giovedì 31 dicembre 2015

Armonia lieve.

           
            Se Lido non è d’accordo non si fa niente, dice Carlo. Va bene, fa l’altro, allora non resta altra strada che cercare in qualche modo di convincerlo. Comunque ci vuole soltanto un minimo di preparazione, cercare semplicemente le parole giuste per presentargli bene tutta quanta la faccenda. Non credo sia difficile convincerlo, anche se lui non è certo un tipo facile. I due intanto camminano, percorrendo il largo marciapiede del viale senza alcuna fretta apparente, con le mani sprofondate nelle tasche e continuando a guardare ognuno avanti a sé, quasi come se fosse da solo.
A mio parere non è affatto il caso di perdere questa occasione, insiste Carlo, e non soltanto perché altrimenti in seguito potremo pentirci di non averne approfittato. Non so, fa l’altro, forse anche noi prima di parlarne con Lido dovremo far passare ancora del tempo, proprio per evitare di lanciare una proposta non sufficientemente meditata. Ma no, questa credo proprio sia una sciocchezza, perché sicuramente anche lui, se riusciamo a parlargli con calma e cercando di spiegargli bene le cose, non potrà che essere d’accordo con noi.
Andiamo al caffè adesso, propone l’altro, così possiamo sederci e prendere magari qualche appunto per fissare bene le idee, e se poi abbiamo fortuna troviamo Lido là dentro e possiamo intanto sondare il terreno. D’accordo, fa Carlo, ma prima camminiamo almeno per un’altra mezz’ora, sento che mi fa bene passeggiare, e poi la giornata è chiara e piacevole, fatta apposta per stare all’aperto, almeno fino a quando non si fa sera. Forse hai ragione, dice l’altro, anche se a me pare di sentirmi un po’ stanco. E’ solo un’impressione, almeno per adesso, dice Carlo: quando sarai davvero stanco andremo immediatamente al caffè, te lo prometto.
E’ davvero tanto tempo che non facciamo qualcosa tutti e tre assieme, dice l’altro; per conto mio sarei contento se Lido fosse d’accordo con noi, però mi dispiacerebbe se si mostrasse riottoso e con le sue solite maniere divaganti declinasse in fretta e furia la nostra proposta. Questo non si può dire, fa Carlo; in fondo anche a lui magari fa piacere che ancora ci ritroviamo a combinare qualcosa, come facevamo certe volte, ormai parecchio tempo fa. Questo è vero, dice l’altro, però non vorrei si rompesse anche quel minimo di equilibrio che ultimamente abbiamo ritrovato tra noi.
Su questo hai ragione, fa Carlo; anche a me dispiacerebbe se si perdesse in qualche modo questa nostra armonia: abbiamo vite diverse, questo è innegabile, ma ciò non significa che non possiamo ritrovarci in certi casi intorno a qualcosa che ci accomuna. Tutto ciò sarebbe molto bello se fosse davvero così, fa l’altro; peccato che qualche volta Lido sembra come non esserci, quasi stesse con noi quelle poche volte non per una sua voglia personale, ma quasi per fare soltanto un favore a noi due. Lo sai, dice ancora Carlo, lui è fatto così, da una persona che ha il suo carattere praticamente non si può pretendere molto di più.
Intanto camminando arrivano davanti al solito caffè, e sui tavolini di fronte c’è proprio Lido seduto che sta scherzando con qualche altra persona. Però si volta, saluta festoso gli amici con il suo solito sorriso, e poi dice: sono di partenza, lo stavo giusto dicendo a questa brava gente; starò da mio figlio almeno per un mese, a Roma. Ho bisogno di cambiare aria e di togliermi di dosso qualche vecchia abitudine, e poi, chi può saperlo, magari finisce che mi trasferisco definitivamente.

Bruno Magnolfi


lunedì 28 dicembre 2015

Musicista infinito.

            
            Finalmente mi portano una sedia, dopo che mi hanno lasciato in piedi lungo il corridoio per tutto questo tempo.  Il jazz non esiste qua dentro, ho detto a tutti, inutile insistere. A me piace il silenzio, quando ogni oggetto intorno sta fermo, e nessuno urla o dice una cosa oppure quell’altra. Si deve respirare piano, magari prendere anche un po’ più di fiato ogni tanto, però con calma, senza mai farsi venire i nervi, che tanto ad agitarsi si peggiorano soltanto le cose.
            Seduto sto meglio, mi guardo attorno, so per certo che nessuno mi vorrebbe qui, sono uno scomodo, un fastidio quasi, ed allora riattaccano con quella lontana musica di violini insopportabile. Non voglio sentire più niente, basta con queste nenie sdolcinate che non servono a nulla. Dentro di me il mio strumento solista improvvisa come sempre dei chorus di blues, saltellando sugli accordi e svisando quasi senza alcun impegno, quasi come una funzione naturale dell’organismo.
            Suonavo il sax, tempo fa, e la gente correva per sentire come me la sbrigavo con i ragazzi giù al club. Bastavano due note di piano, un tocco leggero sui piatti, ed io partivo già, avvitando le mie note attorno a delle strutture complesse ma sempre piacevoli. Non ho bisogno di niente, dico adesso a tutti coloro che stanno qua dentro, lasciatemi stare a ripassare quei brani, a ripercorrere poco per volta tutti quei grappoli di note che riesco ancora a mettere assieme.
            Si capisce che è passato del tempo, che ne sono successe tante di cose, ma io in fondo ricordo ben poco di tutto quanto, adesso mi tornano alla mente soltanto quelle belle serate da luci basse, ed il fantastico scintillare degli strumenti sul palco. Mi hanno portato via di forza l’ultima volta, strappandomi quasi l’ancia di bocca, ma si sono dimenticati la musica, e quella me la sono tirata dietro con me, nonostante i loro modi scortesi.
            Ora rimango seduto da solo, ho perso dei denti, non ce la farei più a suonare davvero. Ma non ha alcuna importanza, certe cose sono dentro di te se davvero le senti, e vanno avanti da sole, senza bisogno di altro. Guardo il corridoio, qualcuno passando mi vede, nessuno mi riconosce per quel musicista che ero, ma anche questo non ha alcuna importanza, perché io lo so che non sono affatto quel vecchio che ora avete di fronte, perché è tutta la mia musica che ha fatto la differenza, ed è impossibile non riconoscerlo.


            Bruno Magnolfi

domenica 27 dicembre 2015

Soli un momento.

            

Giusi assume sempre un'espressione severa quando viene osservata da qualcuno un po’ troppo a lungo. Non che le dispiaccia particolarmente essere guardata da qualche curioso, però certe volte vorrebbe essere più trasparente persino di quei colori pastello sfumato con cui normalmente trucca il suo viso. Soprattutto le dispiace che venga presa per una ragazza superficiale, una di quelle persone che senza neppure pensarci risponde come niente ad una semplice occhiata. Perciò spesso quando si mette seduta al solito caffè in attesa che arrivino le sue amiche, tira sempre fuori un libro dalla sua borsa, lo apre fino al segno, e ne legge ad intervalli almeno qualche pagina.
Giusi in fondo adora starsene da sola in mezzo alla gente, per questo giunge lì sempre molto in anticipo, ed in questi casi si muove lentamente come non avesse alcun interesse preciso, lasciando sempre che tutti gli altri parlino tra loro, senza mai interferire, come se lei non ci fosse nemmeno. Se qualcuno le dice qualcosa, si limita a sorridere, poi subito ritorna al suo libro. Arriva lì prima delle sue amiche proprio per avere il tempo come di formare nel locale una sua piccola nicchia di appartenenza, un proprio piccolo spazio da dove, quasi non vista, osservare e sentire tutto ciò da cui è circondata. Fa parte del suo carattere, forse un semplice lato della sua insicurezza. 
Un ragazzone però fa cadere qualcosa vicino a lei: potrebbe essere una tecnica di approccio, pensa Giusi guardandosi un attimo attorno. Ma il tizio vicino sembra non curarsi affatto di lei, così come del suo libro e di quel quaderno a terra ora aperto, zeppo di minuta calligrafia, che gli è appena scivolato dal tavolo. Lei lo raccoglie con calma, quindi gli sfiora un braccio, e gli dice soltanto: è caduto. Il ragazzo si volta, la guarda, prende con modi gentili il quaderno, ringrazia con un sorriso leggero, ma senza aggiungere altro torna a sistemarsi nella stessa posizione di prima. Poi però apre il quaderno, e sembra subito appuntare qualcosa con un semplice lapis, quasi come per fissare una nota che la riguardi, oppure per definire in qualche maniera quel gesto carino che lei ha appena compiuto.
Giusi torna al suo libro, ma non si sente tranquilla. Di nascosto osserva il ragazzo, vorrebbe chiedergli persino qualcosa, ma non può andare così apertamente in contrasto con le proprie abitudini. Infine appoggia il suo libro, prende un sorso della bibita che le ha servito da poco il cameriere, e vede fuori dalla vetrina le sue amiche mentre stanno chiassosamente arrivando. Nello sesso momento il ragazzo si volta, la guarda un momento, sembra proprio abbia finito di scrivere sul suo quaderno, ma inaspettatamente strappa la pagina, la piega in due parti e la consegna nelle sue mani. Arrivano le altre ragazze, lei si alza, saluta le amiche, scambia con loro qualche battuta e quando torna a sedersi il ragazzone di prima non c’è, si è alzato da quel tavolo accanto, e sta uscendo frettolosamente dal bar.
Giusi si alza anche lei, va verso il bancone, si accosta ad un angolo per starsene un attimo sola, ed apre quel foglio che è rimasto fino adesso nelle sue mani. Aiuto, dice la carta, sto vivendo un momento di disperazione. Lei alza gli occhi, vede il ragazzo di prima fermo da solo fuori di vetri di quel locale. Torna al tavolino delle sue amiche, si siede, dice che non si sente benissimo, forse ha soltanto bisogno di aria, così torna ad alzarsi, si dirige all’uscita e si ferma proprio sul marciapiede di fronte al locale, davanti a lui. Scusa, le dice subito il ragazzone di prima; ho pensato che non ci sarebbe stata altra maniera che questa, per poter stare da solo con te, almeno un momento.


