martedì 29 dicembre 2009

Un fratello distante.



Mio padre aveva voluto uscire con me quel mattino, senza stare a spiegarmi per quale motivo o dove si andasse. Aveva preso una delle due macchine piccole dal nostro garage, una che lui definiva per la città, ma solo perché la sua, quella grande, doveva passare un controllo. A lui piaceva guidare, anche se normalmente si lasciava portare in giro dal suo autista rimanendo seduto sul sedile di dietro e limitandosi a telefonare e a prendere appunti. Però quasi ogni giorno, invece di farsi venire a prendere, ci teneva a guidare la sua auto almeno da casa fino alla fabbrica, e viceversa a fine giornata. Dal momento che varcava il cancello della sua fabbrica la macchina era in mano all’autista, ma fino a lì voleva sentirsi uno come gli altri, senza alcun privilegio. Era sabato, e dapprima facemmo un giro lungo i viali, la radio in sottofondo per i notiziari; poi mio padre parcheggiò al bordo di un grande giardino comunale. La passeggiata sembrava calma e tranquilla, quasi innaturale in confronto alla fretta costante che lui aveva sempre. Rimaneva in silenzio, anche se io mi aspettavo da un momento all’altro che iniziasse una delle sue solite prediche. A me dispiaceva deluderlo nelle cose che normalmente facevo, ma lo trovavo così diverso da me che il pensare le mie cose in modo alternativo alle sue mi veniva spontaneo. Argomento difficile da spiegare, base corrente di ogni discussione in famiglia, così quando mi chiese se fossi contento dei miei risultati scolastici e dei miei rapporti sociali con i compagni, e con gli amici e i parenti, dissi subito di no, quasi di getto. Immaginai che mi avesse osservato qualche volta, che si fosse accorto di un mio disagio, e mi sentii geloso dei miei comportamenti. Così rettificai, per paura di dover entrare in qualche dettaglio, spiegando meglio che mi riferivo solo a piccole cose e che in fondo tutto andava bene e che non avevo problemi. Mio padre continuava a camminare in silenzio con lo sguardo in avanti. Lungo il vialetto tra gli alberi la ghiaia rumoreggiava in modo allegro e simpatico sotto alle nostre scarpe, e i nostri passi apparivano cadenzati in modo divertente, quasi ridicolo. “Tuo fratello dice che quando c’è lui, tu sei a disagio, ti innervosisci, dici scempiaggini”. Rimanevo in silenzio. Tra di me cercavo le parole per affrontare quell’argomento che sinceramente non mi aspettavo, ma in fondo a me avevo solo voglia di fare una bella corsa tra gli alberi e perdermi fino a non avere più fiato. Certo; adesso era chiaro tutto quel comportamento insolito della passeggiata ed il resto. Il vero grande elemento centrale della nostra famiglia, il centro di ogni discussione e ogni pensiero: mio fratello minore, il preferito di mio padre. Sapevo già in partenza che avrei dovuto promettere qualcosa, ed ero pronto a farlo, bastava terminare in fretta quella cosa ridicola. Così dissi che sarei stato più attento con mio fratello, lo avrei considerato di più, e cose del genere. Suonò fortunatamente il telefono a mio padre, e lui si allontanò di qualche passo per parlare di affari e di lavoro con tutta la calma di cui aveva bisogno. A me scappava da ridere, forse per la tensione, e avrei voluto tornarmene a casa il più velocemente possibile. Ma qualcosa aveva irritato mio padre, lo intuii dal modo con cui volle riaffrontare con me l’argomento rimasto in sospeso. Non alzò affatto la voce, ma a me parve che urlasse, e scoprii di tremare leggermente per l’agitazione. Tutto culminò sul fatto che avrei dovuto funzionare da guida per mio fratello, non fargli nascere strane idee su di me, e quei cinque anni che ci separavano avrebbero dovuto darmi una spinta ad essere meno infantile, più accorto, maturo, in una parola un vero fratello maggiore. Dissi sottovoce di sì tutte le volte che mi era richiesto, poi, a passo più veloce di quando eravamo arrivati al giardino, ritornammo verso la macchina. Arrivarono altre telefonate, e per tutto il tempo fino ad arrivare alla villa, mio padre si occupò delle sue cose. Il resto della giornata scorse come in un film visto più volte, e non accadde niente, se non nella mia testa. In fondo al giardino della nostra casa c’era un muro basso; mi sarei alzato dal letto a notte fonda, mi sarei vestito in silenzio ed avrei sceso le scale fino al piano terra; avrei raggiunto il frigorifero in cucina ed avrei riempito il mio zainetto con qualcosa da mangiare, poi avrei aperto lentamente il finestrone del giardino e sarei uscito fuori. Il muro non era un problema, bastava arrampicarsi fino in cima e lasciarsi andare di là, senza problemi. Poi sarei andato alla stazione ferroviaria e con i soldi che avevo risparmiato mi sarei comprato un biglietto per salire sul primo treno. Più tardi fu l’ora di andare a letto esattamente come ogni sera, quasi alla medesima ora, ma dentro di me sentivo un ribollire di sensazioni. Finsi di avere la concentrazione per leggere qualche pagina di un libro di avventure che avevo iniziato qualche giorno prima, poi lo riposi sulla mensola accanto al mio letto e spensi la luce come per dormire. Dalla finestra chiusa filtrava una debole luce che diveniva più forte mentre i miei occhi si abituavano al buio della mia camera, e mi girai nel letto parecchie volte cercando posizioni più comode. Poi tutto sembrò stabilizzarsi, e il tepore delle lenzuola parve perfettamente in simbiosi con il mio corpo. Ad occhi aperti intravedevo la forma di tutta la stanza, e ciò che non riuscivo a vedere lo ricostruivo mentalmente con facilità. Immaginai il buio e il freddo di fuori e questo starmene sdraiato nel silenzio e nell’immobilità mi parve il massimo del confortevole. Non mi accorsi quando mi addormