domenica 29 novembre 2020

Comportamento anomalo.

 

 

            Mi nascondo. Certe volte capita che qualcuno mi parli di un argomento che conosco bene, di qualcosa che forse ho già visto oppure che ho proprio vissuto, magari di un’esperienza che già da tempo sta dentro la mia memoria, per uno solo oppure per chissà quanti altri motivi, qualcosa che rammento benissimo e che però mi torna alla mente soltanto in quel preciso momento, e che ritrovo comunque con facilità tra tutte le cose che ho già dentro la testa, anche se rimango ad ascoltare e basta, senza dare neppure una briciola del mio parere, perché fingo ogni volta di non saperne niente, di non averne mai neppure sentito parlare. Mi chiedo perché mai dovrei spiegare ad altri qualcosa di me, del mio passato, del motivo per cui conosco tutti quei fatti o quei ragionamenti, e poi spendere obbligatoriamente un sacco di parole, muovere le mani, variare anche l’espressione della faccia e della bocca, spiegare i dati che a me risultano, le mie convinzioni, ed alla fine soltanto per dare la dimostrazione di qualcosa che comunque stava già dentro me stesso, e in un caso o nell’altro vi rimane adesso e vi rimarrà chissà per quanto tempo ancora, assieme a tutti gli altri innumerevoli elementi che sono sicuro compongono ogni individuo come me nella sua personalità e nel suo carattere, come tutte le esperienze capaci di produrre i loro effetti anche soltanto all’interno delle menti di ciascuno, e sicuramente persino nelle riflessioni che bene o male riesco a fare io in ogni ora del giorno attorno a tutta questa attualità, attorno a tutto ciò che siamo noi, e naturalmente anche riguardanti quello che sono io oggi, nel bene e nel male, in ogni caso. Tengo nascosti i miei pensieri, credo sia meglio per me e per tutti. Poi non ha senso confrontare delle sfaccettature che a volte possono anche collimare con le altre, ma in altri casi no; ed allora ecco che queste mi chiamano a dover fornire chiarimenti, spiegazioni, e così sentirmi interpellato subito per discutere, per interloquire, dare dimostrazione, quasi come fosse una gara, un tentativo di convincere qualcun altro attraverso la superiorità delle mie proprie ragioni. Non ci casco: ascolto e basta.

            Qualcuno dice che sono un tipo silenzioso, un solitario, ma questo è vero solamente in parte: io parlo, discuto, urlo, certe volte, e continuamente offro le mie disquisizioni all’autocritica che applico ad ogni mio ragionamento. Parlo da solo, questo è il punto, ma non per confortarmi o per trovare l’acquiescenza più utile con cui affrontare la quotidianità, bensì per far passare ogni argomento sotto al setaccio intransigente della disamina, dell’analisi, della critica più severa, tramite la quale riconoscere difetti e magagne, errori e spropositi, refusi e scorrettezze. Tento anche di usare, sempre e solo con me stesso, un linguaggio chiaro, esauriente, grammaticalmente corretto, mentre proseguo con concentrazione a parlare a voce alta ma come se leggessi un testo, come avessi davanti un intervento scritto, e contemporaneamente così cerco le parti che non vanno, quelle che danno dimostrazione chiara di un pensiero debole, poco convinto, qualche volta del tutto inesatto. Ed in questo modo produco continuamente dei nuovi pensieri, dei differenti punti di vista, degli altri ragionamenti che mi fanno sentire vivo, presente, capace di argomenti che con ogni probabilità a molti sfuggono, perché poco correnti nei discorsi che si fanno per strada o dentro ai caffè.

Qualcuno mi evita, forse si è accorto che quando cammino sopra ai marciapiedi per i fatti miei scuoto la testa, muovo le mani, parlo con me stesso come se fossi una persona doppia, ma non mi interessa niente: sono fatto in questo modo, e credo che il mio modo di essere sia proprio un punto di arrivo piuttosto che un atteggiamento di cui sorridere o provare addirittura dell’indulgenza. Per questo cerco di evitare luoghi pubblici, tanto da far dire agli altri che sono un tipo ormai abituato a nascondersi da tutti. In parte è vero, inutile fingere che sia diverso: però non so neppure io che cosa abbia da perdere nel tenere esattamente questo personale comportamento.

           

            Bruno Magnolfi

venerdì 27 novembre 2020

Profonda distanza.

 

        

 

            Senza il canale giusto niente sarà ormai possibile, si dice spesso in giro. Nessuno purtroppo potrà tornare indietro, si aggiunge a volte, e le cose procederanno spedite sempre in questo modo nel tempo a venire, lasciando ogni persona praticamente seduta davanti ad un tavolo o ad una scrivania, nell’attendere il proprio turno per comunicare agli altri individui collegati le proprie competenze e i propri crucci, ogni tanto sottoponendo, magari a chi ne ha voglia, qualche frase recuperata dai testi scritti sopra qualche libro vero, e  modulando delle espressioni di sorpresa davanti alla propria fotocamera, nella speranza di dare un significato più profondo ad uno schermo assolutamente freddo e razionale. Questo pensa ancora LUI tutte le volte che apre il suo elaboratore di interscambio per veicolare la propria attività, mediante i programmi di riunione o di conferenza, verso alcuni colleghi sparsi chissà dove, dei quali in fondo non conosce quasi niente. Poi sorride quando riflette che tutto alla fine resta abbastanza divertente, e che il sistema è così aperto ad ogni evenienza da lasciare piena libertà ad ognuno di spegnere la propria macchina in qualsiasi momento, e negarsi in seguito di fronte a qualsiasi chiamata di ripristino.

            Certo è che qualche volta sembra proprio come si stesse insinuando in ognuno una evidente logica depressiva che porta verso una sorta di indifferenza nei confronti di tutti gli altri, e soprattutto toglie la volontà di essere sempre così efficienti come si vorrebbe. Così LUI oggi non si sente del tutto a posto neppure con se stesso, ed anche se è rimasto per quasi tutto il giorno davanti al proprio elaboratore nel cercare dei punti d’intesa con dei colleghi dai modi in qualche caso quasi recalcitranti a svolgere le funzioni a cui sono destinati, adesso non prova più alcuna voglia di mandare ancora avanti le proprie attività, anche se ritiene siano necessarie, perciò chiude con tutti quanti le comunicazioni in corso ed indossa rapidamente dei vestiti adatti a farsi un giro fuori dal suo appartamento, magari giusto intorno all’isolato. Gli piace sentirsi davvero solo mentre cammina nella serata inoltrata della sua città, quando tutto sembra più immobile e rilassato, ed anche se adesso non gli possono giungere in tempo reale le notizie di cui prova costantemente il desiderio di essere tenuto al corrente, sa che tutto riprenderà il suo corso fra non molto, quando tornerà tra le sue stanze, e quindi in questo momento può prendersi abbastanza tranquillamente quella pausa di vuoto.    

            Giunge fino al fiume, che scorre naturalmente tra gli argini di pietra e cemento come ha fatto sempre, e LUI osserva per qualche attimo l’acqua brillante rispecchiare sulla propria superficie la luce bianca dei lampioni, quindi si ferma per un attimo a respirare l’aria fredda. Una donna viene senza fretta verso la sua parte, sembra quasi una persona che sta cercando le stesse cose che LUI desidera, e con un pensiero di questo tipo, che gli riempie improvvisamente la testa, attende che LEI arrivi fino alla sua altezza lungo il marciapiede, forse per lanciarle un timido saluto, e magari scambiare qualche parola senza grandi pretese. Prepara tra sé anche qualche frase adatta alla circostanza, forse potrebbe invitarla addirittura in un caffè della zona a bere qualcosa, magari discorrere delle proprie difficoltà, di quel senso di inutilità che prova certe volte, della necessità di respirare quell’aria aperta, quel gusto momentaneo di libertà, ed immergersi in quelle chiazze di luce cittadina come fosse un attraversare gli stessi pensieri oscuri che a volte gli affollano la mente.

            Volge così lo sguardo altrove, proprio per non sembrare troppo insistente, quasi per mostrare di accorgersi solo all’ultimo momento di quella donna che sicuramente sente le sue stesse cose, percorre gli stessi metri di strada, prova le medesime sensazioni, come se loro due avessero qualcosa di evidente in comune, delle volontà, delle idee, uno spirito del tutto simile. Ma poi LEI d’improvviso cambia marciapiede, attraversa la strada forse senza neppure averlo notato, e d’improvviso lo restituisce alla sua profonda solitudine.

