lunedì 30 novembre 2009

Segnali.

            

            All’interno del Grande Centro Commerciale la gente era quella di un sabato pomeriggio qualsiasi. Ognuno attraversava continuamente gli enormi fasci di luce brillante, oscillando tra i corridoi e i negozi, senza una meta precisa. Era un pullulare continuo di espressioni, risate, sguardi, parole fugaci e pensieri da niente, come un continuo accendersi e spegnersi di una miriade di piccole lampadine. I due ragazzi si erano messi assieme soltanto da una settimana, come fanno tutti a quindici anni. Si erano sentiti grandi del loro rapporto trovandosi assieme agli amici e alle amiche, ma adesso che stavano soli, per mano, in mezzo agli sguardi di tutti, era già un’altra cosa. C’era la preoccupazione di incontrare un parente, o qualche conoscente dei genitori; però, sopra ogni cosa, c’era quel rendere pubblico quel loro rapporto, che probabilmente era anche una forza, però li coglieva in un momento di debolezza di spirito, persi dietro a un comportamento intimo che sacrificava le proprie individualità, il loro sentirsi soggetto pensante, gestore unico delle proprie espressioni e dei propri comportamenti. Le loro mani unite in mezzo alla calca dimostravano l’unione  indissolubile eppure contemporaneamente fugace del loro bisogno di sentirsi più adulti, già grandi, capaci di affrontare i passaggi naturali della loro esistenza. Camminavano, e cercavano di apparire naturali. Poi la ragazza aveva detto qualcosa a proposito della sua voglia di fermarsi a guardare vestiti, ed il ragazzo aveva risposto in modo un po’ brusco che non gli pareva possibile una cosa del genere, così lei aveva messo su il broncio, ritirando la mano da quella di lui. Lui si era sentito deluso del comportamento di lei, e un po’ dispiaciuto del fatto di doversi mostrare in quel modo, anche se non gli era proprio possibile comportarsi in modo diverso. Così erano andati ancora avanti, svogliatamente, scorrendo vetrine e scansando persone, fino a quando non avevano incontrato delle ragazze che lei conosceva. Grandi saluti, grandi sorrisi: in un attimo, senza necessità di spiegazioni di sorta, lei era rimasta con le sue amiche, e lui si era allontanato da solo, senza voltarsi. Probabilmente così terminavano le piccole storie di quei loro anni, senza neppure spiegarsi, mentre tutta la gente del Grande Centro Commerciale proseguiva imperterrita con la giostra di acquisti e di consumo di massa. La ragazza adesso era triste, quel pomeriggio all’improvviso si dimostrava un inferno, e il ragazzo, perso dentro alla calca, continuava a girare chiedendosi ancora che cos’era davvero più importante per lui. Infine si erano incontrati di nuovo, per caso, ma dopo essersi cercati a lungo con gli occhi, senza neppure averne coscienza, comprendendo in un attimo che si erano mancati l’un l’altra. Non c’era molto da dire, era sufficiente allungare una mano e stringere ancora quella dell’altra, e avviarsi assieme e da soli al reparto vestiario.


            Bruno Magnolfi 

giovedì 26 novembre 2009

La sognatrice.

            

