giovedì 28 marzo 2024

Errori stupidi.


            Verso le tre di notte, mentre sono come sempre a lavorare o, meglio, a sorvegliare che tutto vada bene in questo albergo dove ricopro il ruolo di portiere di notte, avverto dei rumori lungo le scale di servizio, nel momento in cui mi trovo al mio solito posto, dietro al banco della portineria. Attendo qualche secondo, poi mi decido ed infine mi muovo per andare a controllare che tutto sia al proprio posto come dev’essere. Salgo le scale con una certa calma, guardingo, e non vedo niente di insolito, tanto che giungo fino al corridoio del primo piano dove le porte laccate delle stanze sembrano tutte ben chiuse per la notte, ma da qui si dipartono altri due passaggi che conducono ad altre porte di diverse camere. Perlustro lentamente ogni centimetro quadrato di moquette davanti ai miei piedi, ed alla fine lo trovo lì, di fronte a me, che mi guarda, immobile e con una espressione del viso seria e indefinibile. <<Paolo>>, dico sottovoce, riconoscendo immediatamente il bambino che ero io stesso appena quarant’anni fa. Lui risponde solo con un cenno, ed io gli chiedo naturalmente che cosa mai stia facendo in questo luogo, e come abbia fatto a trovarmi e ad arrivare fino qui. <<Sono venuto per vedere come te la cavi>>, fa lui con voce tranquilla, quasi fosse la cosa più normale di questo mondo. <<Vieni di sotto>>, gli dico subito, <<potremo parlare meglio, e poi scambiarci anche alcune opinioni; ci sono un sacco di cose che mi rimangono ancora poco chiare circa i tuoi comportamenti del tempo della scuola>>. Lui sorride, quindi si volta su un fianco, come attirato da qualcos’altro, poi dice: <<No, adesso devo andare, però presto tornerò, e poi ti spiegherò tutto quello che vorrai sapere>>. Quindi svanisce, ed io di nuovo resto solo.

            Ma certo, penso mentre scendo di sotto per tornare a sedermi di nuovo presso la portineria. Deve spiegarmi alcune cose che adesso stento persino a giustificare, forse anche per via della mia memoria appannata, ma soprattutto perché devo comprendere meglio quel passaggio fondamentale dalle elementari alle scuole medie, che oggi a me appare più confuso che mai. Fu quello il momento in cui Marta, una ragazzina semplice e silenziosa capitata quell’anno nella mia classe, spiegò in fretta, durante una mattina in corridoio, che comprendeva i miei malesseri, perché erano anche i suoi. <<Difficile farsi ascoltare dagli altri>>, disse, <<sono tutti presi dalle loro cose>>, mi spiegava lei mentre teneva il suo sguardo basso, senza neppure guardarmi. <<Paolo>>, aggiungeva; <<non dobbiamo abbatterci; è necessario trovare una solidarietà tra noi che ci faccia superare le difficoltà>>. Io annuisco ancora adesso di fronte a queste parole; mi rende quasi felice sentirla parlare in questo modo, anche se, all’uscita dalla scuola di via delle matite, mi trovo ancora solo, senza possibilità di scambiare con nessuno i miei pensieri. Non è neppure questo a farmi davvero paura, ormai sono abituato a starmene in un angolo, però comprendo sempre di più che il mio futuro non sarà mai sereno, e che trascinerò per sempre con me i problemi che oggi non riesco minimamente a risolvere. 

Marta ha compreso molto della mia indole, rifletto, ma quello di cui sono maggiormente preoccupato non è essere capito, ma aspirare ad un minimo di amicizia da parte dei miei compagni, almeno tale da farmi sentire sostenuto in ciò che cerco di fare. Però, se ci rifletto meglio, non posso neppure pretendere molto: sono io che dovrei comportarmi in maniera differente verso di loro, in maniera da cambiare almeno qualcuna delle carte in tavola. Marta, in fondo, è come gli altri: le piace forse starmi vicino qualche volta solo perché probabilmente non assomiglio a nessuno che conosce, ma appena un altro dei ragazzi che le girano più attorno le farà qualche complimento, saprà immediatamente chi scegliere e da che parte stare. Ecco, proprio questo è il punto: scegliere. Io non voglio fare parte della merce esposta per i clienti; sono come sono, o mi si prende così, oppure nulla.

Solo adesso mi rendo conto che Marta poteva essere davvero la molla essenziale per un mio cambiamento. Con i suoi modi avrebbe potuto facilmente convincermi dei miei errori e trascinarmi verso una zona che non avevo mai fino ad allora preso in considerazione. Invece io, testardo come sono sempre stato, la ignorai. <<Non sono come pensi>>, le dico mentre ancora siamo soli lungo il corridoio scolastico. <<Non mi interessa avvicinarmi agli altri, mi bastano le mie cose sciocche, le mie abitudini, i miei pensieri>>. <<Va bene>>, fa lei ancora adesso, irrigidendosi. <<Capisco che stando così le cose non hai certo necessità che qualcuno si perda qualche volta ad ascoltarti, e meno che mai provi questo bisogno da parte di una ragazza timida come me, che spesso mostra soltanto un po' di paura per ciò che ogni giornata può improvvisamente riservarle>>. Io non seppi che cosa aggiungere in quell’occasione, perciò rimasi in completo silenzio, anche perché era quella la condizione che mi faceva sentire più a mio agio.

 

Bruno Magnolfi

mercoledì 27 marzo 2024

Pronti per ridere.


            Basta. Mi sono stufato di questo ragazzino, di questa presenza che spesso parla con me, e poi ingombra ogni giorno tutti i miei pensieri, giungendo costantemente a chiedermi conto di quello che è realmente avvenuto nel corso degli anni, e di quello che invece poteva facilmente essere cambiato, a suo parere. Devo guardare in avanti, cercare di migliorare poco per volta almeno qualcosa delle mie giornate, e magari fare qualche progetto costruttivo per impegnarmi in un senso oppure nell’altro. Mi rendo conto come i miei anni di frequenza della scuola elementare siano stati caratterizzati dal mio costante rifiuto di assomigliare agli altri compagni, e quindi quanto tutto questo abbia definito molte cose nel proseguo, addirittura nei decenni che si sono accavallati fino ad oggi, ma è indubbio che io non potevo essere diverso allora da come mi presentavo, e che tutto è scivolato via in maniera naturale, senza mai mostrare troppa applicazione da parte mia. I rimpianti, o le mie recriminazioni di adesso, non hanno alcun senso. Devo accettare quello che è stato, i miei errori e le mie incapacità, e se ancora riesco a mandare in avanti un’esistenza ordinaria, pur immerso in una costante solitudine, devo contentarmi di quello che ho, e di che cosa sono riuscito a mettere assieme.

            Entro in classe già con disagio, ed il fatto che immediatamente raggiungo il mio banco senza neppure osservarmi attorno, né salutare i miei compagni, dice già molto del mio carattere che porta spesso ad isolarmi dagli altri. Qualche volta loro mi fanno trovare un foglietto sulla mia sedia con su scritto qualcosa di poco piacevole, oppure per scherzo vi appoggiano direttamente il cestino dei rifiuti. Il messaggio è sempre molto chiaro: nessuno desidera avere intorno un compagno che non parla mai, che non chiede niente, che sembra perennemente irritato di ciò che ha vicino a sé, come se desse la colpa di chissà che cosa magari a qualcuno di quei bambini che ritrova ogni giorno nell’aula. Tutti ridono mentre stanno insieme, e si scambiano opinioni, e poi parlano delle proprie cose. Io no: non mi interessa la superficialità delle loro storielle e delle barzellette che si raccontano; mi siedo, sistemo il mio banco, l’astuccio, i libri e anche i quaderni, ed osservo qualcosa sul muro di fronte a me, nell’attesa paziente che abbia inizio la giornata scolastica, e in seguito finalmente anche un termine. Forse non frequento troppo volentieri questa scuola, però mi sento curioso, e poi mi piace imparare nuove cose, tanto che sono sempre felice quando la maestra prosegue per tutta la mattinata a spiegare quegli elementi e quelle vicende che credo sia necessario conoscere alla nostra età. Mi piace leggere, e quando scorro le frasi e le parole di un libro, dimentico facilmente persino dove mi trovo, e con facilità credo di riuscire ad immedesimarmi in qualcun altro, direttamente nelle descrizioni che scorro, e di proiettarmi rapidamente in altri scenari che sono sempre capace di immaginare.    