 

            Bruno Magnolfi

mercoledì 25 novembre 2020

Sufficiente una parola.



Gli elaboratori subiscono un sobbalzo di energia: alcuni si spengono, altri azzerano i programmi in corso. Molti utenti delle applicazioni di intercomunicazione appaiono immediatamente disperati, anche se diversi tra di loro lanciano immediatamente i piani previsti per il riallineamento delle attività su ogni macchina, mostrandosi questi piuttosto lenti, anche se, pur con una certa fatica, le cose sembrano poter prendere rapidamente la strada verso una normalità almeno fittizia. LEI si alza quasi subito dal suo sgabello ergonomico, e gira per la sua stanza varie volte nell’attesa che giunga, almeno su qualcuno tra i suoi schermi, qualche messaggio tranquillizzante da parte delle autorità che gestiscono tutte le attività di comunicazione. Per qualche attimo, mentre tutto quanto prosegue a mostrare una desolante luce grigia indefinibile, l’azzeramento di ogni operazione possibile tramite i mezzi in dotazione, porge una sensazione nuova di profonda solitudine, quasi il senso di una terribile segregazione alla quale nessuno riesce a porre con definita sicurezza un termine temporale. “Potrebbe essere così per giorni e settimane”, pensa già qualcuno forse nell’osservazione sconfortante di quel vuoto elettronico che si ritrova davanti agli occhi. Naturalmente nessun altro mezzo di comunicazione anche semplice appare in questo momento funzionante, e l’isolamento in cui si sente cadere il numero enorme di persone che resta comunque attaccato al proprio schermo con la speranza di un ritorno rapido alle consuetudini, rimane comunque fortissimo.   

“Potrei scendere direttamente in strada”, pensa LEI mentre cerca di porre un qualche freno all’angoscia che sente alzarsi rapidamente dentro di sé. Con questa idea si avvicina ad una delle sue finestre, naturalmente oscurata, per osservare dai palazzi che ha di fronte se stia giungendo qualche segnale incoraggiante, o magari l’evidente dimostrazione della ricerca spasmodica di qualcuno immerso nel tentativo di una soluzione possibile al problema capitato. Nessuno però in questo momento sembra essere presente dietro a tutte le prese di luce naturale che riesce a vedere dalla sua postazione, ed anche in basso, sull’asfalto alla base delle costruzioni, non si apprezzano dei movimenti tali da indicare un vero cambio nell’ordinarietà delle cose di ogni giorno. A questo punto perciò, giusto forse per tentare qualcosa, LEI decide di uscire dal suo appartamento e di verificare il funzionamento regolare degli ascensori disposti lungo il pianerottolo. Tutti fermi anche loro, come già stava immaginando. Così, quasi senza pensare, decide di bussare con le nocche di una mano alla porta blindata del suo vicino, simmetricamente di faccia al proprio ingresso. 

Non trascorre molto tempo, ed alla fine ecco, con una certa timidezza, che si affaccia LUI, esattamente uno degli interlocutori con i quali LEI si intrattiene quasi ogni giorno quando sta davanti al suo elaboratore per lo scambio di opinioni, soprattutto per dar seguito, come previsto espressamente dai piani governativi, al programma di connessione e correlazione dei cittadini tra di loro in quella esatta zona geografica del paese. Sembra sorpreso, e probabilmente appare poco abituato ad avere degli scambi reali di persona con altri utenti. Resta fermo per un attimo nell’osservazione della donna che si trova di fronte, poi dice soltanto: “abbiamo dei problemi comunicativi”. La sua voce esce flebile dalla bocca, la sua espressione non pare effettivamente tesa alla ricerca di un diverso argomento con cui iniziare una trasmissione diretta di opinioni con la sua vicina di appartamento. Ma in fondo questo è quanto LEI si aspettava esattamente di trovarsi di fronte, ed anche se l’angoscia che seguita a provare per l’isolamento dai suoi contatti le rimane come un elemento fermo, adesso le basta di sapere che c’è qualcuno in carne ed ossa nella sua stessa situazione, e questo al momento sembra più che sufficiente.

 

Bruno Magnolfi   


martedì 24 novembre 2020

Proponimenti indispensabili.

 

      

 

            Dimenticarsi di lanciare il programma di comunicazione interpersonale non è particolarmente grave, anche se ci sono degli individui che davanti ai propri schermi si chiedono con insistenza il motivo per cui una donna estroversa e relazionale come è sempre stata LEI, nell’arco di una giornata com’è quella di oggi, lasci il suo apparato per i contatti completamente spento, e diventi quindi irraggiungibile praticamente a tutti gli altri. Ma sentire il bisogno improvviso di starsene per i fatti propri ed evitare deliberatamente lo spazio interpersonale dedicato proprio alla sua fascia di scambio, persino negli orari canonici designati a questo scopo, appare per qualcuno quasi offensivo. Per tutto il giorno invece rimangono proprio così, come sono apparse da subito, le cose che normalmente la riguardano, laddove almeno LUI, ma alla fine anche l’ALTRO, che sono generalmente i più attivi fruitori esattamente di quel canale dedicato, proseguono a chiedersi quale sarà mai il motivo di questa pesante assenza da parte di una come LEI. Infine giunge un semplice comunicato in rilievo su uno sfondo composto da vari colori neutri sfumati tra di loro, qualcosa che semplicemente chiede scusa del comportamento tenuto, senza aggiungere comunque nessuna spiegazione. “Per me è già sufficiente”, dice subito l’ALTRO dentro al suo brillante vivavoce, lanciando nello stesso momento sopra al proprio schermo una serie di aquiloni colorati digitali che tendono a rallegrare l’etere di coloro che lo stanno ricevendo.

            “Non so, forse non è proprio così semplice la soluzione”, dice LUI lasciando scorrere le immagini del gioco di una piccola battaglia militare, dove la sua espressione corrucciata campeggia in mezzo agli ufficiali della guarnigione posta in difesa. “Negarsi è sempre grave, a mio parere”, dice ancora, “anche perché resta comunque possibile scegliere una fase più o meno densa di passività in un ambito interlocutorio”. Segue un silenzio pensieroso, in cui ognuno tenta di dar corso ad una propria idea personale delle cose, anche se non cambiano i riquadri degli schermi e non si dà voce ad alcun ulteriore intervento, neppure registrato. “Sono qua”, dice allora LEI improvvisamente nel vivavoce, lasciando apparire la propria faccia a video pieno, pur filtrata da una serie di ritocchi elettronici che ne alterano visibilmente le caratteristiche, rendendola quasi un fumetto animato. “Vorrei essere il più possibile neutrale”, fa LUI cercando di commentare quell’intromissione che si sforza di apprezzare, quasi catalogando il gesto come un tentativo ulteriore di un ritorno verso la normalità, “ma non posso certo negare come tenda a rimanermi in testa una leggera irritazione che svanirà soltanto a tempo debito”.

“Non credo sia il caso di imprimere all’accaduto delle impostazioni di grado del tutto soggettivo, definite nient’altro che da una personalità soprattutto suscettibile ed ombrosa”, fa l’ALTRO mentre imposta lo sfondo del suo schermo verso una navigazione lenta su dei toni rilassati, dove la propria espressione adesso è impersonata da un piccolo e curioso abitante di un bosco immaginario in cui tutto appare oltremodo semplice e privo di conflitti. “Non so”, fa LUI; “però mi sembra che essere troppo permissivi su dei comportamenti che per loro natura devono sempre mostrarsi il più possibile chiari e trasparenti, non sia esattamente la base migliore su cui impostare i dialoghi e le nostre comunicazioni”. Loro tre comunque sanno che possono accedere al sistema persino dei video spettatori che restano inibiti alle conversazioni, e che in ogni caso assistono a quanto viene scambiato, e possono apprezzare una parte oppure l’altra di coloro che invece riescono ad intervenire attivamente, e quindi resta difficile non avere, da parte di questi ultimi, dei comportamenti il più possibile obiettivi su qualsiasi problematica.

“Va bene”, dice LEI alla fine; “la responsabilità è mia che mi sono sentita in grado di godermi una giornata di piena libertà, senza dover spiegare molto ad ogni mio interlocutore”. Lo schermo mostra un colore chiaro, prossimo al verde acqua, e la sua immagine appare adesso senza filtri né ritocchi, pur contenuta in una davvero piccola asola sistemata in alto. Gli altri adesso restano in silenzio. “Comunque credo proprio non accadrà più; neppure un’altra volta”, conclude.

