lunedì 30 novembre 2015

Pagine spente.

           
            Non vorrei mai provare il dolore. Per questo corro ogni giorno. Esco da casa già in tenuta sportiva ed inizio subito a correre, per tutte le strade di questo enorme quartiere, fino a stancarmi, a sudare, a stordirmi di fatica, fino al punto di non sentire quasi più niente, ed avvertire soltanto che il mio corpo è ormai esausto in ogni sua minima parte, ed ogni altro pensiero è lontano, neutralizzato. Poi rientro, mi lavo, mi cambio, e vado a lavorare. I colleghi sorridono, loro non credono ad alcun sano comportamento muscolare. Li lascio dire, per me in fondo va bene così, non c’è da aggiungere niente. Certe volte penso che la mia incapacità ad uscire dal bozzolo che mi sono creato intorno, non porterà mai niente di buono, ma questo è soltanto il retro pensiero che mi prende quando sono completamente a riposo.
            Di fatto penso che persino i miei colleghi utilizzino degli stratagemmi per alleviare le proprie pene, così una volta dico loro che in fondo siamo tutti fatti in uno stesso modo, simili e costituiti della stessa materia. Loro ridono, mi prendono in giro, dicono sempre che sono soltanto leggermente spostato, ma senza pensarlo davvero. Uno poi fa: tu hai la fortuna del tuo impegno continuo per farti scivolare via la giornata. Forse, fo io: anche se mi sto abituando velocemente alle cose, e tutto così diventa consuetudine e monotonia, ed è tale da rendere ogni elemento praticamente scontato, senza più la spinta di inizio.
            Quando vado a dormire sono stanchissimo. Spengo la luce, tutto crolla dentro di me, il sonno diventa subito un grande fondo scuro su cui non si muove più niente. Lei è lontano, non può danneggiarmi ancora. Qualche collega mi ha fatto qualche domanda, ed io non ho voluto essere evasivo, anche se forse sarebbe stata la cosa più facile. Al contrario ho cercato in poche parole di sintetizzare la vicenda che ancora si trascina dentro di me. Dovresti svagarti, generalmente hanno detto. Sorrido, in questi casi, non credo sia facile per nessuno comprendere le sensazioni che si possono provare. Così, la mattina seguente, riprendo a correre, quasi con un impegno maggiore.
            Oggi mi sono svegliato alla solita ora, ho acceso la luce, aperta la finestra, e sono rimasto lì, a guardare l’alba lontana e grigiastra, senza particolari attrattive. Niente è cambiato, penso, forse mai niente cambierà veramente. Oggi non correrò, ho subito pensato, e forse non andrò neppure a lavorare; probabilmente rimarrò qui a curare qualcosa che ho tralasciato da molto, e ad affrontare queste ferite rimaste esposte a qualsiasi maltempo. Sono uscito, perciò, ho camminato per le medesime strade che conosco di questo quartiere, e mi sono soffermato però ad ogni angolo, ad osservare qualsiasi dettaglio, rallentando continuamente la velocità e riflettendo su qualsiasi piccolo particolare degno di nota. Alla fine comunque sono andato ugualmente a lavorare, anche se con un discreto ritardo di cui sono riuscito a dare una giustificazione. I miei colleghi hanno subito capito che qualcosa improvvisamente era successo, ed io, di fronte ai loro sguardi interrogativi, ho sorriso, ad uno per uno, mostrando di voler bene a tutti, ed infine ho anche detto con facilità che non ho più voglia di correre: ho solamente voltato una pagina, ho spiegato loro; ma in fondo era semplice farlo.


            Bruno Magnolfi

venerdì 27 novembre 2015

Lezione quotidiana.

