sabato 31 gennaio 2015

Strana coppia.

            

Si sono seduti a tavola, infine, questi nostri amici, mentre io e mia moglie cercavamo di inventarci delle piccole battute di spirito tanto per riempire i vuoti e tentare di rompere quella sottile tensione che nonostante tutto ci sembrava a tratti di avvertire. Vicini di casa, arrivati da poco in città ed almeno apparentemente entusiasti di qualsiasi elemento nuovo da osservare attorno a loro. Per noi invece è sempre stato difficile spiegare il nostro vecchio quartiere, un assodato modo di essere e di vivere composto in mezzo ad un agglomerato di abitazioni tutte simili, con tanto di negozi e di servizi, ed alla fine con poche parole interpretare correttamente lo spirito attraverso il quale far immergere una coppia giovane, come quella davanti a noi, all’interno di una realtà così complessa come questa nostra periferia semi-residenziale,  buffa forse, anche per noi se arrivati a ripensarla così, quasi d’improvviso.
Nel mio lavoro l'importante è la credibilità, dice lei con un atteggiamento vagamente sciocco. Lui invece prosegue a sorridere tenendole la mano quasi ad evitare persino la possibilità di un'improvvisa separazione accidentale, e mostrando contemporaneamente una quasi completa accettazione aprioristica ed incondizionata di tutto quanto la sua donna potrebbe in qualche modo tirar fuori. Mia moglie forse vorrebbe mettere maggiormente a proprio agio queste due persone, penso, se non fosse che loro appaiono già perfettamente a proprio agio, ed il loro aver accettato il nostro invito sembri improvvisamente quasi un favore fatto a noi, piuttosto del contrario.
Resisto interessandomi di cose marginali: un po’ di musica, un bicchierino di liquore, la posizione in cui sedermi, ma di fatto stando con le antenne ben alzate su qualsiasi cosa venga detta o suggerita. Dietro quella specie di maschera iniziale fatta di curiosità, da parte dei nostri dirimpettai, adesso mi pare ci sia quasi un loro disinteresse verso tutto, e in ogni caso rifletto che personalmente preferisco l'onestà piuttosto che qualsiasi affettazione. Chissà quali sono i tuoi interessi, dice mia moglie a lui, tanto per dargli modo di parlare un po' di sé. Lui si schernisce vagamente, poi spiega con parole secche come oltre l’attività lavorativa di informatico per una grossa società, la sua vera vocazione sia la storia antica, quella affascinante, dice, di cui si conosce sostanzialmente ancora poco, e della quale però si fanno molte congetture.
Sono perplesso: maggiormente io e mia moglie andiamo avanti a parlare con i due tizi che ci siedono di fronte, più scopriamo di non riuscire a comprenderne alcunché. Sembra quasi che si installi una sfuggevolezza da parte di ambedue che in ogni caso funziona solo a tratti, lasciando scoperti altri momenti in cui appaiono semplicemente falsi nel parlare di se stessi e delle loro cose. Credo sempre di più che quando saranno andati via non saprò neppure cosa riuscire a pensare di tutta questa visita. Non dobbiamo avere un parere, penso però adesso con forza; non dobbiamo formarci per forza delle opinioni, rifletto; forse è soltanto questo ciò che ci stanno suggerendo loro due. Mi rilasso, probabilmente niente ha più importanza di questo starcene qui a raccontarci qualcosa senza impegno.
Infine vanno via, mia moglie insiste invitandoli a tornare, loro sorridono, non varcheranno mai più questa porta, penso con cattiveria, sono fatti di una pasta molto diversa dalla nostra, si sono annoiati questa sera, volano molto più in alto di me e di mia moglie. Chiudo la porta alle loro spalle, resto in silenzio per un attimo, mia moglie mi allunga un sacchetto di nettezza da andare a gettare nel bidone. Esco sulle scale, loro sono fermi poco più avanti e non mi vedono. Non sapevo cosa dire, dice lei; ero terrorizzata da quelle domande. E’ vero, insiste lui, due persone così strane non ne avevo mai incontrate.


Bruno Magnolfi

lunedì 26 gennaio 2015

Tutto il dovuto.

