giovedì 29 marzo 2012

Uguale ai pensieri inspiegabili.


           
            Gli stracci per pulire sono sistemati sopra lo scaffale all’interno dell’armadietto per le scope, sul terrazzino che si apre dietro la cucina del piccolo appartamento. Ad Ernesto gli piace uscire là fuori almeno per un attimo, ogni tanto, sentire l’aria fresca sul viso, osservare uno scorcio di strada, quello che si riesce a vedere da lì, dal terzo piano di quel palazzetto poco caratteristico, senza ascensore, che a volte lo costringe a fare diversi viaggi per portare fin dentro casa, dai negozi di quel quartiere, tutto quello che serve. C’è qualcosa di strano dietro quella piccola ringhiera di ferro, come se una sconosciuta magia, in quei momenti, lo portasse lontano, almeno per poco, lontano comunque dalle solite cose che deve affrontare ogni giorno.
            Quando lui rientra in casa, dopo aver fatto le compere, chiudendo piano il portoncino dietro le spalle, Teresa resta in silenzio, ma generalmente lui ha il fiato un po’ grosso per la sfacchinata di portare su quelle buste piene di cose che servono; lei si limita a guardarlo dal suo letto da invalida, dal quale non riesce più a separarsi, sbirciandolo in quello spicchio di ingresso che è ancora capace di vedere dalla sua camera. Tutto bene?, dice Ernesto mentre si toglie la giacca, ogni volta che torna; e lei, subito risponde: uguale; e ambedue dicono queste parole in maniera sempre identica, come se quello fosse un codice loro, affidato all’intonazione della voce, più che alle frasi, un sistema messo a punto in quasi cinquant’anni di matrimonio e di abitudini a tutto. Le medicine di lei sono sistemate bene in ordine, e sopra la lavagnetta Ernesto scrive sempre: che cosa, in quale giorno, e a che ora, in modo da non dimenticarsi di niente. Tra poco arriva l’infermiera dell’assistenza, lui può tirare un po’ il fiato, mettersi di là col giornale, rilassarsi almeno mezz’ora.
            Certe volte Ernesto pensa che tutto sia assurdo, anche se riesce quasi sempre a scacciare velocemente questo pensiero dalla sua testa, un po’ meno in questi ultimi tempi, da quando ha iniziato sempre più spesso a rintanarsi su quel terrazzino, ad osservare quello scorcio di strada, quel cortiletto sul retro, a starsene lì, in piedi, anche senza un vero motivo. Qualche volta si è anche fermato a guardare Teresa mentre dormiva: ha immaginato, con gran sofferenza, di farle un’iniezione, darle qualcosa che non la facesse svegliare mai più, ma non ne avrebbe il coraggio, non sono cose per lui, anche se riconosce che quella non è vera vita, soltanto un surrogato di un mondo che forse conserva appena il sapore di tempi che non torneranno mai più.
            Così si accontenta di starsene qualche volta su quel terrazzino, Ernesto, cercando di non pensare a un bel niente, perché tutti i pensieri che in quelle volte gli passano dentro la testa, non sono mai quelli giusti. Si mette a sfornellare qualcosa in cucina, e riflette su quanto siano cadenzate le sue giornate: il pranzo, la cena, l’ora del sonno, le medicine da somministrare in certi precisi momenti. Ad un tratto Ernesto si accorge che gli manca qualcosa: scendo un attimo al negozio di generi alimentari, dice a Teresa mentre indossa la giacca. Quindi esce, anche se torna il più velocemente possibile, sa che non deve lasciare Teresa a lungo da sola, ma quando, chiusa la porta, chiede il solito suo: tutto bene?, avverte un’intonazione diversa nella sua voce. Prova un piccolo brivido, forse Teresa se ne sarà accorta, pensa; forse no. Qualcosa pare incrinarsi, anche se solo per un lungo momento; ma lei dice: uguale; come sempre, come dice ogni volta, ma forse soltanto perché sa che una cosa diversa è assolutamente impossibile.

            Bruno Magnolfi

martedì 27 marzo 2012

(Profilo n. 17). Osservazioni.