Bruno Magnolfi

mercoledì 23 dicembre 2015

Partenza coatta.

Partenza coatta

Forse sarebbe stato tutto diverso adesso, se solo lui avesse avuto una briciola di coraggio in più quando serviva. Sta seduto al caffè in questo momento, da solo, e aspetta, come d’altronde fa quasi ogni giorno. Sorseggia una birra con lentezza, poi si alza dal tavolino ed esce. Fuori dal locale sembra tutto identico, lui si incammina verso casa come sempre immerso in pensieri evanescenti e inutili. Continua a sentire il bisogno di cambiare quell'ordinario comportarsi, ma per lui è difficile prendere lo spunto giusto, l'inizio adatto per variare almeno qualche cosa. Infine giunge davanti al solito portone, sale le scale ed entra dentro al suo appartamento, e poco dopo torna a sedersi. Potrei telefonare ad un amico, pensa senza voglia, chiedergli di raggiungermi magari per parlare un po', per scambiare giusto qualche opinione, trascorrere insieme un'ora o due. Invece alla fine si alza, e repentinamente cambia del tutto idea: va sul pianerottolo e con decisione suona il campanello della famiglia che abita di fronte.
Non si aspetta niente di speciale da quella mossa, conosce solo di vista le persone che abitano lì, ma avverte subito un vago e sgradevole odore di minestra nell’aria, proprio quando appare sulla porta la faccia sorridente di una ragazzina che gli dice subito che può accomodarsi, può entrare se vuole, che suo padre è di là, alla televisione. Lui entra, stringe la mano alla moglie lungo il corridoio, poi scusandosi con tutti raggiunge l’uomo, seduto sul divano, che sorride e gli dice soltanto di mettersi a suo agio, senza porsi alcun problema. Restano soli nella stanza, la televisione quindi viene spenta, l’uomo gli offre mezzo bicchiere di vino rosso, usa modi distensivi. Ho bisogno di aiuto, fa lui, ma non so mettere a fuoco di che cosa effettivamente abbia la necessità. Forse soltanto di parlare, o di un consiglio, o di scambiare delle opinioni con qualcuno. Il vicino lo guarda in silenzio, quindi si alza, gira per la stanza, assume subito un modo strano di comportarsi almeno in sua presenza. Alla fine dice di scusarlo giusto per un attimo, e lo lascia da solo ma non per molto tempo effettivamente. Quando torna però ha in mano una pistola, e gli dice senza mezzi termini di andarsene da lì, che ha capito benissimo i suoi intenti, e che non avrà alcun indugio a sparargli in una gamba se si farà ancora vedere in quella casa.
Lui se ne va immediatamente, sorpreso e quasi incredulo di quel comportamento, ma una volta rientrato nel proprio appartamento riflette che l’arma che ha visto doveva essere probabilmente soltanto una pistola giocattolo, e che il suo vicino, forse spaventato da qualcosa, doveva aver compreso male i suoi intenti e anche tutte le sue parole. Così torna a suonare il campanello per scusarsi, per comprendere, ma quando gli viene aperto è l’uomo in persona sulla soglia, che senza dargli neppure la possibilità di aprire bocca gli sferra un pugno nello stomaco, atterrandolo. Strisciando in qualche modo sul pavimento lui rientra, chiude l’uscio dietro di sé ma poi si sente subito male, così decide di telefonare alla guardia medica che lo fa trasferire d’urgenza ad un pronto soccorso. Lui spiega di essere caduto, per non procurare dei problemi, ma la cosa sembra seria, così lo trasferiscono in una corsia dell’ospedale per accertamenti. Rimarrà là dentro per diversi giorni, fino a quando viene dimesso perfettamente guarito.
Lui ha avuto possibilità di riflettere durante il tempo in cui è rimasto a letto, ma ancora non sa spiegarsi il comportamento del suo vicino. Decide di ignorare tutta la vicenda e di comportarsi come se niente fosse successo, scansando ovviamente d’ora in avanti tutti i componenti di quella stranissima famiglia, ma quando giunge nel suo appartamento trova una busta chiusa con dentro un foglio con su scritto: devi reagire, smetterla di leccarti le piccole ferite, finirla una buona volta di credere che le novità positive possano giungere soltanto dall’esterno. Nessuna firma e nessun riferimento. Lui così si siede, rilegge ancora quelle frasi, poi alza il telefono, e chiama uno degli ultimi amici su cui ancora può contare: devo partire, gli dice, non c’è proprio alcun motivo per rimandare ancora.


Bruno Magnolfi

giovedì 17 dicembre 2015

Tentativi possibili.

          

            In fondo siamo soltanto io e te in questo comodo abitacolo. E secondo me è già troppo tempo che stiamo immobili, lo dico con tutta la tranquillità possibile, anche se tu obietterai immediatamente che in altri momenti abbiamo girato vorticosamente anche per dei lunghi periodi recandoci in tutti quei luoghi che volta per volta ci è venuta la voglia di visitare, prima di giungere alla risoluzione di fermarci e di stazionare qui, in questo bel posto dove stiamo adesso. Ciò che non comprendo però è come tu non senta adesso il desiderio, anzi la necessità quasi impellente di tornare a muoverci, e di navigare ancora, di andare come minimo in visita di qualche nuova realtà; forse però questo tipo di sentimento è soltanto mio, rifletto certe volte, e a te basta soltanto startene qua dentro, nel nostro spazio chiuso e così protettivo.
            Non è questo, fa lei; probabilmente è soltanto una questione di abitudini: sapere dove siamo, il perché, conoscere perfettamente tutto quanto ciò che ci circonda. Se non ci fosse questo abitacolo a racchiudere ogni nostro piccolo gesto, certo, sarebbe senz’altro una cosa diversa. Credo che là fuori tutto ciò che si muove sia costantemente un pericolo imminente per noi, ma questo dove noi stiamo è semplicemente il nostro mezzo di salvataggio, la nostra sicurezza, ed io prediligo stare all’interno di in un luogo riparato immerso in una realtà che potrebbe anche esserci ostile. Ma forse tutto ciò non sarebbe ancora del tutto sufficiente, se non ripensassi ogni momento all’impegno ed all’intensità con le quali poco per volta insieme a te mi sono introdotta, immersa, radicata in questo territorio, e di quanto adesso io senta come di farne parte, di costituirne proprio un pezzetto.
            I nostri pensieri uniti potrebbero da soli anche spostare tranquillamente l’abitacolo, dico io, magari di poco, giusto quel tanto che basta per mostrarci qualcosa di nuovo, e parlo di questo quasi sorprendendomi addirittura delle mie parole in fondo così tolleranti. Però credo potremmo fare almeno una prova, uno di questi giorni, senza neppure troppo impegno, quasi adottando una certa leggerezza di spirito, tanto per scoprire l'effetto che ne può scaturire. In fondo gli ancoraggi non sono cosi stabili e irrigiditi, non ci vorrebbe poi molto a rimuoverli, si potrebbe tentare senza che questo ci debba per forza cambiare abitudini e modi di essere.
Può darsi, dice lei dubbiosa; ed una prova del genere penso sarebbe persino possibile farla, anche se non credo molto nei piccoli spostamenti di questo tipo: se la traslazione dell’abitacolo è limitata, questa non ha molto senso; se invece è notevole allora diventa una vera e propria migrazione. Certo, potremo studiare il giusto equilibrio tra questi due estremi, ma essendo le nostre personalità così differenti come tante volte abbiamo constatato, e avvertendo quasi regolarmente delle percezioni della realtà piuttosto diverse tra le mie e le tue, finiremo inevitabilmente per avere uno scontro. Ed è questo il motivo principale che mi fa optare ancora per la sosta, l'immobilismo come lo vuoi chiamare.
Va bene, hai ragione. Ma adesso che io ho sollevato il problema non sarà più possibile tenere nascosto tutto quanto: la movimentazione o meno dell'abitacolo diverrà qualcosa che da ora in avanti segnerà probabilmente le nostre giornate e i nostri rapporti, perciò credo che rimanere fermi non sarà più possibile, qualcosa dovrà comunque essere fatto, ed ogni decisione avrà senz'altro bisogno di una ponderatezza superiore a quella che abbiamo usato fin qui. Va bene, fa lei: allora continueremo a parlarne e a costruire modelli e propositi, fino a  quando probabilmente tutto questo avrà perduto completamente di senso, ma noi comunque saremo coscienti che ogni tentativo possibile sarà stato almeno pensato.


Bruno Magnolfi

martedì 15 dicembre 2015

Pazienza semplice.

   

