venerdì 29 maggio 2020

Libera nell'aria.


           

            “Non è sempre stato così”, dice lei alla sua vicina di terrazzino, mentre sta quasi osservando qualcosa che in questo momento immagina come un punto lontano, oltre le facciate di tutte quelle case intorno decisamente simili, in fondo a quei palazzi di quartiere dove tutti gli inquilini hanno sempre finto di conoscersi tra loro, sentendosi uniti in qualche modo da quel loro semplice abitare, rimanendo poi tutti rinchiusi nei propri appartamenti per quelle tante e lente ultime settimane, condizionati in ogni loro azione individuale dalla paura folle del contagio, e scoprendo con sorpresa la notizia di qualcuno ammalato per davvero, in pericolo di vita, confessandosi sottovoce queste informazioni proprio dentro al piccolo supermercato della zona, entrando tre per volta, attaccati ai numeri delle vittime e degli ammalati ribaditi ogni giorno da tutti i notiziari. Non sono state molte invece le occasioni tra loro due per scambiare qualche parola: la sua vicina è giovane, sposata da poco tempo, ed è venuta ad abitare nell’appartamento accanto al suo praticamente meno di un anno prima. Poi tutto si sa, è come precipitato, ed il semplice buongiorno scambiato inizialmente per pura cortesia sulle scale del sesto piano oppure dentro l’ascensore, è diventato rapidamente un rispettoso e distanziato: “come va?” accompagnato ad un largo sorriso, tanto per sentirsi in fondo dalla stessa parte, e per ripetere quasi le medesime cose di ogni giorno.
            Lei al contrario abita in quel palazzone senza caratteristiche da più di trent’anni filati, dall’epoca lontana in cui era ancora in vita suo marito, quando le giornate spesso apparivano molto più leggere, prive di preoccupazioni vere, senza le ossessioni che adesso ormai paiono addirittura quasi naturali. “Ci sembrava il paradiso questa zona e questa casa”, aggiunge poi con un leggero sorriso amaro. L’altra non riesce a spingersi così indietro nel tempo tanto da immaginarsi quel quartiere in anni così differenti, però annuisce, dà ancora due colpi di scopa al pavimento del terrazzo e quindi rientra, per continuare con le sue occupazioni. “Forse era quella scarsità di soldi in tasca a costituire una vera e profonda differenza”, pensa adesso lei, rimasta sola davanti alle file ordinate delle tapparelle tenute dai residenti degli appartamenti a metà corsa sopra le finestre dei palazzi in faccia al suo. “Però si stava bene, sembrava proprio non mancasse altro”.  
            Quindi rientra dentro alle proprie quattro stanze, con un’ultima occhiata all’aria tiepida ed alla luce intensa che regna subito là fuori, quasi una rondine che gioisce per un po’ di cielo aperto, per poi infilarsi subito dopo dentro un tetto. “Neanche i miei figli hanno apprezzato tutto questo”, pensa ancora; “ed appena ne hanno avuta la possibilità, sono volati via, come se questa fosse stata per loro quasi una piccola prigione”. Anche lei evidentemente si era dovuta accorgere, ad un certo punto, ma molti anni dopo, che quel quartiere tirato su rapidamente negli anni in cui l’economia girava bene, non era esattamente il paradiso, però l’abitudine a stare in quella casa non le era minimamente mai parsa una possibile costrizione, non come adesso comunque, quando d’improvviso le quattro mura sono diventate per tutti, e anche per lei, l’unico luogo dove poter sedere e respirare senza filtri e protezioni, il solo ambiente adatto per una tranquillità completa, come hanno continuato a ripetere le autorità in tutti questi mesi e ad ogni notiziario.
            “Non importa”, pensa adesso mentre si siede nel suo angolo di casa preferito. “Passerà anche tutto questo”, proprio come qualsiasi altro periodo difficile che in una vita ci si trova ad affrontare. Torneremo a stare bene, ad essere contenti di quel poco che comunque ci è toccato, e a dare un’altra occhiata al cielo, da queste finestre o dalla terrazza, ed a scoprirsi già contenti di sentirsi liberi nell’aria, almeno per un attimo.

            Bruno Magnolfi

mercoledì 27 maggio 2020

Privi di possibilità.


