venerdì 30 dicembre 2016

Schiera di parte.

            

Mio padre sul cantiere è sempre inflessibile. Io al contrario non faccio mai il duro con nessuno: sul lavoro ci vado quando posso, ed in genere mi faccio vedere giusto per controllare che tutto proceda secondo il progetto generale, e che le norme di massima siano rispettate dagli operai e dai vari subappaltatori. Lui no; lui si fa vedere spuntando fuori all’improvviso, ed è come se buttasse tonnellate d'acqua su tutto quanto, fino a riempire la grande vasca, per cui chi sa nuotare, oppure si arrangia in qualche modo, riesce alla fine a mantenersi a galla, ma tutti gli altri inevitabilmente precipitano sul fondo, con la pancia gonfia e gli occhi sgranati dal terrore.
Ho sempre paura quando sto con lui; paura che se la prenda anche con me in quelle occasioni, magari per come ho trattato alcune cose, o come ho gestito certe lavorazioni, o per come mi riferisco direttamente ai lavoranti; così quando c’è mio padre da queste parti, se posso io resto in ufficio, oppure me ne vado in giro per conto mio con qualche scusa generalmente più che plausibile. Perciò, quando gli operai mi vedono arrivare sono sempre un po’ rilassati: sanno che non sto arrivando insieme con mio padre, e quindi mi salutano, alzano la mano come per un gesto di pace, sorridono, mi trattano con confidenza. Non mi piace, potrei anche innervosirmi per questo, anche se poi non lo faccio, perché vorrei essere preso maggiormente in considerazione, anche se alla fine penso non si può avere proprio tutto, ed è così che poco per volta lascio correre, e se nessuno ha timore dei miei modi, alla fine vorrà dire che non ha poi molta importanza.
Poi un caposquadra mi ferma: ingegnere, mi dice, i ferraioli nelle armature di questi pilastri hanno tirato un po' via, ma tanto nel pomeriggio si faranno le gettate e così non si vedrà più un bel niente e tutto sarà a posto. Sorride, io sorrido a mia volta, mi viene subito la voglia prepotente che tutto sia finito, prima che arrivi mio padre, e che io possa andarmene da lì senza vederlo, perciò annuisco, mi fido di questo caposquadra, andrà tutto bene, sono sicuro non ci saranno dei problemi. Oggi mio padre penso non venga, gli dico, ma subito mi pento di avere detto cosi: si può fare quasi come si vuole, riprendo con ironia, ma oramai mi rendo conto di aver detto qualcosa di profondamente sbagliato. Difatti quello mi guarda con serietà, ma poi prende le mie parole proprio sul serio, perciò ride come senza motivo, e mi tocca anche il braccio, a dimostrazione che basta un gesto e una consapevolezza per sentirsi esattamente dalla stessa parte.
Vorrei non essermi fatto vedere sul cantiere, vorrei adesso avere l'autorità per controllare minuziosamente tutte le armature, vorrei che tutto scorresse come sull'olio, senza dare alcun problema, e forse alla fine mi piacerebbe anche che mio padre fosse qui, a preoccuparsi lui di tutte queste cose. Mi volto, mi pare di non aver compreso qualcosa, ma gli operai invece hanno capito perfettamente che oggi lui non verrà sul cantiere, e battono la fiacca, si muovono lentamente, fanno il minimo di ciò che dovrebbero combinare. Mi assento un minuto, giro sul retro, e poi alla fine telefono a mio padre. Quando arriva io me ne sto andando, gli operai mi guardano da lontano. Forse mi reputano un traditore, uno che fa il doppio gioco, e questo sinceramente mi dispiace. Però non potrei essere quello che sono, se non fossi parte di una squadra schierata.


Bruno Magnolfi

lunedì 26 dicembre 2016

Cena indispensabile.

            

Lei appare triste, specialmente in giornate come questa; lui invece no, ma forse soltanto perché riesce a fingere meglio. Le dice: dai, usciamo, si fa un giro a vedere chi c'è lungo la strada, e magari ci fermiamo a prendere un caffè. Così escono e trascorrono il pomeriggio in questo modo. Quando tornano indietro la casa è sempre la medesima, ed un certo grigiore, intorno alle lampade dell’ingresso che si accendono al loro rientro, sembra creato apposta per rendere tutto quasi insopportabile.
Qualche volta vorrei andarmene, fa lei quasi sottovoce; poi si mette a sistemare qualcosa di poco impegnativo, senza posare gli occhi su niente di particolare. Lui invece la guarda, sorride forzatamente, poi dice che non è il caso di esagerare se anche questo non sembra il periodo migliore della loro vita. Accende la radio, forse per riempire un vuoto colmo di silenzio, e infine si siede sulla sua poltrona, nell’attesa che lei lo raggiunga e gli dica ancora qualcosa intorno alle parole pronunciate poco prima.
Invece non avviene niente: lui prosegue a starsene seduto, lei gira per la cucina sistemando delle cose che probabilmente potrebbero preludere alla cena. Così lui si alza e la raggiunge, proprio nello stesso momento in cui lei esce dalla stanza per andare in bagno. Lui si accorge che sul tavolo non è stato predisposto niente, così apre il frigorifero e controlla cosa sia possibile mettere ai fornelli. Ma non fa niente, non ha nessuna idea particolare, e dopo qualche minuto torna di là, sedendosi nella stessa poltrona dove stava prima.
Apre una rivista, la sfoglia, ascolta una musichetta che gli ricorda piacevolmente qualche cosa, e intanto attende che lei si ripresenti, che lo abbracci da dietro, come fa sempre. Invece, quando lei torna, va diretta in camera da letto, e quando poi apre la porta mostra che si è cambiata d’abito, e indossando sopra tutto la sua giacca pesante, dice semplicemente: esco; ci vediamo più tardi. Lui si alza, la raggiunge lentamente nell’ingresso, e mentre sta per chiederle qualcosa su quella sua uscita improvvisa, lei apre la porta e sparisce in fretta, senza guardare indietro.
Lui torna a sedersi: qualcosa gli è sfuggito nella comprensione di quel comportamento, così ripensa alle parole che si sono scambiati loro due nelle ultime ore, ma gli pare che niente ci sia di sbagliato o di pesante da parte propria. Attende una mezz’ora, si sente agitato, infine si piazza alla finestra, da dove è possibile tenere d’occhio la strada prospiciente. Niente accade sopra ai marciapiedi là di fronte, se non le solite cose di ogni giorno. Lei torna più tardi, quando lui ormai si sente quasi disperato. Accende le lampade all’ingresso, lo guarda mentre si sfila la giacca dalle spalle: dovremo prendere un cane, gli dice con profonda serietà. Mi piace uscire per arrivare a piedi fino ai giardini, per poi starmene lì, a girare tra le aiuole fino a quando non mi sento stanca: non sarà il massimo della vita, però mi fa sentire libera, almeno per qualche minuto; lontana dal grigiore di sempre, da queste stanze senza più un briciolo d’aria fresca.
Lui la guarda, annuisce, infine va in cucina per evitare di appesantire ulteriormente il clima; si potrebbero cucinare degli spaghetti per stasera, le dice senza grande convinzione. Va bene, fa lei, lascia tutto sul tavolo, che ci penso io a preparare qualcosa per la nostra cena.


Bruno Magnolfi  

sabato 24 dicembre 2016

Aspirazioni.