            2
            Lungo questa strada, dove abito praticamente da sempre, le case sembrano tutte simili tra loro, ma qualcuna ha un giardinetto sul fianco o sul davanti, con delle siepi di rose o di caprifoglio. Transita poca gente da queste parti, ma spesse volte io me ne sto seduto su una panca di pietra, all’interno della bassa recinzione della mia abitazione. E da lì osservo l’aria, la polvere sopra ai marciapiedi, e certe volte saluto qualcuno, tra i miei vicini, che esce o che entra nella palazzina dove abita. Non c’è niente di male, penso, a starsene qui a non far niente, eppure in certe occasioni, mi sento un po’ in colpa, come se dovessi per forza trovare qualcosa di cui occuparmi sul serio, qualcosa che tenga impegnate le mie mani, gli occhi, forse anche la mente. Ma a me in fondo non interessa, e tengo duro, anche se mi dispiace per chi certe volte mi osserva mentre sto fermo sulla mia panca di pietra, insieme ai miei pensieri e alle mie piccole osservazioni su questa minima realtà che mi circonda.
Mi immagino, a volte, che in fondo a questa strada accada davvero qualcosa, che la gente si incontri sul serio, si parli con sincerità, si scambi le piccole esperienze che affollano ogni qualunque giornata. Qui, di fronte al mio giardinetto, non accade mai niente, i miei vicini mi salutano, certo, ma sempre con un certo distacco, come se pensassero di me che sono soltanto un vecchio fesso, che non sa neppure come far passare queste belle giornate di primavera, e rimane seduto con lo sguardo perso a riconoscere le facce delle persone. Forse pensano di me che non sono normale, ma non importa, so che questo che osservo è un mondo minore, costellato di piccole attività umane senza grandi caratteristiche; eppure mi sento felice quando vedo che tutto, pur essendo simile a sé, differisce in qualcosa volta per volta, ed anche se niente di irreparabile accade mai tra queste case, tutto sembra comunque succedere, in una impercettibile metamorfosi rilevabile solo con grande attenzione.
Da pochi giorni ho iniziato ad immaginarmi di fotografare quello che osservo, fermare mentalmente le immagini e scomporle, analizzarle, studiandone i risvolti che vedo sulle espressioni delle persone che passano da qui, e che in certi casi mi lasciano un saluto o una battuta di spirito. Mi rappresento nella mia mente una carrellata dei diversi atteggiamenti che noto, e ipotizzo le giornate di quelle persone, le loro preoccupazioni, gli aspetti che magari li rendono sorridenti, o la loro soddisfazione nel sentirsi in pace con tutto, anche con la propria coscienza. Certe volte scruto su di loro una smorfia insolita, un segno di sofferenza verso questi tempi così strani, pieni di preoccupazioni, di sviluppi difficili, di amarezze spesso persino prive di senso. Mi dispiace rendermi conto di queste cose, ma l’esistenza è fatta anche di aspetti del genere, penso, e comunque non mi mostro mai con nessuno troppo curioso.
Non so, penso a volte che all’interno di tutte queste piccole cose ci stia tutto quanto, che non si possa chiedere molto di più, perché non credo ci sia altro al di fuori di questi particolari. Forse in fondo alla strada ci sono anche altre cose, altri elementi, le persone laggiù magari si incontrano senza neppure conoscersi, forse non sentono neppure la necessità di salutarsi. Non ha alcuna importanza, rifletto tra me: ognuno di noi deve sentirsi capace di interpretare a suo modo la realtà che sta vivendo; il resto, forse, non è neppure troppo interessante.

Bruno Magnolfi    

domenica 25 marzo 2012

Attorno alle cose (ritratto n. 3).