         
            Ho provato, lo giuro, ho provato con tutte le mie forze, e così mi sono spinto fuori da casa proprio come facevo un tempo, percorrendo da solo con calma quasi tutto il corso del paese a piedi, per poi andare a fermarmi al solito circolino, giusto per scambiare due chiacchiere con qualche conoscente, come ho sempre fatto nel passato. Ed in questi giorni in cui il peggio sembra ormai alle nostre spalle, ho ritrovato ancora là dentro i soliti figuri, le medesime persone, gli stessi tizi di sempre, a bere e a ridere proprio come facevano qualche mese fa, con qualsiasi tempo ed in qualsiasi stagione, esattamente come prima che si diventasse tutti dei soggetti ad alto rischio. Però a me è preso subito il tremore, la paura, il terrore folle di essere contagiato, di ritrovarmi senza respiro dentro il reparto dei soggetti gravi, senza neppure troppe possibilità di cavarmela; allora mi sono guardato attorno ed ho visto che ero l’unico a provare questa sensazione, e che non pensavo affatto le stesse cose di tanti altri che hanno già preso a comportarsi con grande indifferenza per quello che è accaduto, battendosi delle gran pacche sulle spalle e parlandosi l’un l’altro anche da vicino, spesso persino senza niente sulla bocca per proteggersi.
E poi non vorrei mai diventare anche una cinghia di trasmissione per chissà quant'altra gente che neppure conosco, ho riflettuto: parenti, amici, vicini di casa, sconosciuti qualsiasi; così ho preso e sono tornato a rinchiudermi da solo nel mio appartamento, senza attardarmi neanche un momento insieme agli altri, ed anzi evitando perfino quei saluti amichevoli di tutti i tiratardi del circolino, e poi le loro chiacchiere e anche le bevute senza freni. Adesso sto male però. Non so se sia la suggestione che mi è stata provocata da quegli sconsiderati che non si preoccupano mai di nulla, o se effettivamente la malattia abbia già iniziato il suo corso dentro al mio organismo. Però respiro male, ho la fronte sudata, forse ho la febbre, e non so neppure se sia il caso di rivolgermi a qualcuno che se ne intende, oppure rimanere in casa da solo nell’attesa che le cose vadano avanti in modo naturale, senza minimamente ostacolarle. Se ho sbagliato qualcosa, adesso devo pagare, questo è ciò che penso. Anzi, inizio a credere sempre di più che il male sia ciò che meritiamo tutti, dopo esserci approfittati in ogni dettaglio di ciò che la nostra umanità ci ha permesso fino ad ora.
Siamo indeboliti, questo è il punto, prede di qualsiasi microrganismo voglia attaccarci, incapaci di opporre alla forza della malattia una resistenza adeguata. Perciò adesso mi sdraio sopra al mio letto, osservo il soffitto per qualche attimo ed infine chiudo gli occhi, ad aspettare con pazienza che tutto lentamente si compia. Ma ad un tratto suonano alla porta, e mi scuoto rapidamente dal torpore che mi è preso, rimettendomi in piedi ed andando velocemente ad aprire. Davanti a me ci sono ora delle persone che non conosco, vestiti completamente di tute e maschere protettive, e dicono che devono campionare tutti gli appartamenti della zona, per cui indagare, analizzare, fare degli esami, prelevare saggi, tutto ciò che serve per comprendere meglio quello che sta accadendo. Li faccio accomodare, dico che sto male, che forse se ci fosse una cura per me sarebbe assolutamente ciò che ci vorrebbe: “altrimenti sono spacciato”, dico loro, “senza possibilità di andare avanti”. Mi fanno stendere, girano nel mio appartamento, uno mi osserva anche se non troppo da vicino, dice che ci vuole un intervento specifico per il mio caso, ed è proprio una fortuna che siano capitati loro con le strumentazioni giuste. Fanno anche qualche telefonata, mi impongono di stare fermo e di chiudere gli occhi senza affaticare nessun muscolo, fino a quando dicono che se ne vanno, e che tra poco comunque arriveranno i medici, c’è da stare più che tranquilli.
Dopo un paio d’ore senza che niente sia successo, mi alzo per fare due passi e bere un bicchiere d’acqua, e mi accorgo subito che il mio piccolo appartamento è stato completamente svaligiato, ripassato da mani esperte da cima fino in fondo, portando via qualsiasi oggetto di valore. Siamo tutti spacciati, penso adesso, non posso proprio avere altro che mi gira nella mente.

Bruno Magnolfi

domenica 24 maggio 2020

Abnegazione.


        

            Davanti alle enormi vetrate, di fronte all’ingresso, c’è un enorme piazzale asfaltato riservato al parcheggio. Difficilissimo trovare là in mezzo un posto auto fino a qualche tempo fa, tanto che ultimamente fa quasi tristezza rendersi conto come spesso in questi giorni rimanga quasi vuoto. “Ho perduto la spinta”, fa lui all’improvviso mentre guarda le poche macchine ferme brillare adesso nel sole, qua e là. “Non dire sciocchezze”, fa lei dopo un attimo senza neppure guardarlo, mentre riordina alcune cartelle dei suoi pazienti dentro l’ufficio al secondo piano del piccolo ospedale cittadino. “Dico sul serio”, prosegue lui; “la missione che sentivo dentro di me si è come intorpidita in queste ultime settimane, ed adesso non sento più quel bisogno di profondermi verso gli altri che avvertivo da sempre dentro di me”. Lei interrompe per un momento il suo compito, osserva di fretta il profilo di quel medico che è sempre stato il suo punto di riferimento, poi fa: “sei stanco, indubbiamente; è normale sentirsi così in questo periodo, anche d’improvviso”.
            Poi ambedue scendono le scale, sempre tenendosi a dovuta distanza, salutano qualcun altro medico del personale che sta montando proprio adesso di turno, ed infine si fermano per un momento sul largo pianerottolo del primo piano, si accostano con calma alle macchinette per il caffè ed inseriscono uno alla volta la propria moneta prendendosi ognuno una bevanda calda. “Non so”, dice lui, “probabilmente non dovrei neanche parlarne, specialmente in un momento come questo, ma è come se all’improvviso tutto mi apparisse identico, monotono, sterile di qualsiasi possibile slancio. Sono cosciente del fatto che tutta la gente stia tifando per noi, per il nostro sacrificio in corsia, per la disponibilità totale che stiamo dimostrando, però qualcosa di intimo si è inserito dentro di me, ed anche se ancora sono orgoglioso di essere parte del meccanismo sanitario di questo paese, adesso però mi sento a terra, senza più alcuna volontà per andare avanti”.
            Lei lo guarda, e nota effettivamente una stanchezza profonda nella sua espressione, come se qualcosa davvero non avesse funzionato negli ultimi giorni durante il suo necessario ripristino quotidiano di entusiasmo, ed adesso provasse per questo motivo un intenso disagio, quasi un’incapacità a riprendere in mano il compito abbracciato e scelto per sempre. Sorseggia per un attimo il suo caffè, come sempre senza apprezzarlo, a compimento comunque del solito rito di fine turno, e poi pensa a tutte le parole che ha appena ascoltato dal suo esperto collega, senza riuscire ad obiettare qualcosa che abbia un minimo senso. In fondo è normale sentirsi svuotati quando tutto un paese ha richiesto da te il massimo in ogni possibile momento del giorno, pensa come fosse da sola. Ma non sa dire niente, niente che possa opporsi a quanto ha appena ascoltato.
            Ambedue gettano i bicchierini monouso dentro un bidone, poi rapidamente raggiungono la postazione dove si deve far strisciare il proprio cartellino dentro a una macchina, e compiono questa operazione esattamente come ogni giorno, in qualsiasi inizio o fine turno, forse senza neppure provare una particolare emozione. Escono, e finalmente sono all’aperto, davanti all’ampio parcheggio delle vetture, nell’aria pura e leggermente ventosa della serata, quasi priva da tutti i bacilli che purtroppo circolano dappertutto là dentro, in quella casa di cura, lasciandosi alle spalle un’altra giornata ordinaria, un altro turno concluso, un ulteriore servizio per la cittadinanza a cui generosamente hanno dato seguito, come ogni volta si deve, senza porsi domande, senza creare complicazioni. Quindi si salutano, senza dire altro, scambiandosi soltanto alcuni pensieri comuni, perché ognuno dei due ha una casa verso dove dirigersi, e ricaricare la propria abnegazione.