Non so, forse non è niente. Però c’è questa mano, dico proprio mentre me la sto guardando, stendendola nell’aria. Mi fa male, tutto qua, non la posso muovere come vorrei, e perciò la tengo il più possibile in tasca; ma siccome provo una certa uggia dal polso fino alla punta delle dita, mentre cammino con il mio passo lento, non posso fare a meno di pensarci continuamente, di identificarmi nella mia mano destra, fino ad immaginare di calarmi tutto quanto per intero dentro alla tasca, proprio insieme alla mia mano, e stare lì fermo, raccolto, chiuso nel caldo, ad aspettare forse qualche buona novità, magari che all’improvviso riesca a passare semplicemente questo antipatico dolore.
Il punto è che non riesco a dimenticarmi mai di lei, della mia mano dico, e così convivo col dolore e con la sofferenza. Potresti andartene da un dottore, mi dice un tipo che conosco appena. Potresti fartela visitare da qualcuno che davvero se ne intende, mi fa. Io guardo dall'altra parte della strada, proprio per non dargli alcuna importanza, anzi per sminuire quelle sue parole che quasi non vorrei sentire. C'è la possibilità che qualcuno faccia la diagnosi di un male irreversibile, penso, o comunque qualcosa di grave che mi imponga scelte e cambiamenti, così è meglio lasciare tutto come sta, piuttosto che affrontare un crollo psicologico o qualcosa di quel genere.
La tengo ferma, dico a questo tizio, mi occupo di tutto con quest'altra, e le cose vanno bene nella stessa medesima maniera. Questo caldo della mia tasca poi, a qualcosa riuscirà ad essere utile, ed io penso proprio che poco per volta le cose si rimetteranno a posto, come se niente fosse stato, e tutto sarà di nuovo nella stessa esatta maniera di poco tempo fa. Come vuoi tu, fa questo tipo che inizia a starmi sulle scatole, però sentirsi sminuiti nei propri movimenti, secondo me non è una bella cosa. Lo lascio dire, pesco dalla tasca, quella della mano sinistra, una cicca che avevo messo da parte proprio per questo pomeriggio, e senza mai estrarre la mano malata dal suo nido, riesco ad accenderla ed a tirare qualche boccata di fumo. L’altro mi guarda, io continuo a camminare, la mia espressione è di tranquillità, se non fosse per questo maledetto sottile dolore che ancora avverto.
Quello però insiste, dice che le mani sono la parte principale di una persona, e che non è una bella cosa lasciare che un semplice dolore renda inservibile una parte del proprio corpo. Lo lascio dire, mi disinteresso delle sue parole, e intanto vedo qualcuno che conosco dalla parte opposta della strada, così decido di attraversare di colpo, senza preavviso, lasciando questo tizio alle sue farneticazioni. Quello mi segue per un attimo, dice che non va bene comportarsi in questo modo, ed anche altre cose di quel genere, ma io oramai non lo ascolto più, e mi rivolgo a quest’altro sopra al marciapiede salutandolo, mentre l’altro finalmente se ne va. Lui mi dà la mano ed io gli porgo la sinistra, scusandomi che ho l’arto impedito da un dolore forte e inusuale.
Si va avanti a camminare parlando per qualche attimo del più e del meno, ma quello subito mi dice che gli dispiace che io sia menomato, e che spera trovino presto una cura adeguata per rimettermi a posto. Sorvolo su queste parole, e gli dico subito che a me piace passeggiare lungo quella strada sempre affollata di gente. Lui fa cenno di si, ma poi riprende il discorso della mia mano, ed allora penso che sia diventata un’abitudine quella di parlare delle cose che non vanno. Invento subito una scusa, gli dico che ho da fare, e in questo modo me ne vo per conto mio. Giro ancora un po’ lungo la strada, ma ormai ho il terrore di incontrare altre persone che conosco, così mi copro la faccia con la mano sinistra, e appena posso volto per una via meno frequentata. Non si riesce mai a starsene tranquilli, penso; non ho bisogno di consigli o suggerimenti: convivo col mio male, vorrei che gli altri non gli dessero alcun peso, insomma che si disinteressassero del tutto delle mie pene.


Bruno Magnolfi

mercoledì 21 dicembre 2016

Incontro furtivo.