            Qualche volta la maestra scandisce il mio nome ad alta voce, e poi mi fa alzare in piedi, ponendomi delle domande sulle varie materie che compongono il suo insegnamento. Se so rispondere spiego ciò che ho studiato in maniera sintetica e decisa, ma se non riesco a dare un vero seguito alla sua domanda, preferisco restare in silenzio, piuttosto che cercare di masticare qualche sciocchezza. Sento ridere sommessamente qualcuno tra i miei compagni, mentre mostro agli occhi di tutti il mio silenzio colpevole. <<Paolo>>, dice allora la maestra; <<forse questa materia non ti appassiona troppo? Oppure queste pagine del tuo libro sono rimaste incollate tra di loro?>>. Le risatine sommesse aumentano, l’insegnante sbatte una mano sul piano della cattedra; <<silenzio>>, intima di colpo, e tutti si bloccano smettendo persino di respirare. Poi la maestra si fa consegnare il mio diario scolastico, e di fretta ci scrive sopra qualcosa che i miei genitori dovranno visionare. Torno al mio banco e mi siedo; lei passa a torturare qualcun altro. Poi, però, io torno ad alzarmi timidamente approfittando di un momento di silenzio, e dico in fretta che forse ho sbagliato capitolo sul libro, studiando una parte che ancora non abbiamo affrontato. <<Bene>>, fa lei; <<allora riferisci quello che hai letto>>. Attacco parlando di una parte della storia nazionale che fa annuire la maestra, e poi mi sento subito sciolto e sicuro, tanto da riferire quello che so in maniera dettagliata ed impeccabile. <<Va bene>>, dice la maestra alla fine. <<In ogni caso devi stare più attento quando indico i capitoli o le pagine da studiare, per cui il messaggio ai tuoi genitori resta inalterato>>.

            Mi prende un brivido ripensando a tutto questo, e mentre resto immobile dietro al bancone del ricevimento, mi pare adesso di dover ancora riferire quello che so, anche se non c’è nessuno di fronte a me. Sorrido, i miei compagni forse non si aspettavano che io dicessi la verità quella volta. Difatti, nessuno di loro quel giorno ha più trovato qualcosa di cui ridere.

 

            Bruno Magnolfi

lunedì 25 marzo 2024

Coscienza sporca.


            Esco dal piccolo locale dove mi sono fatto servire il solito caffè, mentre scambiavo qualche chiacchiera con il cameriere che conosco da tempo, subito prima di avviarmi ed andare a prendere servizio nel solito albergo dove svolgo il ruolo di portiere di notte. Incrocio un tizio che mi ferma e dice di conoscermi, ma io penso che forse sia soltanto una scusa per farsi pagare una bevuta, visto che non sembra neppure del tutto sobrio. Cerco di superarlo, spiegando che purtroppo devo andare a lavorare, ma lui insiste a dire che abbiamo fatto le scuole elementari insieme, anche se adesso è difficile, mi spiega, ricordarsi di una faccia come la sua. Gli dico che mi pare strano sia così, io vengo dalla provincia, precisamente da un paesino costituito da poche case, dove da piccoli ci conoscevamo tutti, naturalmente. <<Via delle matite>>, mi fa lui; poi continua: <<Effettivamente non eravamo molti di bambini a quell’epoca, anche se la scuola era stata costruita con delle mire ben più alte, come se tutti i centri abitati intorno avessero dovuto portare i loro figli in quelle classi>>. Resto meravigliato, esattamente le cose stanno proprio come le sta spiegando quest’uomo, rifletto, così chiedo subito il suo nome e l’anno di nascita, ed alla fine riconosco, nella sua fisionomia, e nonostante la barba di adesso, un bambino che era proprio nella mia classe. Gli stringo la mano, <<purtroppo vado di fretta>>, gli dico, e lui fa un sorrisone, e poi dice che magari è possibile che ci incontriamo un’altra volta, proprio da queste parti. <<Va bene>>, fo io, e poi me ne vado. Adesso ricordo meglio il tipo di bambino che era lui all’epoca, uno con cui, nel bene o nel male, non ho avuto quasi mai da confrontarmi: pareva una persona distante da me, ed anche uno di cui non ci si poteva mai fidare.

<<Manetti>>, gli dico adesso nei miei ricordi mentre mi alzo dal mio banco, durante i dieci minuti di ricreazione. <<Tu non ne sai niente delle mie figurine?>>, e lui fa una smorfia mentre solleva le spalle. <<Assolutamente no>>, mi dice con una faccia che meriterebbe qualche schiaffo; <<di quella roba non ne faccio neppure la raccolta>>, mi spiega quasi con disprezzo. Lo lascio perdere, ma non sono affatto sicuro che racconti tutta la verità, e in ogni caso credo che a sfilarmi alcune figurine dall'astuccio dove le avevo sistemate, può essere effettivamente stato chiunque tra tutti i miei compagni di classe. Non mi importa molto delle figurine in sé, rifletto subito, quelle che porto a scuola sono soltanto dei doppioni, però mi sento molto dispiaciuto che nessuno tra tutti i ragazzi abbia un briciolo di rispetto verso di me, e forse mi demoralizza che ognuno creda addirittura che io mi meriti di essere trattato in questo modo. Ingoio l’affronto, e comunque tengo gli occhi ben aperti. Alla fine, trovo proprio una delle mie figurine sul pavimento dell’aula, ben calpestata più volte da qualcuno, e a quel punto capisco che ci sono dei miei compagni che più di tutto amano fare degli spregi sia alle mie cose e sia nei miei confronti. Potrei piangere di rabbia, ma alla fine mi controllo, raccolgo i pezzi della figurina e vado a gettarli nel cestino dei rifiuti, come se desiderassi registrare il fatto, ma che non mi importasse quasi nulla di quanto effettivamente è accaduto.

            Cerco di pensare in modo razionale a quali compagni possono aver compiuto un atto di quel genere, e soprattutto tento di comprendere quale sia il loro scopo finale. Mi muovo tra tutti i bambini negli ultimi minuti di ricreazione, e mi rendo conto che ognuno cerca di mostrare indifferenza verso di me, come se tutti rispondessero ad un piano preciso per mettermi in difficoltà e lasciarmi solo. Quando riprendono le lezioni, con molta calma alzo una mano per mostrare alla maestra la volontà di dire qualcosa a voce alta. Lei mi guarda e mi fa un cenno, così mi alzo dalla sedia, anche se sto tremando, e senza guardare nessuno, ma con lentezza e determinazione, dico quello che è successo, spiegando che delle figurine non mi importa niente, ma del fatto che ci sia qualcuno che desidera nell’ombra farmi uno sgarbo, credo sia realmente qualcosa di poco opportuno. La maestra si indigna, quindi si alza dalla cattedra, guarda tutti in faccia e dice nervosamente che <<Paolo ha subito un vero affronto, e né io né lui possiamo tollerare un comportamento di questo genere>>. Adesso nessuno fiata, tutti guardano il piano del proprio banco, senza il coraggio di alzare gli occhi dalle loro mani. Poi non accade niente, ma al momento del termine delle lezioni, diversi tra i miei compagni si avvicinano per sostenere subito che non sanno nulla di quello che è accaduto. Improvvisamente mi sento importante e considerato, e forse già questo mi pare un ottimo e insperato risultato.

            Avrei dovuto ricordarlo subito al Manetti, penso adesso, una volta giunto in albergo e preso posizione; forse lui dopo tanti anni avrebbe avuto voglia di scaricare un po’ la sua coscienza.

 

            Bruno Magnolfi

venerdì 22 marzo 2024

Incapacità.


Il mio nuovo compagno di banco sta male, rifletto. Lo guardo: lui è pallido, stringe gli occhi, si ripiega sulla sua seggiola, e alla fine chiede alla maestra il permesso per uscire, per andare in bagno, credo. Io sono diviso tra il desiderio sentito che lui stia meglio piuttosto in fretta, e la preoccupazione per quello che potrà venirne a me dei suoi malesseri, se lui addirittura dovesse andare via perché non riesce più neppure a stare nella scuola. I miei compagni sarebbero pronti a sostenere che io porto male, e che non mi si può rimanere accanto troppo a lungo, perché il mio influsso malefico è subito pronto a scaturire e a fare danno. Attendo qualche minuto, poi mi alzo in piedi chiedendo di parlare con l’insegnante. Lei mi fa un cenno, io mi avvicino in fretta alla cattedra, le dico sottovoce che sono preoccupato per il mio compagno, e forse sarebbe il caso che io andassi a vedere che cosa gli stesse succedendo. La maestra fa una pausa, guarda in giro tutta la classe, poi, senza tornare a guardarmi, dice svelta: <<Va bene, Paolo, però torna in fretta>>.

Esco nel corridoio, e mentre richiudo la porta dell’aula provo un’improvvisa sensazione di benessere, come se avessi riacquistato all’improvviso una certa libertà. Il mio compagno qui intorno non si vede, sicuramente è in bagno, penso, ma io non voglio passare per un tipo curioso, così mi avvicino lentamente alla porta dei servizi, ma poi rimango lì, sulla soglia, senza decidermi a fare niente. Dopo qualche minuto, sento dei rumori d’acqua, così entro dentro e lo trovo mentre si sta sciacquando la faccia, e dice subito che ha appena vomitato. Gli dico che mi dispiace, e che adesso però inizierà sicuramente a stare meglio, e lui non mi risponde, perché continua a bagnarsi e basta.