            Bruno Magnolfi

mercoledì 20 maggio 2020

Dure parole.


        

            “Forse era addirittura meglio prima”, dico io. “Non che davvero andasse bene sentirsi obbligati a stare chiusi ognuno in casa propria, però era quello il momento di ritrovare alcuni valori individuali, ripensare con calma le proprie cose, e soprattutto evitare questa socialità falsa che adesso ha già ripreso ad imperare”. Attorno a me tutti mi guardano con sospetto, probabilmente qualcuno vorrebbe addirittura screditare con una semplice battuta quello che sto dicendo, però tutti si trattengono, mi guardano, sanno che per certi versi le mie parole non sono mai delle sciocchezze. “Bisogna stare bene con se stessi”, aggiungo, “piuttosto che mostrarsi in giro con il vestito migliore”. Poi me ne vado, nessuno ha avuto niente da dire, forse non c’è nessun interesse nel mettersi in contrasto con uno come me. Sono stato sindaco di questa piccola città, quasi quattro mandati addietro, ed in quella manciata di anni mi sono reso conto che la mentalità della gente è sempre l’elemento più difficile da affrontare e da cambiare.
            In ogni caso non ho certo rinunciato a dire a tutti la mia opinione, ed anche se oramai mi faccio vedere in piazza solo in qualche giornata particolare, ogni volta incontro sempre qualcuno che mi chiede un parere. Riflettere, questo credo sia l’elemento che sfugga più di tutto alle persone. Poi, mentre torno a casa con le mani sprofondate nelle tasche, mi chiedo a che cosa possa servire parlare con i miei concittadini, spiegare loro quello che penso, vedere sulle loro facce i soliti dubbi di ogni volta, quelli destinati a chi è sempre stato un po’ contro corrente, sciolto dalle logiche politiche e di potere. Si vive un periodo storico così particolare che basta alzare la voce e dire qualcosa di stringente per farsi seguire da qualcuno, ed oramai così deve essere fatto sia da parte di chi è onesto, che da parte di chi onesto quando parla non lo è, perché ambedue resterebbero senz’altro indietro comportandosi diversamente.   
            Quindi rientro nel mio appartamento, mi siedo alla scrivania per godere appieno della mia intimità, e metto giù rapidamente qualche appunto sulla carta per la costituzione faticosa di un mio diario, qualcosa che vuole tenere memoria di questi giorni, di questi pensieri, di questo sentire diffuso che si respira tra le persone. Ma questo pomeriggio non trovo neppure una parola giusta da aggiungere a quanto ho già scritto nei giorni appena trascorsi, così mi fermo, lascio tutto da una parte e poi torno ad uscire di nuovo, con la scusa di andarmene dal tabaccaio a comprarmi delle sigarette che peraltro fumo raramente. Ma sul portone incontro un tizio che ho già rivisto qualche volta, ma con il quale non ho mai parlato. Mi ferma: “non va bene quello che hai detto oggi”, mi fa. “Ci sono delle cose che non hai compreso”, aggiunge sottovoce; “o che forse non hai mai voluto prendere in considerazione”. Lo guardo con interesse, cerco di capire verso dove voglia andare questo suo discorso, e lui, che capisce il mio dubbio, mi respinge dentro l’ingresso del condominio.
            “Devi pagare”, mi fa, senza darmi neppure una qualche motivazione. Tira fuori un lungo coltello, forse per mostrarmi che non scherza, e lo fa con calma, guardandomi, senza un briciolo di esitazione o di perplessità. Improvvisamente mi rendo conto che le cose stanno precipitando molto più seriamente di quanto potevo immaginare, e forse vorrei anche dire qualcosa, cercare di far ragionare in qualche modo questo strano tizio che neppure conosco, ma alla fine decido di restare in silenzio, forse per paura, o per rendermi perfettamente conto delle sue intenzioni, o anche nella semplice attesa della sua prossima mossa. Lui si abbassa leggermente, come rendendosi conto all’improvviso di qualcosa, ma poi mi sferra una coltellata dolorosissima in una coscia, come per mostrarmi la concretezza del suo progetto. Cado a terra, mi esce ovviamente del sangue, ma non è una ferita grave, e lui invece se ne va, aprendo il portone e sparendo senza fretta.

