giovedì 28 maggio 2015

Musicalmente.

            
            Certe volte Corrado si accorge di dimenticare qualcosa, ma quasi sempre pare convincersi facilmente che la memoria in fondo non sia un elemento del tutto essenziale. Perciò alza le spalle e spesso ci scherza sopra, senza mai preoccuparsene troppo. Un amico gli dice: Corrado, dovremmo trovare un po’ di tempo per noi, per divertirci, andarcene ad assistere a qualche concerto, o anche ad un cinema, non so. Lui annuisce, alla fine si sente di essere soltanto un abitudinario, uno che non ha mai bisogno di fare cose insolite per sentirsi davvero al proprio posto, però tra i suoi desideri qualcosa sembra sempre restare incompiuto.
            Il suo amico certe volte lo porta fuori, a passeggiare, ed è in quei momenti, con calma, che gli pone delle domande dirette, tanto per sincerarsi di come stia veramente, e se almeno il suo umore sia positivo. Corrado in genere si schernisce, ma qualche volta quasi casualmente inizia a parlare di sé, delle sue piccole quotidiane preoccupazioni, del suo mondo generalmente composto da elementi minuti, da pensieri sparsi, da gesti e comportamenti a cui normalmente non riesce a rinunciare. L’altro sorride: mi sembri in forma, gli dice, non capisco cosa ci sia da preoccuparsi.
            Anche Corrado sorride, ha sempre bisogno di tempo per parlare davvero di sé, delle sue cose che contano, ma alla fine, dopo averci pensato, dice soltanto: sto perdendo la memoria, giorno dopo giorno. Agli inizi non sembrava qualcosa di particolarmente preoccupante, ma adesso che molte cose non ci sono più nella mia testa, e che non ricordo forse anche qualche parte essenziale della mia storia, è come se un lato di me fosse evaporato, ed io praticamente ormai rivestissi soltanto una persona diversa da ciò che sono stato fino a questo momento. Magari è soltanto una sensazione, ma il fatto che tutto si stia come aggravando, mi fa sentire proprio così.
            L’altro annuisce, comprende abbastanza bene quello che gli sta succedendo, ultimamente gli è già accaduto più di volta, parlandogli di qualcosa che magari hanno fatto assieme nel passato, accorgersi di come Corrado non ricordasse quasi niente, e lui avesse la sensazione di confrontarsi con una persona diversa dal suo amico di sempre. Non importa, gli dice senza far pesare troppo le sue parole: quello che conta davvero sono le scelte che si fanno, il desiderio di essere in un modo piuttosto che nell’altro, e la capacità di porsi di fronte a tutto quanto, come una persona veramente in grado di essere e di decidere.
Ecco, dice Corrado: fare; vorrei che emergesse sempre di più, piuttosto che prepararsi a fare. Non importa niente adesso accumulare le cose, credo; importa usarle, inventarsi di nuovo tutto strada facendo. L'altro raccoglie subito le sue parole: bisogna assolutamente andare ad ascoltare della musica, dice; sentire il tempo che scorre interpretato da un arabesco di suoni, perdersi in qualche meandro organizzato di armoniche melodie, e dimenticare così tutto il resto. Forse hai ragione, dice lui, cosa importa in fondo vivere soltanto in mezzo a dei ricordi, per delle nostalgie che sono soltanto delle scuse per riempire i momenti difficili. Meglio spingersi avanti, trovare cose nuove da pensare, nuovi elementi su cui riflettere, e grazie ai quali immaginare ancora un futuro. Certo, dobbiamo andare ad ascoltare della musica, dice ancora Corrado; ma non per ricordarci di qualcosa, ma per sapere che c'è ancora  molto da immaginare di fronte a noi.


Bruno Magnolfi

martedì 26 maggio 2015

Meritato riposo.