           

            Siediti, stai ferma, e soprattutto in silenzio, le grido quasi; non voglio più sentire niente, neppure l’eco della tua voce. Poi mi volto, cerco di riprendere la lezione dal punto dove in ultimo sono stata interrotta, ma mi rendo conto che adesso oramai ho perso completamente il filo del discorso, e che in questo momento non ricordo neppure di che cosa stavo effettivamente discorrendo. Non so per quale motivo, però mi viene in mente all’improvviso una sensazione e un’immagine di quando ero piccola, e di alcuni momenti in cui mia madre pacatamente mi sgridava per qualcosa che certe volte forse non facevo, oppure che facevo male, e ricordo benissimo anche quanto a me piacesse la sua voce, perfino in quei momenti, e quelle sue maniere monotone ma in fondo rassicuranti con le quali mi lasciava immediatamente comprendere quale fosse il vero limite, dandomi l’indicazione della strada giusta lungo la quale procedere. Forse in questo momento dovrei proprio parlare di tutto questo alla classe, penso mentre prendo ancora tempo con una scusa banale, ma una delle regole a cui mi sono sempre attenuta è quella di non trattare mai della mia vita privata, e tenere tutte le mie storie e le mie emozioni lontane il più possibile dal mondo del lavoro.
            Lorenzo, dico allora approfittando di una porzione di silenzio che ancora persiste; riassumi quanto sono riuscita a dire fino adesso, per favore. Il ragazzino si alza, è uno di quelli bravi, riflessivi, così si guarda alla sua destra dove c’è il suo amico, forse per cercare un aiuto o almeno una condivisione, mentre probabilmente si sta già chiedendo perché mai la sua insegnante abbia interpellato proprio lui, anche se di fatto non può neppure immaginare quanto i suoi modi assomiglino ai miei quando avevo la sua stessa età. Qualcuno subito dietro Lorenzo ride in maniera soffocata, chissà poi per quale motivo, e lo fa proprio mentre io provo all’improvviso quasi un moto di commozione, forse solo per aver semplicemente ripensato alla mamma, oppure per una stupida e ingombrante nostalgia che adesso non saprei neppure definire.
            Ecco, dice Lorenzo; ci stava spiegando quanto sia brutta la violenza tra le persone, specialmente quella di cui nessuno parla mai. Pausa. Lo guardo in silenzio, lui mi guarda, non lo incoraggio, resto neutrale quanto più mi riesce: il ragazzino intuisce qualcosa però, così abbassa gli occhi e infine si siede. Con quelle semplici parole la stanza di fronte al mio sguardo è attraversata improvvisamente dalla figura di mio padre, forse soltanto un’ombra, quasi un fantasma, velocissimo, talmente rapido che dubito io sia riuscita davvero a vederlo. Ne ho soltanto avuto l’impressione, forse, e poi in fondo a distanza di anni non ricordo neanche bene come fosse fatto.
            La violenza di cui nessuno parla è quella che avviene ogni giorno, dico; magari proprio dentro un’insospettabile abitazione, ed è quella che in una volta sola non mostra mai niente di sé. La sua vera forza è la ripetizione continua, il monotono manifestarsi anche di uno stesso singolo atto: chiedere sgarbatamente una medesima cosa, esprimersi sempre con un atteggiamento aggressivo, o anche soltanto evitare sistematicamente di dare delle risposte. Anche questa è violenza, ed a volte risulta talmente efficace da portare chi la subisce addirittura a dei gesti sconsiderati.
            Adesso il silenzio è perfetto, completo; forse ho messo qualcosa di mio in quanto ho detto, penso mentre giro una pagina sopra la scrivania; in questo momento avrei quasi voglia che qualcuno dei più scalmanati rompesse la pesantezza dell’aria che si è instaurata dopo queste parole, magari per dire una scemenza qualsiasi. Invece niente, tutto improvvisamente è immobile. Devo uscire da questa situazione, penso. Lorenzo, dico così a Lorenzo in maniera un po' intimidatoria. Scrivi per favore sopra la lavagna la parola chiave della lezione di oggi. Lui si fa avanti svogliatamente, si posiziona accanto allo schermo, prende tempo, infine scrive: quotidianità. Bravo, gli dico, ma adesso prendiamoci tutti una pausa di qualche minuto per riflettere bene anche su questo argomento; poi magari potremo discuterne con una calma maggiore. Esco dall’aula, vado in bagno, mi guardo nel piccolo specchio e all’improvviso so perfettamente che non avrei mai dovuto affrontare con i ragazzi un tema del genere.


