venerdì 30 novembre 2012

Solamente un ragazzo a cavallo.


            
            Non so, dice lei; forse ci potrei pensare. E’ strana certe volte Rita quando parla di alcuni argomenti. Non riesci a capire se una cosa le vada oppure no, pensa lui mentre guarda da qualche altra parte per non dimostrarle di essere leggermente deluso. Certe volte lei lascia delle pause piene di interrogativi, lui si sente quasi imbarazzato in quei casi, anche se proprio non saprebbe neppure dire effettivamente per quale motivo.
            Poi all’improvviso Rita lo abbraccia, forse per rassicurarlo, ma è come se non lo toccasse nemmeno, tanto il suo comportamento appare impalpabile, quasi incomprensibile. E in un orecchio gli dice: va bene, come se l’entusiasmo che lui aveva inserito nella sua proposta di prima, non fosse ormai irrimediabilmente perduto.
            Rita si siede sul letto della sua camera, in silenzio. Non è un invito, lui lo sa bene, ma soltanto un comportamento come un altro, una maniera forse per prendere tempo, per vedere che cosa potrà dire lui adesso. Invece lui va verso la finestra, guarda fuori qualcosa mentre continua a tenere aperta tra le mani una rivista di arte dove ci sono, in molte pagine, una serie infinita di riproduzioni di altrettanti dipinti; il soggetto è un ragazzo a cavallo che galoppa come solo il vento può fare, tanto da plasmare le forme e i colori di tutto, quasi un’espressione di nuovo futurismo, portato in questa maniera fino al paradosso.
            A lui piace passare il tempo con Rita in quella stanza, gli sembra l’ambito dove possa capitare di tutto, e difatti, se ancora ci pensa, tante cose sono accadute là dentro, quasi fosse un vero spazio teatrale, un ambiente all’interno del quale tutto o quasi possa essere ammesso. Lei dice: usciamo; ma sottovoce, quasi parlasse soltanto a se stessa. Lui le risponde in modo ambiguo, come se davvero ne avesse gran voglia, ma qualcosa fosse capace di trattenerlo là dentro.
            Hai visto?, fa lui mostrando a Rita le illustrazioni che aveva osservato. Non mi piace, risponde lei senza aggiungere altro. Forse sarebbe possibile parlare a lungo di queste immagini, pensa lui muovendo qualche passo dentro la stanza e richiudendo la sua rivista. Ma non ha forse alcuna importanza; gli torna a mente la domenica precedente, quando loro due sono andati a vedere il mare in burrasca, e stringendola a sé gli è quasi venuto da piangere, tanto sentiva che lei era lì, con lui, non come adesso.
            D’accordo, dice alla fine, quasi con una leggerissima forma di rassegnazione: usciamo. Rita si alza, lo guarda, forse si attende qualcosa d’altro, magari cerca soltanto di studiare il suo comportamento. Raccoglie la rivista d’arte che lui ha lasciato sul letto, dice: portiamo anche questa, così parliamo di quelle immagini che ti hanno colpito. Lui la guarda, sa che è quello il suo vero abbraccio, così sorride, e le dice: va bene, vorrei anche parlare di noi, qualche volta, anche se credo proprio non mi sarà mai possibile. Ma forse non ha alcuna importanza, pensa; spesso le nostre sono soltanto parole destinate a sfumare in modo confuso nei concetti che esprimono, tanto da lasciarne nell’aria appena un’interpretazione possibile. E poi davvero, cosa importa: va bene così.

            Bruno Magnolfi

mercoledì 28 novembre 2012

Piccoli spostamenti.2.


            Sono sempre più convinto che voi abbiate tutti torto, penso, che non valga neppure la pena di stare ad ascoltare le vostre parole, le spiegazioni insensate che riuscite a mettere assieme. Osservo la strada che scorre sotto alla mia terrazza, e mi viene da ridere nel vedervi piccoli, sempre di corsa mentre vi muovete avanti e indietro alla ricerca di chissà che cosa. Rifletto sulle parole che ho appena ascoltato alla radio, mi sembrano solo tentativi falliti di spiegazione della realtà, e mi sento sempre più lontano dalle vostre idee, convinto della mia differenza di impostazione. Mi sono permesso uno strappo in avanti, penso, questo è il punto, adesso tutto il resto, anche voi, rimane semplicemente dietro di me.
            Poi mi siedo, appoggio una mano sul piano dello scrittoio, sposto alcuni libri, dei fogli, le mie penne per scrivere: non riuscirò a fare niente neppure stasera, penso, ma l’impianto di tutto quello che voglio dire ce l’ho, pervade ogni pensiero che mi passa dentro la testa, riesce a riempirla di significati, di senso, come una brezza improvvisa che gonfia le vele delle barche rimaste piantate fino ad ora nella bonaccia, durante la regata estiva sul lago.
            Di getto prendo un foglio, una matita, scrivo: forse potrei insegnare a qualcuno le mia esperienza, la mia maniera di vedere le cose; non perché abbia particolare importanza, ma soltanto perché in questa maniera voi forse riuscireste ad essere diversi da me, a scansare quegli ostacoli che non sono riuscito mai a togliere dal mio cammino, con i quali molto spesso ho dovuto perfino fare dei conti.
            Torno a spostare i libri da una parte all’altra del tavolo, a sistemare in un ordine diverso tutte le mie matite, mettere la sedia più accanto a questo scrittoio, e a schiarirmi la voce. Forse potrei dire cosa ho immaginato fin dall’inizio di questa faccenda, penso, così torno a scrivere: sembra strano, ma sono sicuro di non ricordare perfettamente tutto quanto, perché sono sicuro che la memoria poco per volta addolcisca le cose, le faccia diventare migliori, più familiari, in un modo tale che tutto ciò che succede, in una maniera o nell’altra, riesce dopo un po’ ad assumere un senso compiuto.
            Poi torno ad alzarmi e ad uscire sopra al terrazzo. Un vento leggero sembra spiri dal gruppo di case di fronte, quasi che la natura si stia adattando poco per volta alle invenzioni degli uomini, al loro ingegno, ai pensieri che hanno, e così torno a guardare la strada che adesso pare quasi un fiume di gente che si muove sopra l’asfalto. Il mio malessere è forte, penso, quasi quanto la mia distanza da tutto; sarà difficile riuscire a descrivere questo, tanto vale gettare via la carta su cui stanno scritti i miei appunti, queste poche parole, e restare sopra al terrazzo ad immaginare le barche che bordeggiano lente tra i marciapiedi e i palazzi, e guadagnano il largo, spinte da questo inusuale profumo di vento.

