martedì 29 gennaio 2013

Viaggio improbabile (cortometraggio n. 1).


            Non mi sento bene, aveva detto Luisa mentre camminava al braccio del marito, impegnata in una delle loro passeggiate domenicali lungo il giardino comunale poco lontano da casa. Forse è sufficiente che mi sieda su una panchina, aveva aggiunto, indicandone una là accanto, in uno spiazzo a ghiaia con la fontanella centrale. Mi basta qualche momento, lo aveva rassicurato mentre prendevano posto, forse mi è sufficiente chiudere gli occhi e lasciarmi scaldare da questo bel sole pomeridiano mentre tu sfogli il giornale, come fai sempre.
            Così aveva appoggiato la testa sullo schienale, e chiusi gli occhi le erano velocemente passate, in mezzo ai pensieri, diverse immagini strane, quasi un proiettarsi della sua mente verso qualcosa che non conosceva o che aveva dimenticato. C’erano altre persone, facce note e sconosciute, e poi la vecchia casa dove aveva abitato tanti anni prima con i suoi genitori, fino all’età dei venti anni, ma anche quella appariva senza una logica, come se le stanze fossero tantissime, e ognuna immettesse in un'altra, quasi senza limiti.
            Nel suo sogno Luisa chiedeva qualcosa, una minima indicazione, forse rivolgendosi ad una zia o a qualche lontano parente, forse allo stesso marito, ma tutti si limitavano a sorriderle e basta, come a volerla semplicemente rassicurare, anche se in modo contraddittorio. Lei al contrario si sentiva nervosa, agitata, sapeva di trovarsi in un luogo di grande nostalgia, eppure contemporaneamente le pareva di non conoscere affatto quel posto, come se tutto dei suoi ricordi fosse stato cambiato, quasi si fosse apportato delle modifiche adatte a renderlo completamente irriconoscibile, pur lasciando a lei la sensazione di trovarsi ancora nell’appartamento dove aveva trascorso la sua adolescenza.
            Qualcuno ballava divertito, lasciandosi notare oltre qualche porta socchiusa; altri ridevano pur cercando di limitare le proprie espressioni, ed altri ancora, infine, pareva incoraggiassero Luisa a girare, a visitare quella casa immensa ma vuota, e quasi interminabile. Lei vagava senza sapere verso dove né immaginando che cosa cercasse, forse desiderando trovare i suoi genitori, ma era come se loro fossero assenti, quasi si trovassero da un’altra parte, lontani da lì, trattenuti da chissà quali impegni. Suoni e voci ovattate giungevano alle sue orecchie, e Luisa più andava avanti e più assaporava un senso di sfida, come se niente di ciò che erano i suoi ricordi di quel tempo, avessero ritrovato là dentro il pur minimo fondamento.
            Ad un tratto gli pareva indispensabile fuggire da quel luogo, non era più possibile trattenersi ancora in quella specie di casa: cercava la porta di uscita, Luisa, ma un labirinto di stanze e corridoi le si parava davanti, senza alcun segno indicativo. Sapeva che da qualche parte forse l’attendevano i suoi genitori, ma era impossibile sapere dove, in quale direzione. L’angoscia era palpabile, il bisogno di urlare quasi incontrollato, e solo a quel punto Luisa si era svegliata da quel breve sonno. Voglio rientrare, aveva detto in breve a suo marito. Non devi preoccuparti, aveva aggiunto, sono soltanto confusa. I miei ricordi a volte prendono strade che non conosco, e i miei pensieri non trovano pace, ma non è grave, sarà sufficiente per me ritrovare la mia intimità, le mie piccole cose: tutto tornerà a posto, ne sono sicura,  e in poco tempo le cose riprenderanno ad andar  bene, vedrai, e sarà proprio come se niente avesse mai davvero minato la nostra vita in comune.

            Bruno Magnolfi

domenica 27 gennaio 2013

Un uomo tra la folla.


            

            Me ne andavo così, senza una meta precisa, oscillando in mezzo alla gente da un marciapiede all’altro, osservando ogni tanto qualche vetrina di negozio, e osservando le strade trafficate intorno a me, piene di confusione e di grande movimento. Camminavo però con attenzione, stando bene attento a non sbattere contro qualcuno che se ne andava di fretta, o qualcun altro con la testa tra le nuvole. Soffermavo i miei passi giusto per un attimo accanto alla facciata di uno dei palazzi storici della mia città, un luogo a mio parere molto bello, e ne osservavo i lineamenti, le decorazioni, le alte finestre, e nel momento in cui mi rimettevo a camminare, notavo un uomo che a sua volta con la stessa attenzione stava osservando me.
            Procedevo senza preoccuparmi, ma una volta oltrepassata la piazza vicina e presa una direzione diversa da quella tenuta fino allora, notavo ancora una volta la stessa persona che con indifferenza rimaneva alle mie spalle ad una distanza di dieci o venti metri. Entravo in un caffè, ordinavo qualcosa al cameriere, e continuavo a tenere d’occhio la porta di entrata del locale, mentre rimanevo in piedi accanto al bancone, con un leggero senso di disagio.
            Tornavo poco dopo a riprendere la mia distensiva passeggiata, e dell’uomo di poco prima non ne trovavo più nessuna traccia. Così mi perdevo di nuovo, come prima, nella confusione e nel traffico dell’ora di punta, e in questo modo mi recavo con decisione verso la stazione ferroviaria, dove volevo annotarmi gli orari migliori per un treno che di lì a qualche giorno avrei dovuto prendere. L’uomo che avevo visto in precedenza, con mia costernazione, era adesso fermo davanti a me; lo stesso cappello anonimo, il cappotto scuro, la faccia di un cittadino come gli altri. Lo scansavo in fretta, e con la stessa velocità cercavo di far perdere in qualche modo le mie tracce.
            La stazione era piena di persone, la confusione totale, chiunque si sarebbe smarrito in una bolgia di quel genere. Mi fermavo, guardavo bene ogni espressione intorno a me: del mio uomo non c’era più neanche l’odore, ed un sorriso mi appariva quasi naturale sulla faccia. In breve avevo preso nota di ciò che mi occorreva, ed ero velocemente tornato ad uscire da quel grande edificio. Fuori si allungava ormai l’ombra della sera, e i primi lampioni erano già accesi. Tornavo ad indossare i guanti e mi avviavo verso la mia abitazione, non molto distante, senza preoccuparmi di nient’altro, ma ad un tratto mi pareva di riconoscere, in una persona che passava, il medesimo uomo di poco prima, anche se mi accorgevo quasi subito che ne era soltanto una vaga somiglianza.
            Attraversavo la larga piazza, allungavo il passo sopra al marciapiede ingombro per quanto potevo, e mi ritrovavo però a sentirmi ad un tratto quasi orfano di quella presenza pur inquietante che mi aveva seguito fino a poco prima. Così tornavo a fermarmi, a guardare fin dove riuscivo attorno a me, a cercarlo quasi, ma quell’individuo sembrava adesso fortunatamente aver scelto altre occupazioni. Rientravo, forse un po’ deluso, inserivo la chiave dentro al portone per aprirlo, e mi fermavo ancora una volta per guardarmi attorno, proprio come prima. Non c’era più, inutile aspettarlo, forse avevo sbagliato qualcosa, pensavo tra me, forse mi ero mosso con eccessiva fretta. Un’ombra di tristezza scendeva su di me, sentivo forte il desiderio di vederlo ancora, almeno un’altra volta; poi però richiudevo il portone alle mie spalle: ogni giorno perdiamo qualcosa, pensavo adesso quasi con indulgenza; non possiamo assumerne tutta la colpa soltanto perché ne siamo consapevoli.