            Bruno Magnolfi

lunedì 23 novembre 2015

Risate liberatorie.

            

            Il rumore dei macchinari in funzione là dentro non è fortissimo, però è già sufficiente per costringere chiunque si trovi ad operare nel grande capannone dell’officina a parlare a voce molto alta, tanto da scoraggiare in genere qualsiasi discorso che non sia giusto una battuta di appena due o tre parole. Ai più anziani tra coloro che lavorano là dentro basta spesso una semplice occhiata per scambiarsi un intero concetto, specialmente quando si sa che da un momento all’altro potrebbe passare tra i corridoi per la verifica proprio lui, il loro responsabile tecnico. Tutti lo odiano, naturalmente, ma forse oramai più per abitudine che per un qualche motivo preciso.
Lui controlla i tempi, la qualità del prodotto, la sicurezza delle attività, il comportamento di tutti gli operai, e nei suoi confronti generalmente ci si sente già abbastanza furbi nel mostrare un certo grado di finta indifferenza verso quelle che tutti chiamano le sue stupide indagini. Si muove in mezzo ai macchinari come se sapesse perfettamente che tutti cercano di raggirare in qualche modo il suo sguardo sottile, così molte cose finge addirittura di non vederle, ma lo fa soltanto per conservare così delle carte da spendere al momento più opportuno. Già, perché il suo modo di comportarsi è quello di non obiettare mai un bel niente a nessuno, anche quando magari sta alle spalle di uno dei lavoratori per osservarne ogni movimento, forse anche perché dovrebbe quasi urlare per farsi comprendere adeguatamente, e questo non è affatto nel suo stile. Al contrario, quando l’operaio preso di mira magari non se l’aspetterebbe neanche più, o quando si vanno a sommare due o tre elementi diversi e negativi, anche pur marginali ma per lui assolutamente rilevanti, ecco che il lavoratore viene chiamato nel suo ufficio tramite gli altoparlanti, ed è lì che escono fuori in una sola volta tutti i problemi segnalati, lasciando il malcapitato a difendersi da solo in piedi davanti alla sua grande e maledetta scrivania.
Ma oggi è diverso: si è visto sin dalla mattina che qualcosa di pesante nell’aria sembra come incombere su tutta l’officina, quasi un elemento nuovo, strano, intraducibile, che perfino durante la stessa pausa pranzo, nei locali della mensa, ha imposto a tutti di parlare sottovoce, rispondendo alla sensazione diffusa di essere sospettati di qualcosa di terribile. Cinque minuti prima del termine dell’orario di lavoro difatti gli altoparlanti hanno scandito un serio avviso: siete tutti indagati, ha detto una voce metallica al microfono, nei confronti dei danneggiamenti rilevati sulla carrozzeria dell’autovettura privata del nostro responsabile tecnico aziendale. La ricaduta dei provvedimenti che verranno presi sarà un irrigidimento della direzione nei confronti di ogni lavoratore.
Nessuno commenta, tutti rimangono in religioso silenzio, ognuno sa quale sia la lucida vettura presa di mira, e forse a nessuno è venuto mai in mente nemmeno di sfiorarla. Suona la sirena del termine per quella giornata lavorativa, e gli operai raggiungono in fretta gli spogliatoi e i propri armadietti. Tutto peggiorerà adesso, dice qualcuno appena bisbigliando. Però non ha alcuna importanza: indietro non si può più tornare, perciò affronteremo la situazione così come si presenta, dice qualcuno coraggioso. Nessuno spiega che forse il responsabile tecnico se lo è proprio meritato, però tutti lo pensano, e in ogni caso chissà se verrà mai fuori davvero colui che si è macchiato di un gesto di quel genere. Timidamente uno infine avanza persino l'ipotesi che sia tutta un'invenzione della direzione per irrigidire i comportamenti nella fabbrica, ma poi qualcun altro volta gli occhi sul soffitto, e vede che è stata applicata persino lì in un angolo una micro telecamera. Non ci salveremo, dice: tanto vale farci due risate.