            Allungo lentamente una mano nel buio, alla ricerca dell’interruttore che accende la lampada, ma pur sfiorandolo e avvertendo con le dita la sua consueta consistenza di plastica liscia, mi fermo, come per concedermi ancora qualche secondo prima del vero inizio della giornata con la sua inevitabile esplosione ordinaria di luce all’interno di questo spazio ancora intimo piacevole e caldo intorno al mio letto. Noto però, non so neppure perché, che qualcosa appare come diverso stamani, ed anche se mi sforzo di essere pratica, di farmi coraggio, di trovare un motivo valido per far partire come sempre tutti gli esercizi con i quali è usuale dar inizio ad una giornata, qualcosa sembra indubbiamente cambiato, pur non comprendendo assolutamente cosa mai possa essere.
Apro subito la finestra di camera, una volta indossata una vestaglia coi fiori, ed insieme alla vista di una debole nebbia che ancora regna all’esterno, avverto un rumore lontano e persistente che non so riconoscere affatto. Ritorno alle mie cose, cammino con calma all’interno del mio piccolo appartamento ritrovando quasi senza guardarli tutti gli oggetti che mi servono per lavarmi, vestirmi, truccarmi, uscire in fretta di casa. Poi però si ripresenta il forte rumore di prima. Non viene da fuori, rifletto, è qualcosa che si muove improvviso all’interno delle mie stanze e poi si ferma, forse sgattaiolando in qualche angolo che adesso non riesco assolutamente ad identificare. Mi sposto con circospezione, valuto tutte le possibilità che mi vengono a mente, poi, in questo momento che non si avverte più niente, mi siedo in silenzio ad attendere che si ripresenti un altro episodio.
            Tutto è tranquillo, invece; nessun rumore adesso, nessuna diversità da ciò che è praticamente la normalità di ogni giorno. Immagino che tutto forse sia soltanto amplificato dalla mia fantasia, perciò penso ad altro cercando di riprendere i miei comportamenti più abituali. Invece il forte ruggito adesso è improvviso ed evidente, come se un animale selvaggio stesse chiuso dentro l’armadio soltanto ad attendere che io vada ad aprirgli. Mi avvicino al mobile, ma mi accorgo che non è proprio da lì che proviene. Giro per casa nervosamente, apro ogni sportello, perfino quelli dei pensili in bagno, ma non riesco a scoprire niente di più.
Il rumore intermittente a pause irregolari sembra qualcosa di intimo a tutta la casa, come la voce stessa dei muri che la compongono, ma siccome questo è impossibile, decido di ignorare la faccenda e darmi da fare con le mie abituali attività. Ma una gamba mi si flette inspiegabilmente mentre mi sto muovendo dalla camera alla cucina, e vado a cadere nel piccolo corridoio del mio appartamento, senza che riesca a fare il minimo gesto per evitarlo. Il rumore, adesso che sono distesa sull’impiantito, mi appare sordo e persistente, e mi sembra addirittura che una lenta vibrazione provenga contemporaneamente proprio dal pavimento, per cui mi schiaccio ancora di più a terra cercando di ascoltare direttamente la voce delle piastrelle. Silenzio. Neppure questa  è la strada giusta per comprendere le cose, penso.
Mentre mi rialzo appoggiandomi ad una poltroncina lì accanto, il suono, adesso più soffocato, si ripresenta, e nello stesso momento mi accorgo distintamente che proviene da me stessa, da dentro il mio corpo. Non è il brontolio della pancia o qualcosa del genere, è proprio qualcosa che si origina nella mia testa, forse direttamente dentro le orecchie. Vado in bagno, mi guardo allo specchio, mi trovo subito invecchiata e impaurita. Così mi getto acqua fresca sopra la faccia, ma non cambia niente, e allora mi asciugo con cura, poi rientro in camera, chiudo le imposte, e torno nel letto direttamente con la vestaglia, spengendo con cura la luce. Attenderò qualche minuto, penso, forse di più; tutto deve passare, per forza: le cose probabilmente si sistemeranno, penso ancora, si tratta soltanto di portare un po' di pazienza.

Bruno Magnolfi


venerdì 11 dicembre 2015

Sfida insensata.

            

            Dentro a questo salotto i mobili e gli oggetti della stanza risultano adesso perfettamente in ordine, come raramente succede, anche se lei, purtroppo anche stasera, sembra proprio desideri soltanto rimanersene nervosamente in piedi, stando lì accanto ad uno dei finestroni, come per osservare con attenzione chissà mai cosa fuori dai vetri, visto poi che la panoramica sulla strada che corre di fronte è sempre la stessa da sempre. Siediti, le dice lui perentorio con quei suoi modi da persona che tende normalmente a mostrarsi superiore, mentre intanto continua a gingillarsi con qualcosa di apparentemente prezioso che tiene tra le mani.
            Ho male allo stomaco, è meglio se evito di piegarmi, e scongiurare così che mi riprenda da vomitare come poc’anzi, dice lei mentre intanto prosegue ad osservare ancora qualcosa lungo quella strada da cui sembra costantemente attratta. Bene, fa lui, in ogni caso non c’è oramai molto da dire, i fatti mi sembra siano chiari a sufficienza.Tu che cosa ne dici? Seguono alle sue parole alcuni attimi di ordinario silenzio in cui l’uomo parrebbe provare come il desiderio di una conferma da parte di lei, magari di un semplice assenso, o forse soltanto di una semplice parola di accettazione circa la dichiarazione che ha appena pronunciato, ma in mancanza di tutto ciò riprende subito a dire: in ogni caso io sono stufo, ed ora mi tiro fuori da tutta questa faccenda.
            Lei si volta, sembra quasi punta sul vivo, lo squadra con grande determinazione, poi, dopo aver scelto con cura ogni parola per esprimersi, dice soltanto: non c’è affatto da meravigliarsi. Lui si muove di qualche passo senza neanche guardarla, sembra quasi prendere tempo, scegliere a sua volta le parole più adatte per difendere in qualche modo la sua posizione, ma infine si ferma, appoggia il posacenere di radica che teneva tra le mani sopra un ripiano davanti a sé, e poi resta lì, come immerso in chissà quali pensieri.
Vorrei soltanto che si fosse stati così lungimiranti da prevedere con anticipo una cosa del genere, fa lei sottovoce senza muoversi minimamente; adesso invece siamo tutti perdenti, ma forse proprio per questo non dovremmo apparire anche dei codardi. Non si tratta di questo, fa lui mentre si gira forse per dare maggiore risalto alle sue parole. La faccenda a me pare chiusa, inutile cercare di andare avanti ulteriormente. I due adesso sono a pochi metri di distanza, ma la forte lontananza tra loro si percepisce perfettamente, anche soltanto nelle espressioni degli occhi. E agli altri soci ora cosa dovremmo dire, fa lei: che sapevamo perfettamente prima o dopo di arrivare a questo finale, ma che nonostante ciò abbiamo cercato di tenerci su una linea di cauto ottimismo solo per fare ancora dei tentativi alle loro spalle, ed insomma per prenderli in giro?
No, certo, fa lui; alla riunione dovremo sostenere di aver fatto il possibile per tenere in piedi le nostre attività, ma poi è intervenuto un elemento improvviso che ci ha tolto ogni possibile tentativo. Lei si volta, come per osservare bene la faccia di lui, poi chiede:  e quale sarebbe, questo elemento, avanti, sentiamo. Non so, dice lui, potremmo sostenere che dai nostri clienti non ci sono più stati richiesti servizi, che anche noi non abbiamo avuto idee nuove, o che la banca ci ha messo delle condizioni piuttosto difficoltose. Lei torna a guardare fuori dai vetri, in silenzio. Lui riprende in mano il pezzo di radica. Va bene, pensa lei guardando ancora la strada; in fondo mi chiedo quale significato può esserci in questa sfida portata avanti ancora soltanto da te e da me.


Bruno Magnolfi

mercoledì 9 dicembre 2015

Sbagli possibili.

         

            Osservo di nuovo il mio orologio da polso, giusto per trovare conferma del paio di minuti appena trascorsi dall’ultima volta che sono tornato a guardarlo. Dicono alcuni che la mia personalità sia tormentata, ed io forse di tutto questo ne ho persino una qualche consapevolezza, anche se poi non riesco affatto a spiegarmene bene il motivo. Sono fatto in questa maniera, ripeto, non ci sono spiegazioni ulteriori. Così, tanto per dare un senso alle cose, mi getto a testa bassa in tutto ciò che può capitare, senza riflettere mai troppo, come se ogni possibilità che riesce a passarmi davanti fosse assolutamente quella per cui sono nato. Rifletto continuamente che non potrei essere diverso, che non sarebbe possibile per me cercare un comportamento differente da questo, perciò cerco di spingere qualsiasi cosa sempre in avanti, proprio per cercarne il finale, forse il risultato definitivo, qualsiasi esso sia, senza alcuna paura delle conseguenze.
            Stasera fuori dal caffè mi guardano tutti mentre offendo pesantemente questo vecchio, senza che neppure io abbia cercato un vero motivo per farlo, visto che probabilmente è sufficiente appena un pretesto per comportarsi così, però so per certo che qualcuno è senz’altro d’accordo con me, ed ora è lo stesso che ride sguaiatamente qui accanto, mentre gli altri attorno sono soltanto dei curiosi che tendono sempre a cercare di essere sul posto quando succede qualcosa. Poi la finisco, mi sento stufo di qualsiasi altra parola, rientro con gli altri, qualcuno di loro evidentemente adesso mi offre anche da bere, ed in questo momento io potrei anche dire qualche spacconata delle mie, delle frasi ad effetto per farmi ancora più grande, qualcosa che disegni meglio e ancora di più il mio personaggio; ma mi sento già oltre, perché in fondo mi annoio subito di cose scontate del genere. Passa mezz’ora, e poi si fa un attimo improvviso di silenzio dentro al locale: è tornato il vecchio, mi dicono. Continuo a bere, non sto neppure a voltarmi, mi viene quasi da chiedere di quale vecchio adesso si parli, oppure di quale fosse il contendere di poco prima, però sento dentro di me il tormento che mi riprende, ed i nervi che all’improvviso si irrigidiscono.
            Mi giro, lo vedo, dentro a questo locale forse non aspettano altro, ed io immagino subito con facilità che siano tutti dalla mia stessa parte. Così vado subito incontro a quel vecchio, vorrei suonargliele, riprendere esattamente da dove mi ero interrotto, ma quello mi guarda con fermezza e non cambia neppure espressione, poi tira fuori con calma la sua rivoltella e mi spara ad un piede, anche se riesce a ferirmi soltanto di striscio. Improvvisamente in me e fuori di me ci sono soltanto degli urli, questo dolore fortissimo che mi stordisce, ed una confusione pazzesca. Arrivo al pronto soccorso ancora sanguinante sopra una barella, e rimugino le ultime parole che ho sentito prima di svenire del tutto, quelle che dicevano sopra gli altri discorsi che tutto questo me lo sono proprio andato a cercare, e nient’altro. Tremo, vorrei soltanto sapere adesso che ore siano, quanto tempo è trascorso da quanto è accaduto, ed anche il tempo che ci vorrà perché tutto ritorni esattamente com’era, anche se intanto adesso qui non c’è proprio nessuno, se non due infermieri di spalle che parlano di una stupida donna ammalata di cancro.
            Odio gli odori, gli strumenti, ed ogni cosa che gira qua dentro, i miei nervi adesso sono formidabili pezzi di legno, credo che non dovrei per alcun motivo arrendermi a questo andamento delle cose che frullano. La mia testa brucia le idee che mi ronzano insieme ai pensieri, cerco di muovermi, anche se una fitta feroce mi blocca. Penso che forse c’è qualcosa di profondamente sbagliato in tutto questo, cerco anche di dirlo, di ripeterlo, di assimilarne poco per volta il significato; ma non riesco neppure a capire come sarebbe possibile correggerlo.