            Bruno Magnolfi

lunedì 26 novembre 2012

Donna di fiume.


            
            La casa sul fiume pareva come solcare incessantemente le acque, indirizzando la prua non verso una vera e propria direzione, ma quasi auspicando un mare remoto che doveva esserci per forza laggiù, da qualche parte, in fondo a quella corrente. Lei dalla finestra del primo piano osservava il tremolare dell’erba lungo la riva, mentre attendeva con impazienza il suo ritorno, come ogni sera, la cena pronta nel forno, la volontà solita di rompere al più presto possibile quella insopportabile solitudine, immersa completamente dentro l’attesa.
            Poi sentiva la macchina arrivare sul retro, lo sportello sbattuto, le scarpe sopra i tambureggianti gradini di legno. Avrebbe sempre voluto urlare in quel momento, inscenare un dolore che non sapeva neanche lei da dove potesse provenire, se non da ognuno di quei pomeriggi dolenti, silenziosi, marcati solo dal viaggio, dallo spostamento costante e continuo di tutta la sua abitazione, controcorrente, non verso il mare, ma verso le montagne lontane, dove stavano le sorgenti di tutte le cose. L’acqua scorreva al suo fianco, la navigazione era lenta e costante, certe volte l’orizzonte pareva quasi a portata di mano.
            Era felice del suo ritorno, certo, ma dentro a quel sentimento qualcosa sembrava assorbirne ogni dimostrazione, come se il tempo solitario appena trascorso ne reclamasse per sé almeno una parte. Quello era il momento più difficile del giorno, quel veloce trapasso da una stato a quell’altro: qualsiasi cosa sarebbe stata migliore potendo evitare quell’attimo. Certe volte aveva voglia di piangere, in altre occasioni era andata persino a nascondersi, come ad evitare una fase che il suo spirito non riusciva a sorreggere. Si sentiva raggiunta in quel momento, affiancata da lui, come se il suo lento percorrere il fiume avesse trovato in quell’attimo qualcosa capace di farle piegare la testa, inchinata ad una specie di volontà superiore.
            Certe volte si sentiva soltanto come una bambina; non ne aveva mai parlato con lui: lui l’abbracciava, le sussurrava piccole dolci frasi, mostrava la sua gioia, forse gli sembrava di incarnare ogni volta il ritorno dell’eroe senza meriti, quello che torna e basta, come è giusto che sia, lasciando alle spalle, con indifferenza, una battaglia vinta oppure perduta. Lei certe volte sentiva la sua presenza ancora distante, ma lasciava che tutto scorresse con naturalezza, come il fiume là accanto, anche se il suo inconfessato dolore pareva gonfiare poco per volta il suo stato, spingerla via, come un vento impetuoso, lontano il più possibile da quella terribile attesa.
            Infine tutto accadde come per caso: lei uscì di casa per non sentire quel morso, seguì incantata l’onda del fiume che quel giorno pareva lasciarla navigare in maniera molto più libera di quanto si fosse mai immaginata, e quando lui tornò a casa, semplicemente, lei non c’era più.

            Bruno Magnolfi

venerdì 23 novembre 2012

Dialogo n. 9. Questo steccato cadente.


            