            
            In una tasca della giacca ho con me un coltello. Un temperino, a dire il vero, una lama di pochi centimetri che si ripiega dentro al manico, però ben affilata, e con la punta estremamente aguzza. Mi sento sicuro quando con indifferenza infilo la mano là dentro e lo ritrovo lì, ogni volta che mi va, tutti i giorni che voglio. Giro per strada, mi fermo alle panchine, magari davanti a qualche negozio, ed il coltello resta ogni volta al proprio posto, posso sentirlo sempre con la punta delle dita. Potrei usarlo, se volessi, estrarlo all’improvviso e spaventare qualcuno; oppure difendermi, mostrare che non sono un pappamolle qualsiasi che ha paura di mostrare ciò che vale.
            Sorrido, avendo bene in mente tutto questo, specialmente quelle volte che vado fino all’ufficio postale, per farmi consegnare i soldi della mia pensione di invalidità. Perché non posso lavorare, ho avuto una brutta malattia, una forte depressione che mi ha lasciato privo di forze, incapace di intraprendere qualsiasi cosa. Così mi metto lì, in fila dietro gli altri, meditando qualcosa di rabbioso che non so proprio dove mi nasca, e non riesco neppure a immaginarmi su chi alla fine debba scaricarlo.
Oggi poi, mi fermo davanti a una vetrina, osservo a lungo qualcosa, resto per un po’ a guardare la mia immagine riflessa, ma ad un certo punto esce il negoziante, e mi chiede con un brutto modo di fare se c’è qualcosa là dentro che magari possa interessarmi. Vorrei dirgli di no, che non mi frega niente né di lui né del suo negozio, ma non gli rispondo nulla, perché mai dovrei rispondergli, penso con completa convinzione. Vorrei fargli un gesto, ecco, qualcosa come per dire: ho capito, me ne vado, ma senza volere così facendo tiro fuori improvvisamente il mio coltello, ed anche se la lama è ancora richiusa nel proprio manico, il gesto probabilmente appare più che eloquente, tanto che quello rientra in fretta e furia dentro la sua bottega. Gli vado dietro per cercare di spiegargli qualcosa, ma quello è già al telefono, sicuramente sta chiamando delle guardie. Torno subito in strada, mi guardo attorno, estraggo la lama quasi con rabbia e tenendo il mio coltello ben saldo nella mano proprio davanti a me, scappo via lungo la strada.
Forse per colpa dell'abitudine, non so, ma quasi per un automatismo, tutto sudato, trafelato e ormai col fiato grosso, mi ritrovo ad entrare dentro al solito ufficio postale dove vado sempre. Registro gli sguardi di tutti su di me, sento intorno anche degli urli, ed immediatamente le persone presenti che vanno a sistemarsi tutte da un parte, anche se a me viene quasi da sorridere. Mi avvicino come ogni volta allo sportello: la mia pensione? faccio all'impiegata cercando di essere ironico. Quella tira subito fuori tutti i soldi che ha nel suo cassetto e me li passa, un bel gruzzolo, devo dire, così li prendo, li caccio in una tasca e con tutta calma esco dall'ufficio.
Sto bene, nella mia mente non c'è niente adesso, mi sono fatto dare soltanto i soldi per vivere, penso, in fondo era un po’ doveroso da parte di tutti. Appena ho potuto il mio coltello l’ho gettato tra i rifiuti, e comunque non credo ci saranno grosse conseguenze per tutta questa storia. Ma per adesso non credo di tornare a casa mia, giro per strada quasi senza meta, guardo tutta la gente che va di fretta e che mi pare adesso sia composta da persone molto più serene di me. Ripenserò con calma a tutto quanto, mi dico, perché credo di aver smarrito qualcosa che adesso non saprei neppure definire. Però sono vivo, questo mi pare l'importante.


Bruno Magnolfi

martedì 20 gennaio 2015

Scopo irrinunciabile.

            