 

Bruno Magnolfi 

lunedì 23 novembre 2020

Chiaro proposito.

 


"Vorrei solo che tutto fosse già finito", dico piano agli altri con un’espressione di serietà, ma solamente tanto per dire, mentre resto in piedi con loro accanto alla vetrata del caffè all’interno del quale quasi ogni giorno lascio volentieri scorrere almeno una parte del mio tempo. Fuori fervono i lavori per la risistemazione della piazza, e gli operai vanno avanti e indietro a livellare la terra e a posare i manufatti seguendo le misure giuste che da poco ha indicato loro il geometra dell’impresa, lasciando qua e là dei piccoli elementi indicativi e dei segnali color arancione. Ogni tanto giunge un autocarro con la terra o con il misto cementato da scaricare in loco, e quasi sempre alza un odioso polverone che va a depositarsi sulle foglie dei pochi alberi di magnolia che ci sono in giro, sulle panchine deserte rimaste al margine dei lavori, e in ogni angolo stradale e dei marciapiedi rimasti. Noi stiamo tutti con le mani sprofondate nelle tasche dentro al locale, scuotiamo la testa ogni tanto e decidiamo invariabilmente quello che sarebbe meglio secondo il nostro parere, anche se tutte le nostre opinioni rimangono tra le mura del caffè. 

Si tratta di capire quale sia il progetto principale a cui tutte le maestranze si stanno allineando, e come infine dovrà essere, in base a quello, il risultato finale di ristrutturazione della piazza. “Scommetterei che diventerà addirittura peggiore di quella bella piazza che conoscevamo da sempre”, dico ancora tanto per smuovere i pareri dei presenti ed infiammare gli animi, e qualcuno tra quelli che giocano al biliardo dietro di me scuote la testa tanto per dire che anche secondo lui non c’è proprio da attendersi niente di buono. In fondo quale argomento migliore di questo si potrebbe trovare in una cittadina dove non succede quasi mai un bel niente: sembra quasi ci sia il sindaco in persona a cementare i cordonati e a posare le lastre; si tratta soltanto di prendersela bonariamente con qualcuno, come è normale che sia, ed in qualsiasi caso il risultato finale non sarà mai di nostro gusto, e se anche lo fosse si potrebbe subito dire anche in quel caso che sicuramente sono stati spesi troppi soldi pubblici per una conclusione di quel genere.

Poi arriva d’un tratto un gruppetto di persone a visionare quei lavori, e mentre stiamo cercando di stabilire chi siano esattamente visto che ci rimangono di spalle, quelli senza grandi indugi entrano proprio nel nostro modesto caffè, mostrando all’improvviso la faccia del sindaco, dell’assessore ai lavori pubblici, del comandante dei vigili urbani e dell’impresario che porta avanti tutte le opere della piazza. Ammutoliamo tutti quanti di fronte a queste spettabili presenze, ed anche se a me verrebbe subito la voglia di chiedere qualcosa tanto per mettermi in mostra e far vedere a tutti che non sono certo un cittadino passivo, di fatto anche se ci penso con impegno non mi viene la domanda giusta da porre a qualcuno di questi signori, e così mi limito, come tutti gli altri, a farmi da parte e ad ascoltare quello che tali autorità dicono tra loro.   

E mentre siamo lì a fare contorno nel piccolo locale dove gli ultimi arrivati si prendono un caffè rigorosamente in piedi presso il bancone, il sindaco in persona si gira verso di me con espressione seria per chiedermi cosa io pensi dei lavori così come vengono portati avanti. “E’ tutto molto bello”, dico subito leggermente intimorito, mentre l’assessore e gli altri si voltano anche loro d’improvviso verso me. “Forse ci starebbe bene qualche albero in più”, azzardo senza neanche saper bene cosa dire. “Bravo”, fa subito il sindaco, “difatti appena saranno pronte le aiuole che stiamo realizzando, arriveranno i vivaisti a mettere a dimora degli alberelli che fra un anno o due saranno subito delle piante adulte e rigogliose”. Faccio un cenno affermativo con la testa, annuisco, mentre dal locale adesso escono tutti, e subito penso che anche io in questo momento posso proprio andarmene, visto che oramai è stato già tutto chiarito.

 

Bruno Magnolfi

domenica 22 novembre 2020

Silenzio interattivo.


 

            Soltanto con un certo ritardo sull’appuntamento precedentemente pattuito lei finalmente si siede davanti al suo elaboratore casalingo e lancia l’applicazione per la comunicazione interpersonale. Naturalmente si è momentaneamente scordata i codici d’accesso dei programmi da usare, e quindi ci vuole anche altro tempo affinché tutto sia messo perfettamente in funzione, almeno fino al punto di lasciarle scegliere persino uno sfondo adeguato da far apparire sugli schermi degli altri, tale che nasconda le condizioni vere di disordine in cui lei normalmente è immersa anche quando comunica, ferme restando le sue espressioni facciali sempre in primo piano ma affidate ad una specie di sosia composto da un numero imprecisato di disegni sintetici molto somiglianti all’originale, ed impostato in maniera da mimare piuttosto bene i suoi rispettivi stati d’animo. “Ciao”, le dice lui mentre già sta intrattenendo una vivace discussione con l’altro che a sua volta prosegue ad affidare a dei colori pastello alcuni sfondi panoramici che ogni pochi secondi svaniscono e vengono immediatamente sostituiti. “Immaginavo non riuscissi a raggiungerci”, fa subito dopo con una voce camuffata da vecchio lettore di racconti per l’infanzia, mentre la sua faccia campeggia su un immenso campo agricolo appena lavorato dalle macchine. “Mi spiace”, fa lei; “ma sono piuttosto impegnata in questo periodo”.

Seguono rapidi e numerosi scambi di vedute da parte di tutt’e tre sui vari modelli lavorativi da applicare nel prossimo futuro, e le loro opinioni non tendono per nulla a convergere, restando semplicemente impostate sui loro iniziali pensieri di fondo. “Ci stavamo chiedendo quali progressi ci stiano aiutando in questo momento per superare il formidabile richiamo ad usare sempre più spesso i processi mentali a cui individualmente tendiamo ad abituarci, ma sotto questo profilo sembra che non ce ne siano, tolta la volontà egocentrica che almeno qualcuno tra noi tende a manifestare, di scombinare ogni gioco”, fa lui lasciando brillare il proprio sfondo monotono con macchie evanescenti di color oro sul nero, ferma restando la sua coerente espressione ridotta in un piccolo spazio basso nell’angolo destro. L’altro pare riflettere senza mostrare alcun tentativo per intervenire, ed anche lei non sembra di voler prendere la parola nel suo vivavoce applicato all’orecchio, ma si perde almeno per qualche secondo nella ricerca di un senso da dare all’immagine di un bosco verde ripreso per mezzo di un’ottica aerea mobile che ha impostato da due o tre minuti sopra al suo schermo. La pausa si protrae per un tempo apprezzabile, quasi una lungaggine senza importanza, fino a quando un lieve armonia di sintesi parte automaticamente dal sistema di comunicazione.

“Non sono del tutto d’accordo”, fa lui forse soltanto per interrompere quella musica insignificante che pare fatta apposta per addormentare i pensieri. “Tolta la spinta personale a trovare nuove strade in tutto ciò che completa ogni nostra abitudine, non vedo altre possibilità per opporre ulteriori sbarramenti ad un discesa inarrestabile del quoziente intellettivo”. Lei dopo queste parole ha uno scatto, una specie di dissenso da quello che ha appena ascoltato nel proprio vivavoce, così preme immediatamente il pulsante per intervenire, ma qualcosa di elettronico sembra inibire il flusso della sua necessità, tanto da lasciare il suo interfono assolutamente silenzioso, come se fosse d’accordo su tutto quello che è stato appena dichiarato. Pigia più volte e nervosamente il tasto del sezionatore, senza ottenere però alcun risultato, fino a quando fortunatamente uno dei due suoi interlocutori non apre il suo corridoio comunicativo, chiedendosi contemporaneamente il motivo di tanto silenzio.

 

Bruno Magnolfi     

     

 

sabato 21 novembre 2020

Organigramma dei pensieri.