            Bruno Magnolfi

venerdì 4 dicembre 2015

Nessuna modifica.

            

            In molti hanno già detto che il problema non è dato dalla tirannia del tempo oppure dai molti impegni che purtroppo si susseguono. Lei si guarda attorno, si prende un’altra pausa tutta per sé, si disinteressa almeno momentaneamente di qualsiasi altra cosa. La sua amica più tardi l’aspetta all’angolo come sempre, stasera vanno a girare insieme in qualche negozietto, poi però faranno una sosta e prenderanno un caffè in un localino della zona, naturalmente soprattutto per parlare con sincerità del più o del meno.
            Non c’è mai niente di bello nelle mie parole, dice lei; soltanto domande, curiosità, insistenze. Lo so, dovrei rifletterci sopra in ciò che dico, valutare meglio questo aspetto, ma ti assicuro che adesso sto già imparando dagli equivoci che creo. L’amica sorride: non c’è niente di male, spiega, solo qualcosa, a volte. Si tratta di non dare troppa importanza a certi aspetti, tutto qua. Lei spesso si sente preoccupata dell'immagine di sé, è come se non si sentisse esattamente il tipo di persona che fa vedere d'essere. L'altra la incalza: non ha molta importanza tutto questo, è sufficiente che tu riconosca con sincerità certe caratteristiche di te stessa, e poi nient’altro.
            Ridono, tra loro si comprendono sempre al volo, anche se alcuni argomenti è bene non sfiorarli mai, neppure col pensiero. Si è fatto tardi, dice lei; tu devi tornare a casa, da tuo marito. L’amica la guarda con un’espressione ironica. Guarda l’orologio: solo cinque minuti ancora, dice, poi me ne vado. Però sono preoccupata per la tua continua solitudine, le spiega. Adesso è tanto tempo che non frequenti più qualcuno, che non esci la sera, non ti fai portare a cena fuori, per esempio. Lei si guarda le unghie, cerca di non rispondere niente anche se deve, e forse non vorrebbe affatto mettersi a parlare di una cosa di quel genere.
            Hai ragione, sbotta alla fine, sto trascurando la socialità. Anche se ho ricevuto un invito ultimamente, ma poi non è accaduto niente, solo qualche passaggio in macchina, e in due o tre casi giusto il tempo di scambiare due parole. Forse qualcuno che conosco, fa l’amica. Non so, fa lei, una cosa però è assolutamente chiara: non sono andata certo a cercarlo, tutto è capitato casualmente. Ma non credo ci sarà mai un vero seguito, troppo complicate tutte queste cose.
            Si tratta di un tipo già sposato, immagino, perciò la complicazione sta nei tempi per vedervi. Si, è così, ma soprattutto il mio arrivare sempre in ritardo agli appuntamenti lo ha già disposto negativamente, anche se a me dispiace. Ho cercato di spiegargli il mio carattere, ma su questo piano non c’è affatto comprensione. Ma tu però potresti magari arrivare per tempo, almeno una volta ogni tanto. Lo so, fa lei, ma non è la mia consuetudine, non è il mio comportamento abituale, così se cambiassi queste cose rischierei di non essere compresa. Anzi, darei proprio un’immagine di me che non è affatto la mia.
            Poi escono dal locale, ringraziano il barista, scelgono di fare un piccolo pezzetto di strada assieme, e quando arrivano ai saluti: tienimi informata allora, fa l’amica. Certo, dice lei, ti pare che se le cose riuscissero davvero a svilupparsi, non saresti la prima ad averne informazione? L’altra improvvisamente la guarda male, con ogni probabilità ha compreso più di quello che doveva, e in ogni caso ognuna delle due si stringe sulle proprie cose e se ne va.
            In fondo che problema c’è, pensa lei mentre torna verso casa: sono io la sbadata, quella sempre in ritardo, quella che non si rende neppure troppo conto; non c’è da prendersela a male se qualche volta poi riesce a combinare qualche cosa.


            Bruno Magnolfi

mercoledì 2 dicembre 2015

Evidenti tensioni.

           
            Avanti non c’è niente, pur continuando a costeggiare la bassa recinzione di un anonimo giardino pubblico, se non un gruppo di luci piuttosto fioche sopra dei lampioni arrugginiti che rischiarano come possono un piccolo parcheggio ora deserto. Lui cammina, sprofondato nei suoi pensieri, come perso alla ricerca costante di una soluzione che purtroppo non trova. Tu non ascolti mai gli altri, ha detto lei al culmine di un altro litigio, ed in fondo è soltanto questo che lo ha spinto ad uscire come per prendere aria e forse cercare di riflettere bene su quelle parole; anche se alla fine tutto ciò non assume adesso alcun senso, e non c’è neppure possibilità, almeno in questo momento, di ricordare esattamente quale sia stato davvero il motivo iniziale dello scontro tra loro. Normale avere battibecchi del genere, pensa lui; ognuno ha il suo carattere, e ci vorrebbe l’intuizione di un genio per comprendere cosa l’altro si aspetta davvero. Sciocchezze, si ripete mentalmente, non sarebbe neanche il caso di parlarne.
Un ragazzo gli cammina decisamente incontro, avrà poco più di vent’anni, probabilmente lo fermerà per chiedergli semplicemente una sigaretta. Invece all’ultimo momento lo ignora, gli passa alle spalle, anche se dopo un attimo sente chiamare qualcuno da qualche parte che in questo momento non riesce neanche a vedere. Avverte però del movimento su un lato del suo campo visivo, così si ferma, quasi per una intuizione, cerca di comprendere che cosa stia succedendo, ma il colpo sopra la testa gli arriva improvviso, fortunatamente non troppo forte, ma senza che se lo sia minimamente aspettato. Cade a terra, e per istinto si abbraccia a se stesso, come cercando una qualche protezione, ma nessuno di fatto tenta di infierire ulteriormente su di lui. Perciò dopo un attimo riapre i suoi occhi, si scioglie, lentamente tenta di rialzarsi, ma sono in tre o quattro a circondarlo, ed ora li teme. Li scruta, assume l’espressione di chi non capisce affatto cosa succeda, non sa neppure che dire, e gli altri lo guardano e basta.
Nessuno sembra voler dire niente, lui così mentre li guarda pensa alla sua casa tranquilla e confortevole, vorrebbe quasi urlare per sciogliere quella tensione che si è andata accumulando, ma uno di loro improvvisamente dice soltanto: è lui, e nient’altro. Uno scherzo, dice invece lui a mezza voce: io non vi conosco, ma non può essere altro che in questa maniera. Datemi una mano per rimettermi in piedi, ci fumiamo assieme una sigaretta, e poi ognuno se ne va per la sua strada. Però spunta una pistola, uno la spiana, dice semplicemente con voce calma che nessuno ha voglia di fare degli stupidi scherzi. Lui si vede già morto, sdraiato su quel marciapiede di periferia dove verrà ritrovato da qualcuno col cane la mattina seguente. Non dice niente, può capitare anche questo, pensa senza altre idee.
Qualcuno invece dall’altra parte di quella strada dice qualcosa con voce alta, forse c’è un attimo di incomprensibili scelte da prendere, tutti corrono fuori dal campo visivo, lui si rialza, si tocca la testa, aspetta che chi ha appena parlato lo raggiunga in fretta e magari gli spieghi qualcosa. Invece si volta, e non c’è più nessuno, accanto gli rimane soltanto il lampione neutrale che prosegue con una noiosa vibrazione elettrica. Lui raggiunge una panchina, si siede, gli pare tutto quanto qualcosa di assurdo, a questo punto forse dovrebbe rientrare e spiegarsi, ma invece dopo un attimo attraversa la via, inizia a correre, si dirige in fretta verso un caffè ancora aperto, e poi vi entra deciso.


Bruno Magnolfi

lunedì 30 novembre 2015

Pagine spente.

           
            Non vorrei mai provare il dolore. Per questo corro ogni giorno. Esco da casa già in tenuta sportiva ed inizio subito a correre, per tutte le strade di questo enorme quartiere, fino a stancarmi, a sudare, a stordirmi di fatica, fino al punto di non sentire quasi più niente, ed avvertire soltanto che il mio corpo è ormai esausto in ogni sua minima parte, ed ogni altro pensiero è lontano, neutralizzato. Poi rientro, mi lavo, mi cambio, e vado a lavorare. I colleghi sorridono, loro non credono ad alcun sano comportamento muscolare. Li lascio dire, per me in fondo va bene così, non c’è da aggiungere niente. Certe volte penso che la mia incapacità ad uscire dal bozzolo che mi sono creato intorno, non porterà mai niente di buono, ma questo è soltanto il retro pensiero che mi prende quando sono completamente a riposo.
            Di fatto penso che persino i miei colleghi utilizzino degli stratagemmi per alleviare le proprie pene, così una volta dico loro che in fondo siamo tutti fatti in uno stesso modo, simili e costituiti della stessa materia. Loro ridono, mi prendono in giro, dicono sempre che sono soltanto leggermente spostato, ma senza pensarlo davvero. Uno poi fa: tu hai la fortuna del tuo impegno continuo per farti scivolare via la giornata. Forse, fo io: anche se mi sto abituando velocemente alle cose, e tutto così diventa consuetudine e monotonia, ed è tale da rendere ogni elemento praticamente scontato, senza più la spinta di inizio.
            Quando vado a dormire sono stanchissimo. Spengo la luce, tutto crolla dentro di me, il sonno diventa subito un grande fondo scuro su cui non si muove più niente. Lei è lontano, non può danneggiarmi ancora. Qualche collega mi ha fatto qualche domanda, ed io non ho voluto essere evasivo, anche se forse sarebbe stata la cosa più facile. Al contrario ho cercato in poche parole di sintetizzare la vicenda che ancora si trascina dentro di me. Dovresti svagarti, generalmente hanno detto. Sorrido, in questi casi, non credo sia facile per nessuno comprendere le sensazioni che si possono provare. Così, la mattina seguente, riprendo a correre, quasi con un impegno maggiore.
            Oggi mi sono svegliato alla solita ora, ho acceso la luce, aperta la finestra, e sono rimasto lì, a guardare l’alba lontana e grigiastra, senza particolari attrattive. Niente è cambiato, penso, forse mai niente cambierà veramente. Oggi non correrò, ho subito pensato, e forse non andrò neppure a lavorare; probabilmente rimarrò qui a curare qualcosa che ho tralasciato da molto, e ad affrontare queste ferite rimaste esposte a qualsiasi maltempo. Sono uscito, perciò, ho camminato per le medesime strade che conosco di questo quartiere, e mi sono soffermato però ad ogni angolo, ad osservare qualsiasi dettaglio, rallentando continuamente la velocità e riflettendo su qualsiasi piccolo particolare degno di nota. Alla fine comunque sono andato ugualmente a lavorare, anche se con un discreto ritardo di cui sono riuscito a dare una giustificazione. I miei colleghi hanno subito capito che qualcosa improvvisamente era successo, ed io, di fronte ai loro sguardi interrogativi, ho sorriso, ad uno per uno, mostrando di voler bene a tutti, ed infine ho anche detto con facilità che non ho più voglia di correre: ho solamente voltato una pagina, ho spiegato loro; ma in fondo era semplice farlo.