            Bruno Magnolfi  

lunedì 18 maggio 2020

Giusto in questo modo.


          

            “Durante questo periodo le cose sono cambiate”, dice lei. Nel giardino comunale dove loro due camminano, sembra sia stata tagliata l’erba di fresco, e l’odore che la natura lascia emanare adesso dal terreno soffice sotto al sole e negli spiazzi larghi tra le alberature rade, risulta estremamente intenso e piacevole. Ci sono delle panchine di legno scuro posizionate qua e là lungo i tortuosi viottoli di terra battuta, però non c’è quasi nessuno seduto, almeno in questo momento. Lui guarda avanti a sé come per mostrare tutta la sua possibile comprensione per le parole di cui sembra mostrare un attento ascolto: loro si stanno rivedendo oggi dopo parecchie settimane, e non essersi cercati quasi mai per telefono durante tutto questo tempo in cui ognuno è rimasto chiuso ermeticamente in casa propria, ha assunto alla fine un innegabile valore di distacco. “Forse aver potuto pensare con molta calma a tutto quanto, mi ha portato a rivedere alcune posizioni che in questi ultimi due anni avevo quasi dato per scontate”, gli fa lei. Un cagnolino poi, uscito da dietro alcuni cespugli, corre giocoso per un attimo verso di loro, ma ad un tratto però si ferma come ad osservarli, annusa alla sua maniera l’aria tesa e le facce serie dei due che si ritrova davanti, ed infine, alla stessa maniera di com’è arrivato, torna indietro. Lui vorrebbe aver già terminato con quella serie di chiarimenti che sa dall’inizio a che cosa porteranno, ma anche se è stufo di ascoltare tutte quelle chiacchiere, finge ancora di essere estremamente attento e interessato.
Di fatto vorrebbe rapidamente cambiare tema, portare il loro discorrere verso argomenti molto più leggeri, che magari quasi per magia riuscissero a far tornare un po' di quell’intesa che c'era un tempo tra di loro, anche se gli sembra molto arduo. Ma lei prosegue rigida e imperterrita a considerare che forse è stato un bene non essersi visti per quel lungo lasso di tempo, e che adesso almeno per lei le cose appaiono molto più chiare. Tornano indietro, ad un certo punto, e si apre come una pausa di silenzio nel loro camminare lento, senza alcuna fretta; lui non trova alcun argomento di cui trattare, anche se forse avrebbe parecchie domande da farle, ma all’improvviso tutte gli appaiono in un modo o nell’altro fuori luogo. Lei invece adesso sembra da sola, come se non si attendesse alcuna particolare reazione da parte di lui, ed una volta trovato il coraggio di esporgli la propria interpretazione dei sentimenti che tratteneva almeno in parte inconsapevolmente dentro di sé, e chissà da quanto tempo, avesse scoperto finalmente quella forza e insieme quella leggerezza che infonde nell’animo il proprio sentirsi bene, a posto, privi di quel peso che certe volte si continua a trascinare dentro se stessi.
Tornano alla strada, lui ha la macchina parcheggiata poco distante, si offre di accompagnarla  da qualche parte se lei vuole, ma ottiene come immaginava solo un rifiuto, così le propone di prendere almeno un ultimo caffè insieme in un locale con i tavoli all’aperto lungo il marciapiede. “Ma tu, sembra proprio non abbia niente da dirmi,” fa lei; “forse c’è stato fin dall’inizio soltanto un malinteso tra di noi; e probabilmente è stato tutto per colpa mia”. Lui sorride mentre si siedono, fa un cenno al cameriere, espone frettolosamente l’ordinazione, poi le tocca con leggerezza una mano sopra al tavolino, come a voler produrre in lei un’ultima possibile, improbabile, debole scossa carica di significati, con un senso forse vago, ma ben più alto di qualsiasi parola da tirare fuori. Lei lo guarda un attimo, lui si fa serio adesso, le lascia subito quella piccola stretta alla mano per prendersi una sigaretta e poi accenderla, come per emettere una boccata di fumo oltre loro due. Lei lo guarda ancora, forse attende qualcosa che non si verifica, intanto arrivano i caffè, il silenzio sembra farsi improvvisamente persino troppo pesante; poi lui le dice soltanto: “va bene così”.

Bruno Magnolfi 

venerdì 15 maggio 2020

Odioso ostentatore.