            Il vecchio sta fermo sopra la veranda mentre osserva Peter che si avvicina costeggiando un tratto ancora in piedi dello steccato di fronte. Non pensa niente in particolare, sa soltanto che tra poco rientrerà in casa per versarsi un altro bicchiere di vino rosso. Peter lo osserva distrattamente camminando con lentezza, e ad un tratto sente squillare dentro la tasca il telefono portatile, risponde, e senza fermarsi ascolta qualcuno che gli parla direttamente dentro l’orecchio. Poi interrompe la comunicazione con un grugnito, si ferma e dice soltanto: avrei bisogno di un favore, con una voce forse un po’ troppo alta se avesse continuato a parlare al telefono, ma non molto forte per convincere il vecchio che sta davvero riferendosi a lui.
            Difatti il vecchio non risponde né dice qualcosa, limitandosi a guardare una striscia di terra lontana sopra la spalla dello scocciatore che gli è quasi di fronte. Peter dice: se mi prestate il vostro furgone arrivo in paese e tra un’ora al massimo sono già di ritorno. Ho forato una gomma sulla strada principale, oltre quegli alberi, e quella di scorta è completamente sgonfiata.
            Un po’ di vento scivola sull’erba e sugli alberi senza rumore, il vecchio sogna il suo bicchiere di vino, adesso è sicuro che tra qualche momento starà seduto nella cucina di casa a vuotarselo in gola; riflette che lui non ha alcun furgone da prestare, suo figlio non tornerà prima di sera, ma oltre questo pensiero non gli interessa neppure rispondere. Peter si avvicina di altri tre o quattro passi, ma all’improvviso ha come la sensazione che l’uomo sull’uscio di casa abbia a portata di mano un fucile carico, così torna a fermarsi, forse capisce che non otterrà un bel niente dal vecchio, e infine pensa al volo che probabilmente sarà meglio per lui lasciar perdere tutto.
            Attende mezzo minuto, si accende una sigaretta, poi concede un’ultima occhiata al vecchio impassibile, e infine si volta per allontanarsi. Appoggia una mano sopra al paletto dello steccato, guarda attorno se ci sono altre case poco distanti, poi aspira una boccata di fumo. In molti passano da queste parti, dice il vecchio, non so cosa cercano, forse c’è qualcosa laggiù, oltre la fila degli alberi. Ho sempre badato ai fatti miei, dice ancora il vecchio, però non mi piace che qualcuno superi questo steccato, per quanto sia marcio e mezzo caduto. Non aiuto nessuno, sono abituato a stare da solo per il tempo di ogni giornata, e tutti i pensieri girano nella testa per conto proprio quando si vive così; ma in ogni caso non voglio lasciare che qualcuno interrompa i miei modi di essere, non lo permetterò, sono così e non voglio cambiare.
            Peter torna ad osservarlo, non si aspettava una tirata del genere, anche se il vecchio non si è riferito a nessuno, quasi avesse pensato qualcosa per sé dicendola al vento con voce alta. Sa che non ha bevuto la storia della gomma ed il resto, però pensa qualcosa che possa concedergli un’altra possibilità. Posso ripassare quando tornerà vostro figlio, dice tanto per mostrargli che è un osso duro. Il vecchio non lo ascolta neppure, però misura la faccia del forestiero forse per la prima volta, osserva i suoi atteggiamenti, perfino il modo come è vestito. Alla fine, con calma, estrae il suo fucile, prende la mira e spara di striscio ad un braccio di Peter. Quello cade urlando qualcosa, poi si rialza tenendosi la spalla, bestemmiando qualcosa mentre già si allontana, e imprecando contro tutto ciò che gli viene a mente in quel momento, come se avesse soltanto fatto uno stupido sbaglio.
            Poi il vecchio rientra, si siede, versa mezzo bicchiere di vino dalla bottiglia e ne beve subito un sorso. La vita è fatta di risposte, pensa; il resto sono soltanto chiacchiere insulse.

            Bruno Magnolfi

mercoledì 21 novembre 2012

Incontro.


            

            Cesare era entrato dentro al portone del palazzo dove abitava, lo aveva richiuso alle sue spalle, poi era rimasto lì, indeciso su ciò che aveva veramente voglia di fare. Qualcuno, proprio in quel momento, era sceso di fretta lungo le scale di quel palazzo, aveva percorso quel tratto di ingresso rallentando l’andatura, guardato Cesare con un’espressione crucciata e anche con una certa insistenza, e poi lo aveva superato, aprendo l’uscio che dava sulla strada e sparendo in un attimo.
            Lui non aveva mai visto quella donna, o forse non si ricordava di lei, anche se gli era parsa sicura di sé in quei pochi gesti, quasi abitasse in un appartamento dei piani superiori, e conoscesse bene il suo vicino di casa, tanto da concedergli quell’occhiata esauriente, anche se nessuna parola era uscita dalla sua bocca; in quell’attimo in cui lei gli era passata vicino era come accaduto qualcosa di strano, Cesare adesso ne aveva coscienza, come se una parte di lui avesse cessato di essere nella stessa maniera di sempre, lasciando quasi lo spazio sufficiente per qualcosa di nuovo.
            Cesare ormai da tempo si era reso conto di essere stufo di raccontare a tutti la solita storia della sua vita, anche se ogni volta che lo faceva gli pareva che piccoli dettagli si modificassero nel suo raccontare, plasmandosi in funzione delle parole che ogni volta trovava più adatte alle sue descrizioni. Però, la maggior parte delle volte, quando si impegnava a spiegare le vicende che aveva vissuto, aveva sempre voglia che qualcuno gli chiedesse ancora qualcosa, magari anche con una certa insistenza, in modo da ritrovarsi costretto a scavare, ad attingere ad ogni particolare dentro se stesso, fino a trovare qualcosa che forse fino ad oggi gli era probabilmente quasi sfuggito.
            Lui aveva pensato spesso al passato, riflettuto con calma sui molteplici aspetti, e aveva sempre ripercorso le sue vicende come dando un’occhiata ad una serie di immagini, come fossero tante figure statiche della sua mente, file di oggetti quasi sospesi nel tempo; ma adesso, nel silenzio scuro dell’ingresso del suo condominio, all’improvviso gli sembrava che d’ora in avanti niente di tutto questo, assolutamente nulla di quanto credeva di aver costruito sulla base delle sue semplici esperienze, potesse essere più assolutamente possibile.
            Cesare ad un tratto sapeva di dover fare qualcosa come cercare di arrestare quella rapida perdita, quella grave mancanza che iniziava già a farsi sentire, così cercava di far forza sul suo coraggio, spingersi in avanti, affrontare la nuova realtà, e accostarsi al portone, aprirlo con energia, uscire velocemente sul marciapiede. Quella donna era ancora lì che lo stava aspettando, certo, non poteva essere in altra maniera. Lui la guardava, gli pareva che niente fosse sbagliato, ogni elemento era perfetto, tutto collimava come travasando ogni aspetto che aveva coltivato fino ad allora in quel semplice piccolo attimo.
            La donna si era voltata di nuovo verso di lui, non più per osservarlo, ma per farsi osservare, per lasciare che la mente di Cesare costruisse un percorso completo di identificazione, memorizzando e confrontando ogni dettaglio. Lui si era avvicinato, non molto, poi era rimasto fermo, stupefatto, all’improvviso incapace persino di parlare. Sarebbe stato meglio aver finto un’indifferenza completa, pensava; sarebbe stato meglio avesse corso su per le scale, continuava a pensare; sarebbe stato meglio qualsiasi altra cosa, ne era certo: ma lei adesso era lì, e questo era un fatto del tutto impossibile da disconoscere.