            Bruno Magnolfi

venerdì 27 novembre 2015

Lezione quotidiana.

           

            Siediti, stai ferma, e soprattutto in silenzio, le grido quasi; non voglio più sentire niente, neppure l’eco della tua voce. Poi mi volto, cerco di riprendere la lezione dal punto dove in ultimo sono stata interrotta, ma mi rendo conto che adesso oramai ho perso completamente il filo del discorso, e che in questo momento non ricordo neppure di che cosa stavo effettivamente discorrendo. Non so per quale motivo, però mi viene in mente all’improvviso una sensazione e un’immagine di quando ero piccola, e di alcuni momenti in cui mia madre pacatamente mi sgridava per qualcosa che certe volte forse non facevo, oppure che facevo male, e ricordo benissimo anche quanto a me piacesse la sua voce, perfino in quei momenti, e quelle sue maniere monotone ma in fondo rassicuranti con le quali mi lasciava immediatamente comprendere quale fosse il vero limite, dandomi l’indicazione della strada giusta lungo la quale procedere. Forse in questo momento dovrei proprio parlare di tutto questo alla classe, penso mentre prendo ancora tempo con una scusa banale, ma una delle regole a cui mi sono sempre attenuta è quella di non trattare mai della mia vita privata, e tenere tutte le mie storie e le mie emozioni lontane il più possibile dal mondo del lavoro.
            Lorenzo, dico allora approfittando di una porzione di silenzio che ancora persiste; riassumi quanto sono riuscita a dire fino adesso, per favore. Il ragazzino si alza, è uno di quelli bravi, riflessivi, così si guarda alla sua destra dove c’è il suo amico, forse per cercare un aiuto o almeno una condivisione, mentre probabilmente si sta già chiedendo perché mai la sua insegnante abbia interpellato proprio lui, anche se di fatto non può neppure immaginare quanto i suoi modi assomiglino ai miei quando avevo la sua stessa età. Qualcuno subito dietro Lorenzo ride in maniera soffocata, chissà poi per quale motivo, e lo fa proprio mentre io provo all’improvviso quasi un moto di commozione, forse solo per aver semplicemente ripensato alla mamma, oppure per una stupida e ingombrante nostalgia che adesso non saprei neppure definire.
            Ecco, dice Lorenzo; ci stava spiegando quanto sia brutta la violenza tra le persone, specialmente quella di cui nessuno parla mai. Pausa. Lo guardo in silenzio, lui mi guarda, non lo incoraggio, resto neutrale quanto più mi riesce: il ragazzino intuisce qualcosa però, così abbassa gli occhi e infine si siede. Con quelle semplici parole la stanza di fronte al mio sguardo è attraversata improvvisamente dalla figura di mio padre, forse soltanto un’ombra, quasi un fantasma, velocissimo, talmente rapido che dubito io sia riuscita davvero a vederlo. Ne ho soltanto avuto l’impressione, forse, e poi in fondo a distanza di anni non ricordo neanche bene come fosse fatto.
            La violenza di cui nessuno parla è quella che avviene ogni giorno, dico; magari proprio dentro un’insospettabile abitazione, ed è quella che in una volta sola non mostra mai niente di sé. La sua vera forza è la ripetizione continua, il monotono manifestarsi anche di uno stesso singolo atto: chiedere sgarbatamente una medesima cosa, esprimersi sempre con un atteggiamento aggressivo, o anche soltanto evitare sistematicamente di dare delle risposte. Anche questa è violenza, ed a volte risulta talmente efficace da portare chi la subisce addirittura a dei gesti sconsiderati.
            Adesso il silenzio è perfetto, completo; forse ho messo qualcosa di mio in quanto ho detto, penso mentre giro una pagina sopra la scrivania; in questo momento avrei quasi voglia che qualcuno dei più scalmanati rompesse la pesantezza dell’aria che si è instaurata dopo queste parole, magari per dire una scemenza qualsiasi. Invece niente, tutto improvvisamente è immobile. Devo uscire da questa situazione, penso. Lorenzo, dico così a Lorenzo in maniera un po' intimidatoria. Scrivi per favore sopra la lavagna la parola chiave della lezione di oggi. Lui si fa avanti svogliatamente, si posiziona accanto allo schermo, prende tempo, infine scrive: quotidianità. Bravo, gli dico, ma adesso prendiamoci tutti una pausa di qualche minuto per riflettere bene anche su questo argomento; poi magari potremo discuterne con una calma maggiore. Esco dall’aula, vado in bagno, mi guardo nel piccolo specchio e all’improvviso so perfettamente che non avrei mai dovuto affrontare con i ragazzi un tema del genere.


            Bruno Magnolfi

lunedì 23 novembre 2015

Risate liberatorie.

            

            Il rumore dei macchinari in funzione là dentro non è fortissimo, però è già sufficiente per costringere chiunque si trovi ad operare nel grande capannone dell’officina a parlare a voce molto alta, tanto da scoraggiare in genere qualsiasi discorso che non sia giusto una battuta di appena due o tre parole. Ai più anziani tra coloro che lavorano là dentro basta spesso una semplice occhiata per scambiarsi un intero concetto, specialmente quando si sa che da un momento all’altro potrebbe passare tra i corridoi per la verifica proprio lui, il loro responsabile tecnico. Tutti lo odiano, naturalmente, ma forse oramai più per abitudine che per un qualche motivo preciso.
Lui controlla i tempi, la qualità del prodotto, la sicurezza delle attività, il comportamento di tutti gli operai, e nei suoi confronti generalmente ci si sente già abbastanza furbi nel mostrare un certo grado di finta indifferenza verso quelle che tutti chiamano le sue stupide indagini. Si muove in mezzo ai macchinari come se sapesse perfettamente che tutti cercano di raggirare in qualche modo il suo sguardo sottile, così molte cose finge addirittura di non vederle, ma lo fa soltanto per conservare così delle carte da spendere al momento più opportuno. Già, perché il suo modo di comportarsi è quello di non obiettare mai un bel niente a nessuno, anche quando magari sta alle spalle di uno dei lavoratori per osservarne ogni movimento, forse anche perché dovrebbe quasi urlare per farsi comprendere adeguatamente, e questo non è affatto nel suo stile. Al contrario, quando l’operaio preso di mira magari non se l’aspetterebbe neanche più, o quando si vanno a sommare due o tre elementi diversi e negativi, anche pur marginali ma per lui assolutamente rilevanti, ecco che il lavoratore viene chiamato nel suo ufficio tramite gli altoparlanti, ed è lì che escono fuori in una sola volta tutti i problemi segnalati, lasciando il malcapitato a difendersi da solo in piedi davanti alla sua grande e maledetta scrivania.
Ma oggi è diverso: si è visto sin dalla mattina che qualcosa di pesante nell’aria sembra come incombere su tutta l’officina, quasi un elemento nuovo, strano, intraducibile, che perfino durante la stessa pausa pranzo, nei locali della mensa, ha imposto a tutti di parlare sottovoce, rispondendo alla sensazione diffusa di essere sospettati di qualcosa di terribile. Cinque minuti prima del termine dell’orario di lavoro difatti gli altoparlanti hanno scandito un serio avviso: siete tutti indagati, ha detto una voce metallica al microfono, nei confronti dei danneggiamenti rilevati sulla carrozzeria dell’autovettura privata del nostro responsabile tecnico aziendale. La ricaduta dei provvedimenti che verranno presi sarà un irrigidimento della direzione nei confronti di ogni lavoratore.
Nessuno commenta, tutti rimangono in religioso silenzio, ognuno sa quale sia la lucida vettura presa di mira, e forse a nessuno è venuto mai in mente nemmeno di sfiorarla. Suona la sirena del termine per quella giornata lavorativa, e gli operai raggiungono in fretta gli spogliatoi e i propri armadietti. Tutto peggiorerà adesso, dice qualcuno appena bisbigliando. Però non ha alcuna importanza: indietro non si può più tornare, perciò affronteremo la situazione così come si presenta, dice qualcuno coraggioso. Nessuno spiega che forse il responsabile tecnico se lo è proprio meritato, però tutti lo pensano, e in ogni caso chissà se verrà mai fuori davvero colui che si è macchiato di un gesto di quel genere. Timidamente uno infine avanza persino l'ipotesi che sia tutta un'invenzione della direzione per irrigidire i comportamenti nella fabbrica, ma poi qualcun altro volta gli occhi sul soffitto, e vede che è stata applicata persino lì in un angolo una micro telecamera. Non ci salveremo, dice: tanto vale farci due risate.


Bruno Magnolfi

mercoledì 18 novembre 2015

Comprensibili debolezze.