Bruno Magnolfi

mercoledì 18 novembre 2015

Comprensibili debolezze.

   

            Sto qui per quasi tutto il giorno, sopra la panchina di questo giardinetto, proprio accanto alla strada che porta verso il centro. Mi sposto durante la giornata giusto per arrivare al semaforo che sta di fronte, anche se non chiedo mai niente agli automobilisti, mi limito negli orari di punta a passare accanto alle vetture ferme in coda per il rosso, per dare la possibilità a quelli del quartiere che ormai mi conoscono da tempo, di regalarmi a volte qualche spicciolo, oppure qualcosa da mangiare; in certi casi mi portano anche un paio di scarpe usate, o qualche maglione e giubbotto smesso, che fa sempre un gran comodo, e anche altre cose del genere che a me possono servire. Perciò durante tutta la giornata sotto alla mia panchina ci sono sempre delle grandi buste con dentro tutta la roba che riesco a raccogliere e mettere da parte, lo sanno tutti qui, a nessuno dà fastidio.
            L'altro giorno nella tasca di una giacca grigia che ho indossato per la prima volta, trovo una vecchia fotografia: è una ragazza sorridente, non mi pare di averla mai veduta da queste parti, perciò decido subito che quello è un segno del destino, e che lei d’ora in avanti sarà come la mia fidanzata, il mio portafortuna. A qualcuno che mi saluta al semaforo faccio anche vedere quella foto, senza specificare niente, e forse in molti stanno quasi per chiedersi che vita avrà mai fatto prima di adesso uno come me, capace di essere riuscito a conoscere e magari a frequentare una ragazza carina di quel genere. Io sorrido dentro di me: è come fosse tutto un mio segreto, una scommessa con la vita che tengo quasi in serbo tra le cose a me più care.
            Passano i ragazzi di un’associazione per sentire come mi vadano le cose, mi danno subito i buoni pasto per la mensa, dopo essersi informati sulle mie condizioni di salute, mi fanno dei gran complimenti per come mando avanti le mie cose, e poi mi allungano anche qualche soldo. Sto bene, dico, adesso che non sono più da solo le cose poi vanno anche meglio: ho con me la mia fidanzata che mi tiene compagnia per tutto il giorno, e questo sicuramente è un gran sollievo, dico. Così mostro a queste brave persone l’immagine della mia ragazza che tengo sempre in qualche tasca, e loro sembrano molto sorpresi, per scherzo si danno anche di gomito l’un l’altro, ridono e apprezzano il mio buon gusto nello scegliermi questa fidanzata.
            Trascorre qualche giorno, tutto scivola esattamente come sempre, senza sbalzi, e dopo arriva lei, proprio lei vera, ed io non mi aspettavo proprio una sorpresa di quel genere, anche perché fin da diversi passi di distanza la riconosco subito, non ho bisogno neppure di pensarci. Viene con calma verso la mia panchina, sorride, si siede accanto a me, dice che oggi fa un po' freddo, ma che purtroppo stiamo andando sempre più verso l’inverno. Ho la coperta, le rispondo con timidezza e titubanza, per me non ci sono troppi problemi. Continuo a guardarla, è proprio lei, bella come me l’ero immaginata, ed è la mia ragazza, adesso ne sono proprio sicuro, e lei sa bene che non mi sarei mai immaginato di incontrarla, che non me l’aspettavo davvero una sorpresa di quel genere.
            Mi dice in due parole che lei se la sta passando piuttosto bene, che è contenta di come stanno andando tutte le sue cose, ed io allora le faccio vedere la mia fotografia, tanto per spiegarle bene quanto io abbia pensato a lei per tutto questo tempo. Mi sfiora la mano, sorride, dice che le fa piacere se tengo la sua fotografia, ma che adesso deve proprio andare, anche se ritornerà, di questo ne è più che sicura, quasi me lo giura. Sorrido, mi sembra di vivere in un sogno, così di getto le chiedo di scrivermi il suo nome sul retro dell’immagine, e magari anche una dedica.
            Elena, dice lei mentre scrive qualcosa insieme al suo nome. La guardo, poi riprendo la fotografia dalle sue mani: è il più bel nome che abbia mai sentito, penso, anche se adesso provo un’emozione così forte che non riesco neppure a pronunciarlo. 