            Bruno Magnolfi 

sabato 26 gennaio 2013

Chiari segni di umanità.


           
            L’uomo è fermo sulla piazza. Le braccia lungo i fianchi, la schiena dritta, osserva le tante persone che attraversano il largo spiazzo pedonale e se ne vanno per i fatti loro. Nessuno lo nota, o forse qualcuno si, considerato il suo aspetto stravagante: la gran barba lunga ed incolta, il cappotto vecchio e fuori moda di colore arancio scuro, l’espressione vagamente da pazzo. Lui non sembra preoccuparsi di nulla, attende qualcosa, questo pare certo, per il resto niente sembra distoglierlo da quel curioso guardare tutti e nessuno.
            Infine tira fuori dalla tasca alcuni fogli ripiegati e sgualciti, li distende tra le mani, si avvicina ad una panchina accanto all’aiuola centrale, e dopo poco inizia a leggere qualcosa con voce bassa ma robusta, rinvigorendo il timbro mentre prende confidenza con il suo declamare. Legge le cose che ha scritto negli ultimi tempi, frasi che parlano di onestà, di rettitudine, dei valori ormai persi da molti, di personaggi ordinari e allo stesso tempo particolari, ed alcuni dei passanti alle sue parole si fermano, ascoltano in silenzio per un attimo, ed altri invece cercano di ignorarlo, anzi sorridono di quel comportamento, quasi come fosse qualcosa di assurdo.
            Lui va avanti per diversi minuti, ma poi si ferma, smette all’improvviso di leggere, ha terminato, così inchina leggermente la testa, e lascia che in due o tre davanti alla sua postazione gli lancino un piccolo applauso; uno dice addirittura bravo a voce alta, un altro spiega al suo vicino che è questa forse la nuova letteratura, ciò che non si trova scritto in nessun libro, ma ugualmente riesce a percorrere la gente composta da questi uomini e altrettante donne come una febbre, un fremito, quasi un’urgenza di novità. L’uomo poi si siede sopra la sua panchina, tira fuori dalla tasca una vecchia matita, e appunta qualcosa sul rovescio degli stessi fogli che ha ancora tra le mani. Alcuni continuano ad osservarlo, uno gli chiede con timidezza come si chiami.
            Ermete, dice lui, lasciando intuire che forse quello è soltanto un suo nome d’arte, ma l’altro gli batte una mano sopra la spalla e si complimenta per le sue parole e sulla scelta di leggere in pubblico, dando vita ad un concetto antico e meraviglioso. L’uomo in due parole bofonchiate gli spiega che sta lavorando ad un nuovo soggetto un po’ difficile, ed adesso ha bisogno di silenzio e di concentrazione, l’altro quindi lo lascia da solo, ma non prima di avergli stretto la mano, di essersi congratulato di nuovo con lui.
            Attorno tutto ritorna in un attimo ad essere la piazza di sempre, la gente di qualsiasi mattinata, ognuno prosegue con le proprie attività, l’uomo resta seduto sulla panchina ed appunta le cose che vede, quelle che sente, quelle che immagina. Una signora si siede vicina, osserva per un attimo quelle carte un po’ spiegazzate, la sua calligrafia quasi incomprensibile, gli dice che è bello quello che fa, forse la cosa più importante di tutte, perché la realtà è sotto gli occhi di chiunque, dice, ma solo in pochi riescono a tracciarne i contorni, fino a darne un’interpretazione che può anche essere soltanto una grande sciocchezza, ma è comunque qualcosa che sta sopra al piano delle espressioni più alte che si possa mai avere tentato. 

            Bruno Magnolfi

giovedì 24 gennaio 2013

Definizione di un personaggio urbano.


           

            Ei ragazzo, fa lei con una certa sfacciataggine a Carlo, che da molto tempo non è più neppure tanto un ragazzo, mentre sta entrando nel locale per una birra e per prendere un pacchetto di sigarette. Forse è soltanto il suo modo di salutare, pensa lui, e le sorride vagamente appoggiandosi al bancone del bar, proprio accanto alla donna, davanti ad un cameriere annoiato e distratto. Scusa, dice lei distogliendo lo sguardo e ridendo tra sé mentre beve qualcosa; ti avevo solo scambiato per un’altra persona. Non importa, fa Carlo, in fondo qua dentro siamo tutti dei conoscenti, è solo là fuori che siamo nemici e ci ritroviamo continuamente a scannarci l’un l’altro per qualsiasi sciocchezza.
            Giusto, dice lei, pensando alle difficoltà del traffico e alla complicazione di trovare un parcheggio decente lungo quella strada. Abiti in questo quartiere?, aggiunge senza esprimere un vero interesse. No, fa lui, sono soltanto di passaggio. Sei fortunato, fa lei, io abito proprio qua sopra, dentro ad un paio di anonime stanzette in affitto, e odio profondamente quasi tutto quello che capita qua attorno, anche se a dire il vero non riesco mai ad allontanarmi da questi paraggi. Forse è una questione di abitudini, ma a me pare qualche volta di vivere quasi chiusa in una prigione, come se non riuscissi a vivere da altre parti, anche se evidentemente potrei andarmene da qui in qualsiasi momento.
            Carlo sorride, chiede la birra e le sigarette, poi si volge verso la donna: il segreto sta nel rimanere assolutamente indifferenti a tutto ciò che ti capita, fa; come se non ti riguardasse per niente. Stai qui, fai le tue cose, esci da casa e rientri come chiunque, ma quanto a calcolare tutto quel che succede, semplicemente non lo fai, ne rimani al di fuori, come se tu fossi su un altro pianeta. Ecco come si fa.
            Starai scherzando, spero, dice lei; si, cosa c’entra, su alcune cose puoi con tutta tranquillità passarci sopra, questo è normale, ma ce ne sono delle altre nelle quali devi per forza sporcarti le mani, non ne puoi fare a meno. Capitano continuamente delle faccende che se te ne infischi poi non riesci più a starne alla larga, e quello è proprio il momento in cui vai a caderci dentro, senza che neppure tu sappia come sia successo. Non puoi ignorarle, devi conoscerle appieno, solo così riesci a tenerti al di fuori. Ecco come la penso, fa lei.
            Va bene, fa Carlo, però non capisco: io entro qua dentro, tu mi saluti, inizi a parlarmi e non sai neppure chi sono; potrei tirarti una fregatura, penso, portarti fuori di qui con una scusa e poi violentarti, o farti fuori tutti i soldi che hai nella borsetta, per dire. Non si può dare confidenza ad uno sconosciuto qualsiasi. Hai ragione, fa lei. Però dalla tua faccia si vede subito che sei uno a posto, uno che non farebbe mai male a nessuno. Così mi offendi, dice Carlo: per sopravvivere oggigiorno in qualche maniera dobbiamo metter su espressioni cattive, guardare tutto con aggressività, altrimenti è finita, chiunque può metterti i piedi sopra la testa.
            Va bene, dice la donna, così beve un altro goccio e fa per allontanarsi, poi ci ripensa: ciao, dice a Carlo, e infine guadagna l’uscita del bar, sparendo alla vista. Lui finisce a sua volta l’ultimo sorso di birra, va alla cassa, e il cameriere gli dice che deve pagare anche la consumazione della signora. Se non ha pagato se ne sarà soltanto dimenticata, dice Carlo: tornerà, ha detto che abita proprio qua sopra. Il cameriere lo guarda con una certa attenzione, poi fa: io non l’ho mai vista qua dentro, e tipi del genere, che io sappia, si incontrano sulla propria strada soltanto una volta.

            Bruno Magnolfi 


martedì 22 gennaio 2013

Al margine di qui.


            

            Certe volte sono anche troppo serio e taciturno, specialmente sul lavoro, persino con i clienti che forse neppure lo meriterebbero. Non che svolga malvolentieri il mio mestiere, è solo che ci sono giorni in cui i pensieri quasi per magia riescono a prendere il sopravvento, ed io mi sento soltanto una comparsa in questa pellicola cinematografica di terza categoria.
            Il cuoco ride, in piedi nella sua cucina al Ristorante dell’Hotel Bologna, e intanto tira una boccata dalla sua perenne sigaretta, appoggiandola ad un angolo del piano dove raccolgo i piatti pronti, e le comande stanno infilzate dentro un chiodo. Crede sempre di prendere in giro qualcuno, mi guarda, dice a voce alta che sono pronti pure gli spaghetti allo scoglio per il tavolo dodici, anche se non gli interessa un fico di ciò che sto facendo. Gli piace ridere di me, specialmente quando me ne sto serio concentrandomi sui clienti e sulle portate delle ordinazioni. Hai visto quella?, dice lui: ti guardava con certi occhi. Ma fa così solo per confondermi.
            Io lo lascio fare, e intanto penso all’autostrada che stanno costruendo, ai ponti con le arcate alte persino cento metri, e ai camion e alle automobili che se ne andranno via là sopra, insieme a questi anni senza alcun significato, sopra l’asfalto nero, a sperdersi in posti lontani pieni di fascino e di grande importanza. Il progresso, spiega qualcuno, ed io mi ritrovo tutti i giorni col pensiero di andar via, lontano da questo buco senza speranza, dove almeno non ci sia ancora qualcuno a ricordarmi di servire i piatti ai tavoli, sgridandomi anche per un semplice secondo di ritardo, o per non aver compreso al volo qualche cosa, perché in fondo è un po’ vero che ho sempre la testa tra le nuvole, come mi dicono sempre tutti.
            Mi piace sapere che alla fine dell’autostrada ci saranno dei posti diversi da qui, dove anche nei ristoranti si lavorerà con più entusiasmo, e tutto sarà bello da vedere, accompagnato dall’orgoglio di far parte di un luogo di quel genere. Andrò via, penso spesso, seguirò i camion e le automobili fino dove arrivano, forse anche più in là, in una città dove si parla una lingua importante, quella delle gente che conta, che ti dà soddisfazione anche solo standoti vicino.
            Così fisso qualche cosa fuori dalla finestra della sala, restando accanto alla porta del va e vieni di ingresso alla cucina; il cuoco dice qualcosa, lasciando sfrigolare due o tre padelle sopra ai fuochi, io mi volto, sono pronti i piatti del tavolo sette, li raccolgo ed inizio ad attraversare il breve corridoio. Non so perché, ma quando mi avvicino a quei clienti vorrei piangere, disperarmi, chiedere loro di portarmi via, spiegare in due parole che qui è ormai impossibile rimanere ancora.
            Spero con tutto me stesso che non chiedano nulla, non sono in condizioni di rispondere, ho bisogno di servire i piatti e ritirarmi per un attimo, farmi passare questo momento sofferente, forse sciacquarmi gli occhi, guardare il mio viso nello specchio, riprendere fiato. Invece una donna chiede del pane, io mi volto, ma ormai mi sento in preda al panico, persino le gambe iniziano a tremarmi, so che non riuscirò a compiere neppure un altro gesto.
            Torno in cucina, guardo il cuoco e inizio a piangere, proprio come uno stupido. Poi tolgo il mio grembiule, esco, prima che qualcuno possa fermarmi. Inizio a camminare, non so verso dove, non importa, costeggio le case del paese, giro a un angolo, vorrei chiedere aiuto alla prima persona che incontro, ma invece mi fermo in un portone, mi raccolgo un attimo, so che tutto sta sfuggendomi di mano. Non importa, penso con decisione, non tornerò più a guardare indietro.

            Bruno Magnolfi

lunedì 21 gennaio 2013

Soltanto subire.