           
            Guardo avanti in questi giorni, dice Leo con serietà ma senza dare troppa enfasi alle sue parole pronunciate comunque a mezza voce. Prima o dopo dovrai fermarti, dice lei in un sussurro, dopo che ha accettato di incontrarlo, anche soltanto per una manciata di minuti, in quel locale tranquillo, fuori mano, dove nessuno evidentemente la conosce. E intanto sono già sulle tue tracce, dice ancora lei; prima o dopo dovrai mostrarti, non puoi stare sempre con la faccia coperta dagli occhiali scuri. Ti tradirai: basta solo una telefonata, qualche curioso che si pone una domanda di troppo su di te, o che magari fa controllare la tua vera identità, prende qualche informazione circa il tuo passato, concedendosi un’incursione veloce in qualcuno dei segreti che nascondi. Tutto sarà perduto in un momento, proprio mentre stai forse cercando quel briciolo di normalità che adesso ti manca, comprando qualcosa da mangiare, o camminando semplicemente in una strada.
            Va bene, fa lui, hai reso l’idea; però mi sembra adesso di dover fare ancora mille cose, di aver bisogno di sviluppare appieno i miei pensieri, soprattutto le mie idee; da quando mi trovo in questa situazione da braccato, pare che tutte le mie riflessioni girino molto più velocemente dentro la mia testa, e che tutto per me si faccia più a portata di mano, quasi facile, spesso almeno fattibile. Mi pare quasi di poter affrontare qualsiasi cosa, di riuscire ad esprimere con i miei semplici sotterfugi, un segnale forte per me e per tutti quanti, tanto da farmi sentire leale, battagliero, consapevole persino dei miei limiti. Certo Leo, dice la ragazza, ma è proprio questa tua sensazione di grandezza e di imprendibilità che probabilmente ti sarà fatale. E’ normale immaginarsi che le cose per te si faranno negative da un momento all’altro, perché sarà così, ed improvvisamente sarà anche tardi, e non potrai proprio farci più niente.
            Lo so, fa lui, ma in ogni caso, per quanto assurdo sia, mi sento bene in questa fase: è come se finalmente avessi trovato una dimensione particolarmente giusta per me, quella che sapevo esserci da qualche parte, ma che fino ad ora non avevo mai tentato; devo guardarmi attorno, questo è chiaro, stare sempre nascosto e sulla difensiva, cercare continuamente coi miei sensi dilatati delle vie di fuga; ma questo non essere esattamente calato nel sistema mi fa sentire a posto, finalmente io, come effettivamente sono sempre stato. Non può durare molto, lo capisco benissimo, ma in ogni caso devo andare avanti in questo modo, perché se non percorressi fino in fondo questa strada, rinnegherei una parte di me, che adesso grida per stare qui al mio passo.
Qualcuno lo guarda dall'altra parte del locale, lei furtivamente prende dei soldi che aveva preparato, e glieli passa rapidamente sopra al piano del tavolo, nascosti dentro un libro. Leo sorride, è una situazione che, per quanto assurda sia, quasi gli piace, come se finalmente avesse trovato la giusta lotta da portare avanti, contro un nemico diffuso e inafferrabile, che lo fa sentire solo ma importante. Scatta un meccanismo, da qualche parte, lei si volta indietro, avviene qualche cosa in fondo a quel locale, come un colpo d’aria che d’improvviso facesse volare le tovagliette via dai tavoli, e mettesse tutti quanti i presenti di fronte ad una realtà non calcolata. Leo è sparito; quando lei si volta verso di lui, lui non c’è più, volatilizzato insieme al libro, e sopra al tavolo è rimasta solamente un’ombra, un’orma di qualcosa che non sarà più nemmeno tanto facile incontrare.


Bruno Magnolfi

lunedì 19 dicembre 2016

Distanze apprezzabili.

          
            E’ proprio lei, dicono alcuni senza aggiungere altro. Dentro al supermercato, tra gli scaffali, in due o tre poi si voltano con curiosità al suo passaggio, ed uno dice subito a bassa voce, con espressione sincera ma con un tono vagamente canzonatorio, che si stenta perfino a crederci. La donna col suo carrello prosegue impassibile, anche se si è accorta benissimo di attrarre per qualche motivo l’interesse su di sé. Le attività del giorno proseguono per alcuni minuti senza troppe incertezze, fino a quando qualcuno, casualmente accanto a lei, sorride al suo indirizzo, anche in modo vagamente sforzato, come a mostrare in una certa evidenza che forse al suo posto ci sarebbe da sentirsi un po’ in imbarazzo. Lei si ferma, lo squadra, gli concede appena un secondo del suo tempo, forse due, poi riprende a camminare con piena normalità.
            Quando esce è da sola dentro al parcheggio subito di fronte; carica sulla sua auto le borse della spesa, e poi sistema il carrello nella rastrelliera, infine però chiude la macchina, e torna sui suoi passi, con andatura calma, fino alle porte scorrevoli del supermercato. Adesso le pare non ci sia più nessuno delle persone che la tenevano d’occhio poco prima, ma lei si accorge come al loro posto una signora, dall’interno delle vetrate, si sia voltata proprio per osservarla, come se già si aspettasse di vederla là fuori. Lei sostiene quello sguardo, ma quella subito mostra forzata indifferenza, pur iniziando a parlottare di qualcosa con le persone che le stanno vicino.
Lei rientra dentro, ed una cassiera sembra subito la guardi, così scorre lungo il corridoio nell'attesa di affrontare la prima persona che, esattamente come poco fa, mostri dipinta sopra il viso quell'espressione giudicante che ha notato in tutti gli altri. Un ragazzo ride mentre si muove rapidamente e quasi di fretta vicino a lei, e lei lo ferma, senza incertezze, prendendolo per un braccio con la mano, senza neanche stringere, ma con un gesto più che eloquente. Quello si ferma, subito si rannuvola, assume di colpo un'espressione seria, quasi preoccupata. Cosa sai di me, gli chiede lei, guardandolo negli occhi con estrema decisione. Non so, fa lui, però dicono tutti che sei una strega, o una donna senza morale, forse una persona completamente diversa da noi; ma a me non importa, lo giuro, mi diverto così, a dare retta a chi ha soltanto voglia di chiacchierare, e dopo basta, non so altro. Lei lo lascia, senza smettere di guardarlo attentamente. Però, dice ancora lui, forse non c’è niente di vero in quanto dicono, non saprei proprio giudicare. Comunque a me in fondo non interessa niente di tutta questa storia.
Lei si volta mentre il ragazzo se ne va, qualcuno la sta ancora osservando, ma non è possibile fare nulla, qualsiasi cosa avvalorerebbe probabilmente quelle dicerie, e poi lei si metterebbe in una luce ridicola dando peso a cose di quel genere. Così esce, mentre qualcuno continua ad osservarla con uno sguardo nascosto. Dovrei smettere di frequentare questo posto, e probabilmente sarebbe la cosa più sensata da fare, ma così sarei esattamente la persona che vogliono dipingere; perciò mi comporterò esattamente come sempre ho fatto, in modo da non dare alcun seguito a quanto viene millantato. E poi che cosa importa: chi vive appresso a cose del genere, con certezza è qualcuno estremamente distante da ogni mio pensiero.