         

            Mi stanno cercando. Mi sento braccato, come un animale in fuga, ed ho paura di commettere degli errori che portino rapidamente i miei inseguitori sulle mie tracce. Per questo mi sono infilato in questo scantinato buio e umido, per osservare la strada, in questo momento fortunatamente deserta, dalla grata di ferro che si apre al livello del marciapiede. Si stanno ammalando tutti in questo periodo, sostiene la radio; dicono che sono io che ho diffuso questa loro malattia, anche se sono sano, e devo per questo essere fermato, al più presto possibile, proprio per mettermi in condizione di non nuocere, qualcuno dice per isolarmi, altri per incenerirmi, per chiudere definitivamente con me. Non ho fatto niente di male penso, e se devo essere curato sono disposto a farlo, però la radio non dice così, ed io oramai ho paura di tutto. Hanno iniziato i miei vicini di casa a scansarmi incontrandomi, poi li ho visti a gruppetti che parlavano concitatamente tra loro, che telefonavano, che chiamavano probabilmente le forze dell'ordine, o chissà chi.
Così mi sono allontanato rapidamente da casa mia, ma non ho un luogo sicuro verso dove recarmi, così cerco di cambiare continuamente la mia posizione, fingendo ogni volta per strada di essere uno qualsiasi. In giro ormai non si vede quasi più anima viva, se non quelli con le divise che continuano a perlustrare ogni angolo. Sento dei rumori sopra di me, qualcuno dice: "l'ho visto qua". Parlano di me, non c'è dubbio, quindi devo trovare rapidamente un nuovo rifugio. Esco di corsa dallo scantinato e prendo velocemente lungo il viale. Nessuno sembra seguirmi, e a me non conviene certo andare troppo di fretta, attirerei subito l'attenzione di tutti. Così vado a sistemarmi sotto ad una piccola tettoia al margine di un giardinetto, riparato da un muro alla vista di chi sta transitando lungo la strada. La radio che ho nella tasca dice che va trovato al più presto colui che diffonde il bacillo infernale, e messo in condizioni di non nuocere a tutti quanti. Un giornalista ipotizza che gli untori, come dovrei essere io, siano ormai già una decina in questa città.
Passa una macchina con le sirene spiegate, la situazione sanitaria sta sfuggendo a qualsiasi controllo penso, e se agli ammalati inconsapevoli non viene fornita una via d'uscita efficace le cose d’ora in avanti saranno destinate soltanto a peggiorare. Ho fame, devo mangiare qualcosa, perciò entro in un supermercato qui accanto tenendo il bavero della giacca sul viso, in maniera che nessuno mi riconosca nel caso abbiano diramato per televisione delle fotografie. Si entra due o tre per volta, e tutti hanno la faccia coperta: sto tranquillo, metto velocemente i miei acquisti dentro al cestino e vado alla cassa. Nessuno mi dice qualcosa, pago i miei acquisti e poi esco. Ma la polizia è già lì che mi aspetta, con un paio di volanti messe accanto al largo marciapiede di fronte. Muovo la corsa alla mia destra, sento intimarmi qualcosa alle mie spalle, e dopo un secondo viene sparato un colpo di pistola, probabilmente in aria. Tremo, mi immobilizzo, le mie gambe non tengono, mi arrendo, non posso più ancora fuggire, e in un attimo gli agenti mi sono addosso, anche se nessuno di loro mi tocca. Intervengono subito alcuni infermieri coperti con degli scafandri, mi infilano un ago nel braccio e mi mettono rapidamente nelle condizioni di non reagire.
Mi portano via con un'ambulanza attrezzata, le sirene spiegate, una fretta maledetta, tutti che mostrano un nervosismo incredibile, fino a quando vengo tirato giù con una barella chiusa da plastica trasparente, e subito mi introducono in un reparto speciale, mi girano, mi auscultano, analizzano ogni cosa di me, fanno tutto quello che vogliono in pochi minuti, come dipendesse ogni cosa da quei risultati, da quegli esami, da quelle analisi composte da vetrini, reagenti, campioni, elementi di ogni natura. Non oppongo alcuna reazione, sono qui, sembro dirgli a tutti quanti, fate pure ciò che volete. Non ho niente, mi dicono dopo un po’; non sono positivo, posso anche andarmene via, dove voglio; anzi, mi dice un medico, devo immediatamente lasciare libero il luogo, perché adesso sono soltanto un intralcio, un ingombro, uno che oramai dà soltanto fastidio.

Bruno Magnolfi

mercoledì 13 maggio 2020

Noia, soprattutto.


       