            Bruno Magnolfi


lunedì 19 novembre 2012

Involucri concentrici.


            

            Avendo comunque coscienza che stavo dormendo, ho fatto un sogno talmente realistico da avere paura che il mio risveglio ne neutralizzasse ogni esperienza acquisita. Infine, com’era del tutto inevitabile, la giornata ordinaria ha preso come sempre il sopravvento sul resto, e così mi sono fatto la barba, mi sono vestito, e come ogni mattina sono uscito da casa. Prima di andare ad infilarmi nell’ufficio dove lavoro da ben dodici anni, mi sono fermato in un caffè, ho preso un cornetto, un cappuccino, e mi sono seduto a sfogliare un giornale a disposizione dei clienti.
            Nelle pagine centrali si parlava di qualcosa che mi è parso estremamente interessante: si trattava di una persona che era riuscita ad annotare tutti i sogni fatti nell’arco di anni, tanto da costituire uno scaffale pieno di quaderni con le storie vissute soltanto con la mente nell’attimo stesso del suo riposo. L’articolo sosteneva che questa persona, rileggendo in seguito il materiale che giorno per giorno aveva accumulato, ad un tratto si era accorta che c’era un senso preciso che animava quei sogni, quasi un filo rosso che legava tutte quelle storie e quelle parole, tanto da spingerla a trarne un libro completo, voluminoso, quasi un ciclo di romanzi.
            Mi è parso subito un incoraggiamento alla vita quell’articolo, come se tutto fosse sempre possibile, anche nel momento di intimità massima come dormire. Ho tardato ancora prima di andare a rinchiudermi nel mio ufficio, ho pensato a lungo agli aspetti che poteva delineare un’esperienza del genere. Ho guardato la strada fuori dai vetri, ho seguito con lo sguardo qualche passante di fretta che inseguiva qualcosa; mi sono soffermato a mettere fuori fuoco le immagini che giungevano via via davanti ai miei occhi, e ad estraniarmi almeno in parte dal luogo pubblico dove restavo ancora seduto. Il cameriere mi ha toccato una spalla: sta bene?, mi ha chiesto, io gli ho sorriso e mi sono alzato dal tavolino.
            L’aria fredda della mattina sembrava adesso soltanto un ricordo lontano di qualcosa che all’inizio appariva forse piacevole, ma che dopo pochi minuti era già un’altra cosa: la consapevolezza della forza che si poteva avere dentro se stessi pareva spingermi lontano da tutto, come se non fossi più una vera parte dell’intero ingranaggio già in movimento. Ero vicino all’edificio dove mi recavo per il mio lavoro, ma nella realtà mi sentivo lontano da lì, proiettato dietro a pensieri che non avevo mai fatto, come se la mia mente in autonomia avesse preso il controllo completo delle scelte da fare.
            Con lentezza estenuante mi avvicinavo al palazzo di uffici, cosciente di essere già in forte ritardo: un’indifferenza completa continuava a determinare i miei movimenti; le persone attorno si muovevano con rapidità, le auto, i mezzi pubblici, tutto quanto era proiettato in un vortice che non faceva più parte di me, come mi fossi sganciato da tutto, e all’improvviso sentissi una forte lontananza da ciò che ero stato, e che di fatto avrei dovuto essere ancora.  
            Gli ultimi passi prima di arrivare al lavoro si facevano sempre più estenuanti, gettandomi in un torpore colmo di disagio, quasi la ricerca faticosa di resistere prima di tornare ad essere l’uomo di sempre. Forse, d’improvviso, avrei voluto addirittura recuperare del tempo, magari mettermi a correre, ma pareva impossibile, come se le mie gambe non fossero adatte ad una sfida del genere. Infine ho avvertito vicinissimo un suono elettronico che continuava a trillare, e così, di soprassalto, mi sono svegliato davvero.

            Bruno Magnolfi


giovedì 15 novembre 2012

Una donna con la sua bicicletta. 2.


            

