venerdì 26 dicembre 2014

Convinzioni incerte.

            
Non me ne importa niente di tutta questa gente intorno. Sto seduto per conto mio sulla carrozza del tram, e provo un grande fastidio quando le persone salgono, scendono, si muovono in questo spazio angusto, strusciandosi di qua e di là senza riguardi. Alla mia fermata infine scendo, e mi guardo attorno nel buio rischiarato dai lampioni stradali, in questa serata così insignificante.
Sono stato all’ospizio, oggi pomeriggio, a far visita ad una mia vecchia zia, l’unica parente che mi sia rimasta; era seduta, appoggiata dagli inservienti su una poltroncina, e mi ha guardato, forse senza neppure vedermi, perché mi sono accorto bene come non mi abbia neppure riconosciuto. Così ho detto qualcosa a voce alta, ho aspirato leggermente quell’odore di vecchio e di malato, ho usato con lei alcune sciocche frasi di circostanza, poi sono venuto via.
Certo, non sono uno che sia riuscito mai a stare al passo con i tempi, non sono stato neppure capace di adeguare i miei argomenti a quelli di tutti, e cosi non ho mai frequentato dei caffè, o gli altri luoghi di conversazione; me ne sono rimasto sempre per conto mio e basta. Forse è stato un errore, sicuramente, ma non posso certo iniziare adesso che sono in là con gli anni e vivo ormai talmente solo da risolvermi a parlare col gatto e qualche volta con lo specchio.
A cosa serve tutto questo, penso qualche volta. Le cose vanno avanti per conto proprio, le persone quando cammino per la strada certe volte mi guardano come se fossi uno diverso da qualsiasi altro. Ma io lascio correre, niente di questo mi riguarda, i giudizi di tutti neanche mi sfiorano, sono soltanto un tizio disinteressato di parecchie cose, vorrei dire, uno che si lascia  accompagnare semplicemente dalle sue abitudini.
Perché mai dovrei cambiare, rifletto in seguito, per quale motivo mettermi a parlare con tutta questa gente che non sa neppure cosa dire, a cui le parole non costano un bel niente, escono loro di bocca come vapore, come respiro d'affanno dopo una lunga corsa. Resto da solo, preferisco così che confondermi con chi non sa neppure misurare dei pensieri, e quindi neanche quei sottili dubbi che si insinuano a volte nella mente e non se ne vanno più, per nessun motivo.
Possiedo poco, rifletto, forse niente; proprio perché le mie povere cose le ho tenute sempre per me, senza porgerle in giro assieme magari a qualche bel sorriso, accompagnando tutto quanto con quelle stesse parole così gradite a molti. Ma non ha importanza alcuna, mi dico; va bene in questo modo, non voglio compromessi: rientro in casa, sto col gatto, mi occupo dei miei pensieri e di nient’altro. Mi siedo sopra la poltrona, lascio che il gatto venga sopra le mie ginocchia, poi gli dico che è tutto a posto, il suo cibo sta di là, tra poco ne metterò una porzione dentro la sua ciotola.
Mi alzo, elenco con calma i miei gesti casalinghi, e so per certo che non ci sarà bisogno d'altro, almeno per stasera. Cosa m’importa di queste feste così finte, di questi auguri che rimarranno perlopiù lettera morta, di tutta la patina che non porterà mai niente di diverso. Mi siedo, suonano alla porta: è il mio vicino, dice che stasera sono invitato a cena a casa sua, insieme a tutta quanta la sua famiglia. Non può pensarmi tutto solo, spiega, e poi vuole parlarmi dei gatti ed anche di altre cose. Lo guardo, non mi risolvo a rispondere niente, ma la mia volontà sento che vacilla. Accetto, dico alla fine sottovoce: in fondo c’è ancora tempo per la solitudine.


Bruno Magnolfi

lunedì 22 dicembre 2014

Direzione meravigliosa.

            

Pur piccola, comunque persino troppo vasta quella piazza delle medaglie d'oro per non mostrare come molte delle persone che avrebbero potuto esserci davvero avessero invece deciso, probabilmente proprio all'ultimo momento, di non aderire affatto almeno per quella volta alla manifestazione generale del pensiero collettivo. Non ha alcuna importanza, sostiene lei; poi dice: noi dovevamo comunque essere qui, almeno la nostra presenza era richiesta, anzi era assolutamente necessaria, il resto invece può anche mostrarsi maggiormente marginale. Di fatto quella specie di raduno risulta soltanto l'elementare dimostrazione che esistono ancora persone capaci di riflettere almeno alcune delle proprie idee in modo piuttosto diverso da molti, e questo loro parere in base ai fatti evidenziati assume indubbiamente, soprattutto in certi casi, una propria oggettiva importanza.
Lui al contrario è perplesso, si guarda attorno, poi torna ad osservare lei che pare comunque accontentarsi. Forse non si poteva pretendere di più con la scarsa informazione che siamo riusciti a dare, le dice. Lei annuisce, loro non hanno né bandiera né striscione, sono soltanto due individui qualsiasi che in mezzo a diversi altri sparuti personaggi cercano di dare almeno un senso definito ad alcuni dei loro pensieri. E’ difficile, si dicono, evidenziare delle idee senza mostrare contemporaneamente alcuna appartenenza: sembra quasi impossibile, ma nessuno tra i normali cittadini pare interessato a cose di questo tipo; sono temi che non caratterizzano immediatamente il contesto esatto in cui si muovono, forse per questo sfuggono, paiono addirittura insignificanti. Eppure loro due, comunque sia, in quella piazza ci sono e non sono soli: qualcun altro ha pur aderito a quella causa, ed adesso è lì, sta mostrando la sua faccia, e soprattutto evidenzia il proprio consenso su quanto  stabilito. Tutti si stringono la mano, si sorridono, indicano ognuno qualcosa di comune, e tutto questo pare già del tutto sufficiente alla causa a cui hanno dato adesione.
Loro due si spostano attorno alla piazza, quasi nella nervosa ricerca di qualcosa che sembra proprio non riescono a trovare, e infine lei dice semplicemente che avrebbe improvvisamente bisogno di un caffè, e lui volentieri l'accompagna in un piccolo locale proprio lì vicino. Si siedono, si guardano, lui affronta l'argomento spiegando che non c'è niente per cui prendersela, le cose a volte sono più difficili di quanto si vorrebbe, e lei annuisce a quelle parole. In certi casi mi dipingo una realtà diversa da quella che è, dice lei; però va bene così, devo imparare ad accontentarmi anche delle piccole cose.
Quando tornano sulla piazza qualcuno ha già iniziato ad andarsene, ma la giornata sostanzialmente grigia fino a quel momento mostra adesso nella parte bassa del cielo una striscia di aranciato disegnata dal tramonto del sole, e le facciate delle case tutt'attorno paiono improvvisamente accendersi di serenità. Lei sorride, la manifestazione in quel momento pare sciogliersi, la gente se ne va, ma la serata ad un tratto sembra quasi incoraggiante. Vorrebbe fermare tutti lei, ringraziarli uno per uno, dire loro che in fondo è stato bello ritrovarsi in quella maniera, anche se alla fine tutto il loro sforzo non servirà probabilmente proprio a niente. Siamo stati qui insieme, vicini, almeno per un momento, pensa adesso; ed eravamo uniti, accostati da una stessa idea, le pare quasi di poter dire a tutti. In fondo è questo ciò che conta per davvero: guardare qualcosa insieme, tutti verso una stessa direzione.


Bruno Magnolfi

martedì 16 dicembre 2014

Ingombro evidente.

            