            
            Stava fermo, nella piazza, le mani sprofondate dentro le tasche, il cappello calato sugli occhi, come in attesa. Era difficile immaginarsi cosa stesse pensando, per quale motivo fosse lì, se stesse davvero aspettando qualcuno, come si poteva forse presumere. Poi se ne andava, come rispondendo a un segnale, senza un motivo apparente che mostrasse in qualche maniera la sua decisione di andarsene via, in contrasto con quella di essere rimasto lì fino ad allora, immobile su quella piazza, quasi come un automa. Se ne andava e basta, scivolando via senza rumore, in modo leggero, impalpabile. Bastava attendere, poi te lo ritrovavi di nuovo durante un giorno qualsiasi, nella stessa posizione di prima, più o meno, col cappello ed il resto, niente di diverso da qualsiasi altra volta.
            I ragazzi giocavano a rincorrersi quasi ogni giorno su quella piazza, e nelle belle giornate qualche donna portava dei bambini ancora piccoli a passeggio da quelle parti. Lui osservava tutto, con indifferenza, come non ci fosse realmente qualcosa che lo interessasse, e tutto gli scivolasse vicino, senza sfiorarlo. Certe volte qualcuno dei ragazzi gli chiedeva che ore fossero, o cose del genere; scusi, signore, gli diceva uno del gruppo: può dirmi l’ora? Lui osservava il ragazzo come ne vedesse uno per la prima volta, senza per questo restarne impressionato, e infine diceva: le quattro, evitando persino di consultare il suo orologio; poi voltava lo sguardo verso un altrove che solo lui riusciva a vedere, disinteressandosi del resto.
            C’era stata una donna, quel giorno, a passeggio là attorno, a sentire i raggi del sole primaverile che scaldavano già, piacevoli sopra la faccia quando ti sedevi sulla panchina. Lui l’aveva notata, si era acceso una delle sue sigarette, poi si era preoccupato di un altro scorcio, di una visuale diversa. Lei, lì vicino, aveva fatto passare qualche minuto; lo conosceva, sapeva anche dove abitava, e così aveva detto: buono questo punto d’osservazione; si tiene sott’occhio tutta la piazza da qui, ci si rende conto di quanto succede.
            L’uomo era rimasto in silenzio, aveva tirato una boccata di fumo dalla sua sigaretta, muovendo con una lentezza estenuante la mano che la sosteneva; poi si era voltato di nuovo dall’altra parte, come se quel discorsetto non fosse stato neppure rivolto verso di lui. E’ vero, aveva detto alla fine, quasi tra sé, come non trovasse un’osservazione diversa da fare, e non fosse per nulla abituato a pensare delle cose evidenti fino a quel punto. Poi si era voltato verso la donna, che era rimasta ferma, come ad attendere ulteriori sviluppi; l’aveva osservata, ma più per non apparire scortese che per vero interesse verso di lei, e quasi sottovoce aveva aggiunto: lei è molto bella, come ad evidenziare il fatto che se dalla sua posizione si poteva osservare la piazza, in realtà il centro saliente di tutte le cose restava comunque una persona come forse era lei in quel momento.
            La donna aveva sorriso, forse le era venuto il desiderio spontaneo di avvicinarsi di più a lui, o di invitarlo a sedere sulla sua stessa panchina, al suo fianco, ma non lo fece. L’osservò ancora un momento, poi si volse verso una parte distante della piazza dove c’era un caffè coi tavolini all’aperto, e degli uomini stavano discutendo qualcosa, senza che peraltro si riuscisse da lì a sentire i loro discorsi. Allora l’uomo gettò a terra il mozzicone della sua sigaretta, e con calma si incamminò, senza dire altro, come se tutto fosse già stato spiegato, e non ci fosse necessità di aggiungere alcuna parola, niente che non fosse già in evidenza là attorno.

            Bruno Magnolfi

mercoledì 21 marzo 2012

Giorno di primavera.


            Lei era rimasta in silenzio, osservava qualcosa fuori dalla finestra, lasciava che le parole dette fino ad allora esaurissero l’eco rimasto sul fondo dei suoi pensieri. Non aveva voglia di muoversi, quasi neppure di respirare, le pareva che qualsiasi anche impercettibile gesto potesse rendere più precario quel fondale di espressioni e di forzate verità messe assieme fino ad allora.
         
Questo racconto non è più fruibile su questo blog in quanto sotto contratto con Lillibook Edizioni

Bruno Magnolfi

domenica 18 marzo 2012

L'ideologia del silenzio.


            
            Poco per volta, quasi tutto era andato fermandosi, meno qualcosa di poco rilevante che si vedeva ancora oscillare in fondo alla strada. Erano transitate molte automobili fino a poco prima, anche di più di qualsiasi giorno ordinario, si capiva che tutti si erano premurati di giungere alle proprie destinazioni per tempo, in modo da non farsi cogliere impreparati. Non si sapeva affatto da chi fosse partita l’idea, ma dedicare quell’ora serale al silenzio, era stata una trovata accolta da tutti con entusiasmo.

Questo racconto non è più fruibile su questo blog in quanto sotto contratto con Lillibook Edizioni

            Bruno Magnolfi  

mercoledì 14 marzo 2012

Cause di guerra n.2.


            