            Soltanto pochi anni fa tutto mi sembrava ancora possibile. Avevo acquistato una bicicletta nuova, ed avevo iniziato a girare per tutte le strade di questa città che, per un motivo od un altro, non ero stata capace in tanto tempo di frequentare. Voltavo un angolo ad un incrocio, e improvvisamente scoprivo una prospettiva del tutto nuova, una fila di alberi lungo un viale, delle facciate di case particolari, dei vecchi muri di pietra, incanto di una cultura attenta anche al punto di vista di un qualsiasi anonimo viaggiatore.
            Pedalavo con calma, mi fermavo, entravo in qualche vecchia tabaccheria oppure da un droghiere, e mi pareva di respirare la mia città in ogni sua forma, quartiere dopo quartiere, un luogo dopo l’altro. Tornavo a casa, poi, e mi ritrovavo a pensare a tutto quello che ero riuscita a scoprire, e mi sentivo bene, contenta, parevano sufficienti queste piccole cose per vivere bene, sentirsi in perfetta armonia con questo agglomerato di vecchie case e di strade antiche. Abitavo da sola, non frequentavo nessuno, e anche se non avevo moltissimo tempo per questi miei giri, quando la giornata si mostrava propizia inforcavo la mia bicicletta e me ne andavo incontro alla città.
            Mi pareva poco per volta di conquistare qualcosa di particolarmente prezioso, e in questa maniera non mi sentivo mai sola, circondata com’ero da tutte quelle facce e quelle espressioni che incrociavo per strada nel mio pedalare. Un giorno però caddi a terra, non riesco ancora oggi a comprenderne bene il motivo. Avevo notato un uomo, lungo il viale, e ne ero stata attratta, inutile negarlo; e questo era successo nello stesso momento in cui avevo messo la ruota della mia bicicletta sopra una pietra sconnessa. Non mi ero fatta molto male, ma in molti erano accorsi, avevano cercato di rendersi utili fin troppo nel cercare di rialzarmi e farmi coraggio, ma quell’uomo che avevo notato non si era neppure sollevato dalla panchina dove stava seduto.
            Inizialmente avevo pensato fosse soltanto una scortesia da parte sua, ma una volta risalita sulla mia bicicletta, in considerazione di quanto era accaduto, mi era parso il suo un gesto atto solo ad evitare l’eccessiva curiosità che gli altri avevano mostrato. Così avevo ripreso con calma la mia pedalata, ma poco dopo mi ero sentita quasi in dovere di tornare sopra i miei passi, avvicinarmi alla panchina dove ancora si tratteneva quell’uomo, e ringraziarlo. Lui aveva sorriso, si era alzato dal suo posto, ed io avevo messo un piede a terra, fermandomi.
            Non si era poi fatta male, aveva detto lui sorridendo. Anch’io avevo sorriso, e l’uomo mi era venuto vicino, aveva sistemato la mia bicicletta accanto al marciapiede, poi mi aveva invitato a prendere qualcosa nel caffè accanto. Lo avevo seguito, ci eravamo presentati, ed avevamo fatto conoscenza. Ci eravamo dati appuntamento per il giorno seguente, e poi per il giorno dopo, e ancora per tutti i giorni a venire, lungo un tempo che andò avanti per molto. Lui mi aveva invitato da subito a salire sulla sua automobile, ed io avevo lasciato ben volentieri la bicicletta, andando insieme a lui a guardare quegli scorci della città che adesso avevo il piacere di mostrare anche a quell’uomo così attento ai particolari. Infine litigammo, iniziando a vederci sempre più raramente, e quando tirai fuori di nuovo la mia bicicletta, mi parve comunque di avere ormai perso qualcosa di importante, forse un vero rapporto d’affetto in cui avevo sperato, forse la concreta possibilità di non sentirmi più sola come molte volte era successo; oppure, all’improvviso, vedevo soltanto ormai tramontato anche lo spirito giusto per andarmene ancora a girare per la città senza una meta precisa.   

            Bruno Magnolfi


mercoledì 14 novembre 2012

Dialogo n. 8. Due, forse come altri due.


            
            Mi sento immerso in una situazione che non mi appartiene, eppure non ne soffro, credo anzi di poter sopportare a lungo tutta questa angoscia sottile che provo nel guardare gli altri, ascoltando perfino quelle risapute giustificazioni di chi si è adattato benissimo a tutto, e spesso sente anche il dovere di spiegare i suoi meravigliosi successi, il suo vivere bene, assolutamente integrato. Incontro ogni giorno persone così, hanno smesso quasi tutte ormai di nascondersi, adesso vagano in lungo e in largo quasi ridendo di tutti, ma quando incontrano qualcuno come me, pieno di rancori, senza alcun aggancio per mettersi davvero in carreggiata, cercano di stare apparentemente dalla sua stessa parte, fino però a farlo sentire, ad un certo punto, fuori da ogni logica, sbagliato, uno che non ha proprio capito come sia davvero starsene al mondo. Spargo quasi sempre indifferenza nei confronti di persone come queste, eppure sento forte da sempre un moto profondo di competizione verso di loro, quasi questo fosse un elemento fortemente radicato nella mia natura.
            Certe volte entro in un caffè per alleggerire questi miei pensieri, mi lascio servire una birra, anche più d’una, in certi casi, e resto lì, come in un angolo neutrale della realtà, dove certe logiche, almeno per quella mezz’ora o poco di più, sembrano non avere valore. E’ qui che ho incontrato quella ragazza, Francesca, un tipo di donna non bella, forse però interessante, leggermente maschile nei modi, come di chi, a furia di stare sulla difensiva, è riuscito a indurirsi, a corazzarsi con una pelle più spessa di qualsiasi avversità.
            Inutile leccarsi le ferite, le ho detto; e lei ha annuito. Forse sono una ragazza facile, ha spiegato, ma non mi concedo del tutto: trattengo tanto per me, anche se in fondo non ho molto da perdere, e questo mio modo di pormi ritengo per me sia una grande fortuna. Così siamo usciti da dentro al locale, abbiamo camminato insieme lungo le strade di sempre, cercando di avere degli occhi almeno un po’ differenti per osservare tutto ciò che già conoscevamo ampiamente. Ci siamo baciati con un certo stupore, come fosse una meravigliosa scoperta, oppure fingendo di avere ancora le capacità per sentirsi vicini, dallo stesso lato del mondo, migliori di tanti, anche se di quest’ultima cosa, a dire il vero, non abbiamo neppure saputo spiegarci il perché.  
            Sono trascorsi in questa maniera dei giorni, delle settimane, persino un paio di mesi, e le cose si sono complicate un poco per volta: vecchi problemi individuali mai risolti hanno messo in seria difficoltà la mia amicizia con Francesca, e la sua verso di me; il suo modo particolare di guardarmi mi ha fatto sentire sempre di più fuori dal mondo, come ancorato solo a delle pretese. Non abbiamo legami, le ho dovuto dire ad un tratto. E’ vero, ha risposto lei: ma se ci perdiamo adesso, non ci ritroveremo mai più.
            Così abbiamo provato un brivido comune, e allora ci siamo stretti, e abbiamo cercato in qualche maniera di superare quel momento negativo, perdendo in questo modo quel coraggio che ci faceva sentire diversi. Forse, proprio da quel momento, abbiamo iniziato a sentirci una coppia qualsiasi. Forse le nostre personalità non sono state capaci di quella coerenza che tanto ci premeva. Forse le cose si sono mostrate maggiormente ordinarie, risapute, quasi dozzinali. Ma in fondo che importa, abbiamo pensato: dobbiamo essere noi, persino quando sguazziamo in mezzo ai difetti.