Quando lei è scivolata sul pavimento, sull'immediato forse mi sono addirittura dispiaciuto dentro di me: in quel momento mia moglie mi pareva soltanto, forse anche per via del pancione, una povera disgraziata ridicola ed assolutamente senza valore; però quando le ho sferrato con tutta la forza che ho trovato il primo calcio sul fianco, ho immediatamente provato una grande soddisfazione, proprio come se stessi scaricando in quei colpi, peraltro assolutamente necessari, tutta la tensione da me accumulata negli ultimi tempi. Lei ha subito urlato qualcosa, certo, forse ha anche proseguito a lamentarsi piangendo, non lo ricordo neppure, ma questo non ha provocato altro in me che farmi stringere i denti dalla rabbia per continuare ancora a colpirla, ad umiliarla, a schiacciarla sotto di me, proprio come in quel momento si meritava. Poi, una volta stanco, sull’immediato volevo quasi andarmene via, uscire al più presto da quella casa, prendere una boccata d’aria da qualche altra parte e dimenticarmi in fretta di quanto successo, però accanto a me ho visto il solito divano all'interno della nostra stanza, e con la fronte sudata per lo sforzo mi ci sono seduto, cercando di riprendermi e di calmare il mio fiato corto.
Lei a quel punto era ancora a terra e si reggeva il fianco e la pancia, ma ora piangeva e basta, quasi in silenzio, senza parlare, praticamente senza più darmi noia. Ho pensato che in fondo forse mi sarebbe quasi dispiaciuto avesse perso il bambino, però ero anche convinto che quel trattamento fosse esattamente quanto meritava, e poi alla fine mi pareva che questi non fossero neppure del tutto dei fatti che mi riguardavano. O meglio, il caso che ci fossimo sposati quasi un anno prima, secondo me non doveva assolutamente darle il permesso di fare tutto quello che le pareva, questo pensavo. Poi è chiaro che con una donna non si può mai sapere chi possa essere veramente il padre del bambino quando partorisce, e quindi per questo non era necessariamente cosa che mi riguardasse. Le avevo già detto più volte che doveva alla svelta farsi togliere quell'ingombro, ma lei no, voleva tenerlo per sé ad ogni costo, diceva, ma io immaginavo che si comportasse così soltanto per farmi un dispetto, per intralciarmi, ecco. Per questo ho perso le staffe, non perché fossi ubriaco o cose del genere.
Quando si è tirata su ho visto subito che aveva perso del sangue, non molto comunque, così dapprima mi sono sentito quasi umiliato da quella sua specie di messinscena, poi ho compreso che le cose alla fine si erano già messe piuttosto bene, e che in pratica non c'era neanche bisogno di altro. Ma subito dopo ho anche capito che lei stava probabilmente pensando di telefonare al pronto soccorso, ma senza mettermi in mezzo ho lasciato che lo facesse, e sono rimasto semplicemente seduto con la mia birra e i miei pensieri: in fondo era giusto che si facesse vedere nelle sue condizioni, non c'era niente di male in tutto questo. Sei caduta per le scale, le ho detto però a voce alta e con forza, non cercare di dire in giro altre cretinate. Lei tremava e non ha replicato un bel niente, e questo forse non mi è del tutto piaciuto. Non cercare di fregarmi, ho urlato ancora; la colpa di tutto è soltanto tua, e tu lo sai bene.
Quindi sono uscito, ho fatto un giretto da solo, e quando sono tornato lei non c'era già più, o almeno così mi è sembrato. Ho pensato che tutto adesso sarebbe andato al suo posto e che non ci sarebbero stati altri problemi. In fondo ciò che desideravo era soltanto riprendere la mia vita di sempre e finirla una volta per tutte con quelle scemenze. Ma quando ho avuto la sensazione che qualcosa non stava andando per il verso giusto, ho provato improvvisamente paura. Sono tornato ad uscire e mi sono infilato nascosto in un portone buio poco distante. Sono arrivati poco dopo dei piedipiatti, e questo non mi è piaciuto per niente. Adesso mi guardo attorno e ancora non capisco cosa ci sia di male in quello che ho fatto: lei è caduta lungo le scale, io non c'entro per niente, anzi, mi dispiace di ciò che è accaduto; ma domani penso che potrò andare tranquillamente ad un posto di polizia e dirlo ben chiaro tutto questo, senza assolutamente problemi.


Bruno Magnolfi

mercoledì 10 dicembre 2014

Viaggio della rinuncia.

           

Ho quasi paura, fa lui sottovoce proseguendo a guidare. L'altro finge di non averlo sentito. La donna, al fianco del posto di guida, dice che secondo lei devono in ogni caso spingersi in avanti. Fuori dall'abitacolo la notte appare impenetrabile, i fari della macchina rischiarano di fronte a loro una porzione ridicola di asfalto. Perché accade tutto in questo momento, riprende a chiedersi la donna a voce alta; perché mai proprio in questo momento. Nessuno risponde, tanto appare retorica quella domanda.
Alla fine di questo viaggio sicuramente molte cose saranno diverse, dice l'altro. Lui prosegue a guidare, ma dopo pochi minuti dice che forse sarebbe meglio se si fermassero, almeno per qualche minuto. L'altro non perde neppure tempo a chiedere il motivo della sosta, si limita a sbuffare e lascia che poco dopo la loro auto si immetta nella piazzola di un distributore di benzina ormai chiuso. Accanto all’area, sottolineato da un’insegna luminosa, c'è un piccolo autogrill ancora in funzione; la donna fa cenno che potrebbero andare lì e prendersi almeno qualcosa da bere.
Scendono in silenzio, entrano ordinatamente nel piccolo locale e si siedono ad un tavolo. Bene, dice l'altro con ironia, non ci resta che fare una bella chiacchierata come dei buoni amici. Lui non risponde, si limita a guardare da qualche parte con l'aria di chi vorrebbe essere altrove. La donna ordina al cameriere del caffè per tutti, poi spiega che secondo lei non c’è motivo per farsi prendere dai nervi. L’uomo del bar porta quanto ordinato, osserva tutti con aria quasi di sospetto, ma serve le tazze ed il resto senza dire niente. Lui gli chiede quanta strada ci sia ancora prima di giungere in città, e l’uomo dice semplicemente: non molto, senza aggiungere altro.
Quando tornano a salire sull’auto lo fanno un po’ svogliatamente, quasi provando sofferenza. L’altro dice senza mezzi termini che non ha più molta voglia di spingersi ancora in avanti, ma l’autista riprende a guidare quasi non avesse sentito niente. La donna si sistema sopra al sedile come meglio può, e dopo poco chiude gli occhi, proprio mentre una fila di lampioni a bordo strada mostra le facciate delle case di una piccola frazione.
Proseguono ancora in silenzio per circa mezz’ora o poco meno, infine delle forti illuminazioni mostrano già da lontano che stanno per giungere nella città. La donna si scuote, tira fuori dalla borsa alcune cose insieme ad un piccolo foglio con su scritto l’indirizzo dove devono recarsi; l’altro, sui sedili posteriori, appoggia le braccia agli schienali davanti a sé, quasi per essere maggiormente partecipe di quella fase.
Lui rallenta la guida, le strade cittadine si aprono agli inizi nell’interno di una periferia sostanzialmente anonima, ma poi alcuni viali sfociano invece in larghe piazze, alcune anche alberate. Alla fine la strada che cercano si staglia improvvisamente di fronte a loro, quasi in modo magico, così la macchina rallenta, si accosta, e poi va a fermarsi in un parcheggio libero.
Sono arrivati, adesso devono soltanto scendere, suonare il campanello come pattuito, salire le scale e riunirsi con gli altri che probabilmente sono già tutti arrivati: ma un brivido di fatto sembra attraversarli. Il motore e i fari spenti mostrano un vuoto terribile, il silenzio che si forma sembra quasi parlare per loro. Che facciamo, chiede la donna. L’altro la guarda restando in silenzio. Lui alla fine dice soltanto: andiamocene via, riavviando il motore.

Bruno Magnolfi


venerdì 5 dicembre 2014

Luce nuova.

            

L'immagine non è molto nitida. Lei appare raffigurata di fianco, seduta, china sul tavolo illuminato da una lampada fioca; forse sta scrivendo qualcosa, o magari sottolinea una parola o una frase importante che ha appena finito di leggere. A dire il vero, quella che tiene nella mano destra potrebbe addirittura essere una matita, e lei potrebbe tentare, come altre volte ha fatto, di dare forma ad un disegno che in seguito magari completerà con dei piccoli pennelli e dei colori. Probabilmente, da quello che si riesce a vedere, anche il resto della stanza in cui è immersa in quella penombra è essenziale, proprio come la sua figura, persino priva di inutili elementi di decoro.
Ora, si sa che spesso lei scende le scale del suo appartamento, e certe volte va a trascorrere un'ora nella saletta di un caffè lì vicino, insieme ad una sua amica. Oggi le ha raccontato di un sogno, giusto poco prima, quando si sono viste in quel locale; un sogno di molti anni addietro, ma che lei non ha mai dimenticato, quasi come fosse una cosa preziosa, da conservare.
Spesso lei scrive o disegna i fatti che cerca di tenere a memoria, perché la sua vera paura è che tutto di sé all’improvviso svanisca, evapori, proprio come fosse qualcosa che praticamente non  è mai accaduto. Però è anche vero che molto spesso le sue descrizioni le prendono un po’ la mano, e nello stesso momento in cui le sue parole finiscono sopra la carta, ecco che qualcosa inizia magicamente a cambiare, come se una nuova realtà stesse cercando di sovrapporsi a quell’altra.
Lei in questi casi sorride, prosegue comunque con il suo intento, forse aggiunge anche dei disegni alle sue frasi, tanto per cercare di essere ancora più esplicativa, ma spesso quella fedeltà con la memoria che lei vorrebbe tanto, sembra subdolamente annullarsi, lasciando variare direttamente in lei stessa, poco per volta ma sensibilmente, proprio quei suoi ricordi.
La sua amica leggendo quella pagina di diario che riguarda il suo sogno, le ha detto che qualcosa sembra diverso rispetto al racconto che ne ha fatto a voce, e lei si è come risentita, innervosendosi, tanto da voler cambiare argomento: forse non dovevo proprio parlarti di queste cose, le ha detto secca. Ma quando poi è tornata da sola nel suo appartamento, non ha potuto fare a meno di ripensare a quanto era successo.
Un sogno è qualcosa che appartiene alla tua intimità più profonda, ha pensato. Non se ne può cambiare il senso soltanto perché le parole mal si adattano alla sua descrizione. Chi possiamo mai essere, se non proprio le cose che abbiamo dentro, ciò che più fortemente di tutto il resto abbiamo pensato, desiderato, sperato, tanto da renderle figurate e illuminanti persino durante il nostro sonno, quando la nostra mente è del tutto autonoma.
Poi ha ripreso la sua posizione seduta davanti a quel tavolo: alcune carte davanti, il libro iniziato, la matita, gli utensili di ogni giorno per cercare di essere maggiormente se stessa. Ha tracciato un percorso, una linea contorta e complessa la cui decifrazione forse non riesce a portare la mente da alcuna parte. Ed infine è rimasta così, perplessa, piena di dubbi.
Poi la sua immagine si è fatta più chiara; maggiore luce è come arrivata dalla finestra, il bianco dei fogli ha mostrato ciò che c’era ancora da fare, lei si è scossa, ha ripreso il lavoro iniziato, ha ripensato a quanto aveva cercato di fare fino ad allora, ed infine si è soffermata di nuovo sul suo vecchio sogno: ma ha deciso in un attimo che forse adesso non aveva più alcuna importanza, c’era altro che urgeva, così si è alzata dalla sua sedia ed ha sorriso alla luce.  