Bruno Magnolfi 


giovedì 15 dicembre 2016

Genesi del muro.

           
            Ho visto scritto sopra al muro il mio destino. Per questo ho subito voltato lo sguardo verso gli alberi, lungo i giardinetti desolati, al margine di questa piazza, dove le persone spesso si ritrovano, e spesso parlano tra loro, come se soltanto questo fosse il compito fondamentale di tutti i cittadini. Quegli alberi sembrano patiti, i rami rinsecchiti, le foglie parzialmente smunte, e le persone che stanno sempre da queste parti, anche se fingono di non accorgersene mai, sono virtualmente colpevoli di quanto è già accaduto, come se adesso tutto l’attuale panorama che è possibile osservare, fosse oramai un elemento sostanzialmente invariabile, quello e basta. Sorrido: forse va bene, non c’è problema, anche se alla fine questa è soltanto la piazza del mio paese, un agglomerato di case a cui non sono neppure troppo attaccato sentimentalmente.
            Le pietre stanno ferme, la loro superficie è fredda e immobile, cammino rasentandole, e intanto penso che non ci sia altra possibilità se non ignorare il messaggio di chi ha voluto porre proprio qui la sua firma quasi indelebile. Mi avvicina un ragazzo, dice che le giornate sono corte, fa freddo, che si sta bene soltanto in posti riscaldati, a scambiarsi le opinioni davanti ad un bicchiere, se si toglie queste due o tre ore di sole, magari accanto al muro che chiude al vento e alla temperatura rigida di questo periodo. C’è una scritta, dico: qualcosa che  indica forse cosa ci sia da fare in questi giorni, dove ogni contrapposizione blocca la volontà, lasciando campo soltanto alle mediazioni. Poi seguo il ragazzo, entriamo insieme nel caffè che si apre sulla piazza, e tutto improvvisamente sembra allegro, le persone si salutano, pare si snodi come una ritrovata civiltà.
Mi trattengo poco, in fondo credo di non avere quasi niente da spartire con tutti questi personaggi, se non la voglia di nuovo, di cambiamento, commisurata con il bisogno profondo che tutto resti esattamente tale e quale. Torno al muro, da solo, ma quello non si abbassa a dire nient’altro, lascia che tutti gli argomenti trattati riescano ad equipararsi, in modo da lasciarli ad una propria soluzione, e tutti coloro che abbiano la voglia di passare proprio da queste parti, restino sostanzialmente indifferenti a quanto questi sassi paiono suggerire. 
Torno indietro, costeggio il muro quanto più possibile, proprio alla ricerca di sentire ancora la sua voce, poi attraverso la strada, e vado incontro alle mie cose di sempre, quasi senza pensieri. Incontro il ragazzo di prima, dice adesso che neanche lui si trova bene in questo pozzo di luoghi comuni, circondato spesso da mancanze, più che da proposte e affermazioni. Percorriamo assieme uno stesso pezzo di strada, poi ognuno volta per la propria direzione, e nel saluto frettoloso che adesso ci scambiamo c'è la tristezza di non riuscire ad incidere affatto sulla realtà che ci circonda, quella piccola, appena esterna alla nostra privata quotidianità. Rientro in casa pensando ancora al muro: in fondo lo odio, rifletto; e per questo credo che per nessun motivo tornerò a considerarlo come certe volte ho fatto: un simbolo silenzioso delle mie giornate.