            Bruno Magnolfi

lunedì 12 novembre 2012

Visite in ospedale.


            
            Gyorgy sta assolutamente immobile nella sua posizione, anche se sa che stasera non è stato legato al suo letto come in genere capita. Sente il tepore del suo stesso corpo, e questo basta a rassicurarlo, forse non ci sarà alcuna necessità di farsi del male, pensa, come è successo in altre occasioni. Tra poco probabilmente il suo amico sarà qui, come sempre, a soffiargli parole incomprensibili dentro le orecchie, a ridere di lui, a tormentarlo e farlo innervosire semplicemente con la sua insopportabile presenza. Intanto però lui può pensare, prepararsi ad affrontarlo, elencare dentro di sé le tante cose da dirgli, da urlargli contro appena sarà in questa stanza, una volta giunto, come quasi tutte le sere, fino a quando qualcuno non gli farà la sua solita iniezione.
            Questo letto è duro, scomodo, pensa Gyorgy, ma tutto quanto non ha alcuna importanza: comunque resto fermo, pensa, indifferente a questa situazione di attesa, però pronto ad affrontare il mio amico. Lo pensano tutti che è meglio diffidare di chi dice che fa qualcosa per te, per il tuo bene, per favorirti; sono soltanto menzogne, non esiste un amico che lo sia per davvero, sono soltanto della gentaglia che finge di avere una natura altruista solo per ridere, per prendere in giro.
            Forse dovrei muovermi, pensa ancora Gyorgy, ma se non lo faccio è soltanto per non mostrare di sapere che stasera non sono stato legato al mio letto. E poi qualcosa sembra apparire in fondo alla stanza. E’ il mio amico che viene, pensa Gyorgy con profonda certezza, anche se con una sicura apprensione. Ma presto si accorge, al contrario di sempre, che stasera sono due gli amici arrivati da lui, sono ben due che si apprestano a dirgli le cose di sempre e a tormentarlo.
            Si avvicinano, parlano tra loro sottovoce come fingendo di ignorarlo o di non accorgersi affatto di lui; o di essere lì soltanto per caso, non rispondendo ad un disegno preciso, e fare in modo che Gyorgy si agiti ancora di più, in risposta a quella incertezza, che si innervosisca, che inizi ad urlare contro di loro e che alla fine proprio per questo venga di nuovo legato al suo letto fino a ricevere la solita iniezione. Ora basta però, questo è troppo, pensa Gyorgy già a voce alta. Sono un professore, un insegnante di filosofia, ci vuole del rispetto per persone come son io. 
            Stavolta però i due amici lo guardano, hanno un’espressione curiosa, restano forse colpiti dalle parole che ha pronunciato. Mi pare ci sia qualcosa che accada senza che si riesca a capire cosa mai possa essere. I due amici si guardano tra loro, uno si allontana, l’altro si accosta maggiormente al mio letto: dice qualcosa, mi soffia le parole dentro le orecchie, l’altro lo guarda, ad una distanza direi di sicurezza. Sono legato, penso come per loro, non posso muovermi. Eppure se alzo un braccio riesco a vedere la mano davanti ai miei occhi; faccio la stessa cosa con l’altro. I miei legami stasera sono diversi, penso, di altra natura. Solleva il busto, Gyorgy, guarda con severità i due amici, e loro si allontanano di un passo, poi di due, infine se ne vanno.
            Preferisco la solitudine, pensa ancora Gyorgy mentre resta seduto, immobile nella posizione che è riuscito a raggiungere, piuttosto che confrontarmi con delle persone impossibili, che non hanno niente di serio da dire, se non prendere in giro, provocarmi, farmi urlare cose sconclusionate contro di loro. Stasera è una buona serata, pensa; i miei legami sono deboli, questo letto mi sostiene, forse non avrò ancora bisogno di urlare per fronteggiare quegli individui.

            Bruno Magnolfi 

venerdì 9 novembre 2012

In mezzo a tutto.