 

            “La politica non mi ha mai interessato”, dice lui d’improvviso con un’espressione stentorea nel vivavoce senza filo che indossa sopra un lato della propria faccia. Lo sfondo dello schermo dell’elaboratore che ha davanti sta trasmettendo una fluttuazione tra dei colori che ricordano ironicamente le onde del mare, pur essendo solamente delle simulazioni sintetiche, mentre all’interno di queste variazioni di colore giganteggia la sua immagine ritoccata e sovraesposta, come se lui in questo momento stesse godendo di un pieno sole tropicale, evidenziando nell’espressione anche una vaga aria sonnacchiosa tipica di chi cerca un dialogo senza trovare le parole giuste da adoperare. Forse non è neppure quello che effettivamente vuole intendere quando usa una frase di questo genere, riflette mentre tenta un cambiamento dei colori nella scenografia elettronica, però tende a sfilarsi dalla schiera degli incalliti che vorrebbero ridurre ogni tendenza popolare ad una macchinazione elaborata a tavolino, ed in questo modo dimostrare la mancanza completa di libertà del sistema. L’altro, un suo vicino di casa in termini di distanza assoluta, eppure forse piuttosto lontano dal punto di vista delle identità di vedute, sembra riflettere a fondo mentre osserva qualcosa fuori campo, inquadrato dall’ottica del suo elaboratore in un momento in cui sembra sfogliare con lo sguardo un libro mentale che dovrebbe suggerirgli probabilmente i termini più adatti, ma finendo soltanto per rispondere: “non è un argomento, oppure una semplice materia però”, mentre lancia a margine, sulla sua macchina elettronica, alcune immagini in rigoroso bianco e nero di svariati gruppi di persone in movimento. 

            Lui allora si alza dalla propria postazione comunicativa, lanciando sullo schermo una programmata sequenza iterativa composta da vari spezzoni di riprese digitali di se stesso tutte effettuate negli ultimi tempi, quasi a voler sostituire la sua assenza con qualcosa che ne colmasse momentaneamente il vuoto, dando l’impressione di una certa linearità di intenti e di idee nei suoi comportamenti, quasi una coerenza effettiva da ritrovare nei gesti, nelle espressioni, nei vari movimenti del corpo all’interno dello spazio che ha avuto attorno a sé in tutti quei casi, e per prosecuzione quindi anche in questo esatto momento. Il dialogo appare quasi inceppato, praticamente incapace di produrre frutti, e nel momento esatto in cui lui torna a presidiare la propria area interagente con l’esterno, è pronto ormai a digitare lo sviluppo seguente del proprio pensiero, anche se gli restano dei dubbi sulla sua effettiva capacità di sostenere delle teorie talmente individualistiche da non lasciare alcuna possibilità di vera discussione. “Forse sbagliando”, conclude come per recuperare un tema dal quale non ha mai avuto l’intenzione di prendere davvero le distanze.

“Proprio adesso è il momento migliore per cercare delle intese”, scrive l’altro in fretta sullo schermo, imprimendo questa frase su di un lato del proprio spazio comunicativo, mentre la sua immagine da mezzobusto si fa lentamente sfumata in un contorno di città preda di macchine e motori, e del traffico caotico tipico del tempo appena trascorso, degno di una ipotetica rivoluzione industriale attualizzata. Il pensiero così si fa magmatico, e l’allentarsi delle risoluzioni a cui dar seguito quasi delle semplici masse di aria calda in movimento senza possibilità di essere imprigionate da concetti metabolizzati degni dei congressi di partito. “La vicinanza dei concetti diventa una vera e propria forza, anche se non può essere certo lo scopo finale”, conclude l’altro allontanandosi di colpo dal piano su cui interagisce tramite l’elaboratore. “Sono d’accordo”, fa subito lui mostrando adesso un gioco di bambini per evidenziare la soddisfazione con la quale sembra ritrovare il filo dei pensieri.

 

Bruno Magnolfi     

 

         

venerdì 20 novembre 2020

Messaggio cifrato.

 

       


            ”Potrei smettere di fumare”, dico tanto per ridere al giovane detenuto che mi sta di fronte. Lui mi guarda, ma si capisce che non ha mai avuto il senso dell’umorismo, così non ci si può aspettare che apprezzi in un momento del genere come fosse uno scherzo questa ironia sul mio impegno a mantenere la parola data. Sorrido solo io allora, perché se ho di fronte ancora dieci anni da passare qua dentro, e lui tra un paio di mesi invece sarà fuori, potrebbe essere utile per me già da adesso la sua vicinanza, proprio per dare una mano anche a me ad uscire da qui, naturalmente in una maniera del tutto diversa da come se ne andrà lui, questo è del tutto evidente, ma proprio in considerazione di questa speranza non posso fare a meno di continuare a cercare di tenerlo il più possibile dalla mia parte. Seguiamo al pomeriggio un corso di informatica, insieme ad altri come noi, ma lo facciamo tanto per tenere impegnata la testa, ed anche perché è l’unica maniera per dimostrare a chi ci controlla che ci stiamo dando da fare per tenersi aggiornati, coltivare un futuro, cambiare la strada che ci ha trascinati qua dentro. Lui dice che si è affezionato a me, e forse anche a quello che rappresento, e non mi lascerà ancora marcire tra le sbarre per molto, perché ha nella testa un suo piano, qualcosa che aveva escogitato proprio per se stesso, se soltanto il processo a suo carico fosse andato peggio di quello che è stato. Si è beccato in tutto poco più di un anno, ma per un semplice colpo di fortuna, anche se ha rischiato di farsi dare vent’anni dal giudice.

            Dieci anni sono tantissimi, non riuscirei a resistere se non avessi almeno una possibilità di via d’uscita da questa situazione, e lui questo lo ha capito benissimo, ma mi tiene sulla corda senza spiegarmi quali siano i dettagli di quel suo piano di fuga. “Sei una carogna”, gli fo sottovoce, tanto per vedere che faccia può fare, e lui dice che uno di questi giorni mi spiegherà tutto, che devo soltanto avere pazienza. Può darsi che quanto è riuscito a mettere a punto sia soltanto una spudorata stupidaggine e basta, ma io nonostante tutto gli voglio credere, anche perché avere fiducia in qualcuno non costa niente, e ti fa stare subito meglio, più rilassato, quasi sereno. Lui dice che la cosa importante è saper coltivare le persone giuste, e farsi aiutare per inconsapevolezza da quelli più adatti. Non capisco quasi per niente cosa lui voglia dire con questi discorsi, però faccio un cenno affermativo con la testa: ho capito, vorrei dire con un certo ottimismo, magari però potresti indicarmi chi sono queste persone, a cosa servono, rifletto tra me.

Lui invece per il momento non aggiunge neppure un’altra parola, lascia le cose in sospeso, forse perché sa che qua dentro non ci si può mai fidare di niente e di nessuno, e così guarda sempre da un'altra parte quando lo osservi, come fosse già fuori da qui, e non avesse più i problemi che ho io e tutti gli altri. Non ci si può annotare un bel nulla tra queste mura, neppure un numero o un nome, neanche sotto la suola delle scarpe o in un angolo segreto, e se qualcuno per provocazione dice a voce alta anche soltanto una tra le tue parole chiave, si deve sempre restare completamente indifferenti, come non ci riguardassero per niente le cose che vengono sparate d'improvviso per vedere l’effetto che fanno durante l’ora d’aria. Mi spiegherà tutto al momento opportuno, mi ha lasciato immaginare in questi ultimi giorni, ed io ho speranza in quello che dice, lui è un tipo tosto, non mi tirerebbe mai una fregatura in questa maniera.

Lo guardo mentre digita qualcosa con la tastiera durante la nostra ora di lezione, e mi pare per un attimo che tutto improvvisamente sia superato, le cose appianate, le nostre vite restituite. Lui si ferma, aspetta un momento, infine mi guarda dritto negli occhi, come si fa con chi deve venire a conoscenza di qualcosa che è estremamente importante: “sei tu che devi disporre del tuo futuro”, mi dice. “Non importa dove ti trovi, è la tua mente che può permetterti di essere libero”. Poi scrive qualcosa che appare solo per un attimo sopra lo schermo, ma io  purtroppo non riesco a leggere bene, forse non sono capace di decifrare quei segni, magari non sono in grado nemmeno in questo momento di comprendere quel messaggio cifrato. Infine lui spegne il suo elaboratore.

 

Bruno Magnolfi

 

giovedì 19 novembre 2020

Sporco.