            “Ho paura”, dice lui. “Non tanto della malattia, dell’ospedale, o delle cure; quanto delle conseguenze che può lasciare tutto questo”. Lei si muove nella stanza, e piegandosi sulle ginocchia apre con decisione  uno sportello del mobile più grande, ne tira fuori qualcosa, una coppa di vetro brillante e colorato, ne osserva la trasparenza con una certa attenzione per qualche attimo, ed infine la rimette al proprio posto. “Siamo tutti immobili a cercare l’equilibrio giusto tra le cose”, fa lei quasi sbuffando; “l’incertezza, è il dato più evidente”. Lui resta in silenzio, poi si alza dalla poltrona e si avvicina ad una finestra, cercando di individuare là fuori qualcosa di diverso dall’ultima volta che si è fermato a guardare quello scorcio di strada sottostante. “Non si può proprio fare nulla”, dice lui sottovoce, quasi cercando una parola finale su cui appuntare ogni sua riflessione.
            Suona il telefono, è un’amica di lei che adesso le chiede come vadano le cose. “Niente di speciale”, le risponde la donna; “come tutti stiamo nell’attesa che qualcosa si risolva”. Lui si muove nervosamente dentro la stanza, infine esce, come a mostrare che quel tipo di conversazioni non gli piacciono, tornando a farsi vedere in quel salone soltanto quando lei ha finalmente salutato la sua amica e riattaccato la cornetta. "Stiamo tutti quanti a chiamarci l’un l’altro sapendo comunque benissimo di dirci sempre le medesime cose", fa lui come se la telefonata avesse interrotto tra loro due qualcosa di importante. Lei si accende una sigaretta restando seduta presso il grande tavolo tondo di legno scuro, lo guarda per un attimo senza assumere alcuna espressione, infine si alza e va a controllare a sua volta se ci siano novità fuori dalla finestra.
"È tutto fermo", fa lui; "non ci sono variazioni, alcun cambiamento, niente; se non che questa attesa ci sta limando i nervi a tutti". "Solo pensare che è così anche in qualsiasi altro posto mi fa sentire impotente", fa lei tanto per dargli l'impressione di stare dalla sua stessa parte. Poi però si muove, apre una rivista che aveva lasciato sopra al tavolo, e ricomincia a leggere qualcosa mettendosi seduta con comodità. "Non so come fai ad essere così tranquilla", dice lui di scatto. "Difatti non lo sono", fa lei; "però non ho voglia di essere presa nel mezzo da qualcosa che neanche conosco". Lui la guarda, forse vorrebbe dirle che ci potrebbero essere anche altre maniere per dimenticarsi della situazione, magari meno individualistiche; però non dice niente, e cerca subito di occupare la mente con qualcosa che lo faccia sentire almeno utile.
“La mia paura è anche quella di non essere all’altezza della situazione”, torna a dire lui alla fine, forse per distrarre la donna da quella sua lettura silenziosa. Lei lascia trascorrere qualche secondo; “se ti ammalassi non credo ti verrebbe chiesto qualcosa al riguardo”, gli fa senza neanche osservarlo; “tutto precipiterebbe rapidamente in quel caso, senza che ci fosse neppure il tempo di venire a chiederti cosa ne puoi pensare”. Lui si mostra stizzito da queste parole, gira per la stanza come cercando qualcosa su cui fermare il proprio sguardo, poi risponde: “ci sono molte maniere di affrontare un’importante malattia che può portare a conseguenze gravi, non capisco come fai a non rendertene conto”. Lei sorride, cerca di evitare l’accensione ulteriore in lui della suscettibilità che mostra adesso, ma appare evidente che avrebbe molto da ridire, come ad esempio la preoccupazione che sospetta in lui di ciò che potrebbero pensarne gli altri, i suoi colleghi di lavoro, le sue conoscenze, le persone che frequenta insomma. “Nel caso sentenzieremmo soltanto che eri un gran brav’uomo, se è questo che tanto ti preoccupa”, gli fa. Lui si muove, e misuratamente apre lo sportello del mobile, prendendo in mano la coppa di vetro colorato a cui lei sembra tanto legata, la guarda per un attimo e poi la rompe a terra, fingendo una sfortunata sbadataggine. “”Non importa”, gli fa lei. “Tanto mi aveva già annoiato”.    

Bruno Magnolfi

lunedì 11 maggio 2020

Casa di riposo.


          

            Non ci sono più state delle vere giornate di riposo, da quando è iniziato tutto. Ho continuato a dirmi da sola, quasi continuamente, che questo è soltanto il mio lavoro, e quelle che mi trovo davanti a me durante questi turni infiniti alla casa di riposo non sono neppure delle persone vere, perché non hanno niente di simile a me oppure ai miei colleghi: sono soltanto coloro di cui devo occuparmi, uomini e donne anziani come sono, spesso ammalati gravi, infermi, qualche volta alla fine, soltanto corpi, di cui noi del personale di assistenza ci dobbiamo prendere cura, così come è stato già previsto dai nostri protocolli di contratto, fino al possibile raggiungimento del loro ultimo momento, e dopo basta, senza neanche conservarne poi troppa memoria. Perché, se per esempio cominciassi a farmi prendere emotivamente da quelle loro espressioni, dalle piccole storie che certe volte qualcuno mi ha raccontato, da quegli occhi imploranti, dalle mani che spesso cercano di stringermi, non potrei mai più fare questo mestiere. Distaccata, ecco come devo essere, professionale, con lo sguardo sugli strumenti quando ci sono, per controllare che tutto vada bene, che non si verifichino delle dimenticanze nelle terapie, nell’ascolto dei loro lamenti, oppure in quel continuo accudire di ogni bisogno, di qualsiasi necessità; e poi rimanermene sempre lontana il più possibile da quel particolare modo di essere stato di ognuno di loro per tutti quegli anni che portano sopra le spalle, ed infine restare indifferente anche a quella personale maniera che molti hanno adesso nella semplice dimostrazione di aver addirittura vissuto per tutto questo tempo. 
            Non si lamentano sempre, molti di loro anzi non dicono quasi nulla, lasciano con distacco al personale che hanno più vicino, sempre pronto ad occuparsi di tutto al posto loro, il compito di fare qualsiasi cosa sia necessaria, qualsiasi cosa di cui se ne ravveda l’emergenza, e dopo basta. Non ti guardano nemmeno, in tanti casi, quasi fossero indifferenti, disinteressati sia di noi del personale, che di ciò che li circonda, come se anche loro si fossero in qualche modo già distaccati dal proprio corpo, ed adesso osservassero se stessi quasi da una diversa dimensione. Certe volte mi arrabbio con qualcuno di loro, cerca di scuoterlo, di fargli prendere coscienza di quello che sta succedendo, di quello che rappresentano, e della vita che ancora possono vivere se reagiscono, ma non ottengo mai assolutamente niente, e resto lì come una sciocca, a chiedermi come mai continuo a perdere del tempo, quando in questo luogo devo solamente lavorare.
            Giunge poi questa donna dalla pelle rinsecchita e tutta grinze a dirmi che loro sono soltanto tutti vecchi, e per questo sono deboli, fragili i loro organi, prendono i bacilli con facilità, quindi si ammalano, soffrono, patiscono lentamente cercando forse di pensare a tutto ciò che neppure si ricordano del proprio passato, e di quello che è stato negli anni precedenti, e così sono anche più soli, isolati da una reale incapacità a difendersi, facili prede di qualsiasi malattia voglia presentarsi. La guardo un attimo: “non si preoccupi”, le dico, “sono cose che sappiamo bene tra tutti i miei colleghi; noi facciamo il massimo, voi dovete soltanto fare la vostra parte, e lasciarci lavorare”. Lei mi guarda, forse vorrebbe soltanto reclamare qualcosa, farmi comprendere con le sue maniere lente che non è sempre stato così, che c’è stato anche un lungo periodo della loro vita in cui hanno provato delle emozioni, dei forti sentimenti, magari dando prova d’intelligenza e di indubbie capacità d’intervento nei campi più disparati, che fosse stato l’andamento della propria famiglia o le redini di una complessa società, e che adesso è rimasto tutto dietro le loro spalle fragili, e che non c’è più altro da fare. Mi fermo, resto colpita dalle sue parole, così le faccio una carezza, ma subito le dico con freddezza che non è certo torturandosi che le cose potranno migliorare. Poi esco, vado subito nello spogliatoio deserto, apro l’armadietto dove stanno le mie cose, e subito inizio a piangere come una sciocca, anche se lo so, lo so benissimo, che non dovrei mai farlo.       