Bruno Magnolfi



martedì 2 dicembre 2014

Vertigine momentanea.



Si rannicchia sullo scomodo sedile di quel treno locale, Tonio, ed osserva, senza farsene accorgere, una ragazza sola in fondo al vagone che è salita proprio all’ultimo momento prima della partenza. Non è da molto tempo che la mamma quelle due volte a settimana gli lascia raggiungere il Centro Sanitario senza che nessuno lo accompagni, anche se lei al pomeriggio lo aspetta sempre nella piccola stazione quando torna. Ma lui non ha paura, si sente bene, e quella mezz’ora sul treno tutto sommato gli piace, anche perché in molti lo conoscono e lo salutano sempre.
Non guarda mai fuori dai finestrini, questo è vero, la velocità gli mette sempre una grande apprensione, però dentro al vagone ci sta bene, riesce a trovare quasi sempre delle persone simpatiche che parlano con lui, gli battono una mano sulla spalla, si fanno raccontare tutto quello che fa e che gli passa per la testa. Ma oggi purtroppo non c’è molta gente su quel treno, lui si è sistemato su un sedile vuoto e ad un tratto ha sentito come un brivido, quasi provasse improvvisamente il bisogno di avere la sua mamma vicino, proprio come quando era più piccolo.
Sei proprio un bel ragazzone, gli dicono sempre tutti quanti quando lo incontrano, e Tonio però sa di avere quasi trent’anni, e che quella è l’età giusta per andare da solo fin dove gli pare; ma qualche volta, proprio come adesso, non si sente perfettamente a suo agio, e senza avere intorno almeno qualcuno che conosce, sente di non starci molto bene in giro, persino su quel treno che gli piace. Così guarda di nuovo quella bella ragazza, laggiù in fondo, e forse vorrebbe averla conosciuta precedentemente, averla almeno già vista là sopra, gli piacerebbe magari fosse una di quelle tante persone che a volte gli sorridono, che lo chiamano per nome, che lo salutano con allegria; ma non è così.
Si rannicchia di più, stringe i ginocchi magri con le sue braccia, la ragazza lo nota magari per un momento, ma poi torna con indifferenza a guardare fuori dai finestrini. Sono qui, vorrebbe dirle Tonio: forse potremmo avvicinarci un po’ tra noi, pensa, sorridere insieme, parlare magari di questo viaggio; e forse anche di come si trascorrono le giornate, queste giornate spesso piene di gente e di chiacchiere, e di domande a cui dobbiamo rispondere, e di compiti a cui bisogna far fronte. Si potrebbe diventare amici, magari, scambiarsi i nostri nomi, stringersi la mano come si fa in tutti questi casi. Ma lei non lo guarda, e lui forse adesso inizia a stare male.
Si volta verso il finestrino allora, ma per non vedere tutta quella velocità del paesaggio che fugge, si mette subito una mano sopra gli occhi. Neppure il controllore passa in questa strana giornata, pensa Tonio: sono solo, forse neppure la mamma sarà alla stazione ad aspettarmi. Improvvisamente lui sente che non gli importa più di niente, forse neanche di scendere a quella stazione: vuole soltanto dormire, ecco; sdraiarsi alla meglio sopra al sedile e lasciare che il treno lo porti fin dove vuole, senza lasciare a lui di preoccuparsi più di niente.
Qualcosa sta succedendo, pensa Tonio, non posso farci nulla, le cose accadono senza che nessuno possa interromperle. Sente anche la voglia di piangere, senza che ci sia un vero motivo per farlo. Toglie la mano dagli occhi, guarda per un attimo quella campagna e quelle case che corrono, nel mezzo del niente, che vanno chissà dove, e prova una sottile vertigine. Poi si fa prendere del tutto da quel panorama, si incolla al finestrino, osserva le colline lontane, pensa alle persone ferme che magari vedono il treno passare, e lui dentro, dietro quel vetro.
Tonio prova un grande malessere, forse vorrebbe che tutto improvvisamente si fermasse, desidera fortemente essere già a casa, con la sua mamma, oppure addirittura tornare al Centro, e ricominciare a parlare ancora con il dottore, riflettere meglio sulle sue domande, provare a dargli delle risposte ancora migliori di quello che ha sempre fatto. Poi si gira, torna di nuovo a rannicchiarsi sopra al sedile. Ma neppure la ragazza laggiù è più al suo posto, non c’è, si è spostata, forse è andata via: no, non se n’era neppure accorto, ma lei adesso è li, accanto a lui, proprio vicino, e adesso lo guarda e gli sorride, gli dice di stare tranquillo, e che va tutto bene, e che la prossima fermata sarà proprio la nostra, gli spiega; potremo scendere assieme, gli dice, e ritrovare in un attimo la mamma.


Bruno Magnolfi

venerdì 28 novembre 2014

Adattamenti.

            

In quel quartiere, oltre la piazza con gli alberi e le panchine tra le aiuole, non c'è proprio nient’altro, se non quelle file di case intorno, a due o tre piani, quasi tutte simili, in certi casi con un minuto giardinetto sul davanti. Luciana va a sedersi quasi ogni giorno sopra una di quelle panchine; si porta il libro, legge qualche pagina, si guarda attorno certe volte, e se trova qualcuno che conosce scambia volentieri anche due chiacchiere.
Ha abitato da sempre in quella zona, ed ha visto tanta gente arrivare fino lì, ed anche andarsene; e pure botteghe e negozietti che sono stati aperti e che ora non ci sono più. Ma lei rimane seduta, con le sue maniere, le sue abitudini; e certe volte si chiede cosa mai farebbe se non ci fossero quelle case, quegli alberi, le aiuole e le panchine, tutto quel semplice arredamento di quartiere, quegli oggetti quasi suoi, e anche di tutti, naturalmente, ma che lei conosce così bene. 
Avrebbe tanto voluto che le autorità avessero sistemato un monumento in quella piazza, qualcosa proprio al centro, tra quei pochi alberi, e che abbellisse tutto quanto dandogli importanza. Ne aveva anche parlato con qualcuno, Luciana, con quegli anziani che frequentano le panchine insieme a lei quando il tempo è bello, e parlandone si era convinta che le sarebbe tanto piaciuto un grande oggetto che raffigurasse la perseveranza, come se la resistenza alla modernizzazione e ai cambiamenti di tutto quel quartiere, fosse un elemento da riconoscere, e forse da simboleggiare. Si, si, avevano detto tutti, e lei si era sentita sempre più convinta di quella scelta, tanto quasi da aspettare che da un giorno all'altro iniziassero i lavori.
Invece non è mai successo niente in quegli anni, e tutto alla fine è rimasto esattamente nella medesima maniera. Ma Luciana ha iniziato a pensare un po’ per volta che quella mancanza di cambiamenti fosse essa stessa un monumento: non c’è bisogno di far risaltare quanto rimane costantemente uguale in questa zona, ha detto già a qualcuno dei suoi conoscenti. Queste aiuole, questi alberi che invecchiano, sono loro un vero monumento; le case, i marciapiedi, la forma della piazza, tutto quanto ciò che prosegue a conservare l’identità del luogo, proprio il suo spirito.
Qualcuno le ha anche dato ragione, tanto per farla più contenta, ma altri hanno alzato le spalle, e in due o tre le hanno voluto spiegare che quel quartiere non aveva proprio niente per cui essere invidiato. Luciana se n’è risentita, perché a lei pare quasi impossibile che si possa pensare cose di quel genere. Così è tornata a casa, si è chiusa dentro, e provando una malcelata stizza, ha deciso di non frequentare almeno per qualche giorno quelle panchine della piazza.
Poi non ha più resistito, e c’è tornata, però muovendo i piedi con lentezza, quasi un po’ svogliatamente. Già da lontano si è accorta che qualcosa era diverso, ma neanche a quel punto si è affrettata. Ha atteso, conservando lo sguardo sul verde delle aiuole, di vedere bene coi suoi occhi quanto era accaduto. Un albero, di quelli più grossi, forse malato e pericolante, in quei pochi giorni era stato abbattuto e rimosso dai giardinieri, fino a lasciare al suo posto un vuoto che improvvisamente a lei è parso quasi terribile. Luciana allora si è seduta sopra la sua solita panchina, è rimasta immobile e pensierosa per qualche minuto, ma poi ha estratto dalla borsa il suo libro, lo ha aperto, ed ha iniziato a leggere. Succede, ha detto più tardi ad un conoscente che passando davanti le ha fatto notare quanto era capitato.