            
            Quello che maggiormente mi frega è la stanchezza. E certe volte un poco di pigrizia. Rientro a casa e mi siedo, e se devo tornare di nuovo ad uscire subito sbuffo. Mi telefona un amico mentre sto sorseggiando con calma una bella birra di fronte alla televisione, e così gli rispondo riluttante che va bene, che ci vediamo più tardi nel solito locale, anche se non ne avrei nessuna voglia, e mentre riaggancio provo piuttosto una grande necessità di riposarmi, forse anche di sdraiarmi e di dormicchiare per almeno una mezz’ora sul mio divano. Non mi interessa proprio niente di quanto in pratica viene dibattuto tutti i giorni, costantemente, fino quasi alla nausea. Non ho voglia di scegliere, o di decidere qualcosa che so già per certo mi porterà a dover riflettere, combattere, pensare, difendermi, come se dentro di me avessi deciso di fare il soldato di ventura, pronto ad affrontare chissà quali nemici in agguato dietro un angolo.
            Vado a lavorare tutti i santi giorni, e già mi sembra un grosso impegno, un carico di attività di per sé più che notevole; non capisco proprio perché dovrei accettare di mostrarmi disponibile anche oltre quell’orario e per tutto il resto del tempo durante il quale invece ho bisogno solamente di riposo. Scendo le scale per comprarmi delle sigarette, e così scambio due chiacchiere col tabaccaio che è una persona ammodo, simpatica, gentile e tollerante, insomma un amico. Gli chiedo come diamine faccia a stare dietro a quel banco tutta la giornata, e lui sorride, mi guarda senza impegno, poi serve una signora appena entrata dentro al suo negozio.
Mi sento fiacco, privo di risorse, e la cosa che più mi fa irritare in tutto questo è che sono costretto ad ascoltare durante certe interviste a qualche politico fatte alla televisione, l’istigazione continua alla lotta, al darsi da fare, a questo ribellarsi sempre e comunque per ottenere dei risultati e delle migliorie di qualche genere. I soldi che ho in tasca sono pochi, ma non posso certo accettare ogni giorno di sentirmi in prima linea, continuare ad affrontare quegli aspetti della realtà di cui non mi interessa praticamente niente; e poi tutto questo impegno soltanto per dover comprendere con quale parte decidere a schierarmi. Sono tutti uguali, penso ogni volta: perseguono un'idea soltanto per il loro tornaconto, e di tutti noi che dovremmo credere a quelle loro parole sono sicuro non interessa proprio niente.
Esco, raggiungo il mio amico nel solito locale, ci salutiamo, ci si siede per prenderci con calma una bella birra gelata. Gli dico del mio affanno, di questa svogliatezza che mi porto dietro, e lui dice che è normale, perché mai dovrei preoccuparmi di qualcosa che non sia una bella birra, la partita in televisione, quattro scherzi con gli amici. Lo guardo, mi pare buffo detto da lui che sembra quasi un intellettuale:  gli dico che forse dipende tutto da questa stanchezza che trascino sempre da una settimana all'altra. Ma lui sostiene che tutto quanto va lasciato fare a chi ne ha voglia: per noi è sufficiente starcene in pace, e riposarci tutte le volte che vogliamo. Stiamo ancora un po’ qua dentro, poi ci salutiamo ed io rientro da solo a casa mia.
Non so, non mi sento del tutto convinto; credo comunque che mi guarderò un bel film in tv stasera, senza pensare proprio a niente; e se poi mi addormenterò prima della fine, vorrà dire che avevo soltanto bisogno di riposo.


Bruno Magnolfi

lunedì 25 maggio 2015

Madre truccata.

            

Anche se fosse vera, è evidente che per lui sarebbe la medesima cosa. Un piccolo pezzo di plastica bianca ed opaca, opportunamente curvo e con la punta arrotondata, che lui sostiene essere stata un'unghia di sua madre, prima di morire; ed anche se nessuno ha mai potuto credere ad una cosa del genere, ugualmente non viene mai messo in dubbio che sia effettivamente così, almeno quando a lui gli va di parlarne. In ogni caso, pur se non si comprendesse il significato di trattenere in un cofanetto una reliquia del genere, a maggior ragione portarsene dietro una scopertamente falsa sembra quasi un segnale di malattia mentale, o qualcosa del genere.
Per il resto lui parla poco, se ne sta sempre in disparte,  ma a qualsiasi cosa gli venga chiesta risponde sempre correttamente, a voce bassa, e con cortesia. Nel locale che frequenta di pomeriggio, nessuno si è mai permesso di prenderlo in giro, anche se tutti sanno cosa tiene dentro alla tasca. Il signor Edgar arriva per la prima volta in un giorno qualsiasi, si siede, si fa portare una birra. Quando attacca discorso con lui che tra tutti gli è il più vicino, qualcuno vede il suo interlocutore frugare dentro alla tasca della propria giacca, quasi per un gesto scaramantico, forse, o per cercare là dentro una maggiore forza con cui affrontare gli argomenti dello straniero.
Infine, dopo alcune birre già tracannate, escono assieme probabilmente per una passeggiata, il signor Edgar e lui, e quando il giorno seguente si ritrovano lì alla medesima ora, in fondo nessuno prova alcuna meraviglia. Pare a tutti che stia nascendo una grande amicizia, anche considerato il fatto che il signor Edgar parla piuttosto male la lingua italiana, e forse la comprende anche peggio, ed in questa fase in molti si chiedono se il suo amico gli abbia già fatto vedere l'unghia finta, o se ancora si sia trattenuto dal farlo per un riserbo che in certi casi analoghi ha già manifestato ampiamente.
Le cose vanno avanti così per un breve periodo: loro due si ritrovano a fine pomeriggio, si fanno qualche birra parlando ad un tavolino, e poi si salutano, prendendo ognuno per la sua strada. Ma stasera non è andata come sempre, il signor Edgar è da solo, e sembra stralunato, quasi alla ricerca del suo strano amico. Lui non si fa neanche vedere, e quando ormai è ora di cena, e tutti si avviano verso la propria abitazione, eccolo infine che arriva, gli occhi bassi, il fare dimesso, le mani sprofondate dentro le tasche.
Ho perso l’unghia, dice al barista dopo essersi accostato al bancone, e sembra quasi sul punto di piangere. Dietro di lui, il signor Edgar lo guarda alzandosi dal tavolino, poi lentamente, come per non disturbarlo, apre la porta e scivolando se ne va via, quasi conoscesse già perfettamente quella storia che sta raccontando. Visto di spalle gli sembra forse un uomo finito, privo anche di qualsiasi volontà per andare avanti. Il barista gli versa una birra, lui la beve quasi d’un fiato, poi, quando sembra sentirsi un po’ meglio, chiede facendosi forza del signor Edgar. E’ appena andato via, gli dice in fretta  qualcuno, come spingendolo ad andargli dietro; vigliacco, fa lui, non vuole neppure starmi vicino, e magari aiutarmi nella mia ricerca disperata del cofanetto.
Tutto così sembra precipitare, ma quando lui poco dopo fa per andarsene da quel locale, ecco che sulla porta ritorna e lo ferma il signor Edgar; lo guarda, gli dice qualcosa, quindi gli stringe la mano, annuisce qualcosa, e infine vanno via insieme. Si dice che qualcosa dovrà per forza succedere, e che forse l’unghia non verrà neppure più ritrovata; ma nessuno sa dire, tra tutte le persone che lo conoscono, se lui da ora in avanti potrà essere soltanto un uomo completamente perduto, oppure se al contrario diverrà più che evidente in lui un suo progressivo e costante miglioramento.