            Bruno Magnolfi

giovedì 12 novembre 2015

Evidente superiorità.

            

            Il mio sguardo ha qualcosa di magnetico: posso agevolmente spostare dei piccoli oggetti di lato, oppure attrarli verso di me, o se voglio anche renderli immobili completamente. Per questo credo che molte persone mi temono, immaginando forse già da come mi atteggio quanto posso essere pericoloso per loro; spesso difatti mi evitano, anche se quasi sempre indosso un paio di occhiali scuri con una gran montatura, proprio per neutralizzare il più possibile il senso delle mie capacità. In fondo a me neppure interessa essere così diverso da tutti. Mi è più che sufficiente sapere che posso fare delle cose impossibili agli altri per sentirmi subito meglio, perfettamente a mio agio, ed affrontare ogni giornata quasi con piglio ed un certo entusiasmo.
            Il mio vicino di casa mi osserva quasi sempre mentre esco. Lui non mi ha mai salutato, si ritiene senza ombra di dubbio ben al di sopra di certi atteggiamenti, così anche io tendo a comportarmi così, e la maggior parte delle volte evito persino di voltare la faccia verso di lui. Però sento i suoi occhi che mi scrutano quasi tutte le volte, perciò in certi casi vorrei quasi fermarmi e mostrare proprio a lui di che cosa sono capace, ma fino ad oggi ho sempre lasciato correre e sono andato avanti per la mia strada con superiorità.
            Quando poi ritorno però, lui è ancora lì, con la sua espressione enigmatica e le sue braccia quasi abbandonate sopra al davanzale della finestra. Mi fermo, mi concentro, tolgo gli occhiali scuri dal viso e cerco di spostare con il semplice sguardo il piccolo vaso di fiori che rimane accanto a lui, tanto per dargli un esempio di che cosa sono capace. Ma niente accade, inspiegabilmente. Dopo un bel po’ invece due o tre fiorellini, in mezzo alle loro foglie color verde chiaro, appassiscono all’istante, anche se il mio vicino non si accorge proprio di niente, e forse finge addirittura di non aver neanche notato il mio sguardo.
            Alla fine, mentre sono ancora là davanti, fermo, che quasi trattengo il respiro, lui rientra, sparisce, mi evita, ignora deliberatamente tutto il mio impegno, e lascia che ogni cosa rimanga nella stessa esatta maniera. Certo, c’è qualcosa qua attorno che neutralizza ogni mio potere, rifletto, forse dovrei anche approfondire questo aspetto, portare avanti una piccola indagine per comprendere cosa sia che rende vano quanto sono convinto di poter dimostrare. Così affronto la realtà, salgo le scale, suono il campanello del mio vicino ed attendo che mi apra. Vorrei soltanto visionare la pianta sfiorita sul davanzale, gli dico. Lui mi fa entrare, mi indica la finestra che cerco, ed intanto resta sulla porta ad osservare con attenzione quello che faccio.
            E’ in quel momento che senza pensarci due volte prendo la pianta con le mani e la scaglio di sotto, mandandola a fracassarsi sul marciapiede. Poi, mentre il mio vicino mi tira una spalla in modo molto sgarbato, mi concentro con tutto me stesso, e con lo sguardo riesco a riunire in un unico piccolo cumulo i cocci del vaso, la terra sparsa, e i brandelli della piantina. Lui dice qualcosa, forse urla, ma io proseguo ad ignorarlo, e quasi di scatto, senza dargli alcuna spiegazione, prendo la porta ed esco, eclissandomi svelto lungo le scale.
            Quando torno sul marciapiede c’è già qualcuno che si è incuriosito di tutto il baccano, e due o tre perdigiorno mi guardano come se fossi chissà quale stralunato pazzoide. Dalla finestra intanto il mio vicino continua ad urlare delle male parole, naturalmente io fingo di non sentirlo, quindi me ne vado per i fatti miei. Mi dispiace, rifletto, non volevo certo risolvere la cosa in questa maniera, eppure so che non è colpa mia, c’è qualcosa che mi impedisce di essere come sono, bisognerebbe indagare più a fondo, forse si dovrebbe addirittura allontanare il mio vicino da questo quartiere. Ma cosa importa alla fine: mi sento ben superiore a tutto quanto, ed è questo l’elemento importante.