Bruno Magnolfi


martedì 25 novembre 2014

Respirare profondamente.

            
La tosse mi lascia senza fiato. Camminando sul marciapiede, certe volte mi trovo a sbandare da un lato all’altro, tanto mi sento disabilitato. Ma non è solo quello: è che ogni giorno scopro di non trovare più dentro di me l’entusiasmo che avevo un tempo e che servirebbe adesso per tirare avanti con tutte queste piccole cose che vorrei affrontare. La mia alimentazione è forse eccessiva e disordinata, spesso ho male allo stomaco, e poi a furia di tossire sento dei dolori sotto ai polmoni ed anche alla schiena.
Sulla metro incontro un tizio che conosco di vista e che mi dice delle cose senza chiedermi niente. Sorrido; bravo, penso dentro di me: non dobbiamo far la fine di chi sta sempre ad annoiare tutti a morte con domande banali ed altre cose del genere. Scendo ad una fermata, a un certo punto, una qualsiasi, anche se non è la mia, pur di liberarmi di questo scocciatore: ho anche voglia di camminare, di svagarmi, però nell’aria serale quasi subito mi riprende la tosse. Qualcuno mi guarda come se avessi una malattia contagiosa. Qualche volta ho pensato di portare con me un fazzoletto macchiato di rosso, tanto per vedere quale faccia farebbero gli altri sopra i mezzi pubblici o negli uffici aperti alla gente.
Sto male, questo è il punto di sostanza. Male perché non riesco ad essere come vorrei, fare le cose che devo, affrontare quello su cui ho riflettuto per tanto tempo. Vivo soltanto un blando surrogato di ciò che mi immagino, ed ogni giorno mi accorgo che tutti vanno avanti, si spingono in fuori, raggiungono dei risultati e degli obiettivi che si erano prefissati, lasciando me sempre più indietro. Forse lo merito quanto sta accadendo, penso; probabilmente avrei dovuto fare scelte molto più radicali qualche anno fa. Però non ero pronto, mi dico; ho avuto bisogno di tutto questo tempo per riuscire a comprendere che cos'era davvero importante per la mia persona.
Mi siedo sopra una panchina, lascio scivolare nella bocca l'ennesima caramella calmante per l’infiammazione delle vie orali, poi scendo di nuovo nella metro per andarmene a casa. Chissà come vanno queste cose, penso; poi all’improvviso ritrovo lo stesso tizio di poco prima, e rifletto subito che adesso tocca a me stare a parlargli, sta a me dire qualcosa, ed è così che lo affronto subito nella ricerca di spiegargli almeno la maggior parte di tutti i miei problemi. Quello mi ascolta sorpreso per lunghi minuti, quindi inizia a guardarmi con attenzione, ma sempre più allibito. Alla fine mi riprende un attacco di tosse senza che possa neppure farci niente: quello si allontana da me, e senza neppure salutarmi alla fine scende ad una fermata, forse neppure la sua.
Attorno mi guardano: quello che ho detto non è passato affatto inosservato; forse c’è addirittura qualcuno che si ritrova in quello che ho cercato di spiegare. Alcuni scendono, altri passando davanti a me mi salutano. Uno poi mi stringe la mano: le porgo tutta la mia solidarietà, mi dice; poi se ne va. Alla fine riprendo a tossire, e quando scendo non mi accorgo quasi di niente. Devo andare dal medico, penso, non posso più continuare in questa maniera. Ma fuori dalla metro adesso l’aria improvvisamente mi sembra più fresca, così la inspiro a pieni polmoni, mi guardo attorno, sento che qualcosa in qualche maniera si sta come assestando dentro di me. Va molto meglio, penso; in fondo ci voleva ben poco.


Bruno Magnolfi

lunedì 24 novembre 2014

Convinta interpretazione.

        

Mi sento sereno, dice il secondo mentre tutt’e due camminano velocemente verso la barca. Il piccolo molo ricoperto di legno marino scricchiola leggermente mentre raggiungono l’attracco giusto; la giornata è bella, c’è calma di vento. Il primo procede in silenzio, poi sale in barca, l’altro lo segue, lui accende il motore, molla l'ormeggio. C'è una debolissima onda lunga mentre si allontanano dal piccolo porto, che assieme al ronzio del motore sembra calmare i pensieri e rendere tutto più facile. Solcano senza fretta un paio di miglia di mare, prendono le mire su alcuni punti fermi che ancora si vedono a terra, poi dopo circa mezz'ora riescono a triangolare sul giusto braccio di mare, quello precedentemente deciso. Calano l’ancora, e poco dopo anche le lenze, pur restando quasi in un religioso silenzio, scambiandosi appena qualche gesto, ed infine, mentre lo scafo ha finito di posizionarsi con la prua contro quella leggera bava di vento, loro due si mettono seduti e in attesa.
Si dicono ancora qualcosa sulla bella giornata, poi il secondo, dopo un altro lasso di tempo, avverte una vibrazione, ed il primo lo incita a stare calmo e ad avere pazienza. Alla fine il pesce sembra tornargli all'attacco dell'esca, ed il secondo gli assesta un leggero strattone, quindi tira su recuperando con calma la lenza e tenendo sapientemente il filo in tensione.
Loro due vanno avanti ancora per un paio d'ore in questa maniera, ed in tutto tirano fuori dall’acqua appena cinque o sei tra spigole e orate, tutte di taglio piuttosto piccolo, quindi decidono che non è la giornata giusta, ne hanno abbastanza e che forse è ora di rientrare. Si è messo un po' più di vento adesso, la barca si muove su qualche onda più alta. Il primo, mentre passano sullo specchio di mare davanti al molo, dice che tutto sommato si è stufato di giornate come quella, il secondo annuisce, anche se sembra aver conservato ancora qualche entusiasmo rispetto all'altro.
Ormeggiano al solito attracco, spengono il motore e controllano che tutto sia a posto, poi mettono i piedi sul molo. Il primo dice al secondo di prendersi lui quel poco di pesce che hanno pescato, l’altro annuisce, quindi si separano al parcheggio nei pressi delle auto, e se ne vanno ognuno per conto proprio.
Qualcuno li ha seguiti, sin dal momento in cui sono usciti in mare, osservandoli con attenzione mediante anche un grosso binocolo, ed adesso che sono rientrati si è segnato sopra un quaderno gli orari e tutto quanto ha potuto esaminare, quasi come fossero quelli degli appunti preziosi. Qualsiasi cosa si può analizzare, pensa adesso. Ogni più piccolo dettaglio risulta sempre scomponibile in altri elementi più piccoli, fino a perdersi in risultati che presumibilmente non riescono neanche più a tenere conto di un’intera vicenda.
Poi si alza dalla sedia accanto alla vetrata su cui è stato seduto fino ad allora, mette via i suoi appunti, ed infine esce dalla saletta del locale dove è rimasto per tutto il tempo. Camminando riflette che la realtà è qualcosa che non sta per forza dentro alle cose che si riescono a vedere, quanto negli interstizi, nella maniera come si strutturano gli eventi, pur essendo qualche volta minuti ed ininfluenti come quelli a cui ha appena assistito.
Scriverà un articolo su quella semplice battuta di pesca, pensa ancora; ed analizzando quello che ha visto giungerà forse a capire e a spiegare i motivi per cui il primo ed il secondo pescatore probabilmente non usciranno più insieme per mare. Ma quello a cui si dovrà arrendere è il fatto che nella sua ricostruzione metterà per forza anche qualcosa di sé, della sua interiore maniera di concepire tutte le cose, e magari starà forse proprio in questo aspetto il tratto più convincente.


Bruno Magnolfi

venerdì 21 novembre 2014

Collezione di banalità.