Bruno Magnolfi

lunedì 12 dicembre 2016

Attesa estenuante.

            
            Sono a terra, dice lei. Edo resta fermo a guardarla appena per un secondo, giusto un attimo prima di cambiare canale, poi però gli suona il telefono. Niente di speciale, una raccomandazione per il lavoro di domani da un suo collega, così con una scusa riattacca abbastanza velocemente, sentendosi a disagio, e poi la segue con calma e gli occhi bassi fino in cucina. Mi pare di aver perso la bussola, gli spiega lei semplicemente, senza neppure voltarsi. Lui resta in silenzio, gli pare assolutamente egoistico abbracciarla adesso, o farla sentire in qualche modo protetta con dei gesti piuttosto scontati. Così si limita a continuare a guardarla, restando in silenzio, anche se con tutto se stesso e con sincerità vorrebbe essere altrove, magari a ridere con gli amici di stupide battute senza alcun impegno e che non fanno neanche troppo pensare. Invece sta lì, insieme a lei, ed adesso probabilmente deve inventarsi anche qualcosa, trovare una frase o la parola giusta che possa distogliere l’interesse della sua donna da quel tema penoso. 
            Va bene, le dice di slancio: stasera si esce, si va fuori a cena, poi anche al cinema, dove vuoi tu, possiamo invitare qualcuno dei tuoi amici, parlare di tutto quello che vuoi, e tornare a casa tardi come sempre, distrutti dalle risate e dall’esserci dimenticati di qualsiasi apprensione. No, Edo, non questa sera, fa lei. Lui vorrebbe annullare tutte quelle parole ed essere di nuovo lì, davanti alla sua televisione, a seguire un qualsiasi programma, anche senza grande interesse; ma non lo può fare, e per questo si sente a disagio, non riesce a pensare un bel niente, se non a quelle parole dette da lei, che gli provocano soltanto uno schifo naturale, tanto che non vorrebbe mai più sentirle.
            Esco, fa lei d’improvviso; devo camminare da sola e respirare un poco di aria fresca, nient’altro, non preoccuparti per me. Lui non dice niente, ne segue i movimenti ma senza riuscire a guardarla in modo diretto. Lascia che lei si metta il giubbotto, che apra la porta, gli getti un’occhiata e poi se la chiuda alle spalle, tornando dopo un attimo, una volta da solo, a riaccendere la fida televisione. Le passerà, riflette, la mia disponibilità naturalmente c'è tutta, si tratta di capire di cosa effettivamente abbia bisogno. Dopo mezz'ora lei torna, la medesima espressione di prima, va in bagno, forse a piangere un po', infine torna, Edo la segue in silenzio con gli occhi, seduto sopra al divano. Non è colpa tua, fa lei; ma io non sopporto più questo trascinarci da un giorno all'altro con i medesimi gesti, la stessa inutilità delle parole che usiamo. Lui vorrebbe spengere di nuovo la televisione, ma siccome gli parrebbe di dare troppa importanza a quegli argomenti, la lascia accesa, limitandosi ad abbassare il volume e a non guardarne lo schermo.
Devo andarmene, fa lei, almeno per un breve periodo. Ma come, pensa Edo, non dovevamo affrontare insieme le cose? Lui si alza, va in cucina e poi torna con una lattina di birra, quindi si siede sopra un bracciolo, dice soltanto che gli pare tutto vagamente assurdo. Lei lo guarda dritto dentro gli occhi: non siamo uguali, gli dice; viaggiamo con velocità differenti, forse dovremo studiare un metodo per compensarci. Edo abbassa lo sguardo, gli piacerebbe suonasse il telefono in questo momento, o almeno giungesse un messaggio, perché quel silenzio gli sembra estenuante. Come vuoi, le dice alla fine, con un groppo alla gola; tanto puoi sempre trovarmi qui, ad aspettarti.