            Aveva passeggiato a lungo nei vialetti del parco della città, godendosi il sole di quel pomeriggio e rincorrendo i pensieri leggeri che le sfioravano ogni poco la mente. Poi era uscita, attraversando l’ingresso con l’enorme cancello di ferro, e si era soffermata davanti ad alcune vetrine di quel quartiere ad osservare borsette e tailleur, soltanto per una normale curiosità, senza un effettivo interesse; infine era salita sull’autobus per tornarsene a casa. Non c’era niente che le piacesse di più di quel lasciar scorrere il suo giorno libero camminando da sola senza una meta precisa. Le piaceva soprattutto quel tempo indolente, quel perdersi in sguardi verso realtà per lei più inconsuete. Tanto, lo sapeva benissimo, rientrando dentro al suo piccolo appartamento, tutto avrebbe ripreso velocemente il suo corso.
Già aprendo la porta le sarebbero venuti incontro i suoi doveri verso se stessa: riassettare tutto l’appartamento sempre in disordine, togliere i vestiti sparsi sopra le sedie sistemandoli dentro l’armadio, spolverare e pulire un po’ dappertutto; e poi pensare soprattutto al suo lavoro: la relazione mensile da fare, preparare le lezioni dei giorni seguenti, migliorare poco per volta il suo ruolo di insegnante di scuola elementare. Sua madre l’avrebbe chiamata al telefono, poco più tardi, quella sera come tutte le sere, più o meno alla solita ora; solo per dirle le cose di sempre, per chiederle ancora: “…ma non c’è proprio nessuno che ti interessi? E’ mai possibile, eppure ti manca ben poco al compimento dei quarant’anni…”, e lei avrebbe risposto nella maniera di sempre, che stava bene da sola, che non sentiva necessità di conoscere proprio nessuno, e di legarsi ad un rapporto sentimentale meno che mai, ma erano tutti discorsi che la spossavano ancor più che riassettare la casa, specialmente in quelle ultime sere.
Era incinta, al primo mese, e aveva deciso di tenersi il bambino. Solo lei lo sapeva, e non aveva certo intenzione di rivelarlo a nessuno. Conoscere l’insegnante supplente che l’aveva invitata a cena una sera, e aver finito per lasciarlo dormire con lei, a casa sua, era stato un fatto così naturale, che quando lui aveva terminato quella supplenza di due o tre settimane, lei lo aveva salutato come un collega, un amico qualsiasi, senza chiedergli niente per un futuro impossibile, e facendo in modo che lui non se ne uscisse con le solite frasi fasulle, volte a dar seguito a un rapporto che di fatto non era neppure iniziato.
Così adesso solo lei lo sapeva di portare dentro di sé quel grande segreto. L’avrebbe coltivata con tutto il suo amore quella sua gravidanza, era questo il pensiero leggero e costante che più di ogni altro accompagnava adesso i suoi giorni, e quando si fosse vista la pancia lo avrebbe detto a sua mamma, e forse sua mamma sarebbe stata ancora più disperata di adesso, ma che cosa importava, non ci sarebbe stato mai niente di maggiormente importante della sua decisione, sarebbe andata avanti con chiunque avesse voluto aiutarla, e il suo amore sarebbe nato dentro di lei, poco per volta, a cambiarle dolcemente la vita.

            Bruno Magnolfi

domenica 22 novembre 2009

Una strada di pioggia.



            I colori dell’acquarello erano trasparenti, leggerissimi, e i contorni del disegno una linea sottile che appena tratteggiava le cose. Quasi non esisteva senso nel disegnare, se non quel dolce lasciarsi andare ad una fantasia leggera, che superava qualsiasi intento, riusciva a prendere la mano e lasciare che la forma sul foglio acquistasse la vita, diventasse colore, forma, illustrazione. Non c’era senso nel fare un disegno qualsiasi, la semplice rappresentazione di un’immagine vista. La cosa che toglieva il respiro era quel cercare di interpretare un piccolo, infinitesimale, minuscolo frammento di vita, un pensiero esile e sottile fino a quel momento celato dietro a chissà quali altri pensieri, mescolato dentro a chissà quali altri ragionamenti ordinari, perso dietro a miriadi di altre cose, magari più appariscenti, più forti, più importanti di tutto, eppure ammantate di sciocchezze senza rimedio. Un gesto affettuoso che dura lo spazio di un  attimo, e  si prolunga nel tempo in modo imprevisto, incorniciato nonostante il suo bisogno di essere una cosa qualsiasi, senza importanza. Questo stava dentro al disegno, e solo guardandolo spiegava da solo quanto era riuscito a scrollare da sé la facilità di cadere in percorsi già visti, elementi sicuri di cose più consuete. Lui lo aveva veduto il disegno, ne aveva assaporato in un attimo la freschezza piacevole, ne era rimasto colpito pur senza comprendere il motivo trainante da cui ne era attratto. Poi, una volta uscito dalla galleria d’arte, aveva fatto un giro in quella serata piovosa, camminando sui lucidi marciapiedi sotto al suo ombrello, con calma, ripensando al disegno, a quell’acquarello che pareva parlasse di sé, della sua vita, dei suoi pensieri. Aveva riflettuto a lungo su che cosa gli ricordasse quella figura di donna fermata in un gesto così naturale, con l’espressione del viso leggermente ammiccante, come di chi ha dentro di sé un lungo percorso alle spalle, un itinerario difficile, forse sofferto, una strada impervia affrontata e forse non completamente percorsa. Poi era entrato dentro a un caffè, si era accostato al bancone e si era fatto servire un liquore, qualcosa che riuscisse a scuoterlo un po’. Alcune persone a fianco e dietro di lui parlavano di cose ordinarie scambiandosi brevi risate e conversando in modo piacevole. Infine lui aveva pagato la sua consumazione, augurato la buonasera al barista, e riaperto l’ombrello uscendo da dentro al locale. Fu allora che vide la donna, da sola, con un normale impermeabile stretto alla vita e i capelli non lunghi e ben pettinati. Camminava lungo la strada, con l’espressione di chi ha già affrontato più volte itinerari difficili, eppure serena, immedesimata nei suoi gesti così naturali. Era lei l’acquarello, ne era sicuro, era lei quel disegno denso di cose, di vita, di elementi minuti eppure ben forti nella sua espressione; era lei che adesso senza motivo riempiva con la sua presenza tutto lo spazio che c’era; era lei che senza ricordare qualcosa di preciso, parlava di sé, solo passando, solo camminando dove camminavano tutti; ed era lì, quasi per una magia, uscita dal quadro per dare colore a quei marciapiedi, a quella strada bagnata di pioggia.