Lei è sempre molto attenta verso ciò che indossa. Soprattutto non le piace passare del tutto inosservata, anche se non cerca mai di porsi troppo al centro dell’attenzione. Difficilmente, anche con i colleghi di lavoro o con le amiche, inizia a parlare per prima se proprio non ne sente l’assoluta necessità: attende sempre che qualcuno le rivolga sufficiente considerazione, che le venga posta una domanda, un quesito anche in forma indiretta, o che sia richiesto il suo parere su qualcosa.
Lui appare sempre sicuro di sé, anche se a conoscerlo meglio si capisce come nasconda sotto la scorza molti e forti dubbi, che peraltro cerca costantemente di dissipare con il suo sguardo distante, spesso rivolto soltanto verso un altrove vuoto ed insipido. Fa le cose che fanno tutti, in fondo, parla di quello di cui parlano gli altri, ma tende costantemente a mostrarsi superiore su ogni argomento, come se il suo vero pensiero fosse per qualche motivo già ben oltre quanto tutti continuano a discutere.
Insieme si sentono fortemente una coppia, anche se non sempre tra loro si dicono tutto. Anzi, proprio nella continua ricerca di essere leggermente diversi dagli altri, trattengono dentro se stessi gli elementi maggiormente evidenti, dandoli cioè per scontati, affrontando spesso con grande profondità argomenti di fatto superficiali. Quando poi capita loro di separarsi per accudire ognuno le proprie faccende, niente dell’individuale equilibrio che mostrano insieme pare stia in qualche modo cambiando di stato, come se nulla dei loro atteggiamenti o delle loro personalità subisse un qualche contraccolpo per una semplice cosa del genere. Fingono cioè di rimanere integri, come fossero davvero degli individui integri. In realtà non riescono neppure a stare bene quando sono  soli, e appena si sentono davvero così, provano costantemente la necessità di ritrovare in fretta quel sostegno che riescono a scambiarsi soltanto quando stanno insieme.
Lei certe volte dice: sei uno su cui non si  può fare affidamento; pedante, contraddittorio, non hai neppure uno scopo vero in quello che fai. Lui sorride, gli pare che queste cose dette da lei siano più rivolte a se stessa che ad altri, così non contraccambia alcun giudizio e neppure si difende, abbassa la testa, lascia in qualche maniera che tutto faccia il suo corso. Poi lei si calma, lo guarda, sa che per certi versi si assomigliano, ma la sua bocca non lo dirà mai, e così, anche solo mentalmente, prosegue su di lui a disegnare e a ricamargli addosso i propri personali difetti.
A lui non piace essere denigrato, perciò attende il momento opportuno per dirle che sta sbagliando sul suo conto, ma lo fa debolmente, senza grande convinzione, così lei se ne accorge e lo critica anche per questo. Forse lei lo vorrebbe maggiormente forte, convinto delle sue cose, per questo sospira nella sottolineatura di ciò che potrebbe essere e che invece non è. Lui non si lamenta quasi mai, però sente dentro di sé che sarebbe bello se lei fosse diversa: sentirla più vicina, forse addirittura più complice, anche se non vorrebbe mai fosse appiccicosa, cosa della quale scherzando a volte la rimprovera, anche soltanto per farla sentire in una veste che invece non ha.
Insieme si incontrano ogni tanto con i loro amici, e nessuno di questi si sognerebbe mai di prenderli in giro per i loro atteggiamenti: si vede benissimo che sono compressi, vagamente tesi, pronti sempre a difendersi a vicenda, di fatto difendendo solamente ognuno se stesso. Sono brave persone, dicono quasi tutti: si vede che si vogliono bene.


Bruno Magnolfi

martedì 18 novembre 2014

Diversi nemici.

            

Qua attorno ci sono sicuramente i nemici, dei pazzi assassini, dice lui sottovoce parlando tra sé, mentre affila il viso strabuzzando leggermente i suoi occhi, quasi a mostrare la maschera proprio di coloro che teme. Magari quelli mi osservano nell'ombra, senza essere visti, ed aspettano soltanto il momento migliore per colpirmi alle spalle. Non ho paura, dice ancora con convinzione, con voce adesso più forte, perché ho la piena consapevolezza che tutti quanti non siano altro che dei semplici vigliacchi, e non appena saprò dimostrare che riesco a tener testa alle loro stupide azioni, fuggiranno tutti a gambe levate per tornarsene diritti da dove sono venuti.
Mettendosi ad osservarlo, lo si può notare muoversi nervosamente lungo il corridoio, in genere restando sempre lontano dalla finestra sul fondo, come fosse quella la fonte dei pericoli, e quando passa davanti al piccolo specchio appeso sul muro, si capisce che evita persino di guardarsi, proprio perché sa che là dentro, in tutte le immagini riflesse, si possono annidare proprio alcuni degli elementi che lui cerca il più possibile di evitare.
Sto benissimo, dice subito ad un anziano vicino di casa le poche volte che quello va da lui per sincerarsi sulle sue condizioni. So difendermi, sostiene, ed ho intenzione di guardare dritto in faccia chiunque arrivi fin qui ad affrontarmi. L'unico problema sono questi angoli oscuri, gli anfratti, i nascondigli  insidiosi che tengono celati alla vista i veri pericoli infidi, i nemici, gli individui assetati di sangue.
Prima di aprire la porta di casa all’inquilino che abita al suo stesso pianerottolo, e che ormai è l’unico ad andarlo a trovare, mette sempre in opera mille stratagemmi, cercando dapprima di capire se sia davvero la persona che conosce quella che gli bussa alla porta, e poi se per caso non sia accompagnato da qualcun altro; e quando infine lo lascia entrare, si vede senz’altro che non ne è del tutto contento.
Per prudenza o circospezione lo tiene in piedi nel corridoio, in quei pochi metri quadrati dove lui stesso trascorre la maggior parte del tempo. Ho avvertito anche stamani i sottili rumori che provocano gli assassini, gli dice. Strisciano chissà dove, cercano di entrare dalle finestre, magari di farsi largo tra la gente comune per cercare la vittima giusta. Ma io lo so che sono loro il vero nemico, dobbiamo fronteggiarli con tutte le forze che abbiamo. 
Il vicino lo ascolta, poi gli rivolge delle domande banali, e alla fine va via, raccomandandogli come sempre di bussare alla porta, nel caso avesse bisogno di qualcosa. Lui chiude subito l’uscio alle sue spalle, poi controlla con attenzione ogni angolo della cucina e della camera da letto, prima di tornare nel corridoio. Resta fermo in ascolto per qualche minuto, nel caso avvertisse dei rumori sospetti, poi alla fine si siede sull’unica seggiola.
Lo specchio è ancora al suo posto: lui è quasi tentato di girarlo dalla parte del muro, pur di non doverlo più neanche vedere, ma darebbe così la possibilità a tutte le immagini contenute là dentro di nascondersi comodamente alla vista. Così lo copre, semplicemente, mettendoci un asciugamano sopra e quindi girandolo tutto attorno alla cornice. Poi aspira l’aria con maggiore soddisfazione. Nessuno uscirà da là dentro almeno stasera, dice tra sé; devo riuscire a tamponare le possibilità del nemico, sbarrargli la strada, rendergli impossibile qualsiasi comportamento. Solo così sarò sicuro di non avergliela mai data vinta.


Bruno Magnolfi

domenica 16 novembre 2014

Parole senza spessore.

            
            Mario è un uomo. Se gli guardi le mani ti accorgi che non le tiene quasi mai a riposo, e che il suo sguardo è vigile, sempre sulla difensiva, pronto a schivare eventuali attacchi della quotidianità. Puoi anche seguirlo nei suoi innumerevoli giri che compie mentre affronta tante strade diverse, anche se alla fine frequenta sempre i medesimi luoghi, ed accorgerti poco per volta che la sua evidente insicurezza sembra contrarsi o distendersi proprio a seconda dei mutamenti che sopraggiungono nei suoi itinerari.
            Qualche volta entra dentro un noto caffè, Mario, un affollato locale del centro: là dentro si fa accompagnare sempre da una certa signora; normalmente loro due si siedono, si lasciano servire del tè oppure degli aperitivi, e parlano in genere delle proprie difficoltà, e di quello che forse per ognuno di loro sarebbe più giusto da fare, anche se poi generalmente mai niente cambia nei comportamenti che hanno adottato in funzione di tutto il resto che li circonda. Quando escono da quel luogo comunque, appaiono sempre abbastanza soddisfatti, anche se è evidente come non siano riusciti una volta di più a prendere alcuna decisione importante.
            Mentre passeggiano in attesa dell’ora di rientrare, lei certe volte gli dice: Mario, dobbiamo essere maggiormente realisti, comprendere che le cose sono in una certa maniera, e con tutto l’impegno che possiamo impiegarci, non riusciremo certo noi a farle cambiare. Lui scuote la testa, non la guarda neppure, dice soltanto che non è proprio certo con questo spirito che si possono affrontare le avversità. Poi però riconosce che lei forse ha ragione, e che probabilmente è giusto essere più concreti e guardare tutto con maggiore obiettivo distacco.
            A lui piace spingersi a volte fino alla sponda sinistra del fiume, restare appoggiato alla spalletta lungo la strada per osservare l’acqua che scorre sotto il suo ponte preferito, illuminato alla sera da luci calde e giallastre sul fiume grigio e scuro come l’inchiostro, per poi ritornarsene sui suoi passi rinfrancato da quelle immagini così rassicuranti e complete. A Mario piace la solitudine, sostanzialmente, anche se in certi casi si ferma a parlare con qualcuno che passeggia proprio come lui, senza avere mai una meta precisa.
            Non tutto è perduto, dice Mario allora con un sorriso: possiamo ancora impegnarci e tenere in pugno le cose; l’altro non gli risponde, non c’è alcuna necessità di parole a fronte di quei pensieri che vagano dentro la testa. E’ sufficiente lasciarsi un saluto, un gesto qualsiasi che definisca una stessa veduta, forse addirittura una momentanea complicità, quasi una stessa maniera di immaginare come saranno le cose domani, sempre che avvenga un cambiamento apprezzabile.
            Rientrare è sempre un dolore: qualcosa si è concluso ormai anche stasera, pensa Mario; però ho molte speranze per la giornata di domani, riflette; qualcosa dovrà pur accadere, e certamente saprò tener testa a quanto si presenterà come nuovo, insieme a tutto ciò che avrà il noto sapore di vecchio. Non ci sarà nemmeno troppo da preoccuparsi, dice tra sé: tutto quanto potrà mai avvenire, sarà sempre qualcosa che avevo già immaginato, qualcosa di cui ero quasi in attesa, proprio come se ogni possibile variazione possa soltanto restare all’interno di un quadro finito, completo di ogni particolare, appeso al muro, incorniciato da tutte le nostre insignificanti parole.