Adesso sono in casa, attendo con pazienza l’orario per recarmi a lavorare, e mi pare di sentire un peso sullo stomaco, come se anche a me in questo esatto momento potesse prendere un deciso malessere. Cosa posso fare per il mio compagno di banco, mi chiedo insistentemente senza trovare una risposta. Poi lui si asciuga la faccia e muove le gambe come per tornare in classe, giudicando di sentirsi meglio, immagino. <<Aspetta>>, gli dico; <<Possiamo essere amici, se vuoi, possiamo aiutarci a vicenda, sentirsi rassicurati dalla nostra vicinanza, almeno in certi casi>>. Lui si ferma, mi guarda, non so cosa stia per dirmi, e forse mi sento un po' preoccupato anche per questo, tanto che al momento non riesco neppure a formare un’espressione sensata. Trascorrono così alcuni secondi, lui forse comprende che la mia presenza lì significa esattamente ciò che ho appena finito di dire, ed all’improvviso sbotta, con ironia, come se già per tornare dall’insegnante ci volesse un certo coraggio: <<Dai, rientriamo>>, mi fa, senza neppure attendere la mia opinione, ed io gli vado dietro, non so se per accondiscendere a qualcosa, o solo perché riconosco che dobbiamo per forza fare così. Devo prepararmi per andare a lavorare, adesso, ed affrontare il turno di portiere di notte in quel solito albergo, avendo il cuore il più possibile leggero, tranquillamente insomma.

L’insegnante sembra risentita: abbiamo messo troppo tempo, non è permesso stare nei corridoi in più di uno, e se il mio compagno aveva una qualche giustificazione, considerato il suo momentaneo malessere, io non avrei mai dovuto trattenermi così a lungo. Sono nel torto, rifletto, quindi non ho alcuna possibilità di discolparmi, anche se vorrei tanto urlare in questo momento che stavo solo tentando di aiutare un amico, io che di amici non ne ho, e che non importa niente ciò che possa pensare lei, ma io dovevo per forza comportarmi in quella esatta maniera. Tutti ridono, non ne capisco neanche il motivo, mentre io rimango in piedi di fronte alla maestra che affonda i suoi giudizi su di me, e quando mi volto per guardare meglio, mi accorgo che anche il mio compagno di banco sta divertendosi e ridendo alle mie spalle di questa situazione che si è verificata. Tutto normale, penso subito dopo, mentre alla fine torno a sedermi, graziato infine dall’insegnante soltanto perché deve parlare a tutta la classe di non so neppure quale condottiero della storia nazionale. Non importa, penso; dovevo immaginarmi che un tentativo così sarebbe risultato solo goffo e inadeguato. E mentre esco di casa, pensando all’albergo e all’angolo del ricevimento che sarà il mio semplice rifugio anche per stanotte, ritengo per consolazione che la mia solitudine sia qualcosa che ho coltivato a lungo, ogni volta, con ostinazione, fino ad accorgermi di come tutti si siano allontanati da me, certo, ma probabilmente anche soltanto per una sorta di rispetto verso i miei principi. Però, più probabilmente, penso poi con una certa convinzione, sono io che adesso cerco solamente di apparire vittima di una mentalità diffusa, e di coprire in questo modo i miei difetti, le mie lacune, le mie incapacità.

 

Bruno Magnolfi

mercoledì 20 marzo 2024

Ancora da decidere.


            Resto in piedi, da solo, dietro al banco del ricevimento, osservando la nottata che trascorre lenta proprio come ogni altra, e penso intanto a come sia possibile che in questo albergo non succeda mai un bel niente. Rientrano tre o quattro clienti attorno a mezzanotte, e poi più nulla, lasciandomi qui a rigirare i miei pensieri nella mente senza alcun proposito per il prossimo futuro. Allora invito il mio alter ego del passato a farmi compagnia, e in un attimo lui è qui, con i suoi dieci anni e le sue speranze di ragazzo nato e cresciuto in un paesetto del tutto privo di caratteristiche, a cui gli è stato impossibile affezionarsi veramente, e l’unica cosa buona che ha fatto è stata quella di lasciare che lui se ne andasse da lì quando per fortuna era giunto il momento più giusto, senza fare troppe storie e non recriminando per sé alcuna nostalgia di quelle quattro strade e di quelle due manciate di abitazioni tirate su praticamente a caso. <<Paolo>>, gli chiedo adesso nel silenzio della notte, accompagnato dal leggerissimo brusio di un motore elettrico, forse l’impianto di riscaldamento, oppure l’acqua che scorre nei tubi, o magari la ventola di raffreddamento del terminale che ho di fronte. <<Ma ti saresti mai immaginato che sarebbe andata in questo modo?>>, gli chiedo sorridendo mentre appoggio i gomiti sul piano che ho di fronte. Lui scuote la testa, mi pare quasi un bambino dalla comprensione un po' troppo lenta nei confronti di quello che certe volte gli si dice, ma poi apre la bocca, e spiega in due parole che forse i presupposti c’erano già. Annuisco, anche se non dice altro, ma intanto vorrei che mi spiegasse qualcosa in più, che si lasciasse andare a tirar fuori le speranze più segrete che c’erano allora dentro di lui, e quindi dentro di me.

<<Volevo lasciare dietro le spalle molte cose>>, dice allora mentre sento scorrere anche dentro di me quella sua stessa sensibilità. <<Non mi sono mai integrato veramente tra gli altri ragazzi in mezzo ai quali sono cresciuto. Li incontravo ogni giorno davanti alla nostra scuola, in via delle matite, ma per me sono sempre stati degli estranei, come se io fossi lì quasi per caso, per una combinazione di cose di cui non ho mai neanche compreso la necessità. Certo, ho provato ad integrarmi, ad assomigliare ai miei compagni, a ridere o intristirmi a tempo insieme a loro, ma non mi è mai riuscito veramente, restando alla fine come un embrione semplice di quello che sarei facilmente diventato in seguito>>. Sorrido, mentre osservo la notte fuori della vetrata prospicente la solita piazzetta storica. Io e lui siamo costituiti della medesima pasta, rifletto, anche se sembra del tutto normale e scontata una cosa di questo genere; il fatto è che trovo una coerenza tra di noi che dimostra quasi un principio di testardaggine nell’evitare qualsiasi variazione di opinioni nell’arco di tutti questi lunghi quarant’anni. <<Tu sapevi già che non ci sarebbe stato un futuro troppo brillante per te e per i tuoi desideri>>, gli dico tanto per stuzzicarlo. <<Questo non è vero>>, risponde il ragazzino. <<Tante soluzioni potevano trovare sbocco per uno come me. Che le cose potessero andare come si sono verificate era soltanto una possibilità tra tante>>.

Certo, penso io adesso; non posso incolpare un bambino di tanti anni addietro per non aver creduto troppo alle proprie possibilità, e di non essersi impegnato affatto nel fare in maniera che qualche prospettiva positiva trovasse il giusto slancio. Poi c’è anche il destino, o le combinazioni sfortunate, penso ancora. <<La scuola non mi attraeva>>, riprende lui. <<Non trovavo in quelle ore che trascorrevo in mezzo ai banchi, con dei compagni che neppure mi piacevano, qualcosa che risultasse adatto per impegnarmi nel dimostrare la mia vera volontà e i miei più forti desideri. Mi trovavo ogni giorno lì con loro per semplice per abitudine, forse per dovere, o per fare contenti i miei stessi genitori, ma alla fine le cose importanti per davvero ritenevo stessero in qualche luogo diverso, dove pensavo fosse mio dovere recarmi prima o dopo>>. Se soltanto mi fossi affezionato di più al paese, oppure mi fossi fatto dei veri amici tra quei miei coetanei, penso adesso, credo che qualche aiuto lo avrei trovato, piuttosto che restare solo e partire praticamente da zero. <<Ma io volevo partire da zero>>, dice lui; <<il mio principio fondante era esattamente questo: non dover ringraziare mai nessuno, ed arrangiarmi da me nel costruire il mio percorso>>.

Alla fine, non è neppure andata troppo male, dico io con una smorfia: un mestiere l'ho trovato, tiro avanti, ed anche se non mi muovo mai da dove mi trovo, però parlo spesso con gente straniera nella loro lingua, tanto che mi pare di viaggiare, e in qualche modo così la mia vita procede. Ho avuto diverse difficoltà in passato, ma adesso è tutto già alle spalle, come non si fosse mai verificato. <<Non credo sia una giustificazione valida>>, fa lui; <<altrimenti tutto questo varrebbe per ciascuno, anche coloro che hanno sbagliato tutto e che hanno avuto prima o dopo una diversa opportunità>>. Quindi non mi assolvi, dico io quasi per ridere, e lui: <<non so, devo pensarci>>.

 

Bruno Magnolfi

lunedì 18 marzo 2024

Orgoglio di paesani.


<<Penso che fuggirò al più presto da qui, per andare da qualche parte che ancora non so proprio, ma dove sicuramente non mi conosce nessuno>>, dico sottovoce e con molta calma ad un compagno di classe, in un pomeriggio domenicale qualsiasi in cui ci siamo ritrovati per caso a gironzolare da soli per le strade del nostro paese, per poi andarci a sedere piuttosto scomodamente su delle tavole di legno scalcinato, residui di un cantiere abbandonato e rimasto incompiuto, con dei ferri arrugginiti e dei mattoni rotti sparsi in giro dappertutto. <<Certo>>, confermo poi scuotendo la testa; <<la cosa che mi attrae maggiormente è quella di allontanarmi il più possibile da queste case>>. Il mio compagno mi guarda senza trovare ancora le parole per dire qualcosa. Mi ha fatto una domanda qualsiasi, rifletto, magari la prima che gli è passata per la mente, ed adesso non sa decidersi se contrapporre la sua affezione a questo luogo in cui vive da quando è nato, oppure restarsene in silenzio e dare per scontato il proprio parere più o meno segreto. Sicuramente non si aspettava da me una risposta secca di questo genere, però le mie parole non implicavano che tutti dovessero avere la mia stessa opinione, tutt’altro; e quindi non ci vedo niente di male se lui conserva nella mente differenti aspettative per il suo futuro. Infine, dice semplicemente che lui non ha mai pensato una cosa di questo tipo. <<Ho il padre che fa l’autotrasportatore>>, riprendo subito io per spiegarmi meglio; <<ed ogni giorno lui si trova in giro per il mondo, e quando torna a casa e mi parla di un luogo, di una città, oppure di un’altra, a me le sue descrizioni fanno sognare, e mettono in moto nella mia mente il desiderio di visitare ognuno di quei posti dove magari è appena stato>>.