Bruno Magnolfi 

giovedì 8 dicembre 2016

Valore intrinseco.

          

Sono qua, urlo contro la facciata posteriore del condominio, impiegando tutta la voce che riesco a trovare in fondo al mio respiro. Qualcuno subito si affaccia alla finestra, altri ancora ai terrazzini, ed in certi casi parecchi mi osservano scansando lentamente con la mano quei panni vistosi sistemati sui fili e sopra gli stendini ad asciugare. Li guardo a mia volta, immobile per alcuni lunghi momenti; quasi tutti sanno benissimo chi sono, e forse qualcuno di loro mi teme, penso, per questo è portato ad evitarmi per la maggior parte delle volte, specialmente quando passeggio per i fatti miei, lungo la strada del quartiere, scegliendo quasi sempre di tenermi inevitabilmente un po’ a distanza. Non ne sono addolorato, è evidente: per me questa gente può persino maledirmi, se proprio lo desidera, che tanto io non mi allontano facilmente da questo cortile dove tutti stanno alla finestra e possono spiarmi. Non mi conoscono, ecco il punto. Perché dovrebbero sapere che se voglio riesco a tenerli sotto scacco, nonostante tutto. Urlo in faccia a loro la verità, ecco, proprio quello che penso e anche quando ne ho voglia, e tutti in questo modo sono nel mio pugno, ed io posso fare di loro praticamente ciò che voglio.
Siete soltanto delle pecore, dico ancora ma con voce un po’ più bassa. Ormai in diversi sono già rientrati, anche se hanno ormai compreso perfettamente cosa intendo dire questa sera; e gli altri, proprio per questo, non mi concedono più molta importanza. Nel cortile sono solo, a quest’ora stanno tutti nei loro appartamenti, potrei far scoppiare una bomba, rifletto, mostrare di che pasta sono fatto, ma è già sufficiente che sappiano che sono qui, pronto, senza alcuna soggezione. Torno ad infilare le mani dentro le tasche, mi volto, c'è una ragazza che viene verso di me. Si ferma a due metri, dice: se vuoi possiamo parlare. Parlare, penso, e di che cosa? Non sono abituato, se devo dire qualcosa riesco solo a dirla urlando. Facciamo due passi insieme, mi fa: puoi spiegarmi perché c'è l'hai sempre con tutti.
Non saprei proprio cosa risponderle, penso, e tutta questa importanza mi mette soltanto un po’ a disagio. Alzo le spalle, mi volto, ma lei mi tocca un braccio, dice che è sicura che non farei mai del male ad anima viva. La lascio dire, cosa mi importa di quello che crede, sto da solo in questo cortile, anche se fosse pieno di gente. Sono qui, urlo di nuovo improvvisamente al condominio, ma adesso non si affaccia più quasi nessuno, ognuno di loro continua a mandare avanti le proprie solite sciocchezze, e alla fine si disinteressa di tutto quanto il resto. C'è un muretto lì accanto, la ragazza si siede e mi invita con un gesto a mettermi proprio li, accanto a lei. Dice subito che anche a lei non piace questo condominio, così ordinario, scontato, fatto di gente noiosa e anche un po' triste. Hai ragione, penso, ma io soprattutto li odio, perché sono tutti soltanto dei vigliacchi.
Lei dice che potremmo fissare un appuntamento, vedersi tutti i giorni proprio in quel punto, alla stessa ora, e così imparare poco per volta a conoscersi un po’ meglio. Va bene, penso, in fondo non mi costa niente, posso stare qui con lei, pensare quello che voglio, urlare se mi va, non c’è nessun problema. Allora mi saluta, dice che si chiama Silvia, abita in un appartamento al terzo piano: posso guardarti dalla mia finestra, qualche volta. Non penso sia una buona idea, rifletto, in ogni caso la lascio andare e resto fermo, sul muretto, senza idee. Poi mi alzo, le mani nelle tasche, mi volto verso il condominio: scoppierà una bomba, urlo forte scandendo bene le parole; e voi dovrete per forza fare i conti con tutto ciò che adesso fingete di ignorare. Tutto a quel punto sarà diverso, e voi dovrete accogliermi, non potrete farne a meno; ed io e Silvia saremo le persone migliori di tutto questo posto, e voi vi affaccerete alle finestre, e ci saluterete, riconoscendo il nostro valore e i nostri meriti.