 

 

"Immagina di essere qui, adesso, nel tuo caro studio circondato dai libri; intere pareti di scaffali pieni zeppi di volumi di qualsiasi genere, da leggere e da consultare, disposti sui piani per semplice analogia, o per similitudine, ma mai in modo del tutto casuale". “Non mi stimola in questo momento”, risponde lui nel vivavoce. “Piuttosto, per esatto contrario, vorrei disinteressarmi una buona volta di qualcosa che mi trovo a riflettere spesso, e qualche volta si presenta nella mia mente come una vera ossessione”. Segue una lunga pausa durante la quale nessuno dei due sembra trovare la parola giusta da dire, come se quell’espressione che stanno cercando non esistesse, o se nessuna tra le frasi pensate fosse esattamente quella maggiormente adeguata. L’altro seleziona in fretta qualcosa sul suo elaboratore, così cambia per evanescenza l’immagine di fondo, lasciando apparire sullo schermo una panoramica statica del deserto dell’Arizona in pieno giorno. “Va bene”, fa lui, “ho compreso perfettamente il messaggio; però devo ammettere che sei un osso duro, e che non lasci facilmente la presa”. L’altro fa una leggera risata, poi si alza dallo sgabello ergonomico e per una manciata di secondi si avvertono solamente dei piccoli rumori fuori campo, per niente adatti a quanto resta inquadrato.

“Purtroppo le ore della giornata appaiono sempre più lunghe, e riempirle con elementi di vero interesse è sempre più complicato”, fa lui. “Vorrei spesso avere talmente tante cose da fare da dimenticare che possiedo anche un apparato pronto a pensare in maniera autonoma, appena si presenta uno dei vuoti occasionali”. Riappare l’altro bevendo qualcosa da una tazza dai colori tenui, torna a sistemarsi seduto, poi senza fretta gli chiede quale sia il pensiero ossessivo a cui accennava soltanto poco fa. Ma prima che lui parli sottolinea come tutti abbiamo delle riflessioni ricorrenti che forse non servono a nulla, ma che si installano autonomamente nel nostro cervello e sembrano voler accompagnare con la loro presenza parecchi momenti del giorno, e in certi casi persino della notte. “Ultimamente mi sono fissato di vedere la polvere depositarsi dappertutto, ad esempio, e che questa tematica che tento di risolvere, sia assolutamente una lotta impari, dove non riesco mai ad avere la meglio”. “No, no”, fa lui scuotendo la testa in un campo azzurrino composto da un mosaico di piccoli elementi tutti simili. “Per me è completamente diverso. Si tratta del mio sangue che sento scorrere per vibrazione dappertutto nel corpo, e quando non ho impegni impellenti sembra rallentare il suo corso, fino a smettere del tutto il suo moto”.

“Cioè: devi sentirti impegnato per evitare di spegnerti”, fa l’altro mentre sorseggia dalla tazza. “Esatto”, fa lui. “Come dovessi cadere inevitabilmente in una specie di letargo, se non trovo rapidamente qualcosa da fare o di cui occuparmi”. L’altro volta gli occhi verso un lato dello schermo, che intanto ha mutato colore virando verso un indefinibile grigio neutrale di fondo. “Non c’è alcuna soluzione ad un problema del genere, è evidente”, pensa mentre osserva la tastiera che tiene di fronte, “e qualsiasi sensore puoi farti impiantare sotto pelle per il rilevamento di un pericolo del genere, non darebbe mai nessun risultato apprezzabile”. Perciò resta in silenzio lasciando scorrere più volte alcune variabili di tonalità dell’immagine che tende a rappresentare il suo stato d’animo, incapace in ogni caso di trovarne una che sia più definitiva di altre. “Sono le solite sequenze irrisolvibili”, dice poi nel suo vivavoce. Quindi con la mano toglie lentamente qualcosa di sporco dal piano del tavolo di fronte a sé, ed infine immobilizza la sua immagine sullo schermo, lanciando semplicemente il ripetersi di un saluto formale.  

 

Bruno Magnolfi


 


mercoledì 18 novembre 2020

Neanche una sola parola.


 

Nel condominio la conoscono tutti. Una ragazza timida in apparenza, ma che sa nascondere, almeno così dicono alcuni, una personalità contorta, poco comprensibile, certe volte sfuggente. Lungo le scale, quando scende dal suo appartamento, tiene lo sguardo basso, raggiunge rapidamente l’uscita e poi, senza mai indugiare, se ne va lungo la strada, evitando di intrattenersi a parlare con qualcuno del vicinato che magari la conosce da sempre e la saluta con enfasi ogni volta che lei attraversa la soglia del portone perennemente spalancato. “Ciao Silvia”, dice qualche volta con voce profonda al suo passaggio anche un amico della sua infanzia che lei conosce da sempre ma non ha mai frequentato, e Silvia accenna un sorriso e poi basta, proseguendo con decisione per il luogo verso cui è diretta, senza tentennamenti, come se ogni distrazione fosse soltanto una perdita di tempo. Non le piacciono le persone che si fermano là, sul marciapiede, a parlare per ore del più o del meno, a malignare su coloro che conoscono, a dare giudizi su tutti quelli che capitano da quelle parti. La ritiene una proibizione di libertà quel loro guardare anche verso di lei con insistenza, e poi spiccicare sottovoce aggettivi più o meno appropriati, per sentenziare i loro pensieri come fossero frutto di grande saggezza.   

Poi dimentica tutto e raggiunge rapidamente la fermata del bus, ne attende l’arrivo e si lascia portare generalmente fino al capolinea, in quella strada dove risiede suo padre, in una piccola casa da solo, separato com’è costretto a vivere da quasi vent’anni, ed ultimamente preda di un profondo stato di depressione che spesso lo lascia per intere giornate privo di qualsiasi volontà, abbandonato privo di forze sopra una sedia, senza fare niente né vedere nessuno, se non appunto sua figlia, che gli porta se può qualche novità, e che lo sprona ad uscire, a prendersi cura di sé, a curare in qualche maniera quel suo disagio. La mamma non ne vuole sentir parlare di lui, ritiene di aver sbagliato tutto a sposarsi quando era giovane, e l’unica cosa di cui non si pente è quella di aver avuto una figlia, a suo parere perfetta, anche se forse un po’ troppo ombrosa. Per Silvia vivere con sua madre non è stata una scelta, ed appena le sarà possibile sa che andrà via da quell’appartamento immerso in un condominio che sente così freddo e distante. Poi però rientra a casa ogni volta e subisce quella quotidianità quasi in silenzio, senza mai affrontarla davvero, lasciando che tutte le cose scorrano il più possibile senza mettersi mai di traverso.

Ma stasera incontra sul bus quel medesimo ragazzo che conosce da sempre, lo stesso che a volte la saluta, e lui si avvicina subito a Silvia con dei modi cortesi, pacati, quasi gentili, anche se poi resta in silenzio accanto a lei, quasi intimidito, praticamente senza chiederle niente, come provando la sottile paura di recarle qualche disturbo. Lei, mentre stanno ambedue in piedi come molti altri passeggeri, osserva le mani di lui aggrappate ai sostegni di quel mezzo pubblico, ed improvvisamente le appaiono calde, belle, sicuramente forti quando serve, ma adesso dolci, morbide, quasi da stringere. Neppure lei ha voglia di parlare, ma adesso prova piacere nello starsene lì insieme a quel ragazzo, ed alla fine loro due rimangono in questa maniera per tutto il viaggio, fino a quando non scendono, giunti ormai nel loro quartiere, per prendere a piedi con passo calmo quell’ultimo piccolo pezzo di strada necessario per tornarsene a casa. Silvia gli dice senza mezzi termini che non le piacciono quelle persone che stazionano sempre davanti al portone a parlare con tutti, ed il ragazzo le sorride per questo, comprendendo appieno il suo punto di vista, e forse ricambiando in parte quel suo sentimento. “Ma non stasera”, le dice difatti in un soffio; e quando sono ormai vicini al loro condominio, lui dolcemente le prende la mano, ed attraversando la soglia del solito portone, nessuno tra tutti quelli che sostano là anche stasera si prende la briga di dire loro qualcosa, nemmeno una semplice, sola parola.  

 

Bruno Magnolfi


 


lunedì 16 novembre 2020

Contrastato, immotivatamente.