            Bruno Magnolfi

giovedì 19 novembre 2009

Tranquillamente nevrotico.


            E’ sempre stato il tempo il mio vero tiranno. Per questo ho sempre portato l’orologio al polso; in ogni momento, anche di notte. Persino a letto. Proprio per sconfiggerlo. Minuto su minuto. Perché solo la puntualità è stata sempre la mia vera alleata in questa dura battaglia. Il polso ticchettante. Perfino durante le ore di sonno. Ecco; quel semplice, lieve rumore regolare, da solo, mi ha sempre procurato l’inequivocabile e desiderata tranquillità. Perché una parte indubbiamente grande del problema è sempre consistita nella suoneria della mia sveglia sul ripiano accanto al letto. Per rimetterne l’orario giusto, è legge di natura tenere conto, come minimo, dei quindici minuti per la barba e per lavarsi, dei dodici per il caffè e la colazione, degli altri quindici per scegliere e indossare i vestiti con i colori giusti e le tonalità adeguate, dei venti per uscire, acquistare il giornale ed arrivare alla fermata del mio autobus. Anche l’autobus poi, una vera lotteria. In certi giorni è possibile vederlo transitare dalla mia fermata alle otto e dieci, altre volte alle otto e venti. In più, per quel tragitto in mezzo alla città, sostanzialmente breve anche se tortuoso, impiega in media venticinque minuti. Ma nei giorni di pioggia se ne superano abbondantemente trentacinque, per via del traffico. Insomma, arrivare alle nove esatte sul posto di lavoro e passare il tesserino magnetico dentro alla macchinetta della biblioteca, dove svolgo mansioni d’impiegato ordinario da diciannove anni, è sempre stato un problema. Già, perché non è solo il ritardo a spaventarmi. E’ anche l’anticipo con cui certe volte mi sono ritrovato davanti al massiccio portone della biblioteca (anche dodici, quindici minuti), che mi ha sempre fatto soffrire maledettamente. Per cui tutto quanto, da sempre, è determinato in grande misura dalla capacità di tenere conto di ogni variabile nel posizionare la suoneria della sveglia. Per questo, per essere sicuro che tutto si svolga bene e con i tempi giusti, ordinariamente mi sono spesso ritrovato, durante l’ultima ora di sonno, a svegliarmi anche quattro o cinque volte: proprio per controllare il mio orologio da polso, per sorvegliare che tutto il meccanismo funzionasse degnamente. Poi, qualche tempo fa, ho ritrovato un vecchio amico e abbiamo parlato di parecchie cose. Io ho annuito sorridendo a tutto quello che continuava a dirmi, ma quando, come giustificazione a certe sue manie, ha sentenziato che quando si superano i cinquant’anni non è più possibile riuscire a controllare certe piccole fissazioni, mi sono sentito come colpito da un’arma da fuoco. Mi è parso terribile. Per qualche momento ho addirittura creduto che si riferisse proprio a me, e sorrideva pure, di quella sua sortita, ma non ho replicato assolutamente niente. Però il giorno seguente, dopo aver meditato a lungo anche durante la nottata, mi sono tolto dal polso l’orologio. Ho iniziato, giorno dopo giorno, a cercare di andare a letto più tardi la sera, proprio per lasciar suonare a lungo la sveglia prima di spegnerla. Ho iniziato ad impiegare una maggiore cura nel radermi, ed ho preparato una colazione meno frugale. Così sono arrivato in biblioteca con un consistente ritardo per ben tre volte in una sola settimana. La direttrice si è meravigliata del mio comportamento, e mi ha richiamato ai doveri d’ufficio, senza che io avessi potuto controbattere. Ma dentro di me, mi veniva addirittura da sorridere. La battaglia che stavo conducendo era appena agli inizi, ma non potevo dirglielo, così sono rimasto in silenzio, con gli occhi bassi. Sono tornato a casa a piedi, un paio di volte, uscendo dalla biblioteca a fine orario. Forse ho impiegato parecchio tempo per arrivare fino a casa, ma ho attraversato una parte di città dove non vado mai. Sto pensando seriamente di fare la stessa cosa anche al mattino, magari uscendo da casa molto presto. Potrei anche cambiare itinerari, battere nuove vie, riappropriarmi di marciapiedi e scorci di strade che da tanti anni non frequento più. Il mio progetto è in pieno svolgimento, e francamente mi sento molto meglio, indubbiamente ho ritrovato una tranquillità della quale neppure ricordavo la possibilità. Ogni tanto sento ancora la necessità del mio orologio che ticchetta al polso la sua ineluttabile regolarità. Però m’impongo di evadere da quel pensiero, e forse prenderò un periodo d’aspettativa al lavoro, proprio per esplicare meglio questa mia esigenza. Ho iniziato ad essere sbadato, a dimenticarmi con facilità delle cose che invece dovrei ricordare, anche le più importanti, e sorrido delle mie gaffe, degli equivoci nei quali continuo ad inciampare. Credo di dover ancora affinare, e di parecchio, tutte le particolarità che il mio carattere sta mettendo a nudo, e sempre più spesso sto pensando che queste variazioni dentro alla mia vita erano un destino ineluttabile, una strada dalla quale era impossibile deviare. Forse questa strada non mi porterà da alcuna parte, però non è la meta che adesso m’interessa; è il percorso, il lento procedere verso un certo appuntamento di cui non so ancora nulla, neppure l’orario fissato, e di questo sto vagamente iniziando a preoccuparmi, visto che adesso non ho più neppure il mio orologio da polso a potermi assicurare la puntualità.