   

            Sto qui per quasi tutto il giorno, sopra la panchina di questo giardinetto, proprio accanto alla strada che porta verso il centro. Mi sposto durante la giornata giusto per arrivare al semaforo che sta di fronte, anche se non chiedo mai niente agli automobilisti, mi limito negli orari di punta a passare accanto alle vetture ferme in coda per il rosso, per dare la possibilità a quelli del quartiere che ormai mi conoscono da tempo, di regalarmi a volte qualche spicciolo, oppure qualcosa da mangiare; in certi casi mi portano anche un paio di scarpe usate, o qualche maglione e giubbotto smesso, che fa sempre un gran comodo, e anche altre cose del genere che a me possono servire. Perciò durante tutta la giornata sotto alla mia panchina ci sono sempre delle grandi buste con dentro tutta la roba che riesco a raccogliere e mettere da parte, lo sanno tutti qui, a nessuno dà fastidio.
            L'altro giorno nella tasca di una giacca grigia che ho indossato per la prima volta, trovo una vecchia fotografia: è una ragazza sorridente, non mi pare di averla mai veduta da queste parti, perciò decido subito che quello è un segno del destino, e che lei d’ora in avanti sarà come la mia fidanzata, il mio portafortuna. A qualcuno che mi saluta al semaforo faccio anche vedere quella foto, senza specificare niente, e forse in molti stanno quasi per chiedersi che vita avrà mai fatto prima di adesso uno come me, capace di essere riuscito a conoscere e magari a frequentare una ragazza carina di quel genere. Io sorrido dentro di me: è come fosse tutto un mio segreto, una scommessa con la vita che tengo quasi in serbo tra le cose a me più care.
            Passano i ragazzi di un’associazione per sentire come mi vadano le cose, mi danno subito i buoni pasto per la mensa, dopo essersi informati sulle mie condizioni di salute, mi fanno dei gran complimenti per come mando avanti le mie cose, e poi mi allungano anche qualche soldo. Sto bene, dico, adesso che non sono più da solo le cose poi vanno anche meglio: ho con me la mia fidanzata che mi tiene compagnia per tutto il giorno, e questo sicuramente è un gran sollievo, dico. Così mostro a queste brave persone l’immagine della mia ragazza che tengo sempre in qualche tasca, e loro sembrano molto sorpresi, per scherzo si danno anche di gomito l’un l’altro, ridono e apprezzano il mio buon gusto nello scegliermi questa fidanzata.
            Trascorre qualche giorno, tutto scivola esattamente come sempre, senza sbalzi, e dopo arriva lei, proprio lei vera, ed io non mi aspettavo proprio una sorpresa di quel genere, anche perché fin da diversi passi di distanza la riconosco subito, non ho bisogno neppure di pensarci. Viene con calma verso la mia panchina, sorride, si siede accanto a me, dice che oggi fa un po' freddo, ma che purtroppo stiamo andando sempre più verso l’inverno. Ho la coperta, le rispondo con timidezza e titubanza, per me non ci sono troppi problemi. Continuo a guardarla, è proprio lei, bella come me l’ero immaginata, ed è la mia ragazza, adesso ne sono proprio sicuro, e lei sa bene che non mi sarei mai immaginato di incontrarla, che non me l’aspettavo davvero una sorpresa di quel genere.
            Mi dice in due parole che lei se la sta passando piuttosto bene, che è contenta di come stanno andando tutte le sue cose, ed io allora le faccio vedere la mia fotografia, tanto per spiegarle bene quanto io abbia pensato a lei per tutto questo tempo. Mi sfiora la mano, sorride, dice che le fa piacere se tengo la sua fotografia, ma che adesso deve proprio andare, anche se ritornerà, di questo ne è più che sicura, quasi me lo giura. Sorrido, mi sembra di vivere in un sogno, così di getto le chiedo di scrivermi il suo nome sul retro dell’immagine, e magari anche una dedica.
            Elena, dice lei mentre scrive qualcosa insieme al suo nome. La guardo, poi riprendo la fotografia dalle sue mani: è il più bel nome che abbia mai sentito, penso, anche se adesso provo un’emozione così forte che non riesco neppure a pronunciarlo. 


            Bruno Magnolfi

giovedì 12 novembre 2015

Evidente superiorità.

            

            Il mio sguardo ha qualcosa di magnetico: posso agevolmente spostare dei piccoli oggetti di lato, oppure attrarli verso di me, o se voglio anche renderli immobili completamente. Per questo credo che molte persone mi temono, immaginando forse già da come mi atteggio quanto posso essere pericoloso per loro; spesso difatti mi evitano, anche se quasi sempre indosso un paio di occhiali scuri con una gran montatura, proprio per neutralizzare il più possibile il senso delle mie capacità. In fondo a me neppure interessa essere così diverso da tutti. Mi è più che sufficiente sapere che posso fare delle cose impossibili agli altri per sentirmi subito meglio, perfettamente a mio agio, ed affrontare ogni giornata quasi con piglio ed un certo entusiasmo.
            Il mio vicino di casa mi osserva quasi sempre mentre esco. Lui non mi ha mai salutato, si ritiene senza ombra di dubbio ben al di sopra di certi atteggiamenti, così anche io tendo a comportarmi così, e la maggior parte delle volte evito persino di voltare la faccia verso di lui. Però sento i suoi occhi che mi scrutano quasi tutte le volte, perciò in certi casi vorrei quasi fermarmi e mostrare proprio a lui di che cosa sono capace, ma fino ad oggi ho sempre lasciato correre e sono andato avanti per la mia strada con superiorità.
            Quando poi ritorno però, lui è ancora lì, con la sua espressione enigmatica e le sue braccia quasi abbandonate sopra al davanzale della finestra. Mi fermo, mi concentro, tolgo gli occhiali scuri dal viso e cerco di spostare con il semplice sguardo il piccolo vaso di fiori che rimane accanto a lui, tanto per dargli un esempio di che cosa sono capace. Ma niente accade, inspiegabilmente. Dopo un bel po’ invece due o tre fiorellini, in mezzo alle loro foglie color verde chiaro, appassiscono all’istante, anche se il mio vicino non si accorge proprio di niente, e forse finge addirittura di non aver neanche notato il mio sguardo.
            Alla fine, mentre sono ancora là davanti, fermo, che quasi trattengo il respiro, lui rientra, sparisce, mi evita, ignora deliberatamente tutto il mio impegno, e lascia che ogni cosa rimanga nella stessa esatta maniera. Certo, c’è qualcosa qua attorno che neutralizza ogni mio potere, rifletto, forse dovrei anche approfondire questo aspetto, portare avanti una piccola indagine per comprendere cosa sia che rende vano quanto sono convinto di poter dimostrare. Così affronto la realtà, salgo le scale, suono il campanello del mio vicino ed attendo che mi apra. Vorrei soltanto visionare la pianta sfiorita sul davanzale, gli dico. Lui mi fa entrare, mi indica la finestra che cerco, ed intanto resta sulla porta ad osservare con attenzione quello che faccio.
            E’ in quel momento che senza pensarci due volte prendo la pianta con le mani e la scaglio di sotto, mandandola a fracassarsi sul marciapiede. Poi, mentre il mio vicino mi tira una spalla in modo molto sgarbato, mi concentro con tutto me stesso, e con lo sguardo riesco a riunire in un unico piccolo cumulo i cocci del vaso, la terra sparsa, e i brandelli della piantina. Lui dice qualcosa, forse urla, ma io proseguo ad ignorarlo, e quasi di scatto, senza dargli alcuna spiegazione, prendo la porta ed esco, eclissandomi svelto lungo le scale.
            Quando torno sul marciapiede c’è già qualcuno che si è incuriosito di tutto il baccano, e due o tre perdigiorno mi guardano come se fossi chissà quale stralunato pazzoide. Dalla finestra intanto il mio vicino continua ad urlare delle male parole, naturalmente io fingo di non sentirlo, quindi me ne vado per i fatti miei. Mi dispiace, rifletto, non volevo certo risolvere la cosa in questa maniera, eppure so che non è colpa mia, c’è qualcosa che mi impedisce di essere come sono, bisognerebbe indagare più a fondo, forse si dovrebbe addirittura allontanare il mio vicino da questo quartiere. Ma cosa importa alla fine: mi sento ben superiore a tutto quanto, ed è questo l’elemento importante.


            Bruno Magnolfi

lunedì 9 novembre 2015

Tema concluso.

        
            Ammazzami, con voce strozzata dal dolore dice lui nel suo sogno ricorrente alla propria compagna. Di fatto è caduto dalle scale, probabilmente, qualcosa si è spezzato tra le fragili ossa della sua schiena, ed adesso è rimasto lì, impossibilitato a compiere qualsiasi movimento. Altre volte invece è accaduto un semplice incidente d’auto, è stato anche travolto mentre attraversava la strada, oppure qualcuno gli ha assestato una bastonata vile proprio alle spalle. In tutti questi casi lui è rimasto evidentemente a terra, fermo, paralizzato, ed il suo futuro è subito apparso irrimediabilmente compromesso.
            Insomma, ammazzami, finiscimi, le dice, piuttosto che lasciarmi soffrire ancora per chissà quanto tempo, ma lei con estrema freddezza si limita ogni volta soltanto a chiamare i soccorsi. Poi, sempre nel sogno, lui si ritrova convalescente, in un piccolo giardino fresco e silenzioso, seduto ad un tavolino, mentre la sua compagna si occupa di qualcosa, forse alle sue spalle sistema semplicemente una tazza sopra un vassoio, quindi gli va più vicino porgendogli la bevanda, gli dice ciao sottovoce, e infine se ne va, senza alcuna spiegazione.
            Non è tanto starsene solo il problema, pensa lui adesso, quanto sapere di essere stato abbandonato ad un certo punto, lasciato al proprio destino, e neppure con un atto di cattiveria o di disprezzo, quanto con un sorriso, con una parola semplice e quasi dolce, un gesto rispettoso e gentile. Non sa neanche bene chi sia la sua compagna del sogno, forse soltanto una somma del tutto incompleta di alcune tra le donne che ha conosciuto, comunque una persona senz’altro sicura di sé, qualcuna che con ogni probabilità, ad un dato momento, è riuscita a vedere in lui qualcosa di interessante, ad apprezzare almeno un aspetto di rilievo del suo carattere, una dote che magari a lui stesso è sempre sfuggita, ma che in seguito forse si è fatta anche per lei meno importante, tanto da poter essere lasciata in disparte, insieme al resto di quel suo uomo.
            Viene da ridere, lui si è come affezionato a quel sogno, fino al punto di credere che quanto accaduto sia vero, e che tutto sia davvero esistito, prima o dopo, tanto che quegli accadimenti siano proprio tutti reali, come reale sopra ogni fatto sia lei, la sua compagna di sempre. Non le ha mai dato un nome, forse non si è fermato mai a chiederlo, e probabilmente a lei è parso poco importante dirgli chi era, come si erano conosciuti, perché si trovavano lì, insieme, mescolati in quella dolorosa vicenda. Certo, non è affatto importante, pensa lui adesso. Ma quell’ombra sfumata che appare immediatamente dopo che lei si è eclissata, sembra porgere alla mente mille altre domande.
            Per questo lui perfino in questo momento nel suo sogno vorrebbe cercarla, dice, forse semplicemente vorrebbe soltanto conoscere qualcosa di più della sua storia, capire da dove lei sia venuta, e perché. Il medico lo guarda, ha preso appunti sul suo taccuino, o forse ha solo finto di prenderne. Non ha una risposta, si limita a guardare sulla sua scrivania, ad incoraggiarlo per dire ancora qualcosa, per descrivere, spiegare ogni dettaglio, fino a parlare e a parlare sempre intorno a quel medesimo argomento; fino a quando però alla fine tutto diviene troppo noioso, logorroico, antipatico con quel persistere a definire ancora qualcosa; perciò ora basta, è sufficiente così, gli dice, perché questo ormai è un tema concluso.