            
            La sensazione preponderante è quella di sbagliare continuamente il momento giusto. La realtà scivola, con il suo corollario di piccole e grandi prove a cui tutti siamo chiamati, ed Alberto sente certe volte di essere inadatto ad affrontare ciò che deve, come se le sue competenze migliori fossero perlopiù sfasate rispetto ai tempi giusti con cui sfoderare le proprie capacità ed il suo pur minimo talento, lasciando alla sua mente il compito di preoccuparsi solo di qualche umile sciocchezza normalmente vuota di senso e di significato.
            Certe volte qualcuno avverte Alberto, poi gli fa presente come stia perdendo l’attimo adatto in un caso o in un altro, ma non è facile per lui sapere esattamente quale sia la cosa giusta da prendere in considerazione, e indovinare, tra tutti quanti, di chi sia meglio fidarsi; gli torna più naturale perdersi dietro ai piccoli dettagli di ogni giorno, che forse mostrano in uguale misura l’attenzione che da lui viene impiegata, anche se alla fine non producono risultati meritori.
            Così Alberto prosegue il suo corso, qualche volta cercando di immaginare il momento giusto che lo attende, ma senza lasciarsi mai giocare dall’inevitabile senso di sfiducia che lo assale nell’attimo stesso in cui comprende di non avere avuto il fiuto adatto. Negli ultimi anni è riuscito già diverse volte a sfiorare qualcosa di importante, così riprova, sa che la sua testardaggine porterà per forza a qualche indubbio risultato. Perciò entra di nuovo nell’ufficio dove trattano i casi come il suo, aspetta con pazienza il proprio turno, e infine si siede alla stessa scrivania dove è già stato oramai parecchie volte.
            Spiega all’impiegato, che fortunatamente segue una rotazione di lavoro e quindi non è il medesimo di tutte le altre volte, che cosa vorrebbe realmente dalle istituzioni. Tira fuori dei fogli di carta con gli appunti, parla cercando le parole migliori che conosce, adotta un timbro di voce che non è propriamente di richiesta, ma neppure troppo duro o saccente, cerca solo di mostrarsi educato, semplicemente desideroso di conoscere quale sarà davvero il suo futuro. Si prende tempo, si controlla qualche dettaglio, si spiega come stanno davvero le cose dall’altra parte della scrivania, infine si stampa qualche carta con sopra dei numeri, dei nomi e alcuni indirizzi, come se fosse tutto lì il segreto delle cose.
            Alberto esce dall’ufficio con la consapevolezza di aver perso di nuovo qualche possibilità, ma cerca di nutrire la speranza, e torna a casa tentando di manifestare un minimo di soddisfazione. Qualcuno che conosce lo incontra per strada, gli chiede com’è andata, se i suoi problemi sono in via di risoluzione. Non so, risponde lui: è come se dovessi maturare poco per volta quella grinta sufficiente a mostrare di cosa sono veramente capace, piuttosto che starmene sempre tranquillo come un signorino, fare si con la testa e credere a tutto quello che mi dicono. Forse saprò farmi prendere sul serio, un giorno o l’altro, per adesso credo che niente sia destinato a cambiare. Non lo so, ma a volte credo di essere stato spedito qui senza le caratteristiche che servono: lo griderò forte il mio dolore, uno di questi giorni, probabilmente mi sentiranno tutti, ma per adesso riesco soltanto a subire tutto ciò che avviene, senza riuscire a determinare la mia vita.

            Bruno Magnolfi

sabato 19 gennaio 2013

Precarietà.


         
            Franco alle undici e trenta in punto è entrato nel letto, si è sistemato il cuscino, ha preso il giornale ed ha scorso un articolo che fino a poco prima gli era parso importante, lo stesso che aveva avuto intenzione di leggere fin dal mattino, pregustando quel delizioso momento, purtroppo senza riuscire a ritrovare il medesimo interesse che aveva immaginato. Quindi, dopo pochi minuti, ha spento la lampada sul suo comodino e si è voltato su un fianco, dalla parte opposta di sua moglie, la quale respirava in modo regolare, segno evidente che aveva già preso sonno.
            Prima di addormentarsi anche lui ha cercato di concentrarsi sulla giornata seguente, cercando di immaginare quella riunione in ufficio che lo attendeva, e tentando di analizzare le implicazioni che nell’immediato futuro ne potevano derivare. Tutto è destinato a peggiorare, pensa Franco; anche l’entusiasmo, la passione, quelle uniche cose che spesso anche da sole riescono a sostenere qualsiasi attività, ma che oggi sembrano diminuire ogni volta di forza, lasciando diventare tutto quanto solo una qualsiasi abitudine, senza alcuna possibilità di salvezza.
            Franco cerca di stringersi sotto le coperte del letto, e all’improvviso sente il sonno sfuggirgli,anche se avverte il piacere di starsene lì, arrotolato in quell’angolo caldo del mondo, da dove certe volte non vorrebbe neppure più uscire, nell’attesa di trovare nuove prospettive, forse addirittura una diversa realtà. Si gira, cambia posizione, ripensa all’articolo sopra al giornale, gli pare che tutto sia un gioco ancora in embrione, del quale non esistono neppure regole certe, e per cui spesso si tende a brancolare in mezzo a mille supposizioni senza precisi riferimenti, cercando in luoghi improbabili istruzioni più definite, una chiarezza purtroppo assolutamente necessaria per riuscire a stabilire una volta per tutte quale comportamento tenere.
            Non c’è niente di male, pensa ancora Franco, nello starsene qui a cercare la grinta che serve per affrontare una nuova giornata. La riunione in ufficio dovrà porre sul tavolo argomenti scottanti, aspetti che possono diventare negativi anche per la sua stessa carriera, per il suo futuro lavorativo. Nei corridoi già se ne parla da tempo, e qualcuno sembra sempre più informato degli altri, e le cose che dice spesso sono tutte negative e brutali. Un brivido coglie Franco a questi pensieri, e immagina se stesso, almeno per un attimo, privo di punti di riferimento, in balia di situazioni precarie, umiliato addirittura persino nell’ambito del suo ruolo sociale.
            E’ difficile affrontare così la realtà, pensa ancora;  mi pare di avere già assunto il profilo di un qualunque perdente, uno che si è messo già sulla difensiva, a cercare di proteggere ingenuamente e in qualche maniera quello che ha, o quello che si sente di essere. Con sua moglie non ne ha ancora parlato, e per quanto possibile vorrebbe lasciarla fuori da tutte queste sue preoccupazioni: non averle detto niente per lui è come tenere i problemi fuori dalla porta di casa, è un’altra stupida difesa da niente, lo sa, però se ci pensa con lei non saprebbe neppure da che parte iniziare a spiegarsi.
            Infine torna a rigirarsi sotto a quelle coperte che d’improvviso gli sembrano addirittura un po’ fastidiose, si muove, si agita, si rende conto di avere ormai maturato un’ansia prepotente, ma in quel momento sua moglie si sveglia, accende la debole lampada, si solleva, lo guarda un momento, e infine gli dice: non preoccuparti, sarò con te, qualsiasi cosa succeda.

            Bruno Magnolfi 

mercoledì 16 gennaio 2013

Mosaico di pietre.