            Bruno Magnolfi

lunedì 16 novembre 2009

La scelta.

            

            Sul marciapiede i tacchi delle scarpe scandivano i suoi passi in maniera regolare, non affrettata. Dentro di sé avrebbe anche voluto rallentare ulteriormente il suo moto, addirittura fermarsi, girarsi indietro e andar via, ma non era possibile. Se ci pensava odiava tutto di sé: i suoi modi, le espressioni che usava, persino quei tacchi e quelle scarpe da donna ordinaria, quasi senza caratteristiche riconoscibili. In azienda aveva cercato di comportarsi in diverse maniere, aveva anche provato a dire cose che neanche pensava, ma non erano mai usciti fuori risultati diversi. In fondo, pensava a volte cercando di ritrovare un po’ di fiducia in se stessa, lei era soltanto una segretaria, non poteva far altro se non accondiscendere a tutto quello le veniva chiesto di fare, impersonando il suo ruolo e fingendo sempre di essere professionale e appagata. Eppure sentiva benissimo che quel soffocare la sua personalità giorno per giorno era l’elemento che scatenava al suo interno un malessere generale e indomabile, che si riversava in qualsiasi momento della sua vita privata, soprattutto quando non si trovava al lavoro. Aveva provato a parlarne anche in casa, con le persone nelle quali riponeva  fiducia, con le sue amiche, con il suo fidanzato, ma nessuno di loro era riuscito a chiarirle quale fosse la soluzione migliore. Così aveva affrontato quell’argomento anche con il suo medico, e lui senza scomporsi le aveva consigliato quell’analista. C’era già andata due volte, da quell’analista, ma adesso era ancora più giù di morale: si sentiva sconfitta, sostanzialmente, incapace di decidere da sé della sua vita. Così si sentiva ancora di più davanti ad un bivio, e pur con tutte le paure che riusciva a provare, sapeva dentro di sé che tutto dipendeva da lei, dalle sue scelte. Quel marciapiede, quando ogni giorno lo percorreva prima di entrare in azienda, era l’elemento che più di ogni altro le faceva assaporare il passaggio da uno stato a quell’altro: in quelle poche decine di passi che divideva il parcheggio delle auto dall’ingresso in azienda, si giocavano in lei tutti quegli elementi importanti di cui riusciva a soffrire. Era inutile, poteva parlarne con quante persone voleva, non poteva essere diversa là dentro, il meccanismo che le era richiesto era proprio quello di abbandonarsi a ciò che il suo ruolo dettava, era così, doveva farsene per forza una ragione precisa. Ormai le veniva naturale persino contarli quei passi, tanto il varcare quella porta di vetro dietro alla quale si svolgeva il suo lavoro, la faceva star male. Sentiva il frusciare leggero della porta automatica che si apriva appena arrivava, immaginava i sorrisi finti e i saluti con i quali si rapportava ai colleghi e agli impiegati che lavoravano lì, vedeva la sua scrivania con computer e telefono alla quale restava incollata per mandare avanti le cose, pronta a qualsiasi richiamo dell’ingegnere o dei dirigenti. Con questi pensieri, in fondo a quel marciapiede, era infine arrivata; però si era fermata un momento, come percorsa da un nuovo pensiero, aveva osservato la porta di vetro mentre si apriva, ancora restando ferma dov’era, aveva lasciato che qualcuno da dentro osservasse il suo viso, il vestito, le sue scarpe da donna ordinaria, e infine, senza cambiare espressione, si era girata, lentamente, aveva lasciato che la porta si chiudesse di nuovo dietro di sé, e aveva ripercorso al contrario tutto quel marciapiede, per andarsene via.