Il mio compagno di classe ascolta, mentre arrotola con le dita un pezzo di vecchio filo di ferro che ha trovato a terra, e poi dice che: <<ma forse immaginarsi di viaggiare, è già un po' come viaggiare. Se si impiega della fantasia e ci si proietta da qualche parte, come dice la maestra, non c’è proprio alcun bisogno di muoversi, ed anche restando seduti in casa propria, si riesce ad essere con la mente un po’ dove si vuole>>. Rifletto. Non ci avevo mai pensato. Però è assolutamente sensato quello che ha detto questo ragazzo, rifletto adesso; anzi, probabilmente è il forte desiderio di qualcosa che ci fa innalzare quel qualcosa, tanto che, quando lo si ottiene, forse si resta addirittura persino un po’ delusi. <<Magari hai ragione>>, dico svelto. <<In ogni caso non mi sento legato a queste quattro case, anche se ci sono nato, e credo che prima o dopo me ne andrò via da qui senza provare proprio alcun rimpianto>>. Lui mi pare che provi già la distanza che a parole cerco di frapporre fra me e lui, ma proprio per questo motivo, per assurdo, io mi sento di essergli addirittura più vicino. <<Chissà quante cose cambieranno nei prossimi anni>>, dice osservando qualcosa attorno a sé; <<forse verranno terminati questi cantieri, e le case allora saranno abitate, e ci saranno in giro altri bambini e altri ragazzi come noi, e magari la scuola di via delle matite verrà ampliata, e ci saranno nuovi insegnanti e tanta gente in giro, e dei nuovi negozi che adesso neppure immaginiamo. Chissà>>.

Resto nuovamente stupefatto: non avevo mai pensato al fatto che questo paese di provincia potesse avere uno sviluppo di questo genere, ma i piani regolatori dell’edilizia probabilmente lasciano delle ampie possibilità a certi luoghi, delle espansioni tali che potrebbero oscurare facilmente quell’immagine che al momento forniscono, quella di semplici dormitori e contenitori di persone, senza alcuna spina dorsale. Oggi, che ormai sono trascorse qualche decina d’anni da allora, posso verificare facilmente che quel posto dove sono nato e da cui in seguito mi sono allontanato proprio come prevedevo, non è cambiato molto, e addirittura la nostra vecchia scuola non esiste più, e i bambini del luogo al mattino salgono sugli scuolabus e vengono rapidamente fatti trasferire in un paese ben più grande, ma poco lontano da lì, e senza che nessuno trovi da ridire. Dalla provincia, io mi sono poi trasferito nella città più vicina, insieme alla mia famiglia, e mi sembra che tutto si filato piuttosto bene, almeno da questo punto di vista, anche se ogni tanto ripenso volentieri a quei giorni di vita in paese. <<A me pare che tutto qui prenda la ruggine>>, dico infine al mio compagno di classe più ottimista di me. <<Forse>>, fa lui; <<però anche questa può essere una caratteristica da non sottovalutare, quasi qualcosa che prima o dopo magari si mostrerà come un aspetto interessante. E allora tutti noi saremo forse orgogliosi di aver abitato da bambini in questi luoghi>>.

 

Bruno Magnolfi    

sabato 16 marzo 2024

Scarso interesse.


            Il tempo non esiste, come hanno detto molti altri prima di me. Nel silenzio e nella solitudine tutto si appiattisce, e quelli che alcuni giudicano soltanto dei ricordi, diventano così un perenne presente che prosegue a scorrere dentro e fuori di noi, lasciando scaturire nella mente gli stessi esatti stati d’animo con cui i fatti del passato sono stati vissuti. <<Scansati, Ciccio Bomba!>>, dice a me improvvisamente il più bullo di tutta la classe, mentre mi trovo ancora tra i banchi della scuola, un attimo dopo che è stata fatta suonare la campanella ad indicare a tutti noi l’orario del termine quotidiano delle lezioni. Nessuno fino ad oggi mi aveva mai chiamato così, ed anche se non sono, o non mi sento, particolarmente grasso, mi ritrovo all’improvviso offeso nel profondo da quell’espressione, come se quel mio compagno avesse messo in luce all’improvviso un mio grave difetto, del quale fino adesso peraltro non avevo mai avuto coscienza. Attendo troppo prima di replicare in qualche modo, e quindi perdo inevitabilmente il momento giusto per dire qualche cosa, così da restare in silenzio e implicitamente avvalorare quel termine che mi è appena stato affibbiato. So perfettamente che, se qualcun altro nella confusione del momento ha solo captato quelle parole, da domani sarà sicuramente pronto a ripeterle con voce anche più alta, non foss’altro per mostrarsi allineato alla mentalità di chi le ha pronunciate, questo odioso ragazzino aggressivo e senza scrupoli.

            Non ho alcuna via di scampo, se non subire per sempre quanto ormai stabilito dagli altri, ad iniziare da questo momento, senza peraltro che possa far nulla per sottrarmi a questa specie di gogna che si sta per abbattere implacabile sopra di me. Fino ad ora i compagni di classe forse hanno giudicato i miei comportamenti probabilmente tollerabili, e per i più io sono sempre stato valutato come un’ombra che in silenzio scivolava tra tutti senza infastidire i loro comportamenti, e senza che ci fosse molto di cui dire sul mio conto. Adesso però, è più che evidente quanto stia per cambiare tutto quanto. Il grido di guerra contro di me è già stato lanciato, e d’ora in avanti sarò costretto a stare sempre sulla difensiva, cercando magari di schivare i colpi che mi arriveranno addosso, o tentando qualche disperato tentativo di recupero della dignità e del rispetto che credevo in qualche modo di aver giustamente guadagnato fino ad ora. Non ho alcun alleato in questa battaglia, e devo fare conto soltanto sulle mie misere forze, che peraltro si avvalgono, nella maggior parte dei casi, sulla semplice indifferenza che ostento nei confronti di tutti i miei compagni di scuola.

Appena possibile ho guardato attentamente la mia figura ad uno specchio, e pur non riconoscendo giustificato l’appellativo che mi è stato affibbiato, devo però ammettere che, se riuscissi a perdere qualche chilo in eccesso, probabilmente tutto sarebbe molto più semplice. Oggi sono magro, ed anche quando passo davanti alle eleganti specchiere posizionate nei corridoi dell’albergo dove lavoro, mi sento in coscienza di rendermi conto che sono una persona ordinaria, né troppo magra né troppo grassa, avendo perduto i pochi chili di troppo già ad iniziare da quella fase scolastica. Non ci vuole neanche molto, ho pensato al momento di tornarmene a casa. Basta mangiare delle porzioni ridotte di tutto ciò che mia madre mi mette dentro al piatto. Lei mi ha chiesto subito se per caso non mi sentissi troppo bene, ma io l’ho subito rassicurata spiegando che in questo preciso periodo semplicemente non provo molto appetito. Qualcuno, tra i miei compagni di classe, ridendo mi ha chiamato ancora con quell’appellativo infamante, come avevo previsto, ma io ho risposto con fermezza che stavo gonfiando un po' soltanto perché costretto a fare una cura di cortisone per una malattia lunga e antipatica. Nessuno, alle mie parole, si è permesso di ribattere niente, e a quel punto qualcuno deve aver fatto sapere anche al bullo di turno come stessero le cose per davvero, e così non si è più verificato il caso che fossi chiamato di nuovo Ciccio Bomba.

Da grande poi ho avuto un ulteriore periodo in cui ho messo su diversi chili di troppo. È stato il momento in cui la mia ragazza, abile cuoca, è venuta ad abitare a casa mia, facendomi trovare quasi ogni giorno dei pranzi o delle cene invitanti e gustose, ma quando ho riflettuto che in qualche maniera avrei facilmente potuto trovarmi nella stessa situazione antipatica di quando frequentavo la scuola elementare, mi sono rapidamente dato una regolata. Quando le cose hanno preso una piega diversa e noi due ci siamo lasciati per sprofondare di nuovo nelle rispettive solitudini, a me è passato l’appetito, e così non c’è stato alcun bisogno di fare una dieta ipocalorica per tornare nelle dimensioni di quello che ero. A scuola, il mio compagno di banco, qualche settimana più tardi, mi aveva detto all’improvviso che, secondo lui, ero notevolmente dimagrito, ed io, sollevando una spalla, avevo riferito di aver cessato le cure con il cortisone, e quindi di essere tornato nella normalità del mio peso forma. Poi, riflettendo meglio su questa pesante parola, normalità, mi è parso che qualcosa mi sfuggisse, ma da allora in avanti non me ne sono più assolutamente interessato.