Bruno Magnolfi

domenica 24 maggio 2015

Evidenti aspirazioni.

            

Sono quasi venti anni che proseguo a fare esercizio in questa mia disciplina. Non perché abbia in mente qualcosa di preciso per i prossimi tempi o per chissà quando, ma per non farmi trovare impreparato nel caso mi si chiedesse di esprimere quello che a volte reputo, probabilmente con un briciolo di esagerazione, il mio talento in questo campo. Forse per me allenarmi è diventata addirittura un'attività che somiglia molto ad una semplice abitudine, però non riesco ad esimermi dal praticarla quasi ogni giorno, e  dal cercare in essa soluzioni che non siano soltanto una serie di ordinari rudimenti. Sorrido a volte pensando a come alcuni, probabilmente anche tra coloro delle persone che conosco, sarebbero sicuramente pronti a sostenere che tutto questo tempo che io dedico alla mia attività sia sostanzialmente gettato via, ma io penso che forse non sarei neppure come sono se non avessi proseguito a fare pratica per tutto questo tempo, coltivando la necessità di sentirmi costantemente pronto, in grado di affrontare qualsiasi prova con risultati secondo il mio parere più che accettabili.
Quando ho appena finito di allenarmi sento di star bene, di essere in pace con me stesso, e questo mi pare importante. Poi un giorno conosco una ragazza, la invito a casa mia per più di una volta, sto bene insieme a lei, proviamo diverse affinità tra di noi, ed alla fine lei mi chiede cosa io faccia in quella stanza sempre chiusa, quella dedicata a questa mia personale attività. Le spiego che là dentro cerco di dare sfogo alla mia passione, a qualcosa in cui ho sempre creduto, ma che non ho mai espresso in pubblico, forse per timidezza, o per una sorta di personale sottostima, non saprei. Lei mi chiede anche altre cose, ma corre troppo, la sua curiosità vorrebbe andare sicuramente oltre, ma io le taglio subito il discorso: per il momento non mi va di affrontare con lei delle spiegazioni che coinvolgono completamente le mie più segrete intimità.
Proseguo ad allenarmi, sempre da solo, senza mai neppure il sostegno di qualcuno. La mia ragazza da qualche settimana ha iniziato a fare delle allusioni poco divertenti riguardo la mia stanza, circa le mie esercitazioni, il mio comportamento, così ho iniziato a diradare i nostri appuntamenti. Credo che la nostra storia dovrà inevitabilmente arrivare alla fine, non vedo alcuna altra possibilità, visto che non ho nessuna voglia di confidare a lei i motivi per cui coltivo la mia passione, anche ammesso che questa disciplina probabilmente non mi porterà mai da alcuna parte.
Come ogni giorno, porto avanti i soliti esercizi, iniziando da quelli semplici per arrivare fino a quelli più complessi e impegnativi. Non vado tanto male, penso; se mi chiamasse qualcuno in questo momento credo non sfigurerei, anzi, potrei addirittura lasciare di stucco più di una persona. La cosa sostanziale è che il perseguire con impegno questo mio esercitarmi, fa in modo che io mi senta ricco, a mio agio con tutti gli altri, addirittura in certi casi soddisfatto delle mie capacità. Spesso penso che questa, comunque vada, sia esattamente la mia strada, quella che reputo la mia più forte aspirazione.
Osservo gli altri, in tanti casi, e mi pare impossibile che ognuno di loro non abbia qualcosa che tiene in serbo per sé, da qualche parte. Forse un pensiero, un sogno, un piccolo segreto da coltivare. Poi ricomincio con gli esercizi: dovrò smettere una volta o l'altra, e dire a me stesso che non ha avuto senso andare avanti così per tutti questi anni. Salgo sopra un mezzo pubblico, mi siedo, nessuno mi conosce; eppure se qualcuna delle persone presenti mi guardasse con attenzione, seguisse le mie mani, il mio modo di ordire il tempo che scorre, forse potrebbe cominciare a comprendere qualcosa di me, dei miei modi, dei miei interessi, ed in questa maniera potrebbe addirittura giungere a capire cosa sia che io tengo racchiuso dentro me. Poi sorrido: che cosa importa, penso alla fine; ognuno segua pure nel suo interno le proprie aspirazioni.