            Bruno Magnolfi

lunedì 9 novembre 2015

Tema concluso.

        
            Ammazzami, con voce strozzata dal dolore dice lui nel suo sogno ricorrente alla propria compagna. Di fatto è caduto dalle scale, probabilmente, qualcosa si è spezzato tra le fragili ossa della sua schiena, ed adesso è rimasto lì, impossibilitato a compiere qualsiasi movimento. Altre volte invece è accaduto un semplice incidente d’auto, è stato anche travolto mentre attraversava la strada, oppure qualcuno gli ha assestato una bastonata vile proprio alle spalle. In tutti questi casi lui è rimasto evidentemente a terra, fermo, paralizzato, ed il suo futuro è subito apparso irrimediabilmente compromesso.
            Insomma, ammazzami, finiscimi, le dice, piuttosto che lasciarmi soffrire ancora per chissà quanto tempo, ma lei con estrema freddezza si limita ogni volta soltanto a chiamare i soccorsi. Poi, sempre nel sogno, lui si ritrova convalescente, in un piccolo giardino fresco e silenzioso, seduto ad un tavolino, mentre la sua compagna si occupa di qualcosa, forse alle sue spalle sistema semplicemente una tazza sopra un vassoio, quindi gli va più vicino porgendogli la bevanda, gli dice ciao sottovoce, e infine se ne va, senza alcuna spiegazione.
            Non è tanto starsene solo il problema, pensa lui adesso, quanto sapere di essere stato abbandonato ad un certo punto, lasciato al proprio destino, e neppure con un atto di cattiveria o di disprezzo, quanto con un sorriso, con una parola semplice e quasi dolce, un gesto rispettoso e gentile. Non sa neanche bene chi sia la sua compagna del sogno, forse soltanto una somma del tutto incompleta di alcune tra le donne che ha conosciuto, comunque una persona senz’altro sicura di sé, qualcuna che con ogni probabilità, ad un dato momento, è riuscita a vedere in lui qualcosa di interessante, ad apprezzare almeno un aspetto di rilievo del suo carattere, una dote che magari a lui stesso è sempre sfuggita, ma che in seguito forse si è fatta anche per lei meno importante, tanto da poter essere lasciata in disparte, insieme al resto di quel suo uomo.
            Viene da ridere, lui si è come affezionato a quel sogno, fino al punto di credere che quanto accaduto sia vero, e che tutto sia davvero esistito, prima o dopo, tanto che quegli accadimenti siano proprio tutti reali, come reale sopra ogni fatto sia lei, la sua compagna di sempre. Non le ha mai dato un nome, forse non si è fermato mai a chiederlo, e probabilmente a lei è parso poco importante dirgli chi era, come si erano conosciuti, perché si trovavano lì, insieme, mescolati in quella dolorosa vicenda. Certo, non è affatto importante, pensa lui adesso. Ma quell’ombra sfumata che appare immediatamente dopo che lei si è eclissata, sembra porgere alla mente mille altre domande.
            Per questo lui perfino in questo momento nel suo sogno vorrebbe cercarla, dice, forse semplicemente vorrebbe soltanto conoscere qualcosa di più della sua storia, capire da dove lei sia venuta, e perché. Il medico lo guarda, ha preso appunti sul suo taccuino, o forse ha solo finto di prenderne. Non ha una risposta, si limita a guardare sulla sua scrivania, ad incoraggiarlo per dire ancora qualcosa, per descrivere, spiegare ogni dettaglio, fino a parlare e a parlare sempre intorno a quel medesimo argomento; fino a quando però alla fine tutto diviene troppo noioso, logorroico, antipatico con quel persistere a definire ancora qualcosa; perciò ora basta, è sufficiente così, gli dice, perché questo ormai è un tema concluso.