            Bruno Magnolfi    

venerdì 14 novembre 2014

Luci della città.

           

Ci sono dei giorni in cui camminando per strada ho notato con la coda degli occhi alcune piccole luci intorno al mio campo visivo, e di queste presenze in me si è spesso manifestato tutto lo stupore che potevo provare, accompagnato dalla mia assoluta attenzione. Poi però certe volte quelle luci si spengono, anche se in genere soltanto poco per volta, e peraltro non lasciano mai dietro di loro delle tracce visibili. Quando ci sono, se fingo di non guardarle, quelle insistono a brillare ed a muoversi nervosamente da qualche parte, magari sul margine delle mie percezioni, spesso in una allocazione della quale, anche riflettendoci, non saprei definire bene neppure direzione e distanza. Ma in questi casi allora tolgo gli occhiali con stizza, e spesso in questa maniera qualsiasi loro riflesso si annulla, ed è cosi che la serata appare improvvisamente più calma, serena, quasi noiosa per certi versi, senza più alcuna distrazione rispetto alla mia voglia di camminare e di curiosare lungo le strade di questo quartiere.
Ho chiesto ad un amico, una sera per caso a passeggio con me, che cosa riuscisse a vedere in mezzo a degli alberi scuri di un giardinetto che avevamo di fronte, vicino ad un palazzo in fondo alla strada, e lui mi ha garantito che non notava niente di strano, e che i miei nervi probabilmente erano forse sovraeccitati, o magari che avevo bevuto un po’ troppo. Probabilmente aveva pure ragione, penso adesso, anche se non mi è piaciuta la risata con cui ha accompagnato le sue parole, perché per me è come se quelle luci fossero vive, tanto che se ogni volta non mostro con determinatezza di averle notate, quelle sembra quasi che riescano a correre subito da qualche altra parte, nascondendosi rapidamente alla mia vista, magari comportandosi così soltanto per farmi un vero e proprio dispetto.
Il mio amico, in seguito, mostrando maggiore serietà, mi ha detto di non preoccuparmi, e che tutte le cose col tempo in qualche maniera si aggiusteranno, ma al contrario di lui a me pare che i miei problemi ultimamente tendano quasi costantemente ad aumentare. Ogni sera affronto la mia solita girata digestiva dopo l'ora di cena; l’itinerario che compio è addirittura quasi sempre il medesimo: ed ecco che alcune di quelle luci si fanno avanti e paiono di nuovo inseguirmi, anzi, addirittura precedermi. Se poi le guardo fisse quelle spariscono, si vanno a nascondere chissà dove. Ma se cerco di preoccuparmi di altro, ecco che quelle mi inseguono, si infiltrano nelle lenti dei miei occhiali, reclamano in qualche modo tutta la mia possibile attenzione.
Allora inizio a correre, vorrei sfuggire alle loro lusinghe, così svolto in un angolo, entro dentro la nicchia di un oscuro portone, mi volto a cercarle e loro eccole lì, quasi si burlassero di me. Le ignoro, per qualche altra decina di metri, ma poi sbuffo, sono stufo, vado verso di loro, cerco di prenderle, mi tuffo a capofitto in mezzo ad alcuni cespugli lungo il viale. Mi rialzo dopo che sono caduto, ce l'avevo quasi fatta stavolta, penso con convinzione, ed è sicuramente questo il sistema, devo dapprima ignorarle e poi buttarmi su di loro quando meno se lo aspettano, per poi catturarle, riuscire a prenderne almeno una o due direttamente con le mie mani nude, oppure con l’aiuto di un sacco, magari di una busta di plastica.
La mia fronte è sudata, devo calmarmi, penso; forse è meglio per il momento rimandare tutto quanto a domani: verrò da queste parti già ben attrezzato, rifletto; pronto per questo inseguimento che ormai devo per forza affrontare, e non mi farò gabbare stavolta, starò attento ad ogni movimento da fare, e le prenderò, ne sono sicuro, riuscirò a catturarle ed a metterle in gabbia, proprio per mostrare che avevo ragione stavolta, a tutti quanti, anche al mio amico; per convincerlo proprio che insomma, non c’era proprio niente da prendere in giro.


            Bruno Magnolfi

martedì 11 novembre 2014

Niente da fare. 2.

            

La donna percorre tutto il corridoio lasciando leggermente scandire dai tacchi delle scarpe i suoi passi, e guardandosi attorno; l'uomo, con atteggiamento più remissivo, si limita a seguirla. Alla fine c'è una stanza con un cartello che definisce la sala d'attesa, dove al momento non si vede ancora nessuno. I due si siedono, in silenzio. Lei dice subito che secondo il suo parere dovrebbero bussare magari senza insistenza a quell'unica porta chiusa che si apre nella parete di fronte alla loro fila di sedie, e così far presente che sono già arrivati per l’appuntamento, ma l'uomo le dice un po’ sottovoce che probabilmente è meglio restare seduti ed attendere, semplicemente aspettando che vengano chiamati. La donna non replica, anche se non è del tutto convinta, così poco dopo si alza e si avvicina alla porta nel tentativo almeno di decifrare i lievi rumori che si odono giungere a tratti dall'interno, ma poi, raccolta una vecchia rivista da un tavolinetto, torna a sedersi. Vedrai, non ci sarà da aspettare ancora per molto, fa lui. Lei lo guarda per un attimo senza replicare, forse pensa qualcosa di diverso, ma non si esprime.
Poi si sentono dei passi lungo il corridoio, lo stesso che hanno percorso loro due poco prima, quindi dei semplici rumori come di una serratura e di una porta che viene aperta. L'uomo si alza, si affaccia sul corridoio, poi rientra. Non c’è nessuno, dice, quasi con una certa soddisfazione. Poi dice: sei sicura di avere portato con te tutte le carte? Certo, risponde la donna, ho nella borsa tutto quanto quello che serve.
Arriva una signora, chiede con un lieve sorriso se hanno già cominciato a chiamare, la donna le dice di no guardandola fissa e scuotendo leggermente la testa. Meno male, dice la signora mentre si siede di fianco alla coppia, perché sono un poco in ritardo. La donna allora, tirando fuori i suoi incartamenti, le chiede per quale ora le era stato fissato l'appuntamento, l'altra dice le tre e mezza, e l'orologio a parete, presumibilmente preciso, segna quasi le quattro.
Stando così le cose, dice l'uomo, ne avremo per un bel pezzo: noi abbiamo appuntamento per le quattro ed un quarto, ma se non hanno ancora iniziato a chiamare, la faccenda si allunga. Forse bisognerebbe bussare, dice insistendo la donna, ma la signora arrivata da poco la frena, sostenendo che ha già sentito dire che là dentro a volte allentano i tempi con qualche cliente. Ci predisponiamo subito male se arriviamo a mettere fretta alle loro cose, dice con un altro sorriso. Restano così tutti in silenzio per qualche minuto. Ed anche dietro alla porta sembra non ci siano più rumori, mentre l’attesa continua a protrarsi.
Arriva un uomo dal solito corridoio, chiede se sia lì che riceve un certo dottor Bertelli, ma i tre scuotono la testa. Ad essere sinceri, dice la donna, abbiamo un appuntamento, ma non sappiamo esattamente con chi. L’uomo torna sui suoi passi, si sente che sta telefonando a qualcuno lungo il corridoio, usa poche parole, poi alza subito la voce, dice qualcosa sgarbatamente, infine chiude la chiamata e poi se ne va.
I tre rimasti in sala d’attesa adesso si guardano, la donna si alza, va verso la porta, bussa leggermente come per non disturbare, ma da lì non giunge alcuna risposta. Insiste, e alla fine arriva una persona giovane, con l’aria scocciata, dice che oggi non è giornata di ricevimenti, hanno sbagliato la data per l’appuntamento, devono ritelefonare per fissarne una nuova, poi torna a richiudere la porta. I tre non si dicono niente, si muovono sconsolati lungo il corridoio quasi per andarsene, ma ecco che torna l’uomo di prima, passa loro accanto e va ad infilarsi nella sala d’attesa e poi dentro la porta, senza neppure bussare. Dopo un attimo esce: è chiuso, dice loro senza neppure guardarli; per oggi non c’è proprio niente da fare.


Bruno Magnolfi

venerdì 7 novembre 2014

Colpevole.