            Bruno Magnolfi

venerdì 13 novembre 2009

Le regole sociali.

            

            L’interminabile corridoio dal pavimento di piastrelle chiare e lucide lasciava intravedere, lungo i muri a destra e a sinistra, due serie di porte grigie posizionate in maniera regolare e simmetrica tra loro, e la sala d’attesa a quegli uffici, ricavata mediante batterie di sedie collegate tra di loro e poste in quattro o cinque file uniformi nella larga sala che fronteggiava il corridoio stesso, era piena a metà di persone che attendevano pazienti il proprio turno.
Andrea era appena arrivato, si era seduto nel primo posto libero che aveva visto osservando contemporaneamente il suo talloncino numerato distribuito da una apposita macchina all’entrata, confrontandolo con l’altro numero che riportava il grande tabellone elettronico che fronteggiava tutta la stanza. Aveva immediatamente dedotto tra sé che avrebbe schiacciato in quella sala d’attesa non meno di una mezz’ora, forse anche molto di più, così aveva cercato con lo sguardo un qualche elemento confortevole che gli potesse far trascorrere quel tempo nella maniera migliore.
Ma poco dopo era arrivata lei, apparentemente una donna qualsiasi, forse quasi timida, ma di un modo di intendere la timidezza assolutamente fuori dal comune. Non aveva numero, naturalmente, solo una strana cartella con dentro fogli e documenti: si era soffermata un momento, quasi per prendere fiato, poi a voce alta aveva chiesto, senza riferirsi a nessuno di preciso, ma neanche parlando proprio a tutti, come funzionasse il meccanismo per accedere agli uffici. Qualcuno razionalmente le aveva detto del numero in funzione di ciò che aveva da trattare, ma quasi subito lei aveva tirato fuori le sue carte, spiegando le proprie cose e coinvolgendo più persone circa i propri guai. I suoi argomenti erano particolari, ma ciò che più colpiva era l’ingenuità con cui manifestava le sue cose, come se rifiutasse l’accesso a regole sociali da tutti accettate e confermate.
Infine si era stufata, forse anche troppo in fretta, di tutte le raccomandazioni che sembravano continuare a farle le due o tre persone che si erano occupate di lei, e togliendo d’improvviso interesse e importanza a ciò che aveva chiesto fino ad allora, si era seduta casualmente accanto ad Andrea, dopo essersi fatta consegnare un talloncino numerato da qualcuno dei presenti più gentile e paziente degli altri. Aveva subito sistemato bene quei fogli all’interno della sua cartella, tolto il soprabito, ravviato i capelli lunghi e sciolti, sistemato con attenzione e in  modo adeguato il proprio corpo sopra la sua sedia, accavallando le gambe in due o tre maniere differenti, invadendo di profumo l’aria intorno e guardando dappertutto come per carpire qualcosa che ancora non le era perfettamente chiaro.
Poi, come se non avesse ascoltato niente fino ad allora, aveva chiesto ad Andrea con fare distaccato, ma con voce calma e pacata, se era giusto l’ufficio al quale era stata consigliata di rivolgersi, e se andava bene fare tutta quella attesa per quei suoi piccoli problemi. Andrea, nella risposta aveva usato il minimo di parole disponibili, cercando di sviare l’interesse verso di lui, ma lei aveva insistito subito pungolandolo con due o tre domande abbastanza dirette alle quali era impossibile non dare seguito.
Era venuta in soccorso la persona accanto, che aveva detto il suo parere in modo simpatico e puntuale, ma a lei evidentemente non interessava affatto far parlare qualcuno che non fosse chi aveva deciso, così aveva chiesto ad Andrea se le teneva il posto mentre lei cercava il bagno. Tornò in un attimo, ringraziando con larghi sorrisi e con apprezzamenti impersonali per quegli uffici, cosa alla quale Andrea si mostrò subito solidale. Infine, sempre parlando, si alzò immediatamente quando si aprì la prima porta grigia lungo il corridoio, sparendo dentro a quell’ufficio e lasciando tutti come dei poveri scemi.