            Bruno Magnolfi

venerdì 6 novembre 2015

Rumori di fondo.

            

            Oggi sono qui, dice lui alla platea improvvisamente silenziosa. Il microfono e l’amplificazione della grande sala producono un fastidiosissimo rumore di fondo, un forte ronzio che lui immagina di poter coprire soltanto con una serie di applausi scroscianti da parte della gente intervenuta là dentro. Non vi parlerò delle solite cose, dice; non vi annoierò neppure cercando di spiegare gli errori degli altri e della melma in cui stanno annaspando. Poi si prende una pausa, anche perché il collaboratore che gli ha preparato il discorso si è molto raccomandato di rispettare quei piccoli asterischi di cui ha disseminato le frasi sopra i suoi fogli. Comunque, prima di ogni altra cosa, vi ringrazio di essere qui, dice alla fine. Parte da questo punto già un timido applauso, d'altronde una frase così stupida mette comunque sempre tutti d’accordo, pensa lui, e fa sentire i presenti grandi protagonisti, anche soltanto di un generico qualcosa; perciò, con questa linea di credito aperta, riflette ancora, potrò dire adesso persino una qualsiasi strampalata sciocchezza, e questa, anche se addirittura poco compresa, sicuramente sarà ben accolta.
            Ma i piccoli schiocchi di quelle decine di mani lentamente si attenuano, con calma torna il silenzio, ed il rumore di fondo riprende subito a farsi sentire, così lui si ritrova di nuovo distratto, disturbato, quasi innervosito, perciò tocca il microfono, si muove sul palco, scuote i suoi fogli. Ma infine riprende, dopo essersi lasciato andare ad una pausa forse un po’ troppo lunga. Dobbiamo essere concreti, spiega. Il momento non ci permette alcun tipo di errore. Per questo dobbiamo affrontare con forza ogni prossima sfida. E quando sarà il momento, dice adesso quasi con convinzione, sapremo sicuramente essere uniti. Fioccano naturalmente gli applausi, ed anche se quelle parole non significano molto, riescono comunque a prendere ed entusiasmare, quasi come una dichiarazione di guerra contro qualcosa o qualcuno che sembra non sia più possibile ormai sopportare.
            Alcuni fischiano per mostrare di esserci, altri ridono mentre continuano comunque a battere le mani. Sapremo lavorare con coraggio per le cose in cui abbiamo sempre creduto, dice adesso quasi urlando sopra il rumore, anche se non erano previste queste parole sui fogli, e non c’era neppure l’asterisco della pausa subito prima. Torna rapidamente il ronzio, quasi una maledizione che fa senz’altro accorciare qualsiasi discorso. Lui salta uno o due fogli, poi riprende cercando la calma da un punto che gli sembra essenziale: dovremo smetterla di mostrarci arrendevoli; abbiamo coraggio, voglia, entusiasmo; dobbiamo mostrare da ora in avanti tutto il nostro valore. Ma il tono della sua voce in questa frase appare poco convinto, troppo pacato e quasi remissivo, non trascina più quegli applausi che riuscivano a coprire il rumore di fondo.
            Nelle prime file qualcuno sembra voltarsi verso i propri vicini, come a cercare una spiegazione esauriente di quanto va accadendo sul palco. Lui può ancora riuscire a prendere tutti in un pugno e lanciarli in una grande esplosione d’entusiasmo, ma il ronzio ormai lo ha fiaccato, ormai sente soltanto la voglia di andarsene, di smetterla una volta per tutte con quella farsa insignificante. Non mi sento bene, dice alla fine dentro al microfono. Tutti lo incoraggiano, anche se pochi forse credono che questo sia vero. Lui insiste: scusate, ho soltanto bisogno di bere, di aria, di togliermi dalle orecchie questo ronzio, di starmene un attimo da solo, di andarmene da questa sala ormai insopportabile. Adesso il silenzio è fortissimo, onnipresente, eccetto il rumore dell’amplificazione. Lui guarda tutti, poi alzando semplicemente una mano, li saluta solo una volta, senza trasporto.