           

 

            Loro lo guardano con insistenza, più che altro per rendersi conto se sia davvero capace di fare improvvisamente qualcosa di strano proprio da un attimo all’altro, esattamente come si aspettano tutti. Invece in questa manciata di minuti non accade un bel niente, anche se lui prosegue a stare fermo in un angolo e poi sembra riflettere qualcosa di importante, come se in questo frangente non ci fosse altro da fare, oppure se quel suo semplice riflettere fosse già largamente sufficiente a mostrare tutto il suo impegno a passare per uno come tutti i presenti. Qualcuno intorno parla sottovoce, dice che forse non ci sarà da aspettarsi niente di buono, ma l’aria di chi si è rintanato là dentro sembra tranquilla, nessuno pare abbia voglia di rompere quell’atmosfera di sospensione che aleggia nella grande sala d’attesa. Allora lui compie un gesto, un'azione forse un po’ ambigua, allunga un braccio come per indicare un punto, una zona, una parte verso cui guardare, ma chi si volta seguendo quel segno della mano nell’aria, non vede proprio niente, non rileva nulla che possa mostrare un senso definito. Lui quindi si alza, procede piano verso la spessa vetrata, osserva la realtà che si snoda fuori da lì, come se ci fosse qualcosa di cui prendere nota.

            “Oramai stiamo tutti qua dentro”, dice qualcuno a voce più alta per mostrare agli altri quel pietismo che, secondo colui che sta parlando, forse conviene assumere quando ci si rende conto che tutto il resto non ha più molta importanza. “Non è vero”, dice lui all’improvviso; “qualcosa di noi è rimasto là fuori, ed anche se lo ignoriamo possiede comunque una valenza innegabile”. Si muove dalla sua posizione, e con un solo sguardo accoglie tutti i presenti dentro la sua prospettiva, poi torna ad indicare qualcosa, oltre quel vetro che sembra dividere un mondo dall’altro, forse solamente un punto o una macchia sul muro di fronte, di là dal chiuso di quella sala dove adesso si sono radunati, e che secondo il suo parere conserva un dato importante, come un fregio che indichi quello che potrebbe essere stato, qualche tempo addietro, o forse quello che potrà essere, magari tra non molto. Nessuno però sembra abbia più voglia di dargli davvero retta: alcuni alzano addirittura le spalle in un gesto che è come per togliere di mezzo quell’importanza che fino ad un attimo prima gli avevano concesso, ma a lui sembra non importare per niente, tanto che dopo un secondo torna a sedersi, ed a lasciare agli altri la possibilità di guardarlo di nuovo, sempre che ne abbiano ancora la voglia, seppure magari con meno insistenza.

            Il suo vicino di posto dice con voce volutamente bassa che non c’è niente sul muro, che nessun segno sembra sia rimasto ad indicare qualcosa di importante. “Vi sbagliate”, fa lui di getto. “C’è una macchia, una semplice chiazza che pare muoversi. E’ viva, probabilmente, è qualcosa che non saremo mai in grado di afferrare e comprendere, ma mostra con semplicità la statura di quello che siamo ormai diventati: dei piccoli esseri, uomini e donne sgraziati, senza criterio, quasi incapaci di ragionamenti più alti”. Intorno ammutoliscono tutti. La contrapposizione tenuta in vita fino a questo momento tra lui e loro sembra improvvisamente annullarsi: ognuno dei presenti adesso guarda quel muro, forse nota davvero la macchia estesa che effettivamente sembra muoversi, che produca gli effetti suggeriti, e mostra quanto sia difficile dare tutto per scontato, credere di essere giunti ad una fase senza più variazioni. “Dobbiamo cambiare opinione su tutto”, dice qualcuno; “se appena consideriamo questo aspetto indicato come qualcosa di vero”. Poi tutti si stringono nelle spalle, ognuno per conto proprio. Nessuno alla fine sembra ancora prendere in considerazione quello che lui ha fatto presente. Anche se forse ha pienamente ragione.

 

            Bruno Magnolfi      

           

 

        

sabato 14 novembre 2020

Specchio dipinto.


 

            Osservo ancora per un attimo sopra al cavalletto questo mio sofferto autoritratto, e mi sembra, proprio adesso che oramai appare praticamente terminato, non sia affatto capace di esprimere le caratteristiche che fin dall’inizio avrei voluto dare al dipinto mentre cercavo di realizzarlo. Ci sono delle carenze, delle lacune, degli errori di fondo, che ora noto con grande evidenza: la mia espressione sulla tela ad esempio non riesce a trasmettere quasi nulla del tormento che spesso provo nell’incapacità di somigliare ad un qualsiasi normale individuo, ad uno come tutti, una persona qualunque, calata nella realtà che ci sta attorno. E poi non sono stato capace di creare uno sfondo alla figura minimamente realistico ed equilibrato con la mia espressione, qualcosa che desse maggiore credibilità all’insieme, senza contrasti, con estrema linearità; ed infine i colori, troppo tenui, troppo delicati per essere all’altezza della fotografia di un’esistenza. Cosa importa, rifletto meglio, probabilmente verrà apprezzato anche in questo modo; anzi, probabilmente ci saranno persino degli estimatori che troveranno nell’insieme qualcosa di notevole di cui nemmeno io mi sono accorto.

            E poi che cosa significa anche solo trasmettere qualcosa che si sente, se non lasciare che sia il dipinto stesso a prendere la mano al pennello e dare da solo il proprio punto di vista alle cose, senza filtri personali, senza grandi interpretazioni psicologiche. Il fatto è che se anche mi osservo a lungo in uno specchio, non vedo affatto ciò che gli altri guardano di me quando mi incontrano. Sono sicuro di questo, perché rimane una differenza essenziale nelle cose: c’è una pellicola fuori dalla mia persona che non permette la perfetta osservazione di ogni mia espressione. Io so cosa ci può stare sotto la scorza, ma è difficile se non impossibile comunicarlo. Quindi è persino inutile il tentativo di infondere sopra la tela qualcosa che comunque sfuggirà sempre a chiunque, da qualsiasi angolazione voglia guardare in seguito il mio quadro ormai finito. Non c’è senso in tutto questo, non ci sarà mai alcuna prosecuzione.

            Poi prendo la giacca, esco dallo studio, ho bisogno d’aria, forse di riflettere, oppure di incontrarmi con qualcuno che mi mostri il proprio punto di osservazione, il proprio angolo visuale, la sua maniera di essere persona, proprio quella che io non riesco adesso a ricalcare. Già, perché alla fine sono soltanto io ad essere carente di qualcosa, ad aver alimentato per un tempo infinito l’incapacità ormai congenita di stare al passo del momento, di questa concretezza che modifica il nostro passo ad ogni attimo, e ci fa sentire subito diversi appena cerchiamo di ignorarne anche i dettami meno importanti. Ci sono delle persone per strada che mi riconoscono, sanno bene chi io sia, perché frequentano il quartiere, il caffè dove mi reco, le mostre che vado a visitare qualche volta. Non mi interessano però i loro elogi, l’inchinarsi alla fama, all’artista, a colui che è capace nella loro fantasia di tradurre in segno dei semplici pensieri o degli istinti. Li lascio alle spalle, non per superbia, quanto perché non mi può aiutare in questo attimo lo sguardo edulcorato, l’espressione ampollosa, il gesto falso di un ammiratore incapace di articolare il verbo critico o la parola discorde. Perciò potrei ubriacarmi insieme ad altri dentro una bettola, cantando a squarciagola e ridendo senza limiti; potrei camminare in completa solitudine fino a farmi sanguinare i piedi; potrei immedesimarmi nell’artefice di uno spettacolo di strada, osservando i dettagli dei suoi comportamenti. Ma non riuscirei a risolvere il mio vero problema.

Torno allo studio, non mi rimane nessun’altra possibilità, perché è lì che sta ancora la mia mente, è sulla tela ancora fresca che si sono adagiate ormai le mie fattezze, ed il mio sguardo, la mia espressione, tutto: solo là sopra posso trovare finalmente ciò che cerco.

 

            Bruno Magnolfi

            

         

 

        

venerdì 13 novembre 2020

Non rompetemi l'anima.

 


 

"Sono uno scemo, lo so", dico a Tommi giù al circolino dove mi fermo qualche sera per farmi una birra. Lui mi sta servendo da dietro al bancone in un momento in cui non ci sono clienti, ed io gli spiego la storia. "Non rimango simpatico a nessuno sul lavoro. Ma questo solo perché me ne sto per i fatti miei, perché non mi piace stare con gli altri a ridere e farsi scherzi da deficienti. Così prendono la mia ampolla per il grasso (tutti ne abbiamo una per lubrificare gli utensili, e ci incidiamo sotto le proprie iniziali per non scambiarle), e con quella sporcano i calzoni di ricambio del tizio più grosso e aggressivo tra noi, facendogli trovare la mia ampolla sotto al suo armadietto che sta dentro gli spogliatoi. Il resto lo puoi immaginare, ed oggi naturalmente quello mi ha sfidato (“se sei un uomo”, mi ha detto) nel raggiungerlo domani all’officina in fondo per fine turno. Così domani devo farmi pestare per bene da un collega con cui non ho avuto proprio niente da spartire”.