Bruno Magnolfi


mercoledì 20 maggio 2015

Perdente nato.

           

Chi lo conosce lo reputa un uomo in gamba, sensibile, intelligente. Lui difficilmente parla di sé, generalmente lascia sempre agli altri la maniera di formarsi un'opinione. Eppure la sua nascosta debolezza, quasi invisibile perfino quando pare sfuggirgli al controllo, resta proprio l’intimo bisogno del sostegno di tutti, quel sentirsi incoraggiato nell'apprezzamento delle proprie espressioni, dei suoi modi, del suo intuito. Soffre, quando viene trattato come uno qualsiasi, come un uomo-massa qualunque, una persona media senza distinzioni, quale appunto egli è.
Lei lo ha osservato a lungo, quasi ogni mattina, con curiosità, in quello stesso vagone su cui quasi sempre salgono ambedue alla stazione della metropolitana, e alla fine gli è andata vicino, lo ha sfiorato di proposito, lasciando che lui le chiedesse qualcosa di insignificante, l'orario, per esempio, oppure se la sua era la fermata successiva, adesso neppure ricorda cosa, ma lei è sicura di avergli soltanto sorriso, senza neppure guardarlo, sottintendendo già in questo modo mille altre cose. Evidentemente lui ha dovuto iniziare timidamente a salutarla ogni mattina sopra quel vagone, fino a quando lei ha iniziato ad anticipare leggermente il suo orario per andare in ufficio, in maniera da incontrarlo come minimo più raramente.
Lui probabilmente si è così sentito messo da parte, e quindi stamani si è piazzato sul marciapiede della stazione della metropolitana mezz'ora prima del solito, con lo spudorato intento di cercare almeno di incontrarla. Lei è arrivata, con naturalezza, gli si è accostata quasi con spontaneità, e lo ha però salutato senza usare neppure troppa enfasi. Lui le ha subito accennato qualcosa sulla bella giornata, sulle variazioni d'orario dei mezzi pubblici, ed anche sui colori deliziosi del vestito che lei oggi indossa così bene, e lei si è schernita, gli ha sorriso, ha detto semplicemente che le dispiace di qualcosa, adesso non saprebbe neppure dire cosa, ma comunque ha messo in avanti il fatto che in questo periodo sta affrontando dei concreti problemi in ufficio.
Lui le ha chiesto se era possibile vedersi per un semplice caffè magari dopo il lavoro, e lei dopo una pausa gli ha detto: certo; anche se probabilmente non vorrebbe spingersi troppo in avanti con lui. Così gli ha spiegato che quel pomeriggio comunque non sarebbe stato possibile, e che era meglio rimandare ad un giorno non precisato della settimana successiva o quella dopo. Lui si è quasi sentito scansato, ma non ha detto niente, anche se avrebbe avuto voglia  immediatamente di spiegarsi, di chiedere, di scambiare con lei mille altre cose che sull’immediato gli venivano in mente.
Quando poi lei è scesa, lui l'ha salutata accompagnandosi con un leggero sorriso; lei lo ha guardato negli occhi, gli ha sfiorato una mano, e con il suo atteggiamento è parso come se lo abbracciasse, quasi quello fosse un addio. Lui adesso è tutto il giorno che riflette su tutto quanto, forse avrebbe soltanto voglia di voltare pagina, cambiare orario quel tanto che basta per non rincontrarla più con facilità, ma gli pare impossibile non cercare di sciogliere quegli interrogativi che si sono formati intorno a loro due. In fondo non c'è niente di male nel tentare di riempire quel quotidiano piccolo vuoto del viaggio, pensa adesso; lei è una donna interessante, riflette, forse un po' troppo sicura di sé per il suo carattere; e in ogni caso lui prova una spinta naturale a conoscerla meglio, a sapere almeno qualcosa di più della sua storia, anche se è cosciente che non le porrà mai delle domande dirette.
Si potrebbe aprire tra noi un futuro possibile, pensa ancora, anche se tutto probabilmente dipenderà dal mio comportamento, dalla mia capacità di mostrarmi come minimo interessante, e anche capace, forse ricco di idee. Probabilmente però non sarò mai in grado di stare all’altezza della situazione, riflette alla fine: tanto vale ignorarla; sin da domani mattina.


