsiasi ulteriore possibilità.
            Rido vagamente anche io, in fondo non mi restano grandi scelte di comportamento. Normalmente cercherei di farmi piccolo, di evitare il suo sguardo, di lasciare che le mie parole svanissero in aria come il fumo di una qualsiasi sigaretta. Invece con un guizzo le dico subito: c’è una festa grande dove si balla qui vicino. Ci facciamo un salto per un’ora, e poi torniamo qui. Lei mi guarda e pensa. Credo che adesso, immagino mentre attendo una risposta, non possa riuscire a cavarsela con un no secco che non saprebbe neanche di nulla. Non può neppure fingere di avere altro per la mente, è più che chiaro, e in fondo è lei che si è rivolta a me quando ormai non ce n’era più alcun bisogno, ed il mio invito anche se appare una cretineria però è senz’altro onesto, senza trucchi. Accetto, mi dici con nettezza alla fine delle tue profonde riflessioni, ma prima finiamo i nostri bicchieri, e poi devo anche avvertire le mie amiche. Annuisco, e tu vai subito in bagno a sistemarti non so cosa.
            Infine torni già con la giacchina sulle spalle, e allora ci muoviamo, arriviamo insieme alla porta, io la apro con destrezza per lasciarti uscire prima di me, pronto come un turbine ad affrontare l’improvviso silenzio vuoto della strada, anche se poi, proprio sulla soglia, mi fermo con decisione e ti chiedo di aspettarmi soltanto per un attimo: ho dimenticato qualcosa, le dico con semplicità. Rientro, mi guardo attorno, e poi con calma torno a sedermi all’ultimo tavolino della sala, con la mia rivista ed il mio sguardo vago, chiedendo al cameriere una nuova birra piccola. Adesso mi prenderò tutti i suoi rimproveri, penso. Ma in fondo cosa importa, rifletto: me li merito quasi tutti.


            Bruno Magnolfi