 

Bruno Magnolfi

giovedì 14 marzo 2024

Amici veri.


            Il custode della scuola di via delle matite si chiama Aldo, ed abita proprio sul retro dell’edificio, in un appartamento che è stato ricavato al piano rialzato, lo stesso delle aule delle elementari, dall’interno del quale lui ha l’accesso a tutto il resto dell’edificio. È una vera istituzione, considerato che risulta sempre presente, nonostante possa fare affidamento su diversi aiutanti che svolgono più o meno i suoi stessi compiti. Lui si piazza al mattino sulla soglia di uno dei due portoni in legno massiccio che si aprono sulla facciata, ed immancabilmente saluta tutti gli insegnanti che giungono in fretta per salire la piccola rampa delle scale esterne, prima di imboccare il largo corridoio dell’entrata. <<Buongiorno>>, dice sempre Aldo a ciascuno indossando il suo immancabile camice azzurro, allargando un semplice sorriso a tutti e distribuendo in giro tanta pazienza. In seguito, pochi minuti più tardi, esattamente all’orario previsto dal direttore, va quindi a premere il pulsante della campanella generale, dando il segnale per l’entrata di tutti i ragazzi, i piccoli dall’ingresso di sinistra, e quelli delle medie, che vanno al piano superiore della scuola, da quello di destra. A me certe volte strizza un occhio, perché trascorro molto tempo nel corridoio durante le lezioni, e lui mentre spazza il pavimento o svolge altri compiti durante la mattinata, si ferma volentieri a parlare un attimo con me, informandosi sempre sulle mie preoccupazioni del momento o sulle novità della giornata.

            <<Devi essere più furbo, Paolo>>, mi dice spesso; <<e non farti accorgere dalla maestra che in classe non ci stai troppo volentieri>>. Io sorrido, Aldo è un amico, anche se è più anziano di mio padre. Conosce bene i modi di fare dei ragazzi, e spesso riesce ad infondere in ognuno di noi quel filo di coraggio che a volte manca per affrontare le lunghe ore di lezione. <<E come posso fare?>>, gli chiedo sottovoce. <<È semplice>>, fa lui; <<basta che ti dimostri sempre attento e pronto quando lei parla a te e ai tuoi compagni. Se in seguito vieni a passare un po’ di tempo lungo il corridoio, com’è tua abitudine, lei a quel punto ci farà sicuramente meno caso>>. Riconosco che è una buona soluzione: in fondo ci vuole poco per mostrarsi interessato a ciò che viene detto in classe, e tutto sommato credo di poter persino intervenire qualche volta per porre qualche domanda o chiedere una certa spiegazione. <<Ma certo>>, fa lui; <<è proprio questo il tuo compito, il motivo esatto per cui vieni a scuola tutti i giorni. Se non adoperi questi strumenti e ti fai vedere sempre svogliato si comprenderà immediatamente che andrai poco lontano con gli studi>>. Sorrido, riconosco che Aldo ha piena ragione, anche se mi torna difficile comportarmi come dice lui. Però è vero che le ore che trascorro in aula sono tante, ed è giusto che sfrutti tutto questo tempo a mio favore, come altre volte mi ha anche suggerito, invece che gettarle via nel completo disimpegno.

            Il mio principio fondante, in ogni caso, rimane sempre quello di distinguermi dai miei compagni, non tanto perché voglio essere migliore o dimostrare a qualcuno di avere delle qualità che gli altri non possiedono, quanto perché mi sento esattamente differente da loro, come se, ad esempio, tutta la socialità e la generosità che alcuni dimostrano verso gli altri ragazzi, mi risultasse perlopiù fasulla, quasi sempre messa su ad arte per evidenziare il proprio comportarsi come pieno di bontà d’animo e di ottime intenzioni; oppure il continuo assentire quando parla un compagno giudicato bravo da tutti e soprattutto dalla nostra maestra, indipendentemente dall’argomento che viene portato avanti, è un altro aspetto che tollero malvolentieri, e che proprio non vorrei ripetere. Insomma, ci sono diverse distinzioni da fare nei comportamenti che registro in giro, ed io non vorrei mai ritrovarmi a scimmiottare certi personaggi che vanno per la maggiore in classe mia soltanto perché riescono a mettersi in mostra nel momento più opportuno. In tutto questo perciò mi sento incerto, incapace nel prendere delle decisioni definite del mio comportamento, ed anche se riconosco quanto Aldo abbia ragione nel portarmi davanti certi ragionamenti, quando alla fine rientro in classe tutto ciò che ho appena ascoltato fino ad ora, si smonta quasi subito nei miei reali atteggiamenti.

            Sorrido adesso, nel ripensare a quelle briciole di saggezza del mio passato che già a quell’epoca cercavo di mettere a punto, ed ora che sono trascorsi così tanti anni da quei giorni, mi pare che i miei sforzi avrebbero dovuto essere meglio impiegati, nonostante riconosca a me stesso una grande coerenza di carattere. Osservo il piano lucido sul banco del ricevimento di questo albergo, e mi sembra chiaro che, se quando andavo alle elementari avessi potuto indirizzare meglio i miei atteggiamenti, forse avrei dovuto anche sforzarmi di essere meno distaccato dagli interessi di tutti i miei compagni di quell’epoca, e forse tentare di farmi già da allora qualche amico vero.        

 

            Bruno Magnolfi

martedì 12 marzo 2024

Uno di noi.


            <<Non lo so, non ho studiato>>, rispondo alla maestra che mi chiede, davanti a tutto il resto della classe, quale sia il soggetto e quale il verbo di una frase qualsiasi che ha appena scritto con il gesso alla lavagna. Lei oggi sembra particolarmente docile e propensa ad aiutarmi, così invece di insistere mi chiede, senza alzare la voce, il motivo per cui non mi sono preparato. Io prendo tempo, lascio in aria una lunga pausa vuota, durante la quale semplicemente osservo, senza abbassare lo sguardo, l’insieme dell’immagine che ho di fronte: la cattedra, l’insegnante seduta, la nuca dei miei compagni che sono nei banchi delle prime file, e poi la luce obliqua che sta penetrando dai finestroni che si aprono su un lato della nostra aula scolastica. Infine, senza troppo imbarazzo, dico soltanto che ho impiegato tutto il pomeriggio precedente ad osservare degli insetti molto indaffarati intorno ad una piccola pianta dentro un vaso. I compagni scoppiano subito a ridere, e forse questa a loro sembra magari la scusa più assurda che abbiano mai sentito, ma siccome è la verità, io non vacillo, e mi sento assolutamente pronto a sostenere quanto ho appena riferito. La maestra forse comprende il mio stato d’animo e persino le mie ragioni, tanto che non insiste, fa segno di sedermi, e poi mi raccomanda soltanto di studiare ciò che spiega il libro ad una certa pagina che mi indica con estrema precisione, e subito dopo mi dice che domani mi porrà la medesima domanda.

Mi siedo, sento di apparire come un tipo strano agli occhi dei compagni, ma forse questa è anche la maniera che ho per costruirmi una personalità spiccata agli occhi di tutti, in grado di dimostrare il possesso di capacità che per altri non sembrano neppure degne di attenzione, almeno in questo momento. So che la maestra, invece, almeno parzialmente, ha compreso le mie doti, e qualche volta mi asseconda, senza insistere a torturarmi come fa con altri, ma questo a mio parere non è ancora sufficiente, in quanto i miei desideri restano quelli della semplice e piena libertà dell'imparare, e perdermi magari per intere giornate a comprendere qualcosa che per tutti appare completamente inutile. In fondo questa è la mia indole: quella di imbambolare la mia mente nella curiosità di comprendere come funziona qualcosa, da cosa sia costituito un certo materiale, cosa pensano gli altri, oppure come si comportano certi animali, e magari il motivo che hanno per agire in quel particolare modo. Non mi sembrano affatto sciocchezze, anche se pare proprio che a nessuno interessi comprendere le cose che invece attirano la mia attenzione, però sono quasi convinto di essere nel giusto, e che prima o dopo qualcuno finirà persino per convincersi di questo.

Adesso osservo il niente mentre sto da solo dietro al banco del ricevimento di questo albergo, e mi pare che a quell’epoca non ci fosse poi niente di particolarmente diverso rispetto ad oggi: sono un tipo schivo, assolutamente, abituato alla solitudine e ai pensieri divergenti più che alle parole da pronunciare verso qualcuno. Mi perdo, mentre stillo il mio tempo, nella necessità di cambiare qualche dettaglio di comportamento da quel me stesso in quei lontani ricordi, che appaiono nitidi però nella mia mente, tanto da farmi ancora arrossire, qualche volta. Vorrei forse essermi comportato in maniera differente, almeno in qualche occasione, e sono sicuro che diverse cose avrebbero potuto andare in maniera piuttosto diversa anche più tardi. La curiosità che mi veniva naturale in quei giorni mi portava ogni volta verso traiettorie stravaganti, a percorrere delle riflessioni piuttosto ardite, che la maggior parte delle volte tenevo ovviamente celate dentro me stesso.