Al piccolo tavolo vicino alla finestra di casa, nell’arco di una giornata qualsiasi, la tendina scostata per guardare qualcosa lungo la strada, lei continua a sorseggiare il suo tè come sempre. Ecco, forse adesso mi sento pronta, pensa mentre uno spicchio di sole illumina la tazza. Probabilmente le cose hanno avuto per me uno svolgimento persino troppo lento; ma non si poteva fare altrimenti, perché in fondo è giusto che ognuno si prenda i propri tempi per lasciar maturare le cose. Bene, adesso dobbiamo uscire di casa, affrontare le novità, incontrare gli altri, pensa ancora parlando tra sé; così indossa un capo d'abbigliamento sufficientemente pesante, e dopo essersi osservata appena un momento davanti allo specchio, scende le scale.
Di fronte alla strada, nel giardinetto della propria abitazione, Federica, la sua amica di sempre, intenta a sistemare qualcosa, la vede e subito la saluta. Lei la raggiunge: come va? le chiede sorridendo. Bene, fa l'altra, sto solo facendo un po’ di pulizia in questi cespugli polverosi. Ho pensato che oggi è una giornata abbastanza particolare, fa lei. Mi sento soddisfatta, in equilibrio con tutto, credo di aver raggiunto finalmente lo stato che ho sempre desiderato. Federica la guarda e non dice niente, probabilmente le sembrano buffe delle affermazioni del genere. Dove stai andando? le fa. Non so, risponde lei; vieni anche tu a farti un giro senza troppo impegno? Perché no, dice Federica che intanto toglie i guanti da giardinaggio; dammi solo un momento, e con ciò rientra in casa. Passa intanto il portalettere in bicicletta e lei lo saluta con una certa allegria.
Sembra tutto normale, pensa ancora lei; quasi un quadretto qualsiasi di vita ordinaria. Invece dentro di me sono riuscita a comprendere soltanto da poco quali siano gli intendimenti più importanti che da ora in poi cercherò di portare avanti. Niente di rivoluzionario, sia certo; si tratta soltanto di elaborare quotidianamente almeno un aspetto che mostri la realtà che mi circonda. Cercherò d’ora in avanti di interpretare le cose, i fatti, gli avvenimenti, ed illustrarne alcuni aspetti collezionando in questo modo tutto ciò che in futuro potrà emergere. Sono convinta, folgorata da quanto ho compreso: sarà assolutamente così.
Arriva Federica, ha indossato anche lei qualcosa di adatto ad una passeggiata invernale, e subito chiede: cosa intendevi con il raggiungimento dell’equilibrio e con la giornata particolare? Niente di troppo interessante, risponde lei. Però dentro di me è forse avvenuto qualcosa, ed adesso è come se sapessi perfettamente come dovranno essere improntate le mie giornate, quello che per me è maggiormente importante da fare, come dovrò comportarmi, ecco. L’altra sorride, sembra quasi scettica, così lei va ancora avanti a dirle che cosa sia riuscita a mettere a punto.
Sembra quasi meraviglioso, dice Federica, ma non credi di poterti stufare di tutto in capo a qualche settimana, e di ritrovarti in breve la stessa di sempre? No, non credo, fa lei. Vedi, da adesso in avanti riuscirò a dare un senso alle mie giornate; il tempo non scorrera più intorno e dentro di me con la sua proverbiale indifferenza. Il mio contributo, pur piccolo, minuscolo, forse addirittura ininfluente, diventerà elemento di ricchezza, un piccolo passo in avanti per me, e quindi per tutti.
Federica non dice niente, sorride, riflette. In fondo è giusto tendere verso uno scopo del genere, pensa; niente è tanto importante quanto essere convinti di ciò che dobbiamo fare, di quel che dobbiamo essere. E’ come se il mondo stesso ci chiedesse continuamente di scoprire questo aspetto dentro di noi, come se questo fosse l'elemento principale, a capo di tutti gli altri. Sono contenta, dice alla fine; e nient'altro.


Bruno Magnolfi

mercoledì 14 gennaio 2015

Oltre la soglia.

            