            Bruno Magnolfi

            

venerdì 6 novembre 2009

L'autostrada del sole.


            La mia casa è sotto al margine del cavalcavia di un sentiero poco frequentato che scavalca l’autostrada. Quando mi metto a dormire, durante la notte, mi sembra di vivere il confine tra la civiltà e la natura. In quel punto, attorno a quella mia specie di abitazione, ci sono solo campi verdi a distesa tra file sfumate di alberi, e per arrivare al paese più vicino ci si impiega a piedi più di mezz’ora. Sopra la mia testa transitano pochi mezzi, lungo quella via non ci passa quasi nessuno. In autostrada invece il traffico non termina mai, è un fiume continuo di materiale umano e di merci che scorrono accanto a me, quasi ai miei piedi. Certe volte mi chiedo se qualcuno che guida tutti quei mezzi non immagina che ci sia io al margine della sua traiettoria, e poi qualche volta sogno che qualcuno di loro si fermi e mi porti con sé. Non immagino un posto preciso dove recarmi, però dentro di me formicolano spesso così tante voglie che devo per forza ricacciarle all’indietro, e questo, penso, non è da persona, ed io, certe volte me lo ripeto per darmi più forza, sono una persona, anche se sono da solo, e anche se sono arrivato fin qui non mi ricordo neanche più in quale maniera. Ho ricavato due pareti con delle lamiere lungo il margine del cemento armato del ponte, e davanti a me, con delle assi di legno, mi chiudo la notte all’interno del mio spicchio di mondo. Il rumore continuo del traffico sull’autostrada è fortissimo, però ci si abitua. Ho una vecchia bicicletta con me, e con quella durante le belle giornate arrivo fino al fiume, e lì a volte mi lavo, prendo l’acqua che mi serve per la mia casa, mi siedo, osservo la natura bellissima di quella campagna. Qualche volta, di giorno, passano da sotto al cavalcavia gli operai che svolgono le manutenzioni, oppure le squadre per il taglio dell’erba al margine dell’autostrada, con i loro trattori giganteschi, le attrezzature meccaniche e tutta una serie di segnali luminosi bellissimi, e a volte mi salutano, mi gridano qualcosa nella loro maniera: sono calabresi, rumeni, marocchini. Certe volte li invidio, mi sembrano persone importanti, svolgono un mestiere che li pone al disopra di tutti: lavorano per gli altri, penso, per la sicurezza di quelli che non si accorgono neppure che c’è chi li veglia. Ho conosciuto Artur, un giorno, uno della manutenzione dell’autostrada, con la polvere e l’asfalto appiccicati sui suoi vestiti arancione ed il viso di chi non ride mai. Ha detto che la vita è uno schifo, ma io gli ho sorriso, non poteva dire sul serio. In primavera l’erba cresce giorno per giorno, siamo già usciti da questo inverno freddo e piovoso, tra qualche mese lavorerò nei campi vicini a raccogliere gli ortaggi, poi i pomodori, forse mi prenderanno per tagliare l’uva. La mia vita è naturale, con la luce del giorno e con le stagioni, ed i miei sogni viaggiano con gli autoarticolati che passano davanti a me. Sembrano tutti uguali, ma non è vero. Uno di loro prima o poi mi porterà via, in fondo a questo braccio di autostrada, e sarà là che inizierà tutto il riscatto della mia vita. Ci sarà qualcuno su un camion che si fermerà sulla corsia di emergenza, sorriderà senza chiedermi niente, ed io andrò assieme a lui e mi ricorderò che sono anch’io come lui, una persona, e tutto inizierà ad andare in maniera migliore, ed il futuro mi farà scordare del tutto di avere abitato sotto questo cavalcavia. Forse tornerò indietro, un giorno in cui tutto scorrerà per me nella maniera migliore, cercherò di ritrovare questo cavalcavia, e gli alberi, i campi, anche il fiume, e aspetterò la squadra della manutenzione dell’autostrada, e sarò tanto contento di ritrovare tutte quelle persone, perchè potrò dire ad Artur che si era sbagliato, che la vita non era come diceva lui.