            Bruno Magnolfi

martedì 3 novembre 2015

Colpa grave ed indivisibile.

            
            Dopo aver sbrigato tutte le faccende di casa, quando infine riesce a ritagliarsi del tempo per sé, a lei piace mettersi seduta, da sola nella sua stanza, e riguardare delle vecchie fotografie che ha accumulato con pazienza, ripescandole alla rinfusa da una grossa scatola di cartone dove solitamente le tiene riposte. La sua vicina, quando sa che lei è in casa, va a trovarla certe volte, tanto per parlare con calma del più o del meno, e lei qualche volta le mostra proprio quelle immagini, ricostruendo i periodi e le vicende delle persone le cui facce affiorano su quei cartoncini lucidi. Poi generalmente si salutano, lei l’accompagna fino sul pianerottolo, la saluta, dice che le ha fatto piacere che sia passata, ed infine richiude la porta.
            Forse l’altra sorride di quegli struggimenti così assolutamente ordinari. Forse chiunque lo farebbe in simili circostanze. Ma non ha alcuna importanza, ognuno è costituito in una propria maniera, inutile stare a criticare o a fare ironie. Lei rientra, sistema le sue cose e mette in ordine la sua piccola stanza. Sua madre adesso è anziana, ma ancora conserva un carattere burbero, non accetta facilmente il disordine, e non le piace neppure che lei si perda in quelle sciocchezze, cosi, pur lasciandola fare, quando la vede affacciarsi alla porta della cucina, le detta subito qualche compito pratico di cui occuparsi, quasi a rompere velocemente quella sua atmosfera sognante attraverso la concretezza delle cose da fare. Certe rare volte le rinfaccia addirittura che i soldi per andare avanti vengono quasi tutti dalla sua pensione, e quelle elemosine che prende sua figlia per fare le pulizie in casa a qualche famiglia di quel quartiere, da sole non servirebbero quasi a niente; lei ovviamente soffre quando ascolta delle parole del genere, ma in ogni caso cerca di non ribattere mai a certi discorsi.
Poi, la prima coltellata che lei infligge a sua madre poco dopo avere iniziato a sbucciare delle patate sul tavolo di cucina, alzandosi dalla sedia come per un gesto normale, è di striscio su un braccio, quasi uno sbaglio di traiettoria. Il secondo colpo, al contrario, è più deciso e diretto, e va preciso di punta all'addome, anche se non è forte, soltanto una robusta punzecchiatura, quasi fosse un avvertimento. La vecchia si accascia, subito si lamenta, lei resta immobile per dei lunghi attimi, infine si porta le mani ai capelli, urla qualcosa, va immediatamente a chiamare la sua vicina di casa. Non è grave, si salverà, dice il medico mentre portano via la madre con la barella, ma io devo sporgere denuncia, il caso non è chiaro, non è proprio possibile che si sia tagliata da sola.
Sono stata io, dice lei con una certa fermezza; se lo è meritato. La vicina presente dentro la stanza è incredula, la guarda in faccia con gli occhi sbarrati, non si rende neppure conto del tutto di quanto stia effettivamente capitando. I carabinieri arrivano in fretta, fanno qualche rilievo e le dicono subito di seguirla, anche se lei sembra già pronta, nella confusione del momento è riuscita perfino a mettere qualcosa di personale dentro una borsa. E’ colpa mia, spiega la vicina ormai in lacrime. Ho dato spago ad un comportamento sentimentale, ho attizzato una brace, mi sono lasciata andare ad ambigui comportamenti. Sono colpevole, spiega, almeno quanto lei.


Bruno Magnolfi