           

Spesso mi trovo arreso, quasi messo in condizioni di non nuocere. Mi guardo ancora attorno almeno un’altra volta prima di rientrare in casa ed andarmene definitivamente a letto, proprio perché ancora spero di veder giungere qualcuno che pur all'ultimo momento riesca ad arrivare finalmente per gridare che sono salvo, che la mia grazia è firmata, e che infine è stata riconosciuta ufficialmente e da tutti la mia innocenza. Sorrido delle mie illusioni, mi spoglio, mi corico, stringo le braccia nel tentativo di sentirmi meno solo, e attendo il sonno di ogni notte come fosse il solo stato fisico capace di farmi scordare almeno per qualche ora la realtà.
Giro nervosamente per casa, durante il giorno; poi qualcuno suona il campanello. Apro la porta: davanti a me c’è una persona che non ho mai visto, balbetta qualche cosa in merito agli sviluppi energetici, all’evoluzione tecnologica, al tenersi correntemente aggiornati come un dovere di tutti, e non solo per se stessi, dice, ma in funzione semplicemente della collettività. Annuisco, lo faccio entrare. Lui è subito perplesso, forse gli capita di rado che qualcuno gli dica di accomodarsi, che gli offra una sedia, un bicchiere d’acqua, l’ascolto e l’attenzione che probabilmente merita.
Lui parla, io resto in silenzio mentre lo guardo. Infine mi alzo dalla sedia, cerco di spiegargli sinteticamente come si stia ritrovando davanti a sé una vera e propria preda del sistema che tende a neutralizzare qualsiasi pensiero divergente. Lui medita, sembra comprendere qualcosa, fino a mostrare di sentirsi sempre meno a proprio agio. Mi interrompe a un certo punto, dice qualcosa attorno a degli obblighi che sostiene di avere con una compagnia, ma io gli dico a mia volta che non ha alcuna importanza tutto questo, e che lui può divenire fin da subito il formidabile anfitrione della mia causa, quella che assurdamente mi vede colpevole senza quasi alcuna possibilità di appello.
L’uomo va verso la porta, io non lo trattengo, in fondo abbiamo cercato di spiegarci vicendevolmente le nostre ragioni, penso, e che poi ognuno di noi non sia riuscito a convincere l’altro, in fondo è soltanto un dettaglio superficiale, una possibilità anche largamente già prevista. Se ne va con modi sgarbati, ma mentre è ormai lungo le scale dice a voce alta senza guardarmi che forse ciò che mi sta capitando me lo sono addirittura meritato, e questo evidentemente appare subito l’elemento più importante tra tutti gli altri.
Mi metto seduto, una volta solo, e cerco di riflettere a quanto è stato detto. Forse ha ragione, penso, forse davvero ho colpa di qualcosa in tutta la faccenda, anche se non mi sono mai accorto di niente. Perché mai proprio io, penso mentre sento già montarmi la febbre. Forse dovrei ribellarmi a questo stato di cose, che so, magari fuggire, allontanarmi per sempre da questa situazione.
Tornano a suonare il campanello: sono le guardie, immagino, adesso non c'è più altro tempo, comprendo al volo, ed il giudizio finale ormai è stato dato, le mie ragioni sono state del tutto calpestate, ed è sicuro che a rimetterci per tutti sarò soltanto io. Invece è la mia vicina, una signora che abita al mio stesso pianerottolo, dice che ha sentito urlare per le scale, ed adesso vuole soltanto sapere se ci sono per caso dei problemi. Tutto a posto, la rassicuro subito, la realtà è composta solamente di tante piccole sciocchezze alle quali spesso diamo semplicemente uno smisurato credito, le dico. Adesso forse tutto appare contro di me, le spiego ancora; ma probabilmente è appena sufficiente lasciar trascorrere un tempo adeguato, e tutto all' improvviso si sistemerà, proprio come se qualunque mio delitto vero o presunto non si fosse mai verificato. Perché in fondo, le dico con serietà e guardandola negli occhi: io non ho fatto proprio niente.


Bruno Magnolfi

mercoledì 5 novembre 2014

Piatto freddo.

            

Terminato il suo caffè, lei appoggia lentamente la tazza sopra al piattino che ha proseguito a tenere nell'altra mano, prendendo solo una piccola pausa prima di sollevarsi dalla poltrona di stoffa su cui è rimasta seduta per tutto il tempo, e sistemare infine tutto quanto nel piccolo vassoio sul tavolino da fumo alle sue spalle, costringendosi così a lanciare un breve sguardo verso di lui. Forse dovremo uscire stasera, dice l’uomo senza grande convinzione ed evitando anche di guardarla direttamente. Lei torna a voltarsi verso la vetrata sotto la quale, sei piani più in basso, l’incrocio con uno dei più trafficati viali cittadini prosegue a riversare sull’asfalto grandi cortei di automobili generati a getto continuo dai tempi organizzativi dei semafori. Potremo andarcene ad un cinema, continua lui come parlando tra sé. Poi si muove, con indifferenza cambia di nuovo canale al grande schermo televisivo, con il volume azzerato, posizionato in un angolo, apprezzando, come d’altronde è suo uso, il silenzio quasi irreale di quella sala insonorizzata da robusti doppi vetri. Va bene, fa lei senza variare espressione, sai già quale film andare a vedere? No, purtroppo, risponde l’uomo; però potresti scegliere tu qualcosa di buono, dice senza alterare la leggera ironia.
Non so neppure che vestito indossare, fa lei riferendosi alla serata, ma senza parlare troppo sul serio, e peraltro come riflettendo tra sé. Potremo adesso mangiare velocemente qualcosa di freddo qui in casa, dice lui con un improvviso guizzo di sfumato entusiasmo; e una volta usciti dal cinema completare la cena in una tavola calda. Lei allora si alza definitivamente, solleva il vassoio e con calma lo porta in cucina. Quando torna, lui si è seduto ed ha spento definitivamente lo schermo. Potremo andarcene al Principe, dice; così, facendo giusto due passi, evitiamo anche di muovere la macchina dal garage. Va bene, risponde lei; non so che pellicole proiettano stasera, ma in ogni caso qualcosa andrà bene sicuramente.
Lei poi si accende una sigaretta e torna lentamente a sedersi sulla stessa poltrona di prima, lui intanto si alza e va in cucina, e quando torna sostiene che può velocemente preparare dei sandwich al formaggio. No, non mi va, fa lei; preferisco magari dell’affettato, e in ogni caso è ancora presto, mi pare. D’accordo, fa lui. Poi controlla sopra al portatile il titolo dei films in programmazione al multisala, e gli orari delle proiezioni serali. Lei allora si tira su, ascolta l’elenco dei titoli commentando semplicemente che non le sembrano molto incoraggianti, poi torna ad osservare la sera incalzante fuori dalla vetrata.
Considerato tutto potremo cercare un film televisivo, dice lei senza neppure crederci troppo; e così restare in casa senza complicarci l’esistenza. Lui difatti non l’ascolta neppure, torna dopo un attimo ad accendere lo schermo televisivo, e guarda scorrere i titoli di un telegiornale. Va bene, ho capito, le fa: tiro fuori la macchina dal garage e faccio un giro da solo. Trovo una rosticceria e torno con qualcosa di pronto, ti va?
Lei lo guarda, si accende una nuova sigaretta, poi dice: ma non dovevamo andarcene al cinema? Lui allora alza leggermente il volume dello schermo televisivo, giusto per ascoltare con attenzione un servizio giornalistico, poi torna subito però ad azzerare il volume. Lei esce dalla stanza, forse va in bagno, o a scegliere un vestito per uscire, oppure a guardare cosa c’è nel frigorifero. Quando torna sta semplicemente ridendo: ha un grosso pezzo di formaggio in una mano, e lo tiene vicino alla bocca, come volesse azzannarlo. Anche lui sorride, così si muove leggermente restando in piedi, ma infine torna a guardare lo schermo, in silenzio.


Bruno Magnolfi

domenica 2 novembre 2014

Niente da fare.



Lo so che la mia immobilità è senz'altro un problema, un nodo sicuramente da sciogliere, prima o poi. Ogni pomeriggio mi siedo sulla panchina a bordo strada e resto lì, almeno fino a quando posso. Qualche vicino di casa che conosco mi saluta, altri invece non mi guardano neppure. Gli estranei poi non fanno caso a niente, transitano da quella strada come da qualsiasi altra parte, magari mi guardano, quasi senz'altro pensano di me che io sia uno svitato, uno senza cervello, ma la loro riflessione in sostanza dura appena un attimo, praticamente lo stesso tempo esatto della loro occhiata, quindi riprendono come prima facevano ad ignorarmi. Certe volte sorrido mentre passano, oppure cerco di parlare con un personaggio che immagino stia proprio seduto anche lui sulla mia panchina, accanto a me. Gesticolo, gli altri mi guardano, forse hanno pena del mio stato, però mai nessuno di loro mi chiede niente.
Un giorno arriva questa signora, fine, ben vestita, seria direi; dice buongiorno sottovoce e poi si siede. Non è assolutamente una persona con la quale potrei avere qualcosa a che fare, penso, perciò evito di guardarla e anche di risponderle. Lei sicuramente vuole parlarmi ancora dopo il suo saluto, sfoglia una rivista con indifferenza, senz’altro non mi perde d'occhio un attimo anche se cerca di non essere invasiva. Probabilmente fa parte di una di queste associazioni tutte protese verso la gente con qualche problema, penso, e già soltanto questo mi fa praticamente inorridire. Viene spesso da queste parti, mi chiede improvvisamente in modo gentile e pacato, senza guardarmi. Le rispondo appena con un semplice grugnito. Ho capito tutto di te, vorrei subito dirle. Lasciami perdere, non sono il tipo adatto ad entrare tra le tue indagini cittadine, tra le tue stupide statistiche. Lei insiste, dice che conosce un posto lì vicino dove si incontrano tra loro delle persone come me che trovano un grande giovamento dalla frequentazione di quel luogo.
Lascio in aria una buona pausa, infine mi volto verso di lei e la guardo dritto. Non ho grossi problemi, vorrei dirle. So tranquillamente starmene da solo, in genere mi piacciono le cose semplici che non prevedono inserimenti di estranei o anche socializzazioni da dover praticare quasi per forza. Ma invece le dico: va bene, e poi basta; riprendo la mia posizione di prima e aspetto. Di seguito invece mi giro. Lei tira fuori un taccuino usando modi da gran professionista, chiede il mio nome, vuole inserirmi nell’elenco di tutti gli altri, mi dice; vuole semplicemente aiutarmi, venirmi incontro, facilitarmi le cose, rendere gradevole e semplice tutto quanto.
Mi alzo; va bene, dico ancora all’aria, come confermando ciò che ho detto prima. La signora mi guarda, perplessa: io me ne vado senza dire altro. Allora si alza anche lei, mi segue per qualche passo, chiede, per ultimo tentativo, se vengo spesso a questa panchina. Certo, le dico girandomi tutto verso di lei. Questa è la mia panchina, faccio; lei è stata mia ospite fino adesso, non se ne è ancora resa conto? Mi scusi, dice lei, non lo immaginavo. Dicono tutti così, le spiego ancora mentre riprendo la mia camminata, vengono fino qui a scocciarmi senza sapere che questo è il mio posto, e che non sempre qui nei dintorni sono dei veri e propri benvenuti. Va bene, fa lei, però adesso potrebbe venire assieme a me, così magari l'accompagno fino al centro del quale le parlavo prima. Va bene, fo ancora io senza battere ciglio. Con la mano lei mi stringe il braccio, così mi fermo, e senza dire niente vorrebbe forse indicare la direzione verso cui avviarsi. La guardo: vada via, le dico con un sorriso un po’ sarcastico. Non ha più niente da fare con me.