            Maledetti, ho pensato immediatamente appena li ho visti. Non riuscivo neppure a riflettere quale fosse il comportamento migliore da tenere, di fronte a quella specie di sfida; avrei forse voluto semplicemente fermarli, se avessi avuto questo potere, o convincerli in qualche maniera ad andarsene da tutt’altra parte: quella strada non era per loro, avrebbero dovuto saperlo ancora prima di venire a sfilare, nessuno di quei debosciati poteva transitare da lì, proprio da noi, che avevamo abitato da sempre le case che costeggiano la via, che non avremmo mai permesso lasciar passare sotto silenzio una cosa del genere.
            Quando ho veduto quel loro corteo di imbecilli transitare proprio sotto alla finestra della mia abitazione, ho avuto per prima reazione come una mancanza, quasi uno svenimento: mi pareva del tutto impossibile, inaudito, noi dovevamo reagire, ho pensato immediatamente, ma non sapevo per nulla quale sarebbe stato il modo migliore per far pagare a tutti loro, a quella gente indegna, un affronto del genere. E’ stato un difetto il mio, lo confesso, sarebbe stato meglio se avessi avuto una reazione più forte, che mi fossi comportato maggiormente da uomo, ma certe volte la debolezza d’animo è incontrollabile, e anche se mi montava il sangue alla testa a vedere quella gente piena di odiose bandiere e di assurdi striscioni, a me è riuscito soltanto di stringere i pugni, e continuare semplicemente a guardarli, fino a quando la manifestazione ha smesso di scorrere ed è confluita verso il viale.
            Fin da ragazzo ho sempre avuto grande antipatia per i facinorosi che scendono nelle piazze e sembra che vogliono cambiare in un attimo tutte le cose, anche se non ho mai avuto niente da dire, almeno fino a quando se ne sono rimasti lontano da me e dalle mie cose. Ma adesso, vederli passare proprio sotto al mio naso, come se questa strada fosse stata una delle loro, quelle che frequentano abitualmente, è stato veramente qualcosa di intollerabile. Avrei voluto semplicemente avvertire tutti i miei vicini di casa, dire loro che si guardassero bene dal confondere quelle ragioni riportate sopra gli striscioni di quella gente, con i nostri storici modi di essere, così distanti da quelle idiozie, e che ognuno di noi, ben chiuso nel suo appartamento, preparasse la giusta reazione ad un comportamento di così aperta ostilità nei nostri confronti.
            Quando poi mi sono deciso a tirare fuori dall’armadio il mio fedele fucile, forse era già troppo tardi, anche se ero convinto che tanti dei miei vicini di casa stessero facendo la mia medesima scelta, tanto che in quegli attimi li sentivo tutti con me, come a darmi almeno un supporto morale, di cui forse avevo anche bisogno. Mi sono affacciato alla finestra con il fucile già carico, ma lungo la strada ormai non c’era più quasi nessuno, e anche questo fatto mi ha gettato nel panico, come se ormai avessi perso il momento fondamentale.
            Per questo, quando ho notato la donna, quella persona che conoscevo soltanto di vista, ma che viveva in una casa a poche decine di metri dalla mia abitazione, non avuto più alcuna perplessità. Lei stava andando incontro proprio a loro, non c’era alcun dubbio, si era lasciata convincere dalle loro idee, si stava gettando sicuramente nelle braccia del nostro nemico, e questo era troppo, era impossibile accettare una cosa del genere. Ho sparato senz’altro mirando alle parti vitali, ma avrei voluto, oltre che ammazzarla all’istante, farla scomparire del tutto, distruggerla, disintegrarla, e insieme a lei tutti coloro che soltanto per un attimo avessero pensato di comportarsi nella stessa maniera di quella strega. Poi sono rientrato nella mia stanza, spossato, ma mi sono sentito subito a posto con la mia coscienza.

            Bruno Magnolfi 

martedì 13 marzo 2012

Cause di guerra n.1.


            