“Va bene”, fa Tommi. “Però tu puoi fargli paura. Posso prestarti la mia scacciacani. E’ innocua, però lui non lo sa, e tu fai subito la figura di uno che non si fa certo mettere i piedi sopra la testa”. Ci penso un momento, butto giù un sorso di birra, poi dico: “perché no” tra di me, ma con voce piuttosto alta. Il mio amico sparisce sul retro dopo un attimo, e quando riappare ha una semplice busta con dentro l’arma giocattolo che osservo un momento senza neanche estrarla del tutto. Gli strizzo un occhio, pago la birra e poi me ne vado. Giù al lavoro intanto i ragazzi ridono senza guardarmi quando mi incontrano lungo il piazzale o nei capannoni, ma a me non interessa un bel niente e continuo a comportarmi come ho fatto da sempre. Qualcuno sarà subito contento quando l’orango mi avrà sbattuto per terra, però non ho proprio voglia di farmi fregare in questa maniera, penso cercando di caricarmi al massimo possibile.

Alla fine vado nello spogliatoio, mi sistemo per quello che posso fare, e poi lascio scivolare nella mia tasca il ferro di Tommi, riflettendo bene sul momento più adatto per spianarla alla faccia di tutti e fare in questo modo più impressione possibile. Nessuno dei ragazzi si immagina da uno come me una cosa del genere, ma in fondo non mi conoscono molto, e quindi posso farmi passare semplicemente per un tizio che non vuole rompimenti, ed in caso contrario è disposto anche a ripulire la strada prima di transitarla, perciò questa per tutti potrebbe essere, a mio modo di vedere, l’ultima volta che salta in mente a qualcuno di farmi uno scherzo del genere. In fondo mi sento tranquillo, se qualcuno si accorgesse che la mia arma comunque è soltanto una finzione, in ogni caso farei la bella figura di uno che si è impegnato a non far del male a nessun altro. Perciò, mani in tasca, sguardo alto e ben attento, camminata regolare, mi avvio verso l’officina come se nulla fosse, disposto ad aspettare almeno qualche momento prima di tirar fuori le mie carte.

Quando arrivo sembra ci siano già tutti, fermi e disposti a circolo, ed il toro infuriato che mi vorrebbe gonfiare sta in un angolo, voltando le spalle all’entrata, in senso di sprezzo e di sfida. A passi sempre più lenti raggiungo il centro dell’officina, le mani ancora sprofondate dentro le tasche, ed osservo l’orango come fosse il mio nemico di sempre, ma senza dare alla faccenda una grossa importanza; lui si volta, sorride, si avvicina, forse si aspetta che io inizi a parlare di qualcosa nel tentativo di ammansirlo o di venire a ragionevoli consigli, ma invece resto in silenzio, ed aspetto sia lui a dire la prima parola. “Sei un idiota”, fa subito tanto per provocare, ed io ancora in silenzio. “Ho voglia di spaccarti il naso”, ed intanto si avvicina. Quando ormai siamo a tre o quattro metri l’uno dall’altro tiro fuori con calma il mio ferro e gli fo luccicare negli occhi la canna dell’arma, trattenendo un’espressione calma e determinata. Lui resta di ghiaccio, scorre rapidamente quali possibilità gli possano rimanere, ma non ne trova. Allora, non volendo fare la figura del pauroso, fa ancora un passo verso di me, come a sentenziare che non avrò mai il coraggio di sparargli. Io tiro su la pistola e tiro un colpo in aria, rendendomi conto, dalla polvere che cade dal soffitto, che quella che ho in mano non è esattamente un giocattolo, e che per questo sto cambiando espressione. Tutti si dileguano in un attimo, ed anche l’orango se ne va quasi di corsa. “Vittoria”, dico a Tommi più tardi; “non sono uno scemo: da ora in avanti nessuno avrà più la voglia di rompermi l’anima”.

 

Bruno Magnolfi   

 


giovedì 12 novembre 2020

Probabilmente sono sbagliata.

 

          

 

            “Desiderate che vi aiuti, forse”, dice la donna gioviale alla persona anziana che accudisce ogni giorno. Il vecchio tira su lo sguardo dalle sue carte che continua ad accumulare sopra al piano di legno dello scrittoio, osserva per un lungo momento la sua nuova badante che ancora neppure conosce bene, come valutando dentro di sé qualcosa di impalpabile, oltre le semplici parole che ha appena ascoltato, ed infine le rivolge un cenno minimo, un piccolo gesto ad indicare un tomo che sembra resti impilato in mezzo ai moltissimi volumi della libreria a parete che ha di fronte. Lei si sposta in avanti appena di un metro o due, ha già terminato di riassettare le poche cose in disordine in cucina e nella camera da letto, ed adesso che il professore si è sistemato nello studio proprio come fa ogni mattina, si ritrova a non occuparsi più quasi di niente, escluso portare a lui ogni tanto un bicchiere d’acqua, o preparargli una tisana, cercare in un cassetto un temperamatite, oppure liberare il piano del tavolo dai libri che il vecchio tende sempre ad accumulare accanto a sé, ed ingegnarsi per cercare di riporli nelle posizioni esatte che le vengono indicate per ogni titolo. “Si potrebbe parlare”, le fa lui con voce stentata e senza guardarla; “magari scambiarsi delle opinioni che in genere teniamo in serbo per dei momenti un po’ particolari”.

            La donna sorride, forse perché non crede di aver capito proprio esattamente quello che le si chiede, così si avvicina al professore guardandolo fisso, come per il desiderio di comprendere meglio quanto le è appena stato detto. "Mi potrebbe dire qualcosa sulla sua famiglia", le fa lui; "qualcosa che lei pensa qualche volta, ma che di solito non tende a rivelare". La donna si muove con infinita calma attorno allo scrittoio, tenendo una mano dentro l'altra come per stropicciarle leggermente ma senza farlo, poi si ferma un attimo, e infine dice: "ma non può essere niente di interessante per una persona come voi". L’uomo si stringe nelle spalle, aggiusta qualcosa sulla scrivania, poi assume un’espressione seria. "Può darsi", le fa subito l'anziano professore come per sgombrare il campo da qualsiasi equivoco e per evitare di essere preso per un qualsiasi curioso; “però certe volte dietro a certe cose semplici ed usuali si possono annidare delle grandi verità. E in ogni caso non esiste alcun mestiere al mondo in cui non venga chiesto di inserire nel suo percorso un po’ di noi che lo svolgiamo, qualcosa proprio della nostra personalità”.

            La donna resta in silenzio, pare riflettere per qualche momento, poi dice soltanto: "da piccola ho pensato certe volte che io fossi del tutto sbagliata per il mondo in cui mi ero trovata costretta a vivere"; ma questo lo rivela con un’improvvisa espressione terribilmente seria, come se dietro ad una verità del genere si annidassero ancora numerose sofferenze ed umiliazioni. Poi sorride, come per rendere meno pesante qualcosa che d’improvviso le pare persino troppo forte per una come lei. Il professore invece l’osserva adesso con maggiore interesse, strizzando i suoi occhi lenti e lacrimosi, come se avesse compreso soltanto in quell’attimo che chi si trova davanti in questo frangente forse può essere uno scrigno pieno di elementi degni di nota; quindi lascia in aria una lunga pausa senza dire niente, ed infine le chiede a quale età abbia iniziato invece a pensare che quelle erano soltanto delle sciocchezze di bambina. La donna adesso va a prendere il libro che le era stato indicato, si schernisce, forse vorrebbe addirittura non parlare più di quell’argomento, come fosse qualcosa che in fondo non valesse nemmeno la pena di perderci del tempo.

            Il vecchio professore continua a guardarla con curiosità, aspettando da un attimo all’altro una risposta, un cenno, un gesto di qualsiasi tipo, ma la donna si limita a fermarsi per un attimo con ancora il libro nelle mani, per dire poi soltanto, a chiusura di quell’argomento: “mai, signore”.

 

            Bruno Magnolfi

martedì 10 novembre 2020

Abitudini assodate.