           
            Costeggio il muro con calma, come faccio sempre, lungo questo marciapiede, prima di giungere a casa. Mi fermo, mi guardo attorno, accarezzo le pietre. Sono solo in questa sera avanzata, lungo la strada un po’ periferica illuminata male da qualche lampione, eppure riesco quasi a sentire le voci di tutte le persone che una volta o quell’altra si sono ritrovate a passare di qui. Vorrei quasi che ci fosse qualcuno con me in questo momento, per condividere con un’altra persona questa sensazione di vuoto, di disfacimento, di azioni intraprese con la coscienza che non serviranno mai a nulla, salvo ritrovarsi domani, di nuovo, come ogni giorno, sulla strada di casa, a bramare il ricongiungersi con le stanze e con gli oggetti usuali, i gesti consueti, i pensieri di sempre.
            Vorrei quasi che una pietra qualsiasi di questo muro vecchio e senza pretese, si muovesse improvvisamente sotto al mio tocco: un cedimento verso l’interno, anche piccolo, che mostrasse un incavo, una nicchia, un’intercapedine dove qualcuno un giorno ha riposto qualcosa, un talismano, un oggetto qualsiasi, una presenza di sé. Vorrei che non tutto fosse già così chiaro, evidente, scontato; che le giornate smettessero di susseguirsi in questa maniera solita e normale, quasi scambiandosi l’una con l’altra, fino a mostrare la vacuità di interi periodi inutili e addirittura dannosi, che minano e rendono poco per volta privo di attese perfino il futuro.
            Riprendo a camminare lentamente accanto al mio muro di selce e malta giallastra, immaginando la sua compattezza che superi diverse generazioni di esistenze comuni, ma che verrà abbattuto anche lui prima o dopo, come tutte le cose che hanno un termine, magari solo per lasciare lo spazio necessario a costruzioni di vetro e di acciaio, a ringiovanire di colpo tutto questo quartiere. Infine torno a fermarmi, non so, all’improvviso vorrei starmene qui, accanto al muro, in silenzio, ma qualcuno arriva da dietro: buonasera signor Bacci, qualcosa non va?, dice in fretta un mio conoscente che abita in fondo alla strada. Tutto a posto, rispondo, osservo soltanto le pietre di questo muro solido e vecchio, così ricche di storia, quasi levigate dal vento e dalle stagioni. Lo so, fa lui, a volte è necessario soffermarsi anche sulle cose che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno, e poi tira avanti accennando appena un sorriso.
            Lo saluto, il mio vicino di casa, lo guardo mentre mi supera, vorrei quasi fermarlo, chiedere a lui di stare qui per qualche momento, insieme con me, a guardare le pietre, a parlare di qualcosa che non so neanche io cosa possa mai essere, ma poi sorrido con amarezza: non c’è tempo per cose del genere. Vado avanti, il muro termina dove inizia la fila di abitazioni tutte più o meno uguali, una a fianco dell’altra. Ecco, anche stasera sono arrivato, penso ancora.
            Alla fine estraggo la chiave del portone di casa ed entro nella mia abitazione modesta. Accendo le lampadine, tolgo la giacca, mi muovo con tranquillità in questi spazi così familiari. Poi torno ad osservare dalla finestra qualcosa che è rimasto lungo la strada: c’è ancora quel muro di pietre che sembra quasi il destino di tutti; sento la sua ferma presenza, so che è là, immobile, ma un giorno di questi sono convinto che riuscirà perfino a parlare, e saprà confidarmi tutti i segreti che fino adesso da solo non sono ancora riuscito a scoprire.

            Bruno Magnolfi

lunedì 14 gennaio 2013

Un passante.


            

            Spesso riesco a provare soltanto questa angoscia sottile, pensa Roberto mentre sta seduto con la sua poltroncina di vimini nel giardinetto di quella abitazione condominiale dove vive al piano terra con la sua famiglia. Davanti alla casa c’è un cancello di ferro ben chiuso che ne delimita l’ingresso, e a destra e a sinistra l’alto muro di cinta. Fuori, la strada e una fila di alberi. A lui dispiace affacciarsi tra quelle sbarre, osservare il marciapiede di fronte che curva lentamente, ma è l’unica maniera che certe volte ritiene di avere per rendersi davvero conto della giornata che prosegue il suo corso, e delle persone che si trovano a transitare da lì.
            Oggi non mi alzerò neppure da dove sono seduto, pensa ancora Roberto, tenendosi ad una distanza di almeno dieci metri da quel cancello, sul piccolo piazzale di pietra accanto alla porta di accesso della sua casa. Non mi interessa quello che succede là fuori, ho i miei pensieri da vecchio, i miei dolori nell’anima, per me basta ed avanza.
            Ma improvvisamente, dalla strada, un uomo sbucato dal nulla si avvicina alle sbarre di ferro, si accosta con fare guardingo, resta fermo ad osservare i particolari che riesce a sbirciare di quel giardino, avvista subito Roberto, ma è come se non lo notasse neppure. Roberto sta fermo, pensa: andrà via adesso, non può continuare a lungo ad importunarmi così; ma quello resta piantato al suo posto, la faccia in mezzo alle sbarre, l’espressione seria, inesplicabile, un comportamento quasi del tutto incomprensibile.
            E’ un uomo, pensa Roberto, uno qualsiasi, con il suo carico di curiosità, il bisogno innato di scoprire sempre qualcosa che non conosce. Difatti finalmente quello si allontana, Roberto allora si alza, va lentamente verso il cancello, appoggia le mani sopra al ferro freddo. La fila degli alberi ed il marciapiede sono ancora lì, dove sempre, stabilisce Roberto con il suo primo sguardo, e la strada adesso sembra deserta, ma non c’è niente di interessante.
            E invece l’uomo di prima all’improvviso esce fuori dall’angolo coperto dal muro, con la medesima espressione sul viso, e si piazza davanti a lui come nell’attesa di una sua prima mossa. Roberto si limita a guardarlo negli occhi, la distanza tra loro è di un metro o forse due, però qualsiasi cosa abbia voglia di dire gli pare inadatta al momento, così rimane ancora in silenzio.
            Trascorrono alcuni momenti senza che niente succeda; qualcosa deve pur capitare, pensa Roberto, e alla fine, incapace di attendere ancora, si volta su un lato, come a mostrare la sua capacità di godere dell’interno di quel giardino, piuttosto che spiarne i contorni da fuori, come se tutta la differenza tra loro stesse soltanto in quella evidente possibilità. L’altro forse prosegue a guardarlo, ma quando Roberto torna a voltarsi verso di lui si accorge che la sua espressione è mutata, ed è come se la distanza tra loro adesso si fosse fatta maggiore.
            Sono solo, dice Roberto con la sua voce bassa e gracchiante. Non ora, risponde l’altro quasi senza intenzione. Passo in questo giardino molte delle mie giornate, anche se questo scorcio di spazio in genere mi fa provare un’angoscia sottile, prosegue Roberto. Lo capisco, fa l’altro, non c’è niente di interessante qua in mezzo. Non è vero, riprende Roberto con severità; se ci si sofferma a guardare con una certa attenzione, ci si accorge di molte cose, di tanti piccoli elementi che in genere sfuggono ai più. L’altro allora si volta, guarda con interesse qualcosa che Roberto dalla sua posizione non può vedere, poi se ne va. Solo uno scocciatore, pensa Roberto mentre torna a sedersi.

            Bruno Magnolfi

sabato 12 gennaio 2013

Consapevolezza d'amore.