            Adesso c’è una certa calma lungo la strada, ma si avverte nell’aria una tensione che è pronta ad accendersi di nuovo da un attimo all’altro. Protette dai grandi e vecchi portoni condominiali di legno, qualche persona si è appena affacciata ad osservare la via, e per il resto è rimasta dentro gli ingressi, a parlare sottovoce di quello che ormai sta accadendo, meravigliate, perplesse, scambiando parole di sgomento e stringendosi ognuna nei propri panni. 
            La grande manifestazione è proprio passata di lì, una strada quasi anonima della città, dove non era successo mai niente, normalmente ignorata da cose del genere, ed ha come spiegato, per la prima volta, agli abitanti di quel quartiere, che ci si attende una presa di coscienza anche da loro, da tutta quella gente benpensante e integrata come senz’altro si credono d’essere tutti quelli che abitano in quella zona.
In fondo indignarsi non è certo retaggio soltanto di alcuni facinorosi, anzi, sono i tranquilli borghesi che più di altri hanno buoni motivi per fasi sentire. Questo sembra aver voluto sottolineare il corteo che è passato lungo la strada, e che ha lasciato alle spalle, in quegli abitanti, un senso di incerto, uno strano presagio, assieme alle cartacce e ai rifiuti sui marciapiedi e lungo la via.
Una donna improvvisamente esce di casa da sola, forse qualcuno l’osserva, nascosto tra le tende della propria finestra; lei accenna una corsa leggera, poi continua a camminare con passo veloce, rasentando i muri delle abitazioni. Porta una giacca di lana  sopra le spalle, e una specie di scialle sopra la testa; sembra diretta verso la piazza, in fondo alla strada, forse cerca soltanto di raggiungere uno dei negozi che si aprono là, da quella parte, magari la farmacia, sicuramente le serve qualcosa di urgente per cui è stata spinta ad uscire.
La donna si muove senza neppure guardare dietro di sé, pare che abbia interesse soltanto per ciò da cui è stata spinta lungo la via, come se niente potesse distoglierla da ciò che si è prefissa di fare. Niente si muove adesso lungo la strada, escluso lei, eppure si percepisce che la manifestazione non è molto lontana, forse si è soltanto fermata lungo il vicino viale, chissà.
Niente pare più innocuo e poco importante di una persona che se ne va come quella donna per la sua strada, indifferente quasi a tutto quanto succeda, magari senza neppure immaginarsi che la farmacia e gli altri negozi adesso sono chiusi, con le serrande abbassate, ad evitare di essere presi di mira da qualche gruppo di scalmanati che non ha niente di meglio da fare che scagliarsi contro qualche bottega.
Così tutto sembra scorrere in qualche maniera, e in fondo, nella casistica di tutti gli avvenimenti possibili, può darsi benissimo che una donna possa avere bisogno di uscire per strada e raggiungere qualcosa che le sembra estremamente importante, superiore anche al rischio di essere fermata da qualcuno per futili motivi, forse addirittura soltanto per il gusto di farlo.
Poi, per un attimo, qualcosa brilla lucente nell’aria, sopra al davanzale di una finestra del primo piano. La fucilata parte senza preavviso, ma producendo come un rumore qualsiasi, un elemento urbano subito composto tra le cose possibili in una città. La donna si accascia sul marciapiede senza neppure un lamento, e resta lì, come un fagotto di stracci, a riprova del fatto che certe volte persino una persona inoffensiva come lei può essere il simbolo di una guerra di cui non si è neppure riusciti a capire la natura. Tutti gli altri non hanno visto un bel niente, ci sarà tutto il tempo per prenderne atto.    

Bruno Magnolfi

sabato 10 marzo 2012

Semplici soluzioni.


            
            Mi sono seduto nella sala d’attesa, e quasi senza rendermene conto, il tempo se n’è andato via, giorni e giorni senza che quasi mi sia reso conto di nulla. E’ arrivato un uomo, una persona piuttosto anziana, mi ha toccato una spalla, ha detto: scusi, dobbiamo chiudere, bisogna che lei se ne vada. Mi sono alzato dalla sedia, ho guardato l’ambiente mentre uscivo, mi sono reso conto che appariva completamente diverso da quando ero arrivato. Così ho chiesto al vecchio che cosa mai fosse accaduto, ma lui si è limitato a fare un gesto come per spiegare che era una storia troppo complessa per poterne parlare così.
            Sono tornato sulla strada, ho osservato il portone e mi sono reso conto che probabilmente non avevo alcuna necessità di recarmi in un posto del genere. Ciò nonostante sono tornato il giorno seguente per osservare le persone che frequentavano quel luogo, e il giorno dopo ancora ho fatto la medesima cosa, fino ad iniziare a segnare su un taccuino delle brevi descrizioni dei personaggi che mi passavano davanti andando ad affollare la sala d’attesa. Mi pareva che ci fosse una caratteristica comune a tutti coloro che arrivavano lì, ma era molto difficile capire quale fosse, e soprattutto appariva misterioso il motivo per cui erano spinti in quel luogo.
            Poi, a fine giornata, sono tornato nel mio appartamento, mi sono seduto allo scrittoio, ed ho ripreso in mano tutti i miei appunti. Ho visto che, di quelle persone, nessuna di loro mi assomigliava, camminavano addirittura in modo diverso dal mio, e soprattutto pareva, nel loro procedere, che fossero assorti in pensieri piuttosto complessi, tanto da farli sembrare distratti, con la testa dentro alle nuvole. Mi sono incuriosito di quel modo di essere, e sono tornato davanti alla sala d’attesa per cercare di scoprire che cosa potesse essere ad occupare la mente di ciascuno di loro.
            Ho fermato una donna, là davanti, le ho chiesto che ore fossero, tanto per attaccare discorso, lei ha risposto che non aveva orologio, ma immaginava fossero almeno le cinque, sicuramente non prima. Allora le ho chiesto come potesse essere sicura di questo, e lei mi ha osservato con maggiore intensità, ed infine ha spiegato che aveva sentito suonare da poco cinque rintocchi alla campana della chiesa di quel nostro quartiere, perciò era sicura di ciò che diceva. L’ho guardata con espressione dubitativa di quelle parole, e lei subito ha aggiunto: lei quale ora vorrebbe che fosse, se non avesse certezza di ciò che le ho detto?
            Sul momento non ho saputo che dire, ma subito dopo mi è presa la voglia di spiegarle che per me non faceva una gran differenza, secondo me il tempo era soltanto un luogo astratto che si allungava e accorciava a seconda delle necessità o dei desideri. Infine la donna mi ha spiegato che doveva proprio andare, aveva un appuntamento proprio per le cinque e trenta, e visto che ancora era presto, avrebbe potuto sedersi nella sala d’attesa e riguardare i suoi incartamenti, in modo da presentarli completi ed in ordine. Così ho lasciato che andasse, ma quando, dopo un bel po’ di tempo, è tornata indietro a varcare la soglia di quell’edificio, ha subito detto che forse avevo ragione: il tempo era solo un’entità astratta, non c’era alcun gusto nel parcellizzare le cose usando degli spazi assegnati per tutto; dovevamo interessarci di più di ciò che era giusto, non vedeva alcun motivo per comportarsi in altra maniera. Ho annuito a tutto quanto, l’ho salutata con cortesia, e infine, con tutta la calma del mondo, ho ripreso la strada di casa.