<<Bravo>>, mi dice a volte qualcuno dei compagni, sorridendo; <<sei stato coraggioso ad inventarti una cosa di quel genere. In fondo, alla maestra piacciono le storie un po’ diverse, e mostra di cadere facilmente nel tranello, fino a credere davvero che tu possa comportarti in quel modo che hai spiegato, invece di studiare>>. Sorrido, in fondo anche se la verità la conosco solamente io, non mi interessa convincere qualcuno della mia incapacità di sparare delle balle. <<Sei in gamba, Paolo>>, insiste il mio compagno di banco, certe volte. <<Sei uno di noi>> mi dice, anche se a nessuno verrebbe mai a mente di invitarmi a fare qualcosa insieme a lui. Conosco la logica che regna tra i ragazzi della mia stessa età: sono pronti a batterti una pacca sulla spalla quando comprendono che stai facendo qualcosa di diverso da tutti gli altri, salvo poi tenersi bene alla larga dai miei comportamenti abituali e persino dalla mia presenza. Mi torna difficile avvicinarmi ad un gruppetto che parla di qualcosa durante il quarto d’ora destinato alla ricreazione. Tutti cambiano improvvisamente i loro discorsi, mi guardano come fossi un turista straniero che cerca di chiedere un’informazione non conoscendo troppo la lingua del luogo. Mi tollerano, ma alla fine non mi accolgono mai del tutto in mezzo a loro. Tutto, forse, sarebbe stato diverso, penso adesso, se soltanto mi fossi dimostrato più socievole.

 

Bruno Magnolfi

domenica 10 marzo 2024

Quello che desideravo.


            Io abito da solo, in due stanzette poco distanti dall’albergo dove presto servizio come portiere di notte. La sera mi preparo una cena leggera, la consumo con calma davanti alla televisione, commentando tra me ogni tanto qualche notizia che non mi piace, o che vorrei differente. Poi riassetto tutto quanto, pulisco la cucina, mi vesto con la divisa scura, elegante e piuttosto anonima, che mi fornisce il mio datore di lavoro, ed infine esco a piedi, fermandomi, alla fine della passeggiata, presso un locale proprio vicino all’albergo, un posto che conosco da tempo, dove mi faccio servire un buon caffè chiacchierando con il cameriere che ormai è quasi un amico, nell’attesa paziente dell’orario esatto per entrare in servizio, nel preciso momento in cui, da dietro al banco della ricezione, prenderò le consegne della giornata dall’ultimo portiere rimasto. Ho avuto per qualche anno una ragazza, che era anche venuta ad abitare da me per un certo periodo, ma le cose tra noi non andavano troppo bene, e così abbiamo deciso di non dare seguito alla storia. Se penso adesso ai miei propositi durante gli anni in cui ero uno scolaretto, mi viene quasi da ridere. Non ho mai avuto grandi prospettive per la testa, e quando qualcuno a quell’epoca mi chiedeva cosa avessi voluto fare una volta grande, rispondevo che mi sarei adattato alle condizioni del momento, accettando ciò che mi sarebbe stato offerto. Era una risposta strana per un bambino, e difatti non erano parole mie, le avevo lette in un giornaletto, e mi sembravano comunque adatte a me.

<<Paolo>>, insisteva qualcuno persino in presenza dei miei genitori; <<ma tu saresti proprio pronto ad accettare qualsiasi cosa capiti, senza scegliere una strada solamente tua?>>, ed io annuivo, anche perché non ci trovavo niente di strano in tutto questo, e poi mi pareva che qualsiasi cosa mi fossi messo in mente sarebbe sicuramente stata destinata più tardi all’accantonamento, tanto difficile nella mia testa si delineavano i contorni del futuro. Ma non passa molto tempo, ed inizio a pensare che tutto dipende dalla quantità di soldi che riesco a guadagnare, per cui inizio a pensare sempre più spesso che il mio futuro dovrà essere dedicato a qualcosa magari anche di pericoloso, ma che riesca a farmi guadagnare molto in poco tempo. A quasi vent’anni, dopo che mio padre mi ha regalato una busta piena di soldi frutto dei suoi risparmi, io non ci penso due volte, così mi lascio consigliare da un dipendente di banca che conosce bene i titoli di borsa, ed investo tutto quanto su una società per azioni, che, stando alle voci che si rincorrono, promette davvero bene per le settimane a venire. Nel tempo di un mese il valore delle azioni difatti raddoppia, così io vendo tutto e intasco i dividendi più il capitale iniziale. Sono sicuro che il mio è stato soltanto un colpo di fortuna, per cui giuro a me stesso di non rischiare più dei soldi in questo modo.

In seguito, scopro però un locale dove si possono fare delle scommesse sulle corse dei cavalli. In poco tempo perdo tutto ciò che avevo messo da parte, ma siccome continuo a ripetermi che è soltanto un momento sfortunato, proseguo imperterrito, indebitandomi rapidamente grazie a dei loschi personaggi che forse non aspettavano altro per mettermi il guinzaglio. Con l’acqua alla gola sto quasi per decidermi a farmi aiutare da un’associazione che sembra riesca ad intervenire in queste situazioni, ma qualcuno mi propone una rapina, una cosa semplice, mi dice, un gioco da ragazzi, qualcosa di rapido che ci farà sistemare in fretta, ed io accetto. Il furto riesce, ma ci arrestano tutti in capo a pochi giorni, ed al processo vengo condannato a tre anni di galera. Ed è là dentro che ho ripreso a studiare le lingue straniere, che già mi interessavano dai tempi di via delle matite, ma che adesso sembrano la maniera giusta per riprendere una vita normale, una volta libero, e forse per trovarmi anche un lavoro. Quando esco, qualcuno dei servizi sociali mi aiuta davvero a reintegrarmi, ed anche se sono sorvegliato dalle forze dell'ordine riescono a trovarmi da svolgere il ruolo di portiere di notte in un albergo, dapprima per un lungo periodo di prova, e in seguito in modo più stabile. Il mio passato mi ha reso ancora più taciturno di quanto non fossi allora, e la ricerca della solitudine fin dal periodo trascorso tra le mura del carcere è diventata in seguito il mio tratto distintivo.

Il raggiungimento di una vita più normale però non mi ha evitato di proseguire a rinchiudermi, ed anche se qualche occasione mi è capitata per farmi una famiglia, non mi sono mai impegnato troppo per questo scopo. In fondo, l’esistenza che spingo ogni giorno in avanti mi basta; sono affezionato ai miei ricordi di bambino, soprattutto, quando non ero ancora stato macchiato dalla sicurezza che in seguito ero riuscito stupidamente a maturare, quella di poter mettere facilmente le mani su qualcosa di importante, che mi lasciasse libero dal lavoro, e con la possibilità concreta di fare quello che desideravo. Adesso, mi accontento anche solo di queste poche cose.

 

Bruno Magnolfi

mercoledì 6 marzo 2024

Memoria lunga.


            <<Aspettami qua>>, fa il mio amico e compagno di classe delle elementari, mentre entra nell’ingresso di casa sua, al piano terra, perché a quest’ora deve sempre farsi vedere da sua mamma, che altrimenti sta in pensiero e arriva più tardi lo sgrida forte, tanto che certe volte giunge anche a strattonare suo figlio quasi senza un vero motivo, e a tiragli anche qualche scappellotto. Io annuisco, aspetto sul marciapiede, anche se questo pomeriggio fa un po’ freddo, e starei meglio in qualche luogo chiuso, magari anche soltanto a guardare qualcuno mentre gioca a carte nella piccola Casa del Popolo poco lontano. Passa il tempo, ed io resto lì, fino a quando decido che il mio amico è stato evidentemente trattenuto in casa da sua madre, e quindi posso andarmene via, tanto più che mi sento ormai intirizzito dal gelo. Mi allontano lentamente, però mi sento giù di morale, e questa solitudine mi appare un po' pesante, addirittura come una sgridata che non merito. Ho messo in fila i lapis e le penne dentro al cassetto del bancone in questo angolo del ricevimento, e all’improvviso tutto l’albergo mi sembra più in ordine, anche se ho notato che una matita è più lunga delle altre, e non sta bene in fila. Mi piace, durante il mio turno di portiere di notte, sistemare tutto quanto: è come se lasciassi un messaggio preciso ai miei colleghi che arriveranno domani mattina per affrontare la loro giornata di lavoro. Forse la solitudine era un destino segnato fin da quel momento per me, penso mentre metto la matita lunga sopra al piano del bancone, da sola come è giusto che rimanga.

Mentre mi allontano però, il mio amico mi raggiunge. dice che adesso deve tornare subito a casa, deve aiutare la mamma a fare qualche cosa, così in fretta mi saluta e poi se ne va. Non cambia la sostanza, non ci sono altri ragazzi della mia età che posso incontrare da queste parti, e dentro casa mia madre dice che le sono d’ingombro, perché lei deve pulire e sistemare le nostre stanze, dare la cera ai pavimenti e non so che altro fare, per cui la soluzione è semplicemente quella di starmene in giro senza una meta, magari cercando qualcosa a cui interessarmi. <<Paolo>>, dice qualcuno alle mie spalle, e quando mi volto riconosco un mio compagno di classe che sta andando da qualche parte insieme ai suoi genitori. Lo saluto come sempre e lui va oltre, soddisfatto e orgoglioso di non essere da solo come me. Passare i pomeriggi in questo modo forse non è il massimo delle possibilità, però ormai sono abituato, così credo che non ci sia niente di male in questo andare a zonzo, anche se fino a qualche tempo addietro mi pareva triste il mio destino. Alla fine entro nella casa del Popolo, ci sono quattro tavolini nella saletta di fronte al bancone dei caffè, e soltanto uno è occupato da quattro anziani giocatori che stanno studiando la mano per mettere sul piano la carta giusta. Nessuno mi dice niente, neanche il cameriere, neppure quando mi siedo senza far rumore dietro ad uno dei giocatori.