Dai, non guardarmi in quella maniera, le dico. Lei si volta in silenzio, prende ancora un sorso del suo caffè, poi sembra interessarsi di qualcosa all’interno della borsetta che tiene accanto. Nella piccola sala del bar non c’è molta gente, fuori dalle vetrine la giornata appare bella, addirittura radiosa. Vorrei alzarmi, penso, senza però trovare neanche un motivo qualsiasi per farlo, perciò non lo faccio.
Uno di questi giorni dovremo andare insieme in un'agenzia di viaggi, le dico ancora; ed organizzare un bel fine settimana da qualche parte, tutto per noi. Servirebbe per rilassarci, e ritrovare forse un po' più di spirito. Lei, quasi avendo intuito precedentemente quel mio pensiero, con calma cerca e poi mi fa vedere un opuscolo che aveva conservato: tre giorni indimenticabili a Siviglia, dice la carta patinata, con foto e qualche dettaglio.
Perfetto, dico subito, è proprio quello che ci vuole. Poi il cameriere torna da queste parti, riordina in un attimo il tavolino, ed io gli chiedo di servirmi una grappa, ben secca, non aromatica. Lei mi getta un leggero sguardo forse di dissenso, poi spinge in avanti la sua tazza di caffè e chiede un po’ d’acqua gassata. 
Potremo partire fra tre settimane, le dico guardando distrattamente un'agendina che porto sempre con me dentro una tasca. Andiamo e torniamo, senza annunci, senza dire niente a nessuno, soltanto io e te, cosa ne pensi? Lei si volta ad osservare qualcosa senza rispondere, poi indica con un dito il prezzo totale previsto sul pieghevole del viaggio. Non preoccuparti, le faccio, ce lo possiamo permettere, non è propriamente economico, ma si può fare.
Trascorre qualche minuto, assaggio la grappa; ho capito, le dico, non si tratta di soldi. Semplicemente non ti va in questo momento di affrontare con me una cosa del genere. Lei mi guarda, la sua espressione è seria, immagino pensi qualcosa molto distante da quei discorsi, ma non ho voglia di farle pesare una riflessione del tutto mia, e neppure cercare sul suo viso il dettaglio che dimostri che ho piena ragione nell'avvertire la sua distanza, così lascio perdere qualsiasi ulteriore commento.
Mi alzo, dico: scusami un attimo, vado in bagno. Quando torno, rinforzato dall'aver osservato a lungo la mia immagine dentro lo specchio, lei si è già alzata, ha pagato le nostre consumazioni, è praticamente pronta per uscire da lì. Mi sento spiazzato, vorrei trattenerla, affrontare magari gli argomenti irrisolti, mostrarle quanto io sia capace di farmi carico di tutti i problemi, ma lei non mi guarda neppure, ed io sento che tutto sta quasi cedendo all'improvviso sotto ai miei piedi.
Le tocco leggermente un gomito per costringerla a voltarsi verso di me, lei sorride quasi forzatamente, evitando di guardarmi in modo diretto: andiamo? dice poi con voce sicura; ed è già lontana.


Bruno Magnolfi

venerdì 9 gennaio 2015

Verso una nuova consapevolezza.

            

Il ragazzo attraversa la strada apparentemente senza pensieri, spiccando a metà un minuto accenno di corsa, poi sale sul marciapiede e abbraccia quasi per un giro di danza un piccolo albero di decoro urbano, riprendendo però subito la sua camminata elastica e ritmica. E' da solo, ma ciò in fondo non ha alcuna importanza; il suo zaino con qualche libro all'interno non gli pesa, e volendo può portarlo con sé fino a quando vuole, persino se decide di trascorrere tutta quanta la mattina camminando. Camminare, già, pensa sereno: forse la forma più libera per far scorrere in qualche maniera tutte queste ore, forse anche il modo migliore per andare a caccia di qualche novità, alla scoperta di qualcosa che magari non conoscevo prima. Alla ricerca dei suoi stessi pensieri, verrebbe da aggiungere; del suo affrontare la realtà da un punto di vista indubbiamente diverso.
Qualcuno lo ferma, però. Un uomo anziano che lo conosce per averlo già visto gli chiede con sguardo severo perché non sia a scuola con gli altri. Oggi non ne avevo alcuna voglia, spiega il ragazzo; e poi si deve pur rompere la monotonia delle solite cose ogni tanto. L’uomo sorride, comprende perfettamente quelle parole, così lo saluta lasciandolo andare. Lui subito dopo costeggia il fiume, lo segue, si spinge a grandi passi fuori città, verso una zona verde dove non è quasi mai stato: la giornata è bella, non c’è niente di meglio che una passeggiata nel parco, pensa tranquillo.
Il ragazzo trascorre la mattinata praticamente sulle panchine, ad osservare gli alberi intorno e le poche persone che girano lungo i vialetti, in piena serenità, poi torna a casa. Sulla strada del suo quartiere però lo coglie una grande e improvvisa tristezza: rallenta il passo, vorrebbe quasi fermarsi, si vergogna della leggerezza con cui ha trasgredito i suoi precisi compiti di studente. Pealtro non gli è servito a niente saltare la giornata scolastica, è stata soltanto una sciocchezza, riflette. Per questo sul portone del palazzo dove abita si ferma, cerca dentro la mente la maniera migliore per presentarsi nell’appartamento della sua famiglia, e intanto si accosta con una spalla ad una parete dell’ingresso.
Arriva per combinazione la mamma mentre anche lei sa rientrando, e così lo vede, si immobilizza, comprende subito che qualcosa di importante è accaduto, allora si avvicina, ma sul momento pare non volergli chiedere niente. Il ragazzo non alza neppure lo sguardo, cerca soltanto le parole più adatte per cercare di spiegare cosa stia succedendo dentro di sé, ma non è facile, e alla fine non riesce neppure a bisbigliare qualcosa. Sua madre gli appoggia una mano sopra la spalla, quasi per incoraggiarlo a guardarla e a parlare, ma lui a quel contatto prova un brivido, quasi come una scarica elettrica. Si scuote, le getta un’occhiata fulminea, poi prende velocemente il portone condominiale ed esce di nuovo sul marciapiede. Non trova un motivo davvero plausibile per tutti i suoi gesti che si stanno manifestando quasi senza la sua volontà, ma forse, proprio per non doverne affrontare almeno adesso le più stupide spiegazioni, inizia a correre; e corre, verso dove non sa neanche lui; corre, forse cercando qualcosa che sente mancargli; corre, fino a sparire rapidamente del tutto, in fondo alla strada.