 

           

            “Ei, Lada”, le dicono a voce alta certe volte. “Vieni qui da noi, avvicinati”. Loro come sempre stanno seduti o appoggiati al muretto intorno alla piazza, senza fare praticamente nulla, se non ridere di qualche sciocchezza che racconta a turno ora l’uno ora l’altro. Lei invece è riservata, sta in disparte da sola, spesso guarda qualcosa sullo schermo del suo cellulare, però si nota subito che le piace stare lì, abbastanza vicino a tutti gli altri, come per sentirsi una di loro. Sorride con timidezza quando le dicono qualcosa, abbassa lo sguardo come per farsi ancora più piccola di come è fatta davvero, ma infine si avvicina volentieri quando le chiedono di farlo, usando il minimo dei movimenti possibile però, tenendo le braccia e le mani quasi immobili, e conservando immutata l’espressione usuale sulla propria faccia. “Non ci sono differenze”, riflette lei qualche volta durante alcuni tra questi pomeriggi indefiniti. “Le idee di ognuno sono come delle piccole costruzioni paragonabili una all’altra, entro le quali si aggirano praticamente sempre i medesimi personaggi. Inutile cercare dei ragazzi differenti da questi che conosco e che cerco di frequentare, troverei soltanto delle similitudini. E forse finirei per fare soltanto paragoni che non portano proprio a niente di differente, e che alla fine non servono a nessuno”.

            Lada si è sempre sentita diversa in mezzo a loro, sarà naturalmente anche per le sue origini, ma forse anche per il suo modo personale di intendere l’amicizia, le conoscenze, le relazioni coi coetanei. Anche a scuola tutti la conoscono, ed in qualche modo quelli contano, almeno in qualche occasione, sulla sua presenza, anche se nessuno tra i suoi compagni può essere giudicato da lei un’amicizia un po’ più particolare. Forse serve proprio una come Lada certe volte per dare colore ad una situazione, pensano in molti, o magari soltanto per fare numero, oppure per formare un contorno di consenso alle cose più rilevanti che si compongono regolarmente tra coloro che credono di contare più di altri. Lei sa benissimo come funzionano queste cose, e non se ne preoccupa minimamente. Non c’è nulla di cui meravigliarsi se lei risulta una ragazza che già solo per come si presenta appare particolare. Ed oltretutto è anche una persona calma, brava, che non infastidisce, non cerca niente di diverso se non quelle poche parole che gli altri a volte scambiano con lei.     

            Nessuno però le ha mai chiesto la sua vera opinione su qualcosa di rilevante, come se Lada non avesse dei pareri o lasciasse agli altri l’onere di averne, ma lei, che al contrario di quello che credono tutti, sa perfettamente cosa pensare di tutto ciò che la circonda, nasconde affabilmente se stessa dietro un generale silenzio che camuffa con la sua timidezza. Ci sono senza dubbio delle occasioni in cui potrebbe farsi avanti e dire qualcosa che lascerebbe tutti di stucco, ma lei non desidera approfittare di cose del genere per porsi in primo piano ed attirare l’attenzione su di sé. Anche a scuola, pur risultando sempre piuttosto preparata, non cerca di dar mostra dei suoi vincenti metodi di studio, ma lascia che ai compiti, alle domande degli insegnanti, agli argomenti che vengono affrontati durante le lezioni, risponda sempre qualcun altro al posto suo, come se la sua preparazione dovesse trovare uno scopo più a lunga distanza che non semplicemente davanti ai suoi compagni di classe. Si schernisce a volte, e ride volentieri delle cose divertenti che spesso vengono declamate dai compagni, ma mai di qualcuno in carne ed ossa.

            “Mi piacciono i tuoi modi di fare”, le dice poi un ragazzo a bassa voce durante un pomeriggio. Lada abbassa subito lo sguardo, sta ferma, senza mostrare alcuna variazione, e resta silenziosa al massimo per non incoraggiare altri commenti. Nei giorni seguenti non si fa vedere al solito ritrovo, ma poi ritorna come sempre, accostandosi al muretto come ogni volta, per non evidenziare dei cambiamenti repentini nelle proprie abitudini ormai assodate.

 

            Bruno Magnolfi

venerdì 6 novembre 2020

Immaginazione selettiva.

 

          

 

            “Ci sono in giro nuove consapevolezze, idee maggiormente precise rispetto a ieri, definizioni utili al fine di rendere ogni azione praticamente indolore, ed in questo modo trasformare ogni individuo in un organismo capace di sopportare tutto, qualsiasi sacrificio possa servire nel prossimo futuro”. S.R. rappresenta alla platea questi argomenti con una calma quasi fastidiosa, tanto che qualcuno tossisce ogni poco, proprio per cercare di rompere quel suono ronzante e continuo che il suo apparato vocale trasmette al microfono di buona qualità che gli sta davanti. Nessuno crede fino in fondo a ciò che esprime questo relatore, o almeno in molti sperano che le cose non siano davvero così avanti come lui adesso sta enunciando. “Rendere ogni essere umano sacrificabile, semplicemente alleggerendolo di qualsiasi eventuale dolore”. Alcuni partecipanti si guardano di sfuggita nel semibuio ovattato della sala, magari mentre provano un leggero brivido da qualche parte, qualcosa come la sensazione che nessuno tra di loro sia del tutto al sicuro nel periodo prossimo, o comunque che ad un certo punto qualcuno là nel mezzo possa sparire dalla circolazione proprio in virtù di una conclamata motivazione superiore.

            Si tratta di accettare come valido il vecchio principio secondo il quale nessuno è mai insostituibile, e che ogni sacrificio abbia uno scopo più alto dietro di sé, qualcosa che mostri alla fine un miglioramento generale, pur nella perdita momentanea del particolare. Alcuni sono assolutamente disponibili fin da subito ad affrontare senza tentennamenti un alto rischio, pur compensato naturalmente da una controparte sostanziosa, ma la maggior parte ritiene addirittura impensabile dover fronteggiare qualcosa di sconosciuto per permettere ad altri di conoscerlo. “Se non c’è dolore, non c’è neppure sofferenza”, prosegue a dire S.R.; “ed alla fine si tratta soltanto di un’organizzazione interna precisa e puntuale che permetta ogni volta la definizione del miglior soggetto da considerare”. Qualcuno pensa che quello stabilito sia uno scenario quasi da incubo, ma altri iniziano già, davanti a queste parole chiarificatrici, a saltare rapidamente al livello più avanzato, chiedendosi quale sia il criterio di determinazione per l’appartenenza al gruppo dei beneficiari, piuttosto che a quella dei sacrificabili. Il risultato finale naturalmente, una volta conosciuti i dati, sarebbe quello di modificare nel proprio stile ciò che serve per afferire fin da subito alla categoria di chi è destinato a trarre solo dei vantaggi dai progressi futuri.

            S.R. osserva già tutti i presenti con il mezzo sorriso di chi ha ben considerato un tale pensiero come circolante in questo momento nella sala, e raffredda rapidamente tutti gli animi, stabilendo che “un principio di questo genere non permette aprioristicamente di sapere quali siano i criteri per le scelte”. Resta il fatto consolatorio per tutti quanti di non accorgersi quasi di far parte di un meccanismo complesso e organizzato nei minimi dettagli, tanto da aggiudicare una mancanza totale sia di sofferenza che di angoscia nel percorso previsto in tutti i vari casi, e che l’alta finalità di ogni esperienza possa immediatamente ingenerare, almeno in alcuni dei soggetti considerati, una motivazione forte nel compiere ogni sforzo. “Per tutti gli altri comunque resta l’oblio”, dice S.R.; o almeno l’indeterminazione nella conoscenza dettagliata di ciò che a loro accadrà davvero, restando certa l’appartenenza di tutti a quell’umanità a cui tutti noi ci richiamiamo in questi casi”.

            Termina così la conferenza, soltanto con un debole applauso da parte di tutti i partecipanti a quei lavori, i quali immediatamente sentono anche l’obbligo di scattare in piedi dalle proprie poltroncine, e ciascuno di loro naturalmente, evitando di fare anche un solo gesto utile ad apparire in qualche modo differente da tutti gli altri presenti, che sia anche soltanto parlare con il proprio vicino, oppure muoversi troppo di fretta, cerca subito al contrario uno strisciante anonimato, ed anche un profilo tanto basso da risultare capace di evidenziare così un forte condizionamento che sicuramente persisterà nel tempo, forse anche oltre qualsiasi immaginazione.

 

            Bruno Magnolfi