Bruno Magnolfi

domenica 17 maggio 2015

Essere umani.

            
            Piero sta portando fuori il cane, come ogni sera, dopo le dieci. C’è un grande giardino comunale dietro casa sua, giusto duecento metri di marciapiede e poi è arrivato. A fianco parcheggiano le auto, a lisca di pesce, lui costeggia quelle macchine, entra nell’erba, quindi scioglie il guinzaglio, e va a sedersi tranquillo sopra una delle panchine. In genere è da solo, osserva il suo cane, pensa ai fatti propri, si trattiene lì soltanto una mezz’oretta. Poi richiama l’animale, torna ad agganciare il guinzaglio, e infine se ne va, per tornarsene a casa, senza alcuna fretta.
I ragazzi imboccano la striscia del parcheggio lasciando stridere le gomme sopra l'asfalto, il motore sembra mugghiare per l'alto numero dei giri, loro probabilmente ridono delle furbate che riescono a fare quando sono in compagnia. Il cane di Piero si prende una frazione di secondo in cui fiuta il pericolo di quei fari che piombano improvvisamente su di lui, tenta forse  uno scarto, ma ormai non c'è più tempo, la parte destra del paraurti lo striscia su un fianco, lo scaraventa subito a terra, senza dargli alcuna possibilità di difesa. Piero tiene ancora il guinzaglio, guarda il suo cane che mugola, e in un attimo si rivolge verso i ragazzi che all’improvviso sono fermi e forse si rendono conto di quello che hanno fatto. Allora li affronta, il sangue caldo circola in fretta, tutto è immediato, gli manca quasi l’aria mentre apre lo sportello di quello che guida.
Il primo pugno lo sferra in pieno viso, senza attendere niente, poi, quando l’amico scende per difendere l’altro, lui è cosciente di avere ormai lasciato il guinzaglio, di difendere qualcosa estremamente più importante di qualsiasi altra cosa, e non gli importa se ci saranno conseguenze per quello che sta facendo. Stende a pugni e a pedate il secondo, e in seguito anche il terzo, è una furia scatenata la sua, e forse, se avesse solo il tempo per riflettere, non riuscirebbe neppure a ricordare in tutta la sua vita quando si sia sentito un’altra volta così, forse perché non c’è mai stata una volta paragonabile, ma questo non ha alcuna importanza, perché tutta la sua esistenza si è come concentrata in questo momento, adesso, senza alcuna alternativa.
Piero piange di rabbia, alla fine, prova l’importanza di quel momento, sente le mani doloranti, vorrebbe ancora spaccare i fari di quella macchina stupida assurdamente rimasti accesi, aspira quel silenzio fermo dell’aria, guarda i suoi nemici che si divincolano a terra nei loro dolori, vorrebbe distruggerli ancora, schiacciarli, eliminarli completamente, ma il suo cervello in pochi secondi ricomincia a funzionare quasi regolarmente. I ragazzi si rialzano, uno vomita, gli altri due si sorreggono a vicenda. Non sanno neppure se risalire in macchina o cercare di parlare con quell’energumeno che forse ha dato loro la lezione che in fondo si sono meritati, ma proprio in quel momento guardano il guinzaglio che è rimasto lì a terra.
Piero segue d’istinto quel loro sguardo, si volta , ha ancora le mani contratte, forse vorrebbe ancora scatenare sopra di loro una parte di quella violenza provata dentro al suo spirito, ma adesso c’è qualcosa che lo richiama alla realtà, c’è qualcosa che gli chiede un gesto diverso. Il cane è a terra, lo guarda, Piero lo prende, sembra quasi non abbia delle ferite, forse zoppica un po’, ma sembra qualcosa di poco conto. E’ un film sbagliato, dicono tutti, bisogna cambiare, pensare molto a cose del genere, e infine tornare ad essere umani.

Bruno Magnolfi


giovedì 14 maggio 2015

Testi musicali.

            