            Bruno Magnolfi



mercoledì 4 novembre 2009

Incontrarsi (terza parte).

           

            Il giardino era grande. Solo lavorando con cura attorno a tutti quei piccoli alberi, quei cespugli, quelle aiuole di fiori, si capiva che ogni pianta aveva bisogno di cure appropriate, cosa questa che ad uno sguardo superficiale non appariva per niente. La signora Torrini mi aveva procurato un grosso libro con molte spiegazioni sulle essenze vegetali di ogni tipo, ed io avevo iniziato a studiarlo dentro a quel bar dove regolarmente mi piazzavo in compagnia di una birra, una volta terminato il lavoro. Lei, in quei miei primi giorni del mio nuovo impegno di giardiniere, era stata un po’ assieme a me, indossando guanti spessi di gomma e un buffo grembiule pesante, giusto per spiegarmi qualcosa con poche dirette parole, e illustrandomi le particolarità del suo giardino e di altre cose inerenti la mia attività dei giorni a seguire. Poi era sparita, però mi aveva lasciato la chiave del cancello della sua recinzione, così ero autonomo, anche se sospettavo che lei mi osservasse dalle finestre di casa. In fondo, a me non importava per niente, e nelle settimane a seguire ogni tanto entravo dentro al capanno dove erano riposti gli attrezzi, e là dentro affilavo le lame da taglio, sistemavo gli utensili che usavo, mi fumavo una sigaretta, e lasciavo che il suo sguardo curioso vagasse attorno a tutta la casa nella ricerca del suo giardiniere da tenere sotto controllo. Poi un giorno arrivò mentre stavo dentro al capanno: mi disse che non poteva farsi vedere troppo con me, il vicinato ne avrebbe parlato e questo a lei non piaceva. Mi chiese senza aspettare risposta di raggiungerla in casa passando dal retro quando avessi terminato il lavoro, ed io le dissi che andava bene, ma senza che lei mi avesse chiesto un parere. Quel pomeriggio caddi malamente per terra inciampando su un ramo d’albero che avevo tagliato. Quando mi presentai alla signora Torrini le dissi che sentivo dolore ad un braccio, e forse era meglio se il giorno seguente fossi stato a riposo. Lei disse che non c’era problema, poi mi fece sedere, slacciò la manica della mia camicia e mi fece piegare il gomito in più posizioni, cercando di capire cosa fosse accaduto. Infine tirò fuori una pomata da applicare sulla parte che mi procurava dolore, e senza chiedermi niente la spalmò sul mio braccio. “Si sarà sicuramente chiesto il perché ho cercato proprio lei per lavorare al giardino”, disse. “Non si deve fare strane illusioni, non sono in cerca di un uomo. La mia vita va bene com’è. Però tra tutte le persone di questo paese lei è il più sfuggente, quello che riesce a guardare attraverso le cose, a restare indifferente di fronte a persone o fatti curiosi, e questo mi piace”. Le dissi che il primo giorno avevamo deciso di darci del tu, almeno quando fossimo stati da soli, così si scusò, e fu ancora più diretta: “Soffro di solitudine, purtroppo”, disse di colpo; “e solo vederti mentre lavori in giardino mi riempie lo sguardo. E’ una mia debolezza, ma ciò non toglie che io debba avere un grande rispetto per quello che fai, per la tua pazienza nei miei confronti, per la capacità che hai dimostrato fino ad adesso, di essere serio, comprensivo, una persona per bene”. Poi, d’improvviso, come consapevole di aver speso anche troppe parole con me, si alzò dalla sedia lasciando che io mi avviassi verso la porta, ma poi, guardandomi a fondo con i suoi occhi duri e sfuggenti, le venne da esprimermi un breve sorriso, e con un moto che non mi sarei mai aspettato, mi accarezzò per un momento la mano, e come in un soffio, disse soltanto: “i nostri anni migliori sono passati, a nulla serve oggi essere falsi…”.