            Bruno Magnolfi   

lunedì 4 maggio 2020

Chiazza di vita.


            

            Sto male, inutile finga ancora con i miei familiari, e a dirla tutta anche con me stesso. Dopo pranzo mi sono subito chiuso a chiave nella mia camera, ad aspettare che accadesse qualcosa che pareva ormai impellente nel mio organismo, ma invece niente è parso mutare, se non che ho perduto poco per volta qualsiasi volontà di rialzarmi da questa sedia dove mi sono sistemato. Sono stanco, spossato, incapace di affrontare qualsiasi decisione, così per adesso resto qua, ad osservare il muro di fronte ai miei occhi, come se sopra questa superficie imbiancata ci fosse già scritto qualcosa sul mio futuro. Non c'è più niente che io desideri davvero, se non essere lasciato da solo ad osservare i contorni appena evidenti di questa diffusa macchia che vedo sulla superficie della parete sopra al letto. Potrebbe anche essere una semplice infiltrazione d'umido, oppure una sostanza di chissà quale natura sbattuta là sopra per malagrazia chissà quanti anni addietro: una bevanda, una boccetta d’inchiostro, un succo di frutta zuccherino, un bicchiere di vino o d'acquavite, qualsiasi cosa scagliata di proposito con forza contro questo muro, magari per una ben giustificata ragione, oppure per un’altra quasi del tutto insulsa, e ricoperta in seguito, per superamento delle cose, con alcune mani di vernice, e da qualche tempo però riaffiorata, a far lieve mostra di sé.
Bussano alla porta, mi chiedono dall'uscio semiaperto se adesso abbia voglia di cenare, oppure se ci sia qualcosa che desideri. Fo cenno che non ho voglia di nulla, che non stiano a preoccuparsi per me, forse con una pastiglia riuscirò più tardi persino a stare meglio. Resto solo, e sono sicuro non miglioreranno affatto le mie condizioni di salute: sento la gola chiudersi, il respiro farsi sempre più affannoso, le forze mancarmi persino per lo svolgimento di qualsiasi sciocchezza. Guardo la macchia: adesso mi sembra persino più evidente, come se desiderasse soltanto far parlare di sé, e di qualcosa accaduto in questa stanza quando vi abitavano tutt’altre persone, diversa gente, inquilini forse di passaggio, o magari antichi affittuari cacciati via in un giorno orribile per semplice e sofferta morosità. D’altronde questa abitazione risale ad una costruzione effettuata alla metà del secolo passato, chissà quante modifiche, tinteggiature, traslochi e spostamenti di mobilio ha già visto in tutto questo tempo. Mi corico sul letto, anche da qui vedo la macchia, sono convinto che porti con sé qualcosa di significativo, anche se in questo momento incomprensibile.
Se la guardo attentamente mi pare che assuma una forma persino riconoscibile, come a volte succede facilmente con certe nuvole, che sembrano profili, animali, espressioni, miriadi di cose che in poco tempo svaniscono nel cielo, così come sono nate. Ma in questo caso niente sembra mutare, se non le mie condizioni di salute che paiono velocemente peggiorare, tanto da farmi urlare aiuto, per quanto non abbia più neanche la forza di parlare. Accorrono i miei familiari, tenendosi a distanza per ciò che hanno benissimo compreso, e si coprono immediatamente le vie aeree così come è stato già raccomandato, telefonando ai medici, all’ospedale, a chiunque possa in questo tragico momento riuscire a soccorrermi. Sono pallido, dicono, emaciato, senza un briciolo di vitalità, come se tutto il mio organismo stesse rapidamente collassando. Attendo, con il respiro che mi manca, ed infine giungono i soccorsi, persone chiuse dentro scafandri protettivi, capaci di insaccarmi velocemente come un salame e di portarmi via, dove forse qualche cura adatta potrà ridarmi un filo si speranza. Infine mi issano rapidamente sopra una barella, mi intubano con l’aria di una bombola, mi infilano un ago dentro un braccio, ed iniziano con lo spostarmi dalla mia stanza, dal mio piccolo rifugio dove ho trascorso molti degli ultimi momenti fino adesso. Mi voltano, e proprio mentre stiamo uscendo dalla porta riesco ancora per un attimo ad aprire gli occhi affaticati e a dare un ultimo sguardo d’insieme alla mia camera. La macchia sopra al letto adesso non c’è più, nascosta, asciugata, riassorbita dal muro forse, ed ha scelto rapidamente di tornare a nascondersi sotto all’intonaco della parete; almeno fino a quando non riuscirò a ritornarmene qua dentro.