Stamani ho iniziato casualmente a picchiettare con le dita sul piano di legno, mentre stavo seduto al mio tavolo, durante un momento in cui non avevo proprio nient'altro da fare. Mi piaceva quel tempo regolare che riuscivo a tenere, così ho replicato quella figura ritmica parecchie volte, fino a quando ho preso due matite ed ho ripetuto di nuovo quella stessa scansione del tempo, direttamente sopra la costola di un libro che avevo accanto. Suonava bene, mi piaceva, fluiva tutto in modo molto regolare, e quindi ho proseguito così senza neanche cercare di produrre delle variazioni. Poi ho cominciato a cantarci sopra qualcosa, inizialmente quasi una nenia infantile senza le parole. La cosa pareva andare, tutto funzionava, sembrava quasi avessi fatto da sempre della roba di quel genere.
Qualche parola intonata poi ha iniziato a venire fuori quasi da sola, come seguendo tutto il resto per una sorta di simpatia. Le sillabe sembravano combaciare con il ritmo, ed anche se tutto quanto non pareva significare quasi niente, a me sembrava incredibile che la mia attività pur cosi disimpegnata potesse dare risultati di quel genere. Mi sono interrotto soltanto per un attimo, giusto per prendere dentro una scatola nell’armadio un vecchio registratore fino ad allora quasi inusato, e che ho subito messo in funzione, al fine di non dimenticare quell'idea sonora che aveva quasi preso forma. Cosi ho continuato a lungo a lavorare ancora sopra le parole, e la musicalità di tutto l'insieme mi pareva a tratti scaturire in un modo del tutto naturale, quasi avessi nel sangue delle doti innate per fare cose di quel tipo. Ho proseguito a registrare a lungo tutto quanto, fino a che, con lunghi squilli, non è suonato il mio telefono, nel corridoio. Mi sono precipitato a rispondere, anche se con un certo fastidio, naturalmente dopo aver schiacciato il pulsante di interruzione della registrazione.
Era soltanto l'amministratore del condominio dove abito che mi avvertiva di una certa faccenda di cui attendevo risposta già da un po’ di tempo; ma se normalmente soltanto la voce di quel ragioniere riusciva ad infastidirmi, adesso al contrario mi faceva quasi piacere, mi sentivo anzi elettrizzato, anche divertito, tanto da rispondere a lui quasi intonando le parole che gli dicevo, e immaginando spontanea in me quella musicalità che non avevo neppure mai cercato, e che adesso, inaspettata, proseguiva come a fluire naturale dalla mia gola. Poi abbiamo riagganciato, ed io ho subito pensato che mi conveniva distrarmi ulteriormente, forse uscire anche di casa, pensare ad altre cose, insomma, in modo da ritrovare in seguito, al momento del riascolto, tutta la freschezza del brano che avevo precedentemente registrato.
Così ho preso subito la giacca con il mazzo delle chiavi, ed ho chiuso la porta alle mie spalle, precipitandomi per le scale per andarmene subito da Maurino, il bar del mio quartiere dove mi faccio vedere qualche volta. Ma lungo la strada ho incontrato di nuovo l’ amministratore del condominio, che fermandomi mi ha dato altre delucidazioni sulla faccenda di poco prima, sorridendo tra sé di qualcosa che non ho neppure compreso. Poi ci siamo salutati, e camminando da solo ho ripensato alle parole del brano di poco prima. Potevo usare un argomento sociale, pensavo, qualcosa vicino a tutti, un testo libertario, in quella specie di canzone che stavo componendo. Il ritmo lo avevo già scordato, ma avrei subito ritrovato tutto quanto una volta tornato a casa e riascoltata la registrazione.
Nel bar ho parlato col mio amico di tutta la faccenda, e lui mi ha subito  incoraggiato, dicendo che questa cosa poteva essere importante, e che dovevo darci dentro, e ancora che lui aveva sempre pensato a me come ad un artista, un tipo estroso, insomma. Cosi mi sono scolato un paio di birre schernendomi, e quando sono uscito avevo la testa senz’altro più leggera. Ho immaginato di incontrare per la strada ancora l'amministratore, così per evitarlo ho fatto un giro molto lungo.
Sono rientrato in casa con la sensazione di ritrovare le medesime sensazioni di poco prima, quindi ho chiuso la porta alle mie spalle ben contento di essere lì, di poter riaccendere il registratore ed ascoltare quanto avevo prodotto. Mi sono seduto, ho premuto il pulsante, ma mi sono subito reso conto che in quell'aggeggio non era rimasto impresso niente, neppure un rumore di fondo. Mi è parsa la fine, ma dopo un po' me ne sono fatta una ragione, e sono subito tornato al bar.


Bruno Magnolfi

martedì 12 maggio 2015

Sorriso sfinito.