            Bruno Magnolfi  

giovedì 8 marzo 2012

Il rispetto fondamentale.


            
            In un futuro imprecisato, la polvere in aria ammanta una giornata livida, priva di colori. Lei attraversa la strada deserta, si comporta alla stessa maniera di sempre, si scruta attorno, con attenzione, getta un’occhiata sopra le facciate delle abitazioni. Ciò che rimane, in questo deserto di inclinazioni e di volontà, sono soltanto le abitudini, pensa, e intanto si volta ad osservare qualcosa alle sue spalle, ma soltanto seguendo un’intuizione ormai quasi priva di senso.
            Una persona, un uomo, si affaccia alla porta di casa, saluta la donna che prosegue a camminare per la sua direzione, le dice che tutto va bene, non c’è niente di nuovo. Più tardi, lui non può sapere adesso quando sarà di preciso, andrà da lei, dice, assieme a tutti gli altri, passeranno anche quel giorno un po’ di tempo insieme, come fanno spesso, almeno una volta ogni due giorni. La donna fa cenno di si con la testa, conosce perfettamente quale sarà quel percorso, ma prosegue nel suo cammino, sa che ci sono cose verso cui non si può fingere indifferenza, e infine si ferma nei pressi di un’auto di lusso parcheggiata al fianco del marciapiede.
            Qualcuno l’aspetta nell’abitacolo, l’autista avvia il motore mentre lei sale chiudendo lo sportello dietro di sé. Non c’è niente da dire, spiega la donna, tutto sembra usuale, fin nei dettagli; l’unica differenza sta nelle cose che si riesce a riflettere, dentro ai pensieri, anche se quelli, per ragioni profonde, di smaccata opportunità, è bene non escano mai dalla testa. Ecco, già dicendo in questa maniera, la donna ha tradito un comportamento che forse è soltanto un retaggio di altri momenti, i tempi nei quali era forse possibile anche parlare senza preoccuparsi di niente.
            Nell’automobile qualcuno registra le frasi che vengono dette, gli uomini presenti si osservano attorno, in silenzio, proseguono a fare il proprio lavoro anche se non capiscono affatto a cosa potrà mai servire. La macchina continua a girare a vuoto in quel quartiere, poche persone la osservano, senza insistenza. Infine il mezzo si ferma, nella stessa esatta posizione da cui era partito, la donna esce dall’auto, guarda per un attimo il suo orologio, e si dirige verso il grande edificio dove sembra che tutto abbia un senso, perfino le cose che non si capiscono. Entra, saluta qualcuno degli uomini che non perdono di vista ogni suo gesto, entra dentro la sala in cui si terrà di lì a poco la pubblica conferenza. 
            Qualcuno degli uomini già presenti nell’auditorium l’applaude, quasi tutti si voltano verso di lei, la donna raggiunge di fretta il tavolo sopra quel palco, qualcuno le porge la sedia, altri le fanno spazio, in modo da metterla perfettamente a suo agio. Lei si siede, si schiarisce la voce, osserva tutta la platea prima di parlare, infine dice: sono stanca di tutto; probabilmente qualcuno si aspetta qualcosa di nuovo, di diverso, qualcosa che possa aprire le porte ad una nuova situazione per tutti. Non ci sarà niente di nuovo, prosegue la donna, non ci può essere niente di diverso se non ci si sforza di variare il proprio punto di vista. Soltanto quello può essere davvero la novità del momento, ma non ve lo posso indicare, non ve lo posso insegnare, non ve ne posso neppure parlare davvero: dovete sforzarvi di sentirlo, perché io, ne sono sicura, è già dentro di voi, lo custodite all’interno di voi, forse non ne avete alcuna coscienza, non lo immaginate neppure così, in questa esatta maniera come io ve ne parlo; ma state sicuri, è presente, ed è un ingrediente che è nato con voi, con tutti voi.