Bruno Magnolfi

sabato 2 maggio 2020

Allontanato.


         

            “Basta”, dice lui a voce alta da solo, mentre apre la porta del suo piccolo appartamento. “Sono stufo di starmene qui senza fare niente, ho bisogno di andarmene in giro, vedere un luogo diverso, liberarmi la testa”. Scende rapidamente le scale ma poi, una volta in strada, si ferma subito per osservare i dintorni. Non c’è quasi nessuno in questo momento, i negozi sono chiusi, le serrande abbassate, soltanto un paio di tizi un po’ stralunati con il rispettivo cane al guinzaglio. Prendere la macchina, scappare da qui a tutta velocità, pensa lui. Magari affrontando piccole strade provinciali dove non ci sono controlli, e poi arrivare sul mare, magari in qualche luogo isolato dove starsene in piena tranquillità e all’aria aperta. Poi sale sull’auto che lui non mette in moto oramai da alcune settimane, ma dopo un paio di giri il motore si avvia regolarmente. Ingrana la marcia e affronta l’asfalto, senza neppure riflettere dove andare di preciso e quali strade percorrere. Gli alberi lungo il viale, i marciapiedi vuoti, i semafori che occhieggiano regolando un traffico che non esiste, tutto appare strano, diverso, quasi surreale. Poi svolta a caso verso una strada periferica, e percorre tutto un lungo tratto fino a quando spariscono le case d’intorno, per lasciare spazio a larghi pezzi di terra abbandonati, con distese di erbaccia incolta invasa qua e là da qualche cespuglio spinoso.
            “La libertà è lontana da casa”, dice senza preoccuparsi di parlare da solo; la strada davanti serpeggia lungo alcune colline, mostra adesso ai propri margini qualche macchia di bosco e anche dei campi coltivati, lui guida con la mente via via più leggera, come se davvero si stesse liberando poco per volta del forte peso accumulato negli ultimi tempi. Va avanti così per almeno mezz’ora, supera un piccolo borgo di case dove sembra non ci sia neanche un cane, poi avverte sempre più forte l’aria di mare che entra con forza dalla fessura aperta del suo finestrino. Infine eccola, proprio laggiù: una striscia di azzurro incontaminato ed inconfondibile, una tavola d’acqua meravigliosa ed indifferente a tutti i problemi del mondo, col suo moto ondoso perenne, il suo essere sempre così da un tempo infinito. Lui si ferma vicino alla spiaggia deserta, priva di qualsiasi riferimento preciso, poi scende dalla sua macchina e subito affonda le scarpe nella sabbia dorata. Il mare rilascia con calma la sua spuma bianca sul bagnasciuga, e la linea merlettata dell’acqua mostra un confine inesatto con la terraferma, come se tutto fosse destinato ad un’interpretazione giocosa, e le onde giunte fin qui da chissà quale altra terra, iniziano a frangere e a rincorrersi lungo una zona a qualche decina di metri dalla riva appiattita, come sempre è successo.   
            Lui si siede vicino a quella battigia, poi si sdraia con le mani incrociate sotto la nuca, respira a fondo quell’aria leggera, sospinta da un vento di mare che non ha fretta, e che muove stancamente qualche nuvola bianca qua e là, come aquiloni sfuggiti di mano a bambini giganti. “Sono qui”, urla lui verso il cielo come per convincersi a fondo di quello che vede e che sente. Resta per molto nella stessa posizione, poi si sente spossato, quasi stanco del rumore del mare e del debole vento che continua ad accarezzarlo. Riprende la macchina, torna indietro, ripercorre con esattezza le strade che ha già attraversato, rivede tutto quanto quello che aveva visto poco prima, fissando adesso ogni dettaglio nella sua mente. Giunge davanti alla sua abitazione, parcheggia l’auto con calma, attende ancora un momento dentro quell’abitacolo, come se fosse rimasta imprigionata là dentro un po’ di quell’aria che ha respirato poco prima sul mare, poi chiude con cura i finestrini, sbatte lo sportello e si assicura della chiusura, cerca la chiave del portone condominiale ed apre con gesto deciso. “Sicuramente deve essere proprio così”, dice sottovoce mentre sta salendo le scale. “Ma è sufficiente l’immaginazione per sapere come sia veramente”.  

            Bruno Magnolfi