            
            Alcuni dicono che tutto si sta sistemando; invece altri sostengono che indubbiamente dobbiamo prepararci a tempi peggiori di questi. Io sorrido, non so, li lascio dire quello che vogliono, perché in sostanza non capisco niente di queste cose, e poi non mi interessano per niente gli argomenti di questo tipo: credo che le sole preoccupazioni che può avere uno come me riguardino soltanto il presente, non certo il futuro, che sembra sempre qualcosa di lontano e di inconcludente. Corro tutto il giorno con il mio lavoro stando in mezzo a parecchi operai, e quando arriva la sera ho soltanto voglia di togliere la tuta sporca ed andarmene al solito circolino, dove ci sono tutti i miei amici.
            Loro certe volte mi prendono in giro, forse perché sono il più giovane di tutti, ma lo fanno bonariamente, giusto per ridere, per divertirsi un po’ e trascorrere la serata, ed io così li lascio fare, in fondo non ci trovo niente di male. In qualche caso dicono a voce alta di me, fingendo che non riesca a sentirli, che non sono neppure normale, e che magari ho pure qualcosa che non va nella testa, ma io continuo a sorridere, non mi interessano per niente questi argomenti; così come non voglio mai stare a sentire nessuno, quando si mettono a parlare di donne, di quella o di quell’altra, e quando usano poi certe parole che mi fanno immediatamente arrossire, perché lo so che non riesco ad ascoltare queste cose ridendo o restando indifferente, come fanno tutti gli altri.
Non ho mai detto a nessuno lì al circolo che sono stato assunto nella fabbrica dove lavoro perché sono iscritto ad una lista speciale, e mi dispiacerebbe che qualcuno venisse a saperlo, perché al mio posto ci tengo, non riuscirei mai a ritrovarmi senza fare niente come mi era successo qualche tempo addietro. In reparto non mi fanno fare molto, però tutti mi salutano, mi chiamano a voce alta, dicono di allungare a qualcuno un certo utensile, oppure quell'altro, o di portare acqua da bere ad uno, e a volte anche un caffè della macchinetta automatica ad un altro; quindi mi battono una mano sopra le spalle e sono tutti contenti di me, del mio continuo mettermi a disposizione e darmi da fare.
Non faccio niente di male, mi sento una persona buona in tutto ciò in cui mi impegno, così quando qualcuno dice che va tutto bene sono molto contento, non chiedo niente di più. La sera poi tutti giocano a carte, ed alcuni invece parlano di cose serie e così automaticamente mi escludono. Ma a me non interessa, mi basta che tutti mi vogliono bene, e siano bravi con me, magari anche con un po’ di pazienza. Perché è vero che qualche volta non riesco a capire tutto quello che dicono, però non importa, sorrido a tutti, e loro sanno che sono miei amici.
Quando dicono che il lavoro non c’è, qualcuno certe volte mi guarda, come se io stessi quasi rubando qualcosa. Ma io so che sto facendo tutto quello che posso, che porto avanti quello che serve, e che sento quello che faccio come il mio dovere, perciò mi sento a posto così, perché se è stata fatta una lista per persone come sono io, vuol dire che va bene in questa maniera, e che non c’è altro da dire. Parlano di politica, di sindacati, ma mica lo sanno che ci sono persone che certe cose magari non riescono e non possono neppure capirle: però anche loro sono utili, magari soltanto per portare l’acqua, o il caffè. Poi la sera vado a letto, sfinito. E l’indomani presto mi suona ancora la sveglia, per dirmi cosa c’è ancora bisogno di fare.


Bruno Magnolfi

giovedì 7 maggio 2015

Fine del periodo.

            

            Lei aveva soltanto venti anni quando si era messa con il signor Mario che abitava al piano sopra l’appartamento dei suoi genitori, mentre lui aveva già superato abbondantemente i quaranta. Naturalmente tutto era stato fatto ed era proseguito in grande segreto, tenendo conto di orari, situazioni, possibilità. Lui svolgeva una normale attività di commercialista, ed era regolarmente sposato con una gentile signora che lei salutava cortesemente ogni volta che incontrava lungo le scale, sorridendo anche al figlio sempre tenuto per mano, che frequentava già la scuola primaria.
            Lei era soltanto una studentessa al quarto anno di lettere. Con tutte le limitazioni ed i rischi che c’erano, di fatto loro erano riusciti a vedersi pochissimo, concordando sempre i tempi esatti in cui lui riusciva a rimanere in casa da solo, quando lei, spesso con tutta la fretta possibile, ed accampando sempre delle scuse generalmente banali per uscire, poteva fare le scale e raggiungerlo. Tutto durava sempre ben poco, giusto il tempo di scambiare qualche dolcezza, spogliarsi in fretta, e poi via, un ultimo sguardo, ed ognuno per conto proprio.
            Oggi è trascorso poco più di un anno da quei primi tempi, e lei ha diradato le volte in cui sale nell’appartamento del signor Mario, come continua a chiamarlo. Le piace ancora ritrovarsi con lui, sistemarsi con calma su quel divano in salotto, e poi sciogliere con lentezza il nodo della sua cravatta, come fosse un inizio già concordato, e con due parole fare un po’ la sciocchina; ma tutto, negli ultimi tempi, sembra ormai diventato come una qualsiasi abitudine.
            E’ una storia da chiudere, pensa lei qualche volta, anche quando è lì, proprio su quel divano; ma non riesce mai a decidersi. Così rimanda sempre qualsiasi iniziativa. Loro non parlano, non hanno mai parlato di niente, se non sottovoce delle cose essenziali per tornare a vedersi. Affrontare adesso quell’argomento, cercare addirittura di spiegarsi, di farsi capire, è qualcosa che almeno a lei torna addirittura innaturale. Così lascia perdere, rimanda, evita il tema.
Di quella relazione lei non ne ha mai parlato con nessuno, d'altronde non ha certo avuto bisogno di comprensioni, e neppure di pareri scandalizzati da parte di amici o colleghi di corso. Però adesso non sa cosa fare, oscilla tra un pensiero e quell'altro, e qualche volta sente il bisogno di confidarsi con qualcuno sentendo mancare almeno in parte la voglia di salire le scale. In fondo si crogiola in questa indecisione, ed anche se da un lato sa che deve prima o dopo affrontare la cosa, dall’altro tende spontaneamente a rimandarla. Sa che ha troppo da guadagnare chiudendo quella storia, lo comprende benissimo. Ed a volte si dice tra sé che non avrebbe mai dovuto neppure iniziarla, anche se si giustifica che è stato un fatto d’istinto, senza una vera scelta di fondo.
Ora sta studiando in camera sua, su un vecchio testo di Schlegel, quando gli giunge la vibrazione di un messaggio sul suo cellulare. E’ il segnale, adesso può salire da lui, dal suo signor Mario; lei si prepara, dice qualcosa alla mamma, prende dei libri con sé per avere almeno una copertura, poi apre la porta. Lui la riceve, la guarda, l’abbraccia, dice subito però che è l’ultima volta. Lei è sorpresa, prova una vertigine, un improvviso terribile senso di abbandono, forse ingiustificato: ma poi lo stringe un attimo, racchiude tutto in un gesto, e infine se ne va, senza rispondere niente; così si chiude un periodo.