            Bruno Magnolfi

mercoledì 7 marzo 2012

Assolo d'uomo (ritratto n. 2).


            
            Mi sono seduto sopra una panchina, sul lato vicino al viale, nel parco pubblico della mia città, ed ho osservato a lungo le macchine che transitavano lungo la strada, qualche pedone indifferente sui marciapiedi, e poi, dopo qualche minuto,  mi sono disinteressato di tutto. In fondo, ho pensato, cosa mi interessa degli altri: ritengo quasi tutto sbagliato in questa logica che ci circonda, ed io da solo non posso certo immaginare di poter cambiare anche soltanto alcune di queste cose, anche semplicemente una loro minima parte. Perciò sono rimasto lì a lungo, inerme, seduto, lasciando che tutta la realtà mi scorresse attorno senza neppure sfiorarmi.  
            Poi si è avvicinata una donna, mi ha sorriso, si è seduta con me sulla mia stessa panchina. Non le ho detto niente, e anche lei è rimasta a lungo in silenzio. Eravamo completamente estranei, ho pensato, non c’era motivo di ricercare un dialogo. Infine è stata raggiunta da un uomo, questo l’ha salutata giungendo a piedi dal vialetto di ghiaia, lui mi ha guardato appena un momento, come cercando di comprendere quali fossero le mie intenzioni. Non ho avuto necessità di fare alcun gesto, lei si è sollevata all’impiedi, hanno detto qualcosa tra loro, con voce bassa, parole per me del tutto incomprensibili, infine si sono allontanati con calma, la donna ha voltato la testa solo un momento verso di me, e mi ha salutato.
            Ho osservato ambedue allontanarsi, ho notato i loro modi di scambiare parole e sorrisi, poi mi sono disinteressato di tutto, anche di loro. Non è passato molto tempo, ho allungato leggermente le gambe e mi sono sistemato nella maniera più comoda che mi riusciva sopra quella panchina; la donna di prima, ad un tratto, è tornata verso di me, con passi più rapidi adesso, da sola. Mi ha sorriso di nuovo, è tornata a sedersi, ha iniziato a dire di sentirsi una persona semplice e soprattutto spontanea, che non riesce quasi mai a valutare le sfumature di molte delle cose da cui è circondata. Io non ho detto un bel niente, ma ho lasciato che si soffiasse sonoramente il naso con il fazzoletto, come per evitare di piangere, e poi che riprendesse a parlare: credo nei sentimenti sinceri, mi ha detto, nell’immediatezza del loro appalesarsi. Infine mi ha guardato, voltandosi leggermente verso di me; io le ho allungato una mano, con il palmo aperto, lei l’ha presa e l’ha stretta a sé.
            Non so dire quanto altro tempo sia trascorso in questa maniera, io ho lasciato che tutto scorresse, come se già fossi cosciente dell’epilogo di quella faccenda, ma ad un tratto, non so bene per quale motivo, mi sono sentito fortemente a disagio, così ho osservato con noncuranza dei ragazzi che giocavano a rincorrersi sull’erba poco distante, ed ho provato la voglia profonda di andarmene. Lei ha detto ancora qualcosa, un po’ sottovoce, ma io non le ho dato importanza. Mi sono sollevato lentamente, ho voltato la faccia verso la donna che ha continuato a guardarmi come aspettandosi da me chissà cosa. Così le ho sorriso, nella stessa esatta maniera come aveva fatto lei; infine, me ne sono andato per la mia strada, senza neppure voltarmi.

            Bruno Magnolfi

lunedì 5 marzo 2012

Stella del Sud (ritratto n. 1).