Bruno Magnolfi

mercoledì 7 gennaio 2015

Libero, imprendibile.

            
Lo so che mi stanno cercando; entrano già nelle case della zona, mi danno la caccia, fanno domande, rovistano stanzini bui inusati e vecchi capanni per gli attrezzi, e certe volte quando si infilano dentro alle abitazioni, vanno a guardare perfino sotto ai letti e addirittura dentro gli armadi, proprio come se fossi lì, esattamente dove pensano loro. Stanno in giro a perlustrare ogni strada, anche a guardare storto chiunque incontrino, come ci potessero essere dei complici, qualcuno prestato a darmi una copertura, quasi fossi il tipo che si fa aiutare, che permette agli altri di proteggermi, di darmi una mano. Io sono qui, solo nel mio piccolo appartamento, e vivo in questa intercapedine del muro senza che nessuno possa mai scoprirmi.
Non è una vita semplice la mia, lo so, però è fatta in questa maniera e di tutto il resto in fondo non mi interessa un bel niente. Ho una lampada, qualcosa da leggere, e poi ci sono i miei pensieri, soprattutto la mia soddisfazione nel sapermi imprendibile, fuori da qualsiasi schema ordinario. Alla sera mi metto un cappello calato fino sugli occhi e vado a comprarmi qualcosa da mangiare, presso persone fidate naturalmente, gente che vive praticamente senza neppure sapere chi io sia davvero. Poi ritorno immediatamente qua dentro. Controllo un sacco di affari da qui, anche se di fatto lo fanno gli altri per me. A me basta sapere che sto sfuggendo a tutti i normali criteri con cui le autorità riescono ad immaginarmi, il resto è del tutto secondario.
Ci sono i soldi che girano e che comprano tutto, lo so, ma a me non servono, sono sufficienti per me pochi spiccioli, ed in compenso mi basta sapere che sono temuto da tutti, che la mia potenza è nota in ogni contrada da queste parti, ed il mio nome riesce ad aleggiare come un fantasma in certi ambienti. Soprattutto perché potrei essere ovunque, ma di fatto poi nessuno mi trova. Così sul muro che mi protegge ho iniziato già da un po’ a scrivere le mie riflessioni: uso caratteri piccoli a matita sull’intonaco grigio, minuti pensieri che poco alla volta diverranno la testimonianza della mia vita, e la dimostrazione di come abbia sempre sfuggito chi mi cercava. Quando certe volte avverto qualche debole rumore nelle vicinanze subito mi fermo, mi immobilizzo, mi metto in ascolto, poi però riprendo proprio da dove mi ero interrotto.
Per dormire mi sdraio sul fondo dell'intercapedine tra questi due muri: è un po' preciso il posto dove mi corico, tanto che solo girarmi spesso è un problema. Però mi sento sicuro, posso dormire tranquillo quanto voglio, non c'e nessuno che possa snidarmi nel sonno. Certe volte accendo la radio prima di addormentarmi, ascolto le informazioni che trasmettono dai giornali e dai notiziari. Mi sento immerso nella normale quotidianità anche se non la vivo; partecipo con i miei sentimenti a ciò che succede giorno per giorno, e in questa maniera so che tutto va bene, sono a posto, sicuro, perfettamente a mio agio. Scrivo sul muro con regolarità tutto questo, e mi piace farlo, sto bene, perfettamente; in fondo non potrei desiderare di meglio.