            Bruno Magnolfi 

lunedì 2 novembre 2009

La sola cosa da fare.

           

Con calma aveva tirato fuori le chiavi dalla sua tasca, si era guardato vagamente attorno come non fosse del tutto convinto che quello era veramente il palazzo dove abitava, aveva cercato la toppa del portone di vetro e metallo che dava direttamente sul marciapiede, aveva lasciato scattare il meccanismo elettrico della serratura, e infine era entrato, scivolando silenzioso fin dentro quell’andito ampio con l’ascensore e le scale sul fondo. Alberto si sentiva fuori di posto anche adesso, anche nel compiere i gesti di sempre. Marcella era andata, dopo tutti quegli anni in cui avevano diviso ogni cosa, avevano affrontato assieme tutte le difficoltà di ogni giorno, si erano sostenuti a vicenda; adesso lei aveva deciso che era tutto alle spalle, che il loro rapporto era finito. E per lui soltanto rientrare nel suo appartamento e non trovarla lì, come sempre, gli pareva ancora una cosa impossibile, per questo in quegli ultimi giorni aveva cercato in tutti i modi di ritardare il rientro. Si era interrogato in tutte le maniere possibili, Alberto, e quando Marcella aveva detto che era meglio così anche per lui, aveva fatto cenno di si con la testa, ma non lo pensava davvero. Gli aveva detto che non riusciva a vedere le cose, che viveva soltanto di superficie, non riusciva ad approfondirsi sui veri problemi del loro rapporto, quella vita monotona che non sapeva di niente, se non di grigiore quotidiano e di muffa, quelle giornate vuote di tutto, interscambiabili, prive oramai di aria nuova. Per Alberto non era in quel modo, e sarebbe stato disposto ad apportare tutti i cambiamenti di cui c’era bisogno se solo Marcella avesse voluto provare. Per lui bastava soltanto la sua presenza per riempire di colore le stanze di casa, ma era impossibile riuscire a spiegarle cosa vedesse davvero quando guardava il suo viso, i suoi occhi, ogni sua qualunque espressione. Nell’andito del palazzo c’era silenzio a quell’ora serale, Alberto aveva pigiato il pulsante luminoso e aveva sentito il motore elettrico che si avviava. Adesso toccava per la prima volta con mano il vero grigiore dei giorni. Gli pareva impossibile dover perseguire le attività quotidiane senza una vera ragione per portarle in avanti. L’ascensore, con un tuffo leggero, si era fermato e aveva spalancato le porte scorrevoli, Alberto era entrato e si era sentito sgomento a pigiare quel pulsante dell’ultimo piano che probabilmente portava ancora l’impronta del dito della sua Marcella, dell’ultima volta che lo aveva premuto. Poi si era fatto coraggio, le porte si erano chiuse e lui aveva intrapreso il viaggio in ascesa per arrivare nel suo appartamento.  Qualcuno gli aveva detto che il tempo rimarginava qualsiasi ferita, e lui aveva sorriso, con il sorriso distante di chi non vuole che il tempo apporti alcuna modifica, perché sa che quel vuoto che sente deve rimanere così, nella stessa esatta maniera. Se chiudeva i suoi occhi sentiva ancora il profumo di lei, dei suoi capelli, della sua presenza insostituibile. Poi l’ascensore si era fermato, le porte si erano aperte, e lui ad occhi bassi aveva cercato la chiave del suo appartamento. Era facile adesso odiare quel pianerottolo, quei gesti meccanici, quella vita di sempre, quei vicini che nei giorni seguenti gli avrebbero chiesto qualcosa di lei e della sua solitudine nuova. Ma Alberto si sentiva forte del suo passato, di tutto il tempo trascorso con lei, non ne avrebbe mai potuto parlar male, di tutti quegli anni, della loro vita in comune. Si era fermato solo per un attimo davanti alla porta, giusto per raccogliere assieme tutti i pensieri, e in quell’istante aveva visto Marcella lì accanto, con le lacrime agli occhi, con il suo dolce viso di sempre, con i colori del mondo sopra di sé, come sapeva essere lei, pronta di nuovo a togliere quel telo di grigio da sopra al suo Alberto, che non aveva creduto davvero che tutto si sarebbe fermato, e che forse in cuor suo l’aveva aspettata, perché era quella l’unica cosa che gli era rimasta da fare.

Bruno Magnolfi