           
            Certe volte vorrei vedermi con gli occhi degli altri, dice Santo mentre da solo torna verso il piccolo pontile, sulla riva del suo grande fiume, lasciando scorrere lentamente il barchino sulla superficie dell’acqua, un colpo ogni tanto con l’unico remo, e nient’altro. Non c’è vento, le canne sulla riva sono tutte immobili, non si sentono quasi rumori, se non quel leggero sciabordio dell’acqua lungo la chiglia, e qualche rana gracidare lontano. Nel secchio solamente quattro piccole anguille, di fronte la mattinata vagamente nebbiosa, come qualsiasi altro giorno, come se alcuna differenza potesse calcare apprezzabili variazioni tra una mattina ed un’altra.
          
Questo racconto non è più fruibile su questo blog in quanto sotto contratto con Lillibook Edizioni

            Bruno Magnolfi    

venerdì 2 marzo 2012

Scena n.23. Dimostrazione di capacità.


           

            Per un attimo ho tremato, dico al mio amico cercando di fargli immaginare la scena. Dovevo superare l’attimo buio, gli spiego, il momento difficile, la cosa più importante di tutte. Pareva che gran parte della mia esistenza fosse stata convogliata fino a quell’attimo, che tutto si fosse raddensato in quel punto, ed io disperatamente, all’improvviso, vivevo dentro di me, come in un incubo, la certezza di mancare la prova, di non riuscire in quanto mi era dato di dimostrare. Certo, probabilmente non avrei neppure dovuto provare, dico ancora al mio amico, che sembra proprio comprendere facilmente quanto gli vado spiegando; la strategia più adeguata, probabilmente, sarebbe stata quella di evitare qualsiasi riflessione, ogni ragionamento, concentrarsi su un’immagine assolutamente estranea alle cose, e lasciare che la parte più istintiva di me emergesse, fino a portare ogni speranza oltre l’ostacolo.
            Il mio amico all’improvviso ha come un momento di distacco da quanto gli vado dicendo: si alza dalla sua sedia, compie qualche passo con calma sopra le assi nude del palco, sembra che cerchi con sforzo di dire qualcosa. Invece si ferma, alza la testa, guarda per un attimo il pubblico con sguardo severo. Impossibile non riuscire a far fronte ad una cosa d’importanza così decisiva, dice come a se stesso. Difatti, faccio subito io; è esattamente quello che anch’io in quell’attimo avevo dentro la mente, ma proprio per questo, non so per quale altro motivo preciso, ero contemporaneamente anche quasi sicuro che avrei fatto fiasco.
            Entra la donna, con passo svelto, ma si ferma davanti a me ed al mio amico, ci guarda, porta una mano alla sua ciocca di capelli legati con un elastico dietro la nuca, quasi per un gesto composto poco per volta dall’abitudine. La sua espressione evidenzia incertezza, il mio amico le dice: stiamo soltanto parlando di cose senza importanza. La donna annuisce, senza alcuna convinzione, poi si rivolge a me, ma in modo impersonale: un fallito, ecco chi abbiamo davanti; una persona che neppure riesce a mostrare quello che vale, sempre ammesso che valga qualcosa. Poi si volta, porta la mano davanti alla faccia, come a nascondere una vergogna incipiente, e resta in silenzio.
            Ecco, dico io, rivolgendomi di nuovo al mio amico; avrei fatto di tutto per evitare questo risultato, eppure, quando è stato il momento, le mani mi hanno tremato, gli occhi si sono rifiutati di vedere bene, non hanno avuto la chiarezza di cui c’era bisogno. Il mio amico sente di dover dire qualcosa, così alza la mano come a fermare le parole che continuo a mettere insieme, quasi a indicare che ormai è tutto chiaro, non c’è alcun bisogno di aggiungere altro. Chiunque di noi avrebbe fatto lo stesso, dice con parole che immediatamente suonano false, consolatorie, messe su apposta per chiudere definitivamente quell’argomento.  
            Mi sembra quasi di perdere l’equilibrio, pur proseguendo a restare fermo, in piedi, quasi inchiodato sul palco di legno. Infine mi muovo leggermente, mi sembra che la distanza con le persone che mi circondano si sia fatta maggiore di qualsiasi altra volta, i miei pensieri chiedono se possa essere giusto pagare così tanto in un’unica soluzione. Poi volto le spalle alla gente, raccolgo le idee, credo di non avere più niente da perdere. Così torno a guardare tutti quanti negli occhi, quasi con espressione di sfida: adesso sono maggiormente convinto di me, dico, sento una maggiore determinazione, una compostezza profonda; anzi, ora sono sicuro che niente avrebbe potuto essere minimamente diverso. Mi rivolgo al pubblico, chiarisco: l’errore mi ha mostrato la strada, dico quasi con foga; la mia vita adesso ha prodotto in me uno scarto in avanti, mi sento migliore; potrei addirittura dimostrarlo.

            Bruno Magnolfi