Bruno Magnolfi


martedì 28 ottobre 2014

Lungo il sentiero degli altri.

            

Certe volte il ragazzo avvistando qualcuno che conosce mentre cammina per strada, d'istinto cambia marciapiede, ma soltanto per evitare che quello lo saluti in maniera troppo esuberante, o che addirittura gli chieda qualcosa, magari del suo andamento scolastico, o dei suoi amici, o anche di altre cose del genere. La sua non è vera asocialità, soltanto non gli va di affrontare con estranei argomenti che profondamente sente soltanto suoi. Quando infine va al solito ritrovo dopo la scuola e incontra Nadia insieme agli altri, spesso finge per scherzo di non accorgersi neppure di lei fino quasi all'ultimo, quando ormai è lì, accanto a sé. Come va, le chiede in maniera un po’ impersonale, ma con modi seri, anche se poi le sorride mostrando tutta la complicità che avverte solamente con lei, e di cui lei ha sicuramente coscienza.
Qualcuno ha riferito a sua madre che lui è un tipo strano, ma al ragazzo non importa minimamente del giudizio degli altri. Tira diritto, sa che la sua vita sarà difficile con il suo carattere, per questo quando incontra Nadia cerca di tirare fuori la sua personalità più estroversa. Lui osserva molto tutte le cose che gli scivolano accanto, ma lei gli dice spesso che al contrario pare sempre indifferente a tutto quanto intorno a sé. Non ha alcuna importanza, spiega il ragazzo: le cose bisogna sentirle dentro, dobbiamo essere onesti con le nostre sensazioni, il resto poi va da solo.
Un pomeriggio si allontanano insieme dal solito ritrovo. Nadia racconta di sé, delle sue convinzioni: il ragazzo l’ascolta. Possiamo metterci assieme, le dice dopo un po’, anche se in fondo non sarà questa la cosa essenziale. Lei non comprende, si chiede cosa ci sia dietro a dei discorsi del genere, ma lui le dice che è soltanto questione di mezzi, loro due, l’uno per l’altra, dove in fondo lo scopo vero è semplicemente il futuro che avranno. A lei sembra bastare per il momento, sa che lui forse è il più sincero di tutti dicendo così, anche se vorrebbe sentirsi dire altre cose, forse più usuali, forse però anche meno vere.
Al ritrovo insieme agli amici nessuno ormai fa più caso a Nadia ed al suo ragazzo: i rapporti si sono modificati, ognuno avverte delle importanti variazioni, anche se finge indifferenza: tutti adesso è come se fossero diventati, nel loro teatro del pomeriggio, delle semplici comparse di una scena dove lui e Nadia sono praticamente attori e comprimari. Loro due di fatto quasi non vedono più nient’altro: parlano, si spiegano, hanno la profonda e continua necessità di scambiare tra loro anche i pensieri più inconfessabili. Intorno è proprio come se non ci fosse più niente e nessuno.
Infine qualcosa si rompe, è inevitabile. Nadia si dispera, forse anche lui, anche se non sembra affatto. Non ci sono spiegazioni, si è interrotto un meccanismo fragile, retto solamente su poche cose. Il ragazzo pensa che non poteva essere altrimenti, e prosegue ad attraversare la strada quando avvista qualcuno con cui non vuole parlare. Poi riflette che il suo è forse un atteggiamento troppo omogeneo, quasi integrale nella sua mancanza di elasticità, così ormai privo di qualsiasi modifica. Allora cerca Nadia per riferirle almeno quanto è riuscito a riflettere, ma lei è già volata: i suoi pensieri di fatto sono già dietro un altrove che a lui probabilmente ora sfugge, lungo un sentiero che comunque non è più il suo, e lungo il quale, se anche volesse avviarsi, si sentirebbe soltanto un estraneo. Per questo lascia perdere, anche se sa che la sua è una vera sconfitta.


Bruno Magnolfi

mercoledì 22 ottobre 2014

Esperienze ordinarie.

            
            Entro nel piccolo ufficio, dopo aver atteso quasi un'ora con il foglietto numerato, mi siedo su una delle due seggiole, e con disinvoltura accavallo le gambe mentre mi assicuro, quasi per abitudine, che la mia gonna non mostri troppo. L’impiegato di fronte neppure mi guarda, prosegue a scartabellare qualcosa, anche se dopo un attimo dice buongiorno, saluto al quale naturalmente contraccambio subito risposta. Attendo. Che deve fare, mi fa, dopo un’altra porzione di tempo e ancora senza guardarmi. Protocollare, gli dico posando sopra la scrivania i miei due o tre fogli spillati. Non è questo l’ufficio giusto, mi fa. Poi alza il telefono, parla con il portiere, dice qualcosa nervosamente. Quando abbassa chiedo con gentilezza allarmata maggiori informazioni.
            Dice l’impiegato che, certo, per il mio caso lui può fare eccezione, quasi poi fosse un grande favore, quindi allunga una mano e prende i miei fogli. Senza neppure guardarli ci ripensa e subito si alza; dice: scusi un momento, quindi nervosamente esce con rapidità dalla stanza. Da sola, avrei quasi voglia di mettere all’aria e confondere tutti i suoi fogli ammucchiati sul piano del tavolo, però  mi controllo. Attendo. Quando l’impiegato rientra mi alzo a mia volta, quasi per fargli vedere che in fondo posso fare anche a meno di lui e delle sue sgarbate maniere. Lui invece si siede quasi senza fare caso a tutto il resto, ed inizia col dire che è un tipo preciso, che non gli piacciono le cose fatte in maniera approssimativa, e altre frasi del genere. Dico che ha ragione cercando velatamente di dare una veste ironica a quanto a me sta avvenendo, ma lui tira diritto con convinzione e riprende in mano i miei fogli.
Mi chiede, senza muovere gli occhi da sopra lo schermo che in parte gli copre la faccia, se sia proprio io la persona che sottoscrive quei documenti. Rispondo di si senza aggiungere altro, e forse vorrei mettermi a sbuffare, tanto mi sta pesando la situazione. L’impiegato scrive qualcosa ticchettando sulla tastiera, infine una stampante alle sue spalle si mette in funzione per sfornare un semplice foglio. Lo prende, lo guarda, lo timbra, avvalora la carta con un umile frego.
Ci vuole la marca, mi fa. Non ce l'ho, dico io. Poteva dirlo subito, che lo voleva su carta semplice, dice lui. Mi si arrossano le guance, lui strappa il primo foglio e scrive qualcos'altro con la sua tastiera. Dalla stampante ne viene fuori una carta identica alla prima, e anche questa lui la timbra e ci fa sopra un semplice rigo con la sua penna. Devo pagare? gli dico conservando buone maniere. Certo, fa lui, e mi dice subito quanto. Lascio una pausa. Non ho i soldi, gli dico. L’impiegato adesso mi guarda allibito: sono soltanto pochi spiccioli, sta sicuramente pensando; com’è possibile andare per uffici senza nemmeno lo stretto necessario?
Aspetto accada qualcosa, lui si alza, esce dall’ufficio; poco dopo rientra: prenda questo foglio, mi dice; arrivederci. Intanto ho trovato nella mia borsetta i soldi che mi aveva chiesto, gli dico con noncuranza, e con un semplice gesto faccio tintinnare delle monete sopra al piano del tavolo, mentre raccolgo con calma tutti i miei fogli. Attendo. Lui forse con gli occhi vorrebbe incenerirmi, io mi alzo, dico arrivederci, sistemo la gonna prima di uscire proprio come se stessi abbandonando una toilette pubblica. Infine guadagno il corridoio, ma subito torno indietro e mi riaffaccio un momento alla stanza: grazie, dico; è stato molto gentile.


Bruno Magnolfi