            
            Respiro con maggiore profondità, cerco di calmarmi dopo che ho colpito a mani nude, con una violenza che adesso, dopo pochi minuti, quasi non mi riconosco neppure, qualcuno che in fondo, forse semplicemente, proprio come me, stava immerso in questa calca incredibile. Sono convinto di aver messo in quel colpo tutta la rabbia repressa che sono riuscito a far emergere in me da questo periodo difficile, quasi la consapevolezza di un momento praticamente senza speranza  che mi ha dettato quel gesto terribile, come fosse un atto definitivo, quasi dipendesse da quello lo sviluppo di un futuro maggiormente accettabile sia per me che per gli altri.
            Adesso mi sono rifugiato nella nicchia di questo portone, guardo la manifestazione che continua a sfilare lungo la strada, mentre qualcuno, laggiù davanti, tira sassi e maneggia le spranghe; altri corrono, in molti sembrano disperati forse del loro stesso spavento, altri, al contrario, semplicemente spaventati dalla loro assurda disperazione. Alcune vetrine sono state spaccate e tutto intorno sembra parlare di violenza, ma soprattutto i celerini continuano a fronteggiare chiunque, come una moderna falange, in un assoluto e minaccioso assetto da guerra, quasi una sfida, una provocazione. Vedo qualcuno a terra già manganellato, giace sopra l’asfalto nelle nuvole dei lacrimogeni, mentre altri tentano di soccorrerlo pur nel caos generale.
            Provo a respirare con maggiore normalità nel mio fazzoletto, ma mi sento stanco, esausto, mi fanno male gli occhi e le gambe per la corsa assurda che ho fatto, e sento un forte dolore anche alla mano sanguinante con cui ho sferrato quel pugno; ricordo soltanto una faccia nemica ad un passo da me, e quella minuta porzione di tempo per decidere tutto: il mio bisogno di scaricare la rabbia coltivata da mesi sopra quell’espressione, senza chiedermi niente, senza interrogarmi su altro, colpire e basta, senza pensare.
            Guardo tutti mentre continuano a girare in quel carosello: ognuno sembra soltanto preoccupato di sé, della propria incolumità, ed io mi rendo conto, nella confusione pazzesca, di aver perso completamente di vista quegli altri, quelle persone con le quali all’inizio avevo raggiunto la mia postazione, alle spalle dello striscione, e come adesso io non riesca più neanche a capire cosa sia meglio che faccia, che senso abbia per me continuare a stare qui o cercare di andarmene, magari sparire prima che tutto degeneri ulteriormente. Mi rannicchio quanto posso sopra questo portone, poi spingo leggermente con la schiena, ma senza nessuna intenzione, e quello si apre.
            Entro titubante in quel grande ingresso buio, riaccosto il portone e mi avvicino al muro; poi rimango lì, a respirare quella calma irreale, quel relativo silenzio, quell’aria buona per i polmoni. Forse vorrei che qualcun altro mi raggiungesse, penso velocemente che non posso restare da solo proprio in questo momento, ho voglia di sapere cosa succede in mezzo alla strada, mi sento terribilmente vigliacco a restare qui immerso in quest’ombra. Ad un tratto si accende la luce elettrica che va ad illuminare improvvisamente un ambiente anche più caldo e piacevole di quello che mi ero immaginato, con una grande scalinata che si apre sul fondo; resto immobile un attimo, attendo gli eventi con gli occhi sgranati, infine scende con lentezza una ragazzina di dodici o tredici anni, con qualcosa dentro una mano. Mi guarda, forse ancora più intimidita di me, allunga un passo, lentissimo, poi dice soltanto: signore, le ho portato un po’ d’acqua da bere.

            Bruno Magnolfi

mercoledì 7 novembre 2012

Nascostamente.


           
            L’uomo ha come un gesto di stizza quando si rende conto, pensandoci, di ciò che in quel periodo gli sta capitando; poi, come ogni giorno, terminato il suo orario di lavoro, prosegue a camminare lungo la solita strada per tornarsene a casa. Inutile anche solo immaginare di scrollarsi di dosso tutte le preoccupazioni che lo assalgono, tanto vale fermarsi un momento al bar per un bicchierino.
            Si siede al bancone mentre si rende conto, nonostante quel locale gli rimanga di strada, che lì dentro non c’è probabilmente mai entrato prima di allora. Due vecchi parlano tra loro seduti ad un tavolino, per il resto lui è il solo cliente, così appoggia le braccia sul piano che ha davanti, ed osserva la ragazza che gli sorride lievemente mentre mette via qualche bicchiere.
            Una grappa, per favore, dice quasi sottovoce. Poi, mentre lei prepara la bevuta davanti ai suoi occhi, lui sente di dirle: certe volte ce la prendiamo soltanto per delle sciocchezze; forse essere saggi vuol solo dire imparare questa lezione. La ragazza lo guarda, inizialmente senza espressione, ma poi si ferma, osserva qualcosa sul banco, e infine si porta una mano sugli occhi, come avesse voglia di piangere.
            Mi scusi, gli dice; tutti noi forse abbiamo un dolore nascosto da qualche parte. La maggior parte delle volte fingiamo soltanto di non ricordarlo.

            Bruno Magnolfi

lunedì 5 novembre 2012

Dialogo n. 7. Al termine del giorno.


            