Bruno Magnolfi


sabato 3 gennaio 2015

Immobilità del resto.

           

Lei è lei, prima di tutto. Certe volte si addormenta davanti alla televisione, ma non lo fa con consapevolezza completa: difatti generalmente del suo gesto conserva in seguito soltanto un'espressione quasi compiaciuta sul viso, come se davvero tutto quanto attorno procedesse comunque e autonomamente in avanti, nonostante persino anche in altri casi simili lei risulti spesso praticamente assente, proprio come se in tutti questi casi fosse fortemente indaffarata in qualche altra attività. Cosa importa, dice la donna, il tempo in fondo è una misura astratta: non c'è alcun bisogno di consultare un calendario, un orologio, un indicatore qualsiasi di quell’elemento che, comunque sia, procederebbe in ogni caso soltanto per proprio conto, indipendentemente dalla volontà di tutti. Se resto qui e mi guardo attorno, sicuramente ci dev'essere un motivo, anche se oramai anche questa giornata è sprofondata nella notte, e alla fine probabilmente non c'è proprio più niente da vedere intorno, neppure qualcosa di minimo da scrutare fuori dalle finestre di questo appartamento. Poi si alza dalla seggiola dove è rimasta seduta fino adesso, e adopera la disposizione di alcuni piccoli oggetti quasi per mostrare che le cose in fondo hanno anche un proprio senso, e che non si può sempre fingere completa indifferenza rispetto a loro, perciò scansa velocemente con una mano tutto quanto sopra al tavolo, e passa con gran naturalezza ad occuparsi d'altro.
Se esce da casa, lo fa soltanto per non dover ancora vedere quelle medesime disposizioni degli oggetti attorno a sé, e quando è fuori le pare quasi sempre, lungo le strade che è solita percorrere, che tutto ciò che conta una volta di più sia davvero lì, proprio davanti a quei suoi occhi chiari, tra le vetrine e le persone non del tutto estranee tra loro, ma che forse assurdamente si incontrano senza riuscire neppure a riconoscersi. Buongiorno, dice chiedendo appena con un sorriso qualcosa al negoziante. Ecco, dice l’uomo, quanto le mostro è senza dubbio qualcosa di speciale, un prodotto che non si riesce a trovare facilmente, e che per una donna come lei è quanto di più adatto oggi si possa trovare sul mercato. Lei, pur comprendendo quanto le parole riescono a nascondere una sicura trappola pur bonaria e senza dubbio ammessa in certi casi, assume comunque un’espressione di convinta meraviglia, e infine esce dal negozio sicura di aver fatto quanto era a dir poco doveroso, almeno secondo il suo punto di vista.
Le amiche di sempre si sono ritrovate anche stasera per discorrere una volta di più delle medesime cose di ogni volta, e la donna, pur cercando in qualche modo di evitarle, alla fine riesce a scovarle in uno dei caffè usuali che sono solite frequentare tutte assieme. Lei non parla mai con loro dei suoi problemi, anche se dice molto di sé e del suo modo di interpretare la realtà. Sfiora le cose, utilizza spesso le parole che tutti una volta o l’altra vorrebbero sentirsi dire, e alla fine sorride mostrando un’espressione completamente finta, ma che sa benissimo non verrà mai presa troppo seriamente. Le altre parlano, ridono, anche se alle sue spalle forse direbbero altre cose ridendo differentemente, ma lei ne è consapevole, e questo basta.
Quando rientra in casa è sempre troppo tardi, ma in fondo non ha alcuna importanza, risultando la propria consapevolezza semplicemente un intercalare usuale di quasi tutti i suoi pensieri. Ogni cosa è rimasta più o meno al proprio posto, e se questa può forse sembrare una disdetta, però contemporaneamente è anche una fortuna. Tutto comunque procede in qualche modo, e lei sembra come sempre disposta ad imparare nuovi metodi di comportamento: l'immobilità è un termine che lei non ha mai preso in esame, non fa nemmeno parte del suo vocabolario, perciò non lo conosce; quindi praticamente non esiste.

Bruno Magnolfi