            Bruno Magnolfi

venerdì 6 novembre 2015

Rumori di fondo.

            

            Oggi sono qui, dice lui alla platea improvvisamente silenziosa. Il microfono e l’amplificazione della grande sala producono un fastidiosissimo rumore di fondo, un forte ronzio che lui immagina di poter coprire soltanto con una serie di applausi scroscianti da parte della gente intervenuta là dentro. Non vi parlerò delle solite cose, dice; non vi annoierò neppure cercando di spiegare gli errori degli altri e della melma in cui stanno annaspando. Poi si prende una pausa, anche perché il collaboratore che gli ha preparato il discorso si è molto raccomandato di rispettare quei piccoli asterischi di cui ha disseminato le frasi sopra i suoi fogli. Comunque, prima di ogni altra cosa, vi ringrazio di essere qui, dice alla fine. Parte da questo punto già un timido applauso, d'altronde una frase così stupida mette comunque sempre tutti d’accordo, pensa lui, e fa sentire i presenti grandi protagonisti, anche soltanto di un generico qualcosa; perciò, con questa linea di credito aperta, riflette ancora, potrò dire adesso persino una qualsiasi strampalata sciocchezza, e questa, anche se addirittura poco compresa, sicuramente sarà ben accolta.
            Ma i piccoli schiocchi di quelle decine di mani lentamente si attenuano, con calma torna il silenzio, ed il rumore di fondo riprende subito a farsi sentire, così lui si ritrova di nuovo distratto, disturbato, quasi innervosito, perciò tocca il microfono, si muove sul palco, scuote i suoi fogli. Ma infine riprende, dopo essersi lasciato andare ad una pausa forse un po’ troppo lunga. Dobbiamo essere concreti, spiega. Il momento non ci permette alcun tipo di errore. Per questo dobbiamo affrontare con forza ogni prossima sfida. E quando sarà il momento, dice adesso quasi con convinzione, sapremo sicuramente essere uniti. Fioccano naturalmente gli applausi, ed anche se quelle parole non significano molto, riescono comunque a prendere ed entusiasmare, quasi come una dichiarazione di guerra contro qualcosa o qualcuno che sembra non sia più possibile ormai sopportare.
            Alcuni fischiano per mostrare di esserci, altri ridono mentre continuano comunque a battere le mani. Sapremo lavorare con coraggio per le cose in cui abbiamo sempre creduto, dice adesso quasi urlando sopra il rumore, anche se non erano previste queste parole sui fogli, e non c’era neppure l’asterisco della pausa subito prima. Torna rapidamente il ronzio, quasi una maledizione che fa senz’altro accorciare qualsiasi discorso. Lui salta uno o due fogli, poi riprende cercando la calma da un punto che gli sembra essenziale: dovremo smetterla di mostrarci arrendevoli; abbiamo coraggio, voglia, entusiasmo; dobbiamo mostrare da ora in avanti tutto il nostro valore. Ma il tono della sua voce in questa frase appare poco convinto, troppo pacato e quasi remissivo, non trascina più quegli applausi che riuscivano a coprire il rumore di fondo.
            Nelle prime file qualcuno sembra voltarsi verso i propri vicini, come a cercare una spiegazione esauriente di quanto va accadendo sul palco. Lui può ancora riuscire a prendere tutti in un pugno e lanciarli in una grande esplosione d’entusiasmo, ma il ronzio ormai lo ha fiaccato, ormai sente soltanto la voglia di andarsene, di smetterla una volta per tutte con quella farsa insignificante. Non mi sento bene, dice alla fine dentro al microfono. Tutti lo incoraggiano, anche se pochi forse credono che questo sia vero. Lui insiste: scusate, ho soltanto bisogno di bere, di aria, di togliermi dalle orecchie questo ronzio, di starmene un attimo da solo, di andarmene da questa sala ormai insopportabile. Adesso il silenzio è fortissimo, onnipresente, eccetto il rumore dell’amplificazione. Lui guarda tutti, poi alzando semplicemente una mano, li saluta solo una volta, senza trasporto.


            Bruno Magnolfi

martedì 3 novembre 2015

Colpa grave ed indivisibile.

            
            Dopo aver sbrigato tutte le faccende di casa, quando infine riesce a ritagliarsi del tempo per sé, a lei piace mettersi seduta, da sola nella sua stanza, e riguardare delle vecchie fotografie che ha accumulato con pazienza, ripescandole alla rinfusa da una grossa scatola di cartone dove solitamente le tiene riposte. La sua vicina, quando sa che lei è in casa, va a trovarla certe volte, tanto per parlare con calma del più o del meno, e lei qualche volta le mostra proprio quelle immagini, ricostruendo i periodi e le vicende delle persone le cui facce affiorano su quei cartoncini lucidi. Poi generalmente si salutano, lei l’accompagna fino sul pianerottolo, la saluta, dice che le ha fatto piacere che sia passata, ed infine richiude la porta.
            Forse l’altra sorride di quegli struggimenti così assolutamente ordinari. Forse chiunque lo farebbe in simili circostanze. Ma non ha alcuna importanza, ognuno è costituito in una propria maniera, inutile stare a criticare o a fare ironie. Lei rientra, sistema le sue cose e mette in ordine la sua piccola stanza. Sua madre adesso è anziana, ma ancora conserva un carattere burbero, non accetta facilmente il disordine, e non le piace neppure che lei si perda in quelle sciocchezze, cosi, pur lasciandola fare, quando la vede affacciarsi alla porta della cucina, le detta subito qualche compito pratico di cui occuparsi, quasi a rompere velocemente quella sua atmosfera sognante attraverso la concretezza delle cose da fare. Certe rare volte le rinfaccia addirittura che i soldi per andare avanti vengono quasi tutti dalla sua pensione, e quelle elemosine che prende sua figlia per fare le pulizie in casa a qualche famiglia di quel quartiere, da sole non servirebbero quasi a niente; lei ovviamente soffre quando ascolta delle parole del genere, ma in ogni caso cerca di non ribattere mai a certi discorsi.
Poi, la prima coltellata che lei infligge a sua madre poco dopo avere iniziato a sbucciare delle patate sul tavolo di cucina, alzandosi dalla sedia come per un gesto normale, è di striscio su un braccio, quasi uno sbaglio di traiettoria. Il secondo colpo, al contrario, è più deciso e diretto, e va preciso di punta all'addome, anche se non è forte, soltanto una robusta punzecchiatura, quasi fosse un avvertimento. La vecchia si accascia, subito si lamenta, lei resta immobile per dei lunghi attimi, infine si porta le mani ai capelli, urla qualcosa, va immediatamente a chiamare la sua vicina di casa. Non è grave, si salverà, dice il medico mentre portano via la madre con la barella, ma io devo sporgere denuncia, il caso non è chiaro, non è proprio possibile che si sia tagliata da sola.
Sono stata io, dice lei con una certa fermezza; se lo è meritato. La vicina presente dentro la stanza è incredula, la guarda in faccia con gli occhi sbarrati, non si rende neppure conto del tutto di quanto stia effettivamente capitando. I carabinieri arrivano in fretta, fanno qualche rilievo e le dicono subito di seguirla, anche se lei sembra già pronta, nella confusione del momento è riuscita perfino a mettere qualcosa di personale dentro una borsa. E’ colpa mia, spiega la vicina ormai in lacrime. Ho dato spago ad un comportamento sentimentale, ho attizzato una brace, mi sono lasciata andare ad ambigui comportamenti. Sono colpevole, spiega, almeno quanto lei.


Bruno Magnolfi

venerdì 30 ottobre 2015

Salvezza insperata.