            
            Certe volte ti osservo, e mi pare che qualcosa di te si riversi direttamente tra i miei sentimenti, senza alcun filtro. Lei sorride, non dice niente, però lentamente si alza, gli sfiora una mano quasi con noncuranza, se ne va, come aveva precedentemente deciso. Ci vediamo stasera, queste le parole rimaste nell’aria, quasi una promessa, una possibilità, una speranza.
            Il giorno procede, i pensieri rincorrono piccole finalità, altre persone entrano nel campo visivo scambiando parole, opinioni, definizioni più o meno composte di ciò che dev’essere. In alternanza, lui si ferma un momento, richiama alla mente la tua inamovibile presenza, e dentro di se sente qualcosa sorridere, quasi un elemento di differenza profonda con tutti gli altri.
            Vorrei un caffè, spiego al barista. La visione d’insieme dei gesti consueti che si possono svolgere durante lo sviluppo di una serie di momenti qualsiasi, è spesso un’idea, o una voglia, oppure un pensiero; ancora più spesso soltanto un’abitudine, la ricerca di calcare le solite orme lasciate sui pavimenti il giorno avanti, o chissà quando. Il giorno sembra solo un lasso di tempo da riempire di contenuti sereni, senza asperità.
            Infine qualcosa lo chiama da dietro, non una voce o un suono conosciuto, piuttosto un segnale, la lusinga di un elemento di curiosità. Si volta, e un lampo improvviso entra nel suo piccolo mondo. Mi chiedo, cosa potrà mai essere una sensazione non sorretta da qualcosa di razionale? Quello che è, pensa, così lascia che cali l’importanza inversamente alla delusione che prova, e probabilmente affronta il prossimo quadro d’insieme con una consapevolezza maggiore.
            Osservo il quadrante dell’orologio: ancora pochi minuti, forse, un’ora al massimo. Lui ondeggia tra confusi pensieri cumulativi, assapora un desiderio che annulla qualsiasi altra cosa. Eccoti, infine. Come stai? Dici senza interesse, quasi per abitudine. Ti osserva, forse ritrova la medesima impressione che conosce quasi da sempre. Dico: mi sei mancata, anche se devo abituarmi all’idea di trascorrere giorni e periodi senza di te. Non sono sfuggente, rispondi. Cerco soltanto di preservare le tue percezioni dalla noia inevitabile che proveresti, se soltanto cercassi con te una vicinanza maggiore.
            Bruno Magnolfi

giovedì 10 gennaio 2013

Fine della strada.


            
            L’auto procede regolare. La strada è leggermente umida durante quei minuti prima dell’alba invernale, Fernando come sempre rispetta i limiti di velocità lungo la provinciale che lo porta fino alla fabbrica dove lavora. A lui piace fantasticare mentre la sua macchina viaggia tranquilla come ogni mattina, illuminando l’asfalto davanti e immettendo aria calda e piacevole nell’abitacolo. A volte gli pare quasi sia quella tutta la libertà su cui può contare durante la sua giornata, come se il resto del tempo intorno a lui scorresse quasi per automatismi, una fase dietro l’altra, senza mai alcuna variazione.
            Non c’è niente da segnalare in quelle giornate, niente da raccontare che sia differente al giorno avanti o a quello ancora prima, soltanto quella mezz’ora di viaggio lenta e piacevole che in certi giorni sembra ripagarlo di tutto, come se fosse quello il suo momento migliore, il solo vero momento che certe volte sembra appagarlo per tutto il resto. C’è una piccola zona industriale una volta superata l’ultima borgata di case, e tra una manciata di capannoni la strada in quel punto lascia lo spazio ad una serie di piccole vie caratterizzate da larghi piazzali per il parcheggio dei mezzi, il cartello giallo e nero indica quel luogo dedicato al lavoro, dove a quell’ora arrivano tutti, operai e dirigenti, quasi una democratica chiamata alle proprie attività.
            Fernando quando vede il segnale prova sempre una fitta dolorosa: viaggio terminato, pensa, finita la breve parabola sognante di ogni mattina, la concretezza delle cose chiama al dovere da svolgere. Non c’è niente di male, lui è contento del suo lavoro, il suo ruolo lo porta avanti sempre con serietà, lo stipendio per la sua famiglia è fondamentale, di tutto questo ne ha piena coscienza. Eppure, quando entra dentro al parcheggio, qualcosa sembra inesorabilmente fuggirgli via, qualcosa che sa di ritrovare solamente la mattina seguente, durante lo stesso tragitto.
            Per questo in un giorno qualsiasi decide di ignorare il segnale, di andare avanti, proseguire fingendo quasi di non accorgersi di essere ormai arrivato. La strada prosegue regolare, lui guida la sua auto come se ancora ci fosse un tratto di provinciale da completare, la mente è libera, i pensieri insistono a muoversi nella sua testa pungolati dalla fantasia. Gli sembra per una volta di prolungare quel piacere altrimenti interrotto in maniera sempre crudele, la strada procede, lui si sente contento, sempre più libero dai suoi doveri, ma qualcosa poco dopo stringe alla gola Fernando, gli sembra di non sentirsi perfettamente, non riesce ad andare più avanti, accosta la macchina e velocemente si ferma al margine della carreggiata.
              I fari e il motore restano accesi, la ventola prosegue a far girare l’aria calda all’interno, ma lui improvvisamente sta male, non sa cosa fare, non riesce a capire quale sia la decisione giusta da prendere. Riflette, immagina i suoi colleghi di lavoro che lo attendono, si sente sul punto di tornare indietro e fingere con tutti di non sapere che quella non è una mattina come tutte le altre. Infine torna ad innestare la marcia, riprende la corsa, va ancora avanti Fernando: cosa importa mancare per questo giorno, pensa; adesso c’è qualcosa di importante che devo scoprire, magari proprio dopo la prossima curva, forse, oppure tra un chilometro o due, non lo so. Adesso c’è qualcosa che devo capire, pensa ancora con tutte le forze rimaste, non posso rinviare ulteriormente questo mio appuntamento, devo andare avanti, proseguire, almeno fino alla fine di questa stupida strada.
            Bruno Magnolfi  

lunedì 7 gennaio 2013

Processi coincidenti.