            Mi recavo da lei due o anche tre volte la settimana. Andavo la sera, dopo cena, passavo per sentire come stava, se aveva bisogno di qualcosa; mi lasciavo servire il caffè e mi trattenevo a parlare, qualche volta anche a guardare qualche programma alla televisione. Suo marito, Franco, il mio amico di sempre, era venuto a mancare da parecchi mesi ormai, ma io, che avevo sempre frequentato quella casa, mi sentivo in dovere di continuare a comportarmi quasi nello stesso modo, come quando lui era in vita, con la massima naturalezza.
            Io e Elena non si parlava mai di lui, però sapevamo che la sua presenza aleggiava tra di noi, quasi che Franco fosse andato nella stanza accanto a prendere qualcosa. In certi momenti io mi sentivo lui, e mi pareva addirittura doveroso, trattando certi argomenti, parlare perfino nella stessa maniera, dire le cose che avrebbe detto Franco, comportarmi in modo molto simile. Elena probabilmente comprendeva bene quel mio stato d’animo, e mi lasciava fare, certe volte sorrideva, ma cercava di non guardarmi mai negli occhi, come avesse paura di trovarvi qualche volta una persona differente da quella che arrivava lì da lei, a tenerle compagnia.
            Sono venuto a piedi, le dicevo a volte; la serata è bella, potremmo uscire insieme se ne hai voglia, e camminare un po’. Elena non diceva mai di si, ma sorrideva come lusingata: le piaceva quell’intimità del suo salotto, forse aveva soltanto paura di rompere quel nostro instabile equilibrio. Non pensavo che probabilmente avrei potuto anche baciarla, forse era ancora troppo presto per una cosa di quel genere. Abbracciarla si; anzi, qualche volta lo facevo, e spesso le toccavo un braccio o le tenevo la mano, come per una sorta di solidarietà che ci teneva uniti, vicini, dalla stessa parte; e lei mi lasciava fare, si vedeva che era fragile, ma resisteva nel guardare avanti, nel dare strada alla nostra amicizia, a quel forte ed evidente volerci bene.
            Poi Elena decise di affrontare quell’argomento spinoso, in un momento qualsiasi, quasi senza dargli peso. Prima o poi dovrai rimanere a dormire qui, insieme a me, disse con chiarezza. Sarà un momento importante, proseguì, vorrei che ci preparassimo, che niente avvenisse troppo presto o in malo modo. Io non mi sentii di dire niente; annuii come per non aggiungere niente a quelle parole che mi sembravano oltremodo sagge, ma anche difficili. Però iniziai a pensare a quello che significavano, ogni volta di più e con maggiore intensità, come se i nostri due fiumi corressero sempre più velocemente verso l’incontro, la fusione delle acque, in cui ognuno di noi avrebbe potuto quasi immaginare di essere affluente di quell’altro.   
            Con qualche scusa cercai di andare a casa sua un po’ meno spesso, almeno per un certo periodo; non provavo disagio, però tutto aveva preso una piega in cui non mi sentivo più spontaneo, mi pareva che il mio comportamento si stesse costruendo ad arte attorno a ciò che era stato abbondantemente immaginato, e questo non mi procurava alcun piacere. Di questo argomento non ne parlavo ad Elena, ma forse lei comprendeva perfettamente questo aspetto di me, e lasciava che io mi comportassi come meglio desideravo, senza chiedermi niente, senza accennare mai a qualcosa che potesse rompere la nostra sintonia.
            Per una settimana, poi, si recò fuori città, a fare visita a sua madre, ed io, una volta tornata, smisi quasi del tutto di andare da lei, limitandomi a passare da casa sua per un semplice saluto sulla porta, nelle ore del tardo pomeriggio. Infine, l’ultima volta che la vidi, Elena mi venne incontro, sorridente come forse mai l’avevo vista, mi guardò a lungo in fondo agli occhi e mi accarezzò una guancia con dolcezza: grazie, mi disse, e nient’altro.

            Bruno Magnolfi

sabato 3 novembre 2012

Un attimo solo.



            Federico, dodici anni tra poco più di due mesi, corre a perdifiato dietro al pallone calciato in malo modo da un suo compagno di scuola, mentre insieme stanno giocando ai giardinetti del quartiere, durante un pomeriggio qualsiasi. Con gli occhi, lo segue rotolare mentre inizia ad attraversare la strada e, nella fretta di raggiungerlo, non si accorge  dell’auto che sopraggiunge. L’uomo alla guida canticchia una canzone trasmessa per radio: è tranquillo, quasi distratto, non si rende neppure conto del pallone che taglia la traiettoria del suo percorso.
            È un attimo: improvvisamente prende coscienza di qualcosa che rotola a sinistra del suo parabrezza,  stringe d’istinto le mani sul volante e volge gli occhi da quella parte. Non si accorge di Federico, che corre da destra per attraversargli la strada, prosegue senza frenare ma prova un brivido. Una leggera quanto potente sensazione di pericolo scaturita dal semplice connubio  dentro la sua testa, come in quella di tutti: pallone – bambino.
            Non rallenta, trattiene forse il respiro, ma nel suo campo visivo, appena sulla destra, intercetta qualcosa davanti alla macchina, vicinissimo; di sicuro qualcosa che sta dove non dovrebbe mai stare. Ma ormai tutto sembra compiuto; è troppo tardi anche per avere un pensiero, il suo cervello è  raggiunto da un piccolissimo impulso: tempo esaurito, dice quel lampo, nient’altro.
            Tutto rallenta fino a fermarsi. L’uomo si vede proiettato fuori dall’auto, guarda se stesso e la macchina che sta guidando da  punti di osservazione diversi, stringe, ancora più forte, le mani sul volante. Vorrebbe  chiudere gli occhi ma il respiro è azzerato, la radio pare trattenere soltanto una nota, o un accordo, prolungandolo in una specie di sospiro cavernoso, quasi disumano, come il rintocco metallico di una campana immersa in un liquido.
            La velocità della macchina è di poco superiore al limite per la guida in città. L’uomo si proietta in avanti nel tempo; immagina che avrebbe potuto procedere con più cautela, a velocità più moderata, con diversa attenzione, senz’altro maggiormente concentrata. Avrebbe potuto evitare di farsi trovare distratto in un momento del genere, ma tutto, adesso, sembra ormai quasi concluso, il tempo esaurito non ammette deroga, ciò che sta succedendo è già definito.
            Ritagliare quel piccolo frammento tra i tanti minuti, i secondi, le ore del giorno; eliminarlo del tutto dalla propria storia, da ciò che irrimediabilmente sarà appena tra un attimo. Fuori da lì, lontano, in una diversa dimensione, distante da tutto; la cancellazione completa di quel pezzetto di tempo. Questi i lampi che scorrono in successione rapidissima nella sua mente e, infine, le gomme dell’auto che stridono in una frenata tardiva, forse inutile, assolutamente ridicola, adesso.
            Tutto è immobile. L’uomo apre lo sportello ed esce dalla sua macchina: si sente già disperato, non può ancora neanche credere che tutto questo stia davvero accadendo. Gira di corsa attorno al suo mezzo, in preda a un dolore pazzesco, alla pazzia di un momento. Ed ecco che Federico, caduto a terra, si rialza immediatamente, lo guarda; il suo viso è sbiancato, ma non si è fatto niente, soltanto un grande spavento. L’uomo lo esamina, lo abbraccia, non può evitare di piangere.

            Bruno Magnolfi