Nessuno tra i miei compagni verrebbe mai in un posto come questo, rifletto, anche se qualche volta qui entra qualche gruppetto della scuola giusto per il tempo di comprare delle gomme da masticare o delle caramelle. Però è sempre meglio fare la figura di uno che gli altri scansano, piuttosto che stare fuori al freddo, penso, e poi mi fa sentire grande rimanere qui, anche se devo stare zitto e non assumere neppure un'espressione con la faccia. <<Stai con me, bimbo>>, mi dice alla fine il giocatore che ho più vicino. <<Sento che mi porti fortuna, per cui non muoverti da dove stai>>. Sorrido per un attimo, ma subito riprendo il mio solito sguardo neutrale, e cerco di concentrarmi sul gioco in funzione delle carte che vedo oltre la spalla di quello che ha parlato. Ho imparato questo gioco esattamente osservando qualcuno, però fino ad oggi non ho mai provato a fare una sola mano con dei giocatori esperti come quelli che frequentano la Casa del Popolo. Non importa, per me va bene passare un po’ di tempo e divertirmi ad ascoltare le poche parole che si scambiano ogni tanto i quattro al tavolino. Non è molto diverso adesso stare dietro al banco del ricevimento di questo albergo, anche se sono trascorsi da allora più di quarant’anni: il tempo scorre lentamente anche qui, e fuori dalla porta a vetri ogni tanto transita una macchina che se ne va per i fatti propri.     

Poi i giocatori smettono, si alzano, pagano da bere, fanno qualche battuta spiritosa, e l’uomo di prima mi batte una mano sulla spalla: <<bravo>>, dice guardandomi; <<mi hai fatto vincere; prenditi una spuma da bere, o qualche caramella, te la sei meritata>>. Mi schernisco, <<non importa>>, dico sottovoce, e subito prendo la porta del locale e torno ad uscire sulla strada. Adesso tira vento, mi sento sbattuto di qua e di là anche dalla natura, e penso che adesso sia giunta proprio l’ora per tornarmene a casa e mettermi in un angolo a leggere un fumetto per conto mio; e magari va bene anche qualcuno tra quelli di cui oramai da tempo conosco a menadito tutta la storia.

 

Bruno Magnolfi

lunedì 4 marzo 2024

Grande coerenza.


            Nel vasto ingresso dell’albergo dove lavoro ormai da diversi anni come portiere di notte, dopo aver svolto da sempre lo stesso mestiere ma in un’altra struttura molto più grande, restando dietro al bancone del ricevimento durante tutte queste ore silenziose che scorrono in monotonia come un vero sgocciolare del tempo, lentamente e quasi senza interruzioni significative, se penso ai miei anni lontani di quando ero bambino, mi sembra di guardare al passato quasi mettendo l’occhio nello spioncino di una porta per osservare chi stia suonando al campanello di casa. Non perché intenda curiosare, sia chiaro, quanto perché le immagini che riesco a vedere davanti a me sono spesso sfocate, appannate, distorte, quasi irriconoscibili, e soltanto le sensazioni di allora ogni tanto mi giungono praticamente immutate. In via delle matite, come chiamavamo allora la strada della scuola, le giornate non erano mai uguali l’una all’altra, e succedevano delle piccole cose che a me lasciavano risaltare qualche dettaglio apparentemente insignificante. Avevo ormai smesso di portare a scuola nel mio zaino le figurine dei calciatori tenute insieme da un elastico: troppa invidia da parte degli altri compagni, troppa curiosità insistente ed interessata, ed una strisciante voglia da parte di qualcuno nel sorprendere il mio zaino non custodito per sfilarne qualcuna lasciando che me ne accorgessi soltanto in seguito. Mi rendo conto solo adesso che a quell’epoca non avevo dei veri amici tra i bambini delle elementari, soltanto dei coetanei con i quali condividevo le ore scolastiche della mattina.

            Al pomeriggio, certe volte, alcuni di noi si davano appuntamento ancora in quella strada, quella maggiormente conosciuta da tutti e in quelle ore silenziosa e tranquilla in tutta la sua lunghezza e larghezza, per dar vita a delle vocianti e sentite partite a pallone, dividendo i giocatori delle due squadre in modo piuttosto equilibrato. Naturalmente io non giocavo, e neppure mi proponevo per far parte di uno schieramento, piuttosto restavo in disparte ad osservare gli altri che correvano da un marciapiede all’altro come se da quel loro impegno dipendesse chissà quale importante risultato. Facilmente scaturivano polemiche e dissidi tra i giocatori per i comportamenti di qualcuno o di qualcun altro, e non essendoci spesso un arbitro a gestire la partita, certi divari erano affidati al buon senso o alla gran voce di chi riusciva a sovrastare tutti quanti con le proprie ragioni.  Per nessun motivo avrei mai desiderato entrare dentro a quel caos continuo che tutti insistevano a chiamare gioco, anche perché non sapevo destreggiarmi con il pallone al loro livello, e meno che mai, anche se talvolta c’era qualcuno che lo richiedeva, mi lasciavo catturare da chi mi desiderava in campo come arbitro. Però ugualmente mi piaceva stare al margine dell’area dedicata al calcio per osservare i comportamenti di quei ragazzi, e con naturalezza prendevo le parti di un gruppo invece che l’altro.

Adesso riconosco che avrei potuto svolgere un ruolo, magari quello del tecnico che indica ad una squadra come schierarsi e quali comportamenti tenere nei confronti di un’azione o dell’altra, forse perché riuscivo ogni volta ad osservare l’andamento di ogni partita con occhio obiettivo e disincantato, anche se riconosco che nessuno dei ragazzi che correvano su quella strada avrebbe mai accettato di concedere proprio a me un ruolo così rilevante. Perciò seguivo le partite, ma senza grande interesse, tanto che alla fine mi incantavo ad osservare sempre qualche altra cosa piuttosto che quel pallone così instabile. In questo modo perdevo volta per volta anche quel briciolo di autorità che poteva assumere uno come me presumibilmente capace di comprendere la qualità di un tiro in porta, o quello di un’azione combinata tra diversi giocatori, relegando la mia presenza ad uno spettatore inerte, che non comprende niente del calcio, e quindi appare del tutto inutile. Ma a me non importava: avevo già deciso nella vita di stare più o meno ai margini di tutto, in modo da non dover per forza avere un’opinione sulle cose e sui fatti, e così ho continuato fino ad oggi.

Svolgo il ruolo di portiere di notte in questo piccolo albergo: non avrò mai da migliorare la mia condizione, nessun passaggio di livello, nessun aumento significativo di stipendio, nessuna mancia particolare da parte di qualche cliente, visto che, quando io sono dietro al bancone, loro stanno già quasi tutti a dormire. Però mi va bene così: non credo di avere mai provato delle vere aspirazioni, ed anche se questo lavoro, tanti anni fa, mi è giunto praticamente per caso, forse anche perché non lo voleva eseguire nessuno, io mi sono adattato benissimo, come non aspettassi altro che questo tra le differenti possibilità. Forse da sempre ho studiato, senza saperlo, per divenire quello che sono: uno che si tiene ai margini, e se anche mastica tra sé una propria opinione, non la dice a nessuno, mostrando di essere quasi indifferente a tutto ciò che succede. Sono fatto così, e mi viene da pensare che in tutti questi anni ho comunque mostrato sempre a chiunque una grande coerenza.

 

Bruno Magnolfi

domenica 3 marzo 2024

Alla larga dai guai.


          <<Ehi, Paolo. Ti chiami Paolo, vero?>>, dice qualcuno mentre usciamo da scuola e ci riversiamo tutti assieme in via delle matite, prima di andarsene ognuno verso casa propria, i più piccoli alla mano di un genitore, e gli altri a gruppetti, senza alcun adulto con loro. Mi volto, e vedo che chi mi chiama è un ragazzo più grande di me, uno con il quale non ho mai neppure parlato fino ad oggi, anche se ovviamente conosco di vista, un tipo molto di compagnia con chi frequenta, sempre insieme a qualcun altro a ridere e a parlare a voce alta, ma che adesso si avvicina a me da solo, scuro in faccia, come per chiedermi qualcosa di preciso. <<Mi hanno detto che tu hai qualcosa contro di me>>, mi fa con serietà e fermezza. Io mi schernisco, alzo le spalle, vorrei dimostrargli già soltanto col comportamento che una cosa del genere non può essere vera, ma quello mi guarda fisso, lo sguardo minaccioso, le mani fuori dalle tasche, e mi sbarra il passo, come a pretendere una rapida risposta esauriente. <<No, no di certo>>, dico alla fine. <<Non ti conosco nemmeno, perché mai dovrei avere qualcosa contro di te?>>, spiego a voce bassa, forse con un leggero tremito improvviso nelle mie parole. Lui allora passa subito a dei modi diretti e aggressivi, puntandomi un dito ad un centimetro dalla faccia, e dicendo: <<sei una mezza cartuccia, una nullità, i tuoi pensieri non devono neppure avvicinarsi ad uno come me; ti è chiaro?>>. Lo guardo, indeciso se rispondergli o meno, cioè se sia salutare per me dargli una risposta o fare una qualsiasi altra cosa, oppure niente e subire in silenzio i suoi comportamenti. Sicuramente lui non aspetta altro che io reagisca alle sue spudorate provocazioni, e forse è pronto a darmi una spinta, un pugno, o a farmi del male. Sto zitto, ma proseguo a guardarlo, e forse questo lo infastidisce e gli basta ampiamente per assestarmi improvvisa una pedata in un ginocchio, probabilmente perché solo con i piedi gli va di toccare uno come me.