            

            Uscendo dal locale dove per più di un’ora si è intrattenuto con alcuni conoscenti a bere diversi bicchierini, giusto per trascorrere in qualche modo quella lunga serata ordinaria e quasi inutile, lui adesso non si sente neppure perfettamente in sé, pur riuscendo ancora a camminare quasi diritto e a vedere piuttosto ben definiti sia la strada che il marciapiede di fianco, le cui pietre umide appaiono fortunatamente rischiarate dai lampioni che indicano anche tutto il percorso in direzione della sua piccola abitazione poco distante. Si ferma, una volta apprezzato il fresco della sera e l’aria tersa, quindi incamera un profondo respiro quasi normalizzatore del suo stato, e infine si avvia.
            Non c’è niente di male nel fare un po’ di baldoria ogni tanto, pensa ad alta voce mentre prosegue a camminare. Per istinto, ma non senza un briciolo di preoccupazione, affonda le mani dentro le tasche del cappotto alla ricerca della chiave del portone, già pregustando il suo rientro tra le mura domestiche, ma in mezzo alla stoffa nessun oggetto del genere sembra presente in questo momento. Gli è sufficiente una breve e sofferta ricognizione mentale per rendersi conto di come tutto il suo mazzo di chiavi, così importanti adesso, sia probabilmente rimasto dimenticato magari sopra al tavolo di casa, oppure addirittura nella tasca della giacca indossata al mattino, che adesso è naturalmente riposta dentro l’armadio. In ogni caso l’ora è ormai tarda, e le possibilità per rientrare al suo domicilio appaiono all’improvviso estremamente difficili.
            Ciò nonostante, lui prosegue imperterrito a camminare nella medesima direzione, quasi riponendo così tutte le sue speranze in un qualche miracoloso avvenimento, ma anche immaginando di trovare tutto il coraggio che gli serve per suonare il campanello alla sua odiosa vicina di casa, convincerla della sua sventura, e infine chiederle la possibilità di lasciarlo salire sopra al terrazzino confinante, e da lì, sporgendosi pericolosamente, permettergli di saltare fino alla sua finestra, ammesso naturalmente che questa sia rimasta aperta. Con questi pensieri continua a camminare, pur rallentando leggermente l’andatura ad ogni passo, e in un primo tempo riesce quasi a convincersi come tutto possa davvero andare a buon fine in quella situazione, ma quando ormai è in vista del condominio dove abita, le sue speranze all’improvviso precipitano in maniera quasi definitiva. 
E’ tardi, le finestre sono tutte buie, la sua vicina sicuramente già a letto, e soltanto disturbarla adesso a lui pare un’impresa. In più, nella giornata seguente, coloro che lo conoscono sapranno che il loro vicino chissà come si è trascinato fino là completamente ubriaco, e che senza alcun criterio ha avuto l'impudenza di interrompere la calma e la rispettabilità di un intero condominio, ridendo sguaiatamente per strada assieme a chissà quali amici di bevute, e svegliando tutte le persone ammodo nel pieno della notte. Una persona sgradevole, diranno; uno verso cui non si può più rivolgere neppure un saluto cortese; una figura da isolare e da allontanare al più presto, proprio per evitare in futuro ulteriori sconvenienze del genere. Diranno subito che è stato visto poco sobrio ogni sera, e chissà da quanto tempo a questa parte, che è un tizio ignobile, e soprattutto non merita niente, neppure un minimo di tolleranza da parte di chi lo conosce anche solo di vista.
Con questi pensieri giunge disperato ad appoggiarsi al portone, lo accarezza, osserva i pulsanti dei campanelli così a portata di mano, cerca il nome della sua vicina, anche se uno sgomento improvviso lo prende. Allunga un dito tremante, è quasi sul punto di fare quel passo irreversibile, quando invece si ritrova ad infilare la mano dentro la tasca, quasi con un gesto di orgoglio. Ed ecco, incredibilmente, la sua chiave è proprio lì, in una semplice piega di quella stoffa dove prima non aveva cercato; è salvo, indubbiamente, anche se soltanto per questa volta.


Bruno Magnolfi

martedì 27 ottobre 2015

Pensieri piccoli.

            

            Tutto oramai è fuori controllo, penso. Inutile illudersi, a me basta girare per le strade di questo quartiere per rendermi conto che ognuno di noi è preso soltanto dai propri problemi, e che non riesce nemmeno a immaginare quali siano i temi che invece riguardano tutti. Mi soffermo qualche minuto ad osservare un palazzo di recente costruzione, poi però vado avanti, a cercare ancora quegli elementi che restano a mostrare le cose così come sono sempre state.
            Gianni, dice qualcuno da dietro. E’ un amico di sempre che mi chiama, uno dei pochi che ancora frequento. Facciamo assieme due passi, propone. Va bene, rispondo con un sorriso, devo soltanto andare alle poste centrali, quelle di piazza Repubblica. Camminiamo affiancati perciò, e lui mi spiega le proprie piccole difficoltà nel sentirsi a suo agio in questa realtà capricciosa, zeppa di elementi antipatici e negativi. Io però gli sorrido: era nell’ aria che tutto sarebbe prima o dopo diventato così, gli faccio presente, una realtà piena di fastidi e di grandi sospetti per tutto e per tutti. Vorrei che qualcosa cambiasse, fa lui, ma non so neanche io di preciso che cosa. Rallento, mi fermo, gli assesto una debole pacca ironica sopra le spalle, e sorrido, dico che questi sono i soliti argomenti che non portano proprio da alcuna parte. Dobbiamo fare, dico, essere precisi, ribellarsi, tirare fuori le proprie opinioni e farne bandiera.
Lui non mi guarda, forse c’è rimasto male, penso; dice che adesso comunque ha qualcos’altro da fare, deve perciò andarsene, e così quasi all’improvviso mi saluta, e se ne va subito per una delle vie laterali senza neppure voltarsi. Forse ho esagerato, penso; adesso vorrei quasi corrergli dietro, cercare di spiegarmi meglio con lui, dirgli che in fondo siamo tutti nella medesima barca, e parlando con cordialità aggiungere molte altre cose del genere, ma lui adesso è già lontano, anzi, è ormai sparito in mezzo alla gente. Forse devo trovare un maggiore equilibrio, rifletto; qualcosa che mi permetta di dire sempre quello che penso, ma senza dare sui nervi a nessuno.
Alle poste centrali c'è molta gente, mi metto così in fila di fronte ad uno sportello. Sto lì, attendo il mio turno, ed intanto mi viene voglia di cantare qualcosa, un motivetto senza alcun impegno, tanto per rompere la noia del momento. Qualcuno si volta mentre intono una vecchia canzone, forse si pensa che questo sia il luogo più insolito dove fare cose del genere, ma a me non importa un bel niente. Torna il mio amico, mi vede, si accosta, dice che forse adesso dovrei smetterla, probabilmente sto dando fastidio, e che tutti anche se fingono non ci sia niente di strano, in realtà non riescono a sopportare facilmente un comportamento del genere. Va bene, gli faccio, per me era soltanto il tentativo di coprire almeno in parte il profondo brusio monotono di queste ampie sale. Lui sorride: sei soltanto un bambino, dice; bisogna sempre lasciarti fare quello che vuoi, altrimenti metti su il broncio.
Va bene, dico io: forse hai ragione. Ma adesso non riesco neppure a rammentare la ragione per la quale ero venuto fin qui: forse dovevo ritirare qualcosa, o spedire una lettera, non so, non ricordo. Mentre parlo continuo a passare in rassegna le tasche, e quasi subito così trovo una busta già indirizzata. Ecco, gli dico al mio amico, ecco la risposta ad alcune questioni: qua dentro ci sono le mie parole di disprezzo per molte delle cose che vengono o non vengono fatte, indirizzate direttamente al nostro Presidente. E’ il mio messaggio nella bottiglia, il mio grido di dolore, una sciocchezza qualunque, mi dirai sicuramente; ti do ragione, in fondo, ma io adesso non starei affatto bene se non riuscissi a consegnare nelle mani di qualcuno questo mio piccolo semplice pensiero.


Bruno Magnolfi

giovedì 22 ottobre 2015

Presupposti cambiamenti.

            
            Adesso lui se ne sta soprattutto in casa, spesso per quasi tutta la giornata; dice che la sua salute è precaria, che deve riguardarsi, e che non può permettersi più quella vita che faceva un tempo. Certe volte, durante i pomeriggi di sole, pare che esca soltanto sul balcone, semplicemente per piazzarsi seduto lì, a leggere qualcosa e ad osservare il passaggio della gente lungo la strada di fronte a sé. Chi lo ha conosciuto tempo addietro dice che non sembra più neppure lui: parla poco, è sempre serio, evasivo, si guarda attorno senza cambiare quasi mai espressione, limitandosi spesso ad osservare qualcosa come di invisibile davanti a sé.
            Franco va a trovarlo certe volte, gli parla degli ultimi avvenimenti, degli amici comuni, ma anche delle innocue scorribande che ancora loro si permettono di fare qualche volta. Sciocche attività fatte in piena leggerezza, che tolgono forse alle giornate il loro carico di responsabilità. Lui accenna un sorriso, ascolta tutto quanto gli viene raccontato con una certa attenzione, almeno in apparenza, ma è come se avesse superato da tempo tutto questo, come se la sua dimensione attuale fosse ormai un’altra, ben lontana e differente da certe suggestioni. Franco gli chiede di sfuggita della sua salute, tanto per parlare, ma lui qualche volta sembra come evadere la domanda, e in altri casi si limita a rispondere soltanto a cenni, in modo estremamente vago, come non volesse addirittura dire niente di questo argomento, o quasi per sottolineare che non c'è proprio da dirne assolutamente niente. Quando Franco se ne va, lui lo saluta appena facendosi vedere un ultimo attimo sopra al suo terrazzino, quasi fosse quella proprio la volta finale, il suo congedo terminale da un percorso che oramai non lo interessa più.
Agli amici del bar Franco non sa neppure cosa riferire: alza le spalle, spiega che lui sta là, ma è come se non fosse più neppure la medesima persona. Forse ha ragione però, dice ancora: siamo destinati tutti a cambiare prima o dopo, non credo neanche ci sia un’altra soluzione. Probabilmente dobbiamo presto trasformare anche noi i nostri comportamenti e tutte le abitudini, questo è il punto. Gli altri lo ascoltano senza guardare neppure dalla sua parte, ed alzano le spalle, non sanno neppure loro cosa dire. E’ facile che in qualche modo lui coltivasse da sempre dentro di sé qualcosa di quel genere, fa uno dopo un po’; siamo noi che magari non ce ne siamo mai neppure accorti. Forse, fa un altro; però allora quello che accade a lui potrebbe succedere anche a noi nella medesima maniera. Può darsi, dice Franco, oppure lui era di un’altra pasta fin dall’inizio, chi lo sa.
Poi riprendono a giocare al biliardo e a fare le solite battute spiritose. Ci ha superato, indubbiamente, dice uno quasi tra i denti mentre prova un difficile rinquarto. A suo merito però dobbiamo dire che il cambiamento lui non l'ha subito, anzi, lo ha addirittura cavalcato, e peraltro senza alcun indugio. E poi anche noi non si può pretendere di restare sempre uguali, dobbiamo mettere nel conto che la realtà va usata e poi gettata via, come quasi tutto al giorno d’oggi. Quindi siamo noi i deboli, i nostalgici, i conservatori, dice Franco. Forse, dice un altro. D'accordo, dicono in due o tre alla fine del discorso: però terminiamo almeno questa partita; poi così tutti quanti insieme potremo finalmente voltare questa pagina.


Bruno Magnolfi