           

            Sto male, senza alcun dubbio. Se mi corico, provo dei sottili dolori non ben localizzati, e soprattutto ho l’impressione che il mio corpo sia, chissà da quanto tempo, come caduto in una fase di estrema fragilità, quasi che il cuore per esempio si potesse fermare da un attimo all’altro, o l’apparato digerente fosse preda di un inizio di blocco improvviso, senza possibilità di recupero. Mi giro su un fianco, rifletto: nulla potrà mai rimanere com’era.
            Poi sento delle voci nella stanza adiacente o nel corridoio del mio appartamento, mi alzo, indosso una giacca da casa, esco svogliatamente dalla mia camera. Degli amici sono venuti a farci una visita, a me e a mia moglie. Ci sediamo, scambiamo tutti i convenevoli, si ride di qualcosa per rompere quel sottile velo di imbarazzo che sempre in questi casi si forma.
            Non sto bene, dico subito, non so neppure perché. Non ho alcun dolore ben localizzato, dico, però sento che qualcosa non va, che non è più nella stessa maniera di com’è sempre stato. Proseguo a spiegare i sintomi e le percezioni che mi fanno sentire in questo modo, e alla fine tutti iniziano a guardarmi con pena, con espressioni serie e compunte, compresa mia moglie.
            Per convincere tutti della mia situazione vorrei quasi fingere uno svenimento, accasciarmi a terra andando a sbattere con una spalla sul pavimento, gli occhi chiusi, gli arti completamente rilasciati, ma mi trattengo, non è il caso di esagerare, penso con un briciolo di razionalità. In ogni caso siedo abbracciandomi la pancia e lo stomaco, come se un forte dolore o qualcosa del genere venisse da lì. Mi piego in avanti, lascio che mia moglie mi chieda se sia il caso di prepararmi del tè caldo, oppure che addirittura chiami un dottore, e tutti sembrano preoccupati, si dice addirittura che è meglio se sto coricato, piuttosto che rimanere seduto dove mi trovo.
            Lascio che mi accompagnino in camera, sistemino alla meglio sul letto il mio povero corpo, e che infine mi lascino solo, nella lieve oscurità delle tende tirate. Mi piace essere accudito in questa maniera, penso, anche se adesso, una volta rimasto in solitudine, mi pare addirittura di stare un po’ meglio. Mi abbandono ai pensieri che scorrono lentamente nella mia testa, forse potrei dormire e riposarmi in questo ovattato silenzio, rifletto, ma improvvisamente un nuovo forte dolore si fa sentire con nettezza durante la mia normale respirazione.
            Un debole rantolo sembra fuoriuscire dalla mia gola ogni volta che inspiro un po’ d’aria. Prendo tempo, i polmoni paiono soffrire terribilmente di questa situazione, è come se si fosse aperto uno squarcio in mezzo agli alveoli, oppure nei bronchi, non so, un dolore che non riesco minimamente a controllare. Mi sento la fronte imperlata di un sudore freddo e innaturale, sento nella stanza vicina le voci di tutti mentre si intrattengono ancora a parlare: vorrei chiamarli, urlare che sto male, male davvero, che ho bisogno di aiuto, forse di un medico, ma non riesco ad aprire neppure la bocca, e la mia respirazione è ormai ridotta ai minimi termini.
            Infine mia moglie gira la maniglia della porta ed entra dentro la camera, probabilmente solo per controllare come io stia in questo momento, mentre gli amici, adesso silenziosi, rimangono con garbo alle sue spalle. Il mio viso è umido e appiccicoso, evidentemente ho sbavato del sangue, mi sento sull’orlo di un non ritorno, ma alla vista dello spiraglio di luce sollevo la testa leggermente dal letto, strabuzzo gli occhi, guardo mia moglie, dico: sto morendo. Poi perdo i sensi.

            Bruno Magnolfi

domenica 6 gennaio 2013

Futuro da scegliere.


            Ho sempre fatto il minimo possibile, confessa l’uomo dopo un piccolo sorso di birra. Lo so, risponde l’altro, solo non è questo il caso: si tratta di impegnarsi per uno scopo più alto, ecco tutto. L’uomo lo osserva, forse vorrebbe dirgli semplicemente che non gli interessa un bel niente di tutta quella cosa di cui sta parlando, ma non lo fa, e così rimane in silenzio concedendogli ancora del tempo per potersi spiegare.
            L’altro dice che non si può osservare tutto sempre nella stessa maniera, usare gli stessi criteri. Arriva un momento, gli fa, che bisogna decidere. Questo è il punto. Decidere se in tutto questo tempo ci è stato bene questo tipo di gioco, oppure se ne avevamo nella mente uno diverso. Magari qualcosa che sia simile proprio a ciò che ti sto proponendo.
            Lui si gratta la faccia, pensieroso; poi fa: ma perché dovrei impegnare il mio tempo per gente che neppure conosco, oppure decidere che addirittura tengo a delle persone quasi più di quanto tenga a me stesso, c’è una contraddizione in questo comportamento, e in ogni caso è un atteggiamento tipico del mondo religioso, di chi dedica la vita agli altri, senza preoccuparsi di altro. Ma se io voglio stare in mezzo alla gente come una persona comune, devo essere proprio come gli altri, non comportarmi come uno diverso.
            Va bene, fa l’altro mentre beve un sorso della sua birra; però sappiamo che questo modello non ha funzionato, ci porta tutti soltanto verso uno scontro di individualità. Dobbiamo cambiare modello, è inevitabile, e tu puoi essere tra quelli che ha compreso prima di altri questa semplice constatazione. Io non ti dico di cambiare adesso, però inizia a pensarci, a modificare qualcosa nella tua mente, poco per volta.
            Un tipo si avvicina al tavolo dove stanno seduti loro due, il locale è quasi vuoto, ed ha ascoltato le ultime parole che si sono scambiati. Fate già parte di un’associazione, immagino, gli dice andando subito al sodo. Certo, fa l’altro, ci riuniamo una volta ogni settimana, e facciamo progetti per cercare di impegnarsi su questi temi. Lui è addirittura uno dei soci fondatori, fa l’uomo, e continua a dire a tutti che dobbiamo avvicinarci a questi problemi.
            D’accordo, fa il tipo che si è avvicinato, restando in piedi. Io sto cercando appunto un’organizzazione come la vostra: vorrei dare la mia disponibilità. Impegnarmi con voi, sapere che sto lavorando per il sociale, perché questo è ciò che mi pare più importante in questo momento. Visto, dice l’altro, che ti dicevo, ci sono persone che cominciano a maturare delle idee importanti, sei tu che non vuoi smuoverti, che rimani ancorato a delle idee vecchie e senza futuro.
            L’uomo si alza, ha finito ormai la sua birra, non dice niente, osserva soltanto loro due che sembrano stare perfettamente dalla stessa parte, poi va verso il banco e paga la sua bevuta. Poi torna indietro e dice semplicemente: non lo so, ci devo ancora pensare; in ogni caso ho l’impressione che voi siate destinati a diventare soltanto fanatici, intestarditi in qualcosa che non sta da nessuna parte. Vorrei credervi, condividere il vostro entusiasmo, ma non ci riesco, ho paura che rimarrò soltanto uno che pensa le cose in una maniera più vecchia, e forse sarò sempre più solo, isolato, ridotto al silenzio dai fatti e dai comportamenti di tutti. Ma forse questo è soltanto il mio scopo finale.
            Bruno Magnolfi

venerdì 4 gennaio 2013

Dialogo n. 10. Incomprensioni di donne.