Inizio a piangere per il dolore, mi piego ad abbracciare la gamba, lui sembra adesso abbia intenzione di andarsene, ma poi si gira e mi dice secco: <<Stai attento, ti tengo d’occhio; qualsiasi cosa fai o dici in giro io riesco a saperla immediatamente>>. Me ne vado anche io, dopo pochi minuti, leggermente zoppicando, e qualcuno tra gli altri ragazzi sul marciapiede mi guarda distaccato ma senza chiedermi niente, mentre io d’improvviso mi sento completamente da solo, come se nessuno di tutti quanti i miei compagni di scuola riuscisse a considerarmi davvero come uno di loro. Vado verso la mia casa cercando di camminare nel modo più naturale possibile, così da non dare la possibilità alla mia mamma di farmi delle domande inesistenti su ciò che mi fosse accaduto. Adesso, guardo Paolo con quasi cinquant’anni di ritardo, e sento ancora montarmi dentro una sensazione di forte rancore, come se non fossi stato capace, per tutto questo tempo, di riuscire a passarci sopra del tutto. Controllo, sul registro delle presenze scritto a mano, le diverse calligrafie dei vari portieri che durante il giorno si sono avvicendati dietro a questo bancone, e mi ritrovo a fantasticare sul fatto che un mio collega tra coloro che hanno riportato sulla carta i nomi dei clienti del giorno, sia la versione invecchiata proprio di quel ragazzo che mi procurò con indifferenza un malessere fisico di almeno una giornata, ed uno psicologico che forse tuttora porto ancora con me.

In seguito, riuscii a fregarmene a sufficienza di quello che mi aveva detto quel mio pseudo compagno di scuola, ma poi scoprii che c’era stato qualcuno che inventandosi tutto di sana pianta era andato a riferirgli delle cose su di me che gli avevano fatto perdere le staffe. Insomma, era stato una specie di complotto ai miei danni ordito da qualcuno forse per gioco, o per scommessa, senza alcuna preoccupazione circa le conseguenze possibili. Per un certo tempo rimasi a chiedermi chi potesse essere stato a mettere in piedi un comportamento del genere ai miei danni, ma non avendo scoperto niente al riguardo, forse perché nessuno tra coloro in condizione di conoscere la verità, provava il minimo desiderio di fare la spia, decisi che era il caso di voltare la pagina, e così disinteressarmi del tutto di questa faccenda. Ma se da un lato ero convinto del giusto atteggiamento che avevo assunto, dall'altro, per molti anni ancora durante la notte, proseguii ad avere ogni tanto degli incubi in cui appariva un dito indice che mi intimava qualcosa. Quindi, per una semplice reazione, iniziai a pensare, e lo penso ancora oggi, che il mio nemico poteva, e può essere, praticamente dovunque, e soprattutto celarsi sotto alle spoglie di qualcuno che mi sta addirittura molto vicino. Mi guardo attorno, studio i presenti, cerco di interpretare i loro pensieri, e cerco così di tenermi alla larga dai guai.

 

Bruno Magnolfi

venerdì 1 marzo 2024

Evitato da tutti.


            Un tizio, un cliente del nostro albergo, ma che comunque non avevo mai notato in precedenza, scende lentamente dalle larghe scale che portano ai piani delle camere e mi saluta, mentre come sempre a quest’ora mi trovo da solo dietro al bancone del ricevimento. Con un italiano vagamente stentato mi chiede se fosse possibile avere qualcosa da bere, ed io gli rispondo subito: <<Naturalmente>>, ed esco dalla solita postazione per andare diretto nella saletta del bar e servirgli qualcosa. <<Mia moglie sta dormendo>>, mi dice il tipo, <<ma io mi sento nervoso, e non riesco proprio a prendere sonno>>. Gli dico che, se vuole, posso fornirgli un sonnifero, ma lui non accetta, <<Non sono abituato>>, risponde, <<e forse potrebbe persino farmi male>>, dice alla svelta. Si siede su uno degli alti sgabelli davanti al bancone per la somministrazione delle bevande, e sembra proprio che non abbia neppure troppa voglia di parlare con me, come al in genere succede, tutto al contrario, con qualche altro cliente. Attendo alcuni momenti dopo averlo servito, poi mi sposto da dietro la macchina del caffè e vado a riprendere il mio posto al ricevimento. Dopo un po’ lui mi segue, sempre con il suo bicchiere tra le mani, ed infine mi chiede se sia troppo noioso, oppure magari impegnativo, il lavoro che svolgo. Sorrido, poi dico: <<è un tipo di domanda che non mi pongo più da parecchio, visto che svolgo il portiere di notte da tantissimo tempo, e quindi sono abituato agli orari e anche al resto; in ogni caso mi piace, mi va bene così, questo starmene da solo ogni notte a riflettere su tutto e su tutto ciò che desidero, sembra sia proprio quello che mi interessa maggiormente>>.

            Il tizio annuisce, dimostra di aver ben compreso le mie parole, così dice: <<Non la disturberò ulteriormente con le mie chiacchiere, magari faccio un giro per la strada qua attorno all’albergo, e poi torno tra una mezz’ora>>. Sorrido, va bene, penso senza rispondere niente, così lui mi consegna il bicchiere ormai vuoto e si avvia, oltrepassando la grande porta vetrata che dà direttamente sulla piacevole piazzetta antistante. Anche quando frequentavo la scuola elementare, in via delle matite, le mie risposte erano spesso di questo tipo, poco incoraggianti nei confronti degli altri, e certe volte addirittura taglienti, come se i miei compagni mi procurassero un dispiacere nel rivolgermi una domanda o cercando di parlare con me. <<Sei sempre il solito>>, diceva il mio compagno di banco di turno, dopo che aveva imparato a sue spese i miei tipici comportamenti. Carlo invece era diverso da tutti. Spiegava certe volte che lui avrebbe sempre voluto nella sua vita il meglio possibile per sé stesso, e che non si sarebbe mi accontentato di un futuro mediocre. Mi affascinava la sua sicurezza nel dire cose del genere, anche se immaginavo che prima o dopo si sarebbe dimenticato facilmente di queste sue idee, ed avrebbe abbracciato un’esistenza normale, esattamente come quella che vivono tanti altri. Persi le sue tracce quando mi trasferii in città con mio padre e mia madre, ma già il fatto di non aver più sentito parlare di lui da qualcuno dei vecchi compagni rivisti in seguito, dimostra che probabilmente avrà finito per accontentarsi, un po’ come tutti.

            Mi siedo, per starmene comodo, mentre tengo d’occhio la porta vetrata dell’albergo, in maniera che, se ritorna il cliente di prima, posso aprirgli rapidamente pigiando il pulsante elettrico sopra al bancone, ancora prima che lui si metta a suonare l’apposito campanello. Forse, essere scostanti con gli altri non è mai una buona cosa, rifletto, però, anche se questa è una faccenda a cui ho pensato altre volte, non si può essere troppo diversi da come si è, e in ogni caso torna assurdo cercare di costruirsi una personalità diversa da quella che ci caratterizza, sempre che si possa riuscire in un’impresa del genere. Poi torna il cliente, e mi dice che la serata è molto bella e che fuori regna una calma quasi perfetta. Annuisco, mentre lui riprende la sua chiave e sale con l’ascensore per andarsene in camera: ognuno di noi è un mondo completo, rifletto, ma poi sorrido tra me, visto che un pensiero del genere sa di estremamente banale e risaputo. Il mio compagno delle elementari, Carlo, vorrei adesso immaginarlo chissà dove, magari all’estero, indaffarato, preso da grandi progetti, ad occuparsi di faccende estremamente interessanti, ma non riuscirei ad invidiarlo, neanche se fosse davvero così. Non eravamo amici, troppo diversi per scambiarci frasi e pensieri, però ci studiavamo a vicenda in qualche occasione, forse ognuno attirato dalla personalità di quell’altro, in qualche maniera. Alla fine, lo consideravo un solitario, quasi come me: lui perché capace di zittire gli altri con le sue maniere da adulto sicuro di sé, ed io con la mia timidezza che mi portava costantemente ad evitare e purtroppo a farmi evitare un po’ da tutti, proprio come diceva a volte la maestra a mia madre.

 

            Bruno Magnolfi