Bruno Magnolfi

lunedì 4 maggio 2015

Decisioni fondamentali.

            

            Ultimamente ho pensato diversi progetti da realizzare, senza peraltro riuscire ad iniziarne alcuno, questo forse soltanto per mancanza di tempo, ma anche perché, siccome è sempre demoralizzante impegnarsi in qualcosa che non ti conceda in breve tempo almeno qualche soddisfazione, devo sempre riflettere bene prima di attivare una mia qualsiasi iniziativa. Non ha importanza, mi ripeto in questi casi: l’essenziale è sempre avere delle idee, far funzionare a pieno regime il cervello, assaporare nell’aria le possibilità che ci sono di fare sempre qualcosa.
            Proprio per questo spesso non sono a casa, me ne sto in giro a cercare idee, ispirazioni. Cammino per strada, incontro la gente, saluto le persone che riconosco. Mi fermo a volte nel vecchio negozio di dischi musicali del mio quartiere, dove quando ne ho voglia mi trattengo a parlare con il commesso, ricordando a lui qualche brano famoso o qualche autore che a me piace di più. Quando esco da lì saluto sempre tutti i presenti, e sento in questo modo di stare meglio, di aver fatto comunque qualcosa di importante, magari soltanto per aver acquistato un vinile polveroso con delle registrazioni di alcuni inediti.
            Là accanto c’è un bar gelateria, dove ci si può sedere all’esterno sopra certe panchine di plastica, mentre il traffico scorre, e farsi servire un caffè, magari completato con della panna fresca. Conosco molta gente in questa zona, è evidente, così c’è sempre qualcuno che si ferma a parlare con me e a raccontarmi qualcosa di interessante. E’ proprio così che in certi casi mi vengono a mente delle idee nuove, quasi risultassero suggerite direttamente da coloro che incontro.
Oggi poi ho parlato a lungo con Elena, una ragazza invecchiata che conosco da molto, fuma continuamente sigarette con filtro, e sorride spesso mostrando una dentatura imperfetta. Mi ha raccontato di sé, di come vorrebbe sempre andarsene via, arrivare da qualche parte che semplicemente immagina, luoghi che generalmente conosce soltanto per nome, ma dei quali sostiene di essersi innamorata, magari guardandone un'immagine su una rivista o solo consultando una cartina geografica. Le chiedo il motivo per cui non sta bene dove si trova, ma lei normalmente non risponde: è scontato tra i suoi desideri un luogo lontano dove giungere prima o dopo.
Io le dico che al suo posto non saprei neppure verso dove andare, anche se il fascino di luoghi esotici è innegabile: però forse mi piacerebbe avere la possibilità di girare un po', magari senza una meta precisa, bighellonare in lungo e in largo per qualche città di cui magari non so proprio niente. Lei allora mi chiede a cosa io aspiri davvero, ed io le rispondo che il mio cruccio è solo quello di fare degli elenchi di piccole cose di cui occuparmi, riempire sostanzialmente le mie giornate di piccole attività a cui dedicarmi. Non è vero, naturalmente, ma dico così per darmi un contegno, per mostrare che ho ben chiaro nella testa cosa sia maggiormente importante.
Poi torno a casa: ho deciso di spostare dei mobili seguendo un disegno che ho già stabilito. Mi pare una cosa molto giusta che devo iniziare al più presto, così osservo le pareti e mi immagino già come potranno apparire le stanze una volta completati gli spostamenti. Intanto mi siedo però, rifletto ancora da quale oggetto sa meglio iniziare, ma anche questo aspetto non è affatto marginale, così rimango fermo a lungo a pensare. Forse mi manca un po' di decisione, penso con calma, ma in fondo non ha alcuna importanza: ho tutto il tempo che serve per portare avanti queste mie idee.


            Bruno Magnolfi