Bruno Magnolfi 

sabato 3 dicembre 2016

Senza illusioni.

           
            La vedo passare praticamente ogni mezz’ora, dice lui. Così la guardo, ma non per struggimento, o per vedere una volta di più come sia fatta, oppure indagando come riesca a muoversi con i suoi abiti sempre impeccabili. L’osservo, naturalmente senza farmene accorgere, e lo faccio soltanto per cercare di comprendere, tramite quei suoi passi cadenzati lungo il nostro corridoio, che cosa mai possa pensare una come lei in quel preciso attimo in cui mi passa proprio davanti. Il mio ufficio ha grandi vetrate dalla parte del corridoio, molti impiegati vanno e vengono, hanno in mano delle carte, certe volte dei faldoni, si scambiano un saluto, una battuta, poi vanno nella stanza delle fotocopie, per poi tornare indietro. Anche lei generalmente si comporta nello stesso modo, ma il suo stile mi pare estremamente differente. E’ come se non fosse immersa veramente nel nostro luogo di lavoro, ed i suoi gesti comunque si mantenessero leggeri, quasi impalpabili, praticamente di gran lunga al di sopra di quelle pratiche polverose e noiosissime delle quali è costretta ad occuparsi.
            Subito dopo naturalmente me ne disinteresso, dice ancora lui agli amici della birreria dove si ritrovano la sera. Qualche volta la saluto, magari quando ci incontriamo lungo il corridoio, ma non sono mai stato capace di chiederle qualcosa o di intavolare un discorso in sua presenza. Mi limito a sorridere, quasi come un ebete, per poi distogliere lo sguardo e lasciarla scivolare verso i suoi impegni. Credo che i suoi pensieri siano sempre orientati un po' più avanti di quelli degli altri impiegati, come se già avesse elaborato completamente le sciocchezze quotidiane che a noi tengono impegnati, e la sua mente navigasse altrove, quasi in una diversa dimensione. So che non è particolarmente bella, ma il suo fascino, almeno ai miei occhi, è smisurato. Gli amici naturalmente lo ascoltano, e nessuno di loro si sogna di interromperlo, tanto sanno quanto conti per lui quella specie di punto di riferimento.
Forse è una donna qualsiasi, conclude lui, ma la dote principale che a me sembra di intravedere in lei ogni giorno è quella di essere, almeno durante l'orario di lavoro, un vero e proprio personaggio, un’individualità che spicca sopra tutte, a cominciare dalla sua espressione e dai suoi sguardi, sempre volti verso qualche cosa di diverso dalla quotidianità. C’è dell’assenza nei suoi modi, ed una capacità innata di essere comunque lì in quel momento, e anche di non esserci, contemporaneamente. Per questo ho fatto una scelta, dice lui agli amici; ed ho deciso di chiederle in maniera diretta e con semplicità come possa riuscire ad essere un tipo di persona di quel genere.
Così sono andato da lei, senza attendere neppure il suo passaggio nel corridoio: le ho fatto un cenno, lei mi ha osservato senza alcuna espressione, quindi si è alzata dalla sua scrivania e mi ha seguito per pochi metri, fino ad un angolo tranquillo. Sono affascinato, le ho detto; non vorrei neppure usare altre parole, che non sarebbero assolutamente appropriate. Però ho di fronte a me  senz’altro la donna più interessante che conosca. Lei allora mi ha guardato, ha sorriso leggermente, ma senza imbarazzo; poi ha abbassato gli occhi, come per spiegare che aveva qualcosa da dire, ed una pausa interminabile è trascorsa in questa maniera. Verrò trasferita, la prossima settimana, credo. Non penso in seguito ci rivedremo con facilità, però apprezzo queste parole, indicano forse qualcosa che in fondo ho sempre coltivato dentro di me: la mia non appartenenza a niente ed a nessuno. Per il resto, mi sento esattamente una donna qualsiasi, ed è inutile del resto farsi illusioni.


Bruno Magnolfi