       
            Fumavano i due, appoggiati ad un muro, a godersi il sole cittadino di quel primo pomeriggio d’inverno.  Avevo girato lì attorno, la mano infilata in una busta di plastica, in fondo al guinzaglio il barboncino nano della mia fidanzata.
            Sorrise, aveva detto il primo al secondo. Io intanto avevo raccolto i piccoli escrementi che subito avevo gettato dentro al contenitore dei rifiuti vicino. Le piaceva, aveva subito dedotto l’altro, lasciando uscire una boccata di fumo in mezzo ai denti, e allargando le labbra.
            Il cane si era seduto sul marciapiede, indifferente, come in attesa, ed io avevo cercato di dirgli qualcosa, ma senza che le mie parole avessero avuto nessuna minima importanza, restando in attesa, proprio come faceva lui, sul marciapiede, e cercando di decidere verso dove si avesse voglia di andare.
            Non so, aveva come ribadito il primo uomo a quell’altro: aveva uno sguardo. Che sguardo, replicava il secondo con interesse, e intanto si voltava, come a guardare chi stesse giungendo, o se qualcuno stava giungendo, anche se non c’era proprio nessuno lungo quel marciapiede, se non io stesso, di spalle, ignorato, e il mio barboncino, inchiodati a tre o quattro metri da loro.
            Contemporaneamente avevo cercato di tirare dolcemente il guinzaglio, giusto per togliermi dall’imbarazzo, naturalmente non ottenendo alcun risultato. Non so: uno sguardo, aveva detto l’uomo, forse soltanto per aprire una nebulosa di possibilità, che peraltro restava assolutamente impossibile da comprendere, secondo lui.
            Intanto il cane si era deciso e ci eravamo così spostati più avanti, ma subito dopo il barboncino aveva voluto tornare indietro, sui nostri passi, ed io lo avevo seguito, naturalmente odiando il giorno in cui mi era presa l’idea di regalare quel cucciolo alla mia fidanzata.
            I due avevano continuato a  fumare, abbagliati dalla luce calda del sole e forse dal pensiero di uno sguardo che non erano riusciti del tutto a decifrare. Poi uno aveva concluso: sono tutte così, come a spiegare che non valeva neppure la pena di stare a parlarne. Io naturalmente avevo annuito, ma poi il barboncino aveva tirato il guinzaglio da un’altra parte, proprio per farmi capire che desiderava portarmi da tutt’altra parte, una volta per tutte.

            Bruno Magnolfi

giovedì 3 gennaio 2013

Una parte di me.


          

            Amerigo cammina, per la mano tiene sua nipote di appena cinque anni, che ogni tanto gli pone qualche piccola domanda, come d’altra parte fanno tutti i bambini alla sua età. Lui con pazienza le spiega qualcosa, le indica qualcos’altro da osservare, le fa notare come sia viva la città, e come si muova, anche se poi ogni tanto lui stesso si ferma, come per rendersi meglio conto di ciò che vuole dirle davvero, oppure riflettendo su cosa ci sia di particolarmente caratteristico intorno a loro, tale da incuriosirla, e per invitarla ad osservare un elemento o l’altro con maggiore attenzione.
            All’improvviso però compie come un salto Amerigo, si dimentica quasi della nipote, anche se continua a tenerla per mano guardando la strada davanti a sé; ma è come se fosse la prima volta che vede qualcosa del genere, qualcosa da cui adesso si sente perfino circondato. Ad un tratto, infatti, gli è parso quasi di entrare in un banco di nebbia, o dentro una nuvola, ecco, quasi che il cielo quel giorno avesse deciso di abbassarsi su lui, fino quasi a fargli staccare i piedi da terra ed attrarlo a sé in una strana dimensione impalpabile. Sono inspiegabili certe sensazioni, lo sa perfettamente, così non prova neanche a dire a sua nipote che cosa gli stia capitando.
            C’è una panchina lì accanto, così invita la bambina a sedersi con lui, in silenzio, momentaneamente come sospesi, quasi senza più alcuna cosa da dirsi. Cosa c’è di più bello che sentire questo freddo invernale sopra la faccia, pensa Amerigo, sapere che saranno soltanto le decisioni giuste a cambiare poco per volta questa realtà, che tutto sarà modificato prima o dopo, e che ciò che vale adesso forse tra poco non sarà più così. In silenzio, sua nipote osserva le macchine che transitano lungo il viale, ne indica una con il suo piccolo dito, come a fargli vedere che anche lei a suo modo avverte ciò che succede, ne ha percezione.
            Amerigo vorrebbe quasi spiegare alla bambina quali emozioni si prova quando si ha consapevolezza di tante cose che esistono, ma è un argomento impossibile, non trova alcuna parola da dirle a riguardo, così si limita a prendere ancora la sua piccola mano e a tenerla con sé, come qualcosa di estremamente prezioso, quasi bastasse quel semplice contatto per trasferirle un po’ di quei suoi pensieri, quelle piccole preoccupazioni che lui ha accumulato negli anni.
            In fondo, c’è poco significato in questo mio volerle spiegare qualcosa, pensa ancora; al contrario, dovrei sforzarmi di vedere tutto proprio con i suoi occhi, sentire la realtà con la sua spontanea voglia di conoscere, di sapere come si muove ogni cosa che sta intorno a noi; ma rimane difficile, così complicato appare dimenticarsi anche per un attimo solo il proprio passato, le proprie esperienze, tutto ciò che è ognuno di noi, e ciò che è stato fino a questo momento.
            Poi ad Amerigo torna a mente qualcosa di quando aveva più o meno l’età di sua nipote. Sua madre gli teneva le mani sugli occhi, certe volte, e gli chiedeva di immaginare tutto ciò che voleva, come se in quel momento non ci fosse alcuna limitazione. Così inizia a pensare, Amerigo, come riuscire a spiegare alla nipote che la cosa forse più importante di tutte è quella di non smettere mai di avere fantasia, e di guardare le cose certamente per come sono davvero, ma in certi casi di trasformare tutto quanto semplicemente con la forza dei suoi pensieri, e immaginare sia ciò che potrebbe essere se stessa, sia il resto che ha intorno a sé, elaborando una specie di caleidoscopio, una metamorfosi quasi infinita della realtà.
Poi torna ad alzarsi e a riprendere la bambina per mano. Ma che importa, pensa ancora, prima di rimettersi a camminare: lei riuscirà a comprendere tutto senza neppure bisogno che qualcuno ne spieghi anche solo una parte di quanto è possibile; e a me basterà tenerla per mano per trasmetterle anche più di un frammento di quanto vorrei; ma questo sarà già sufficiente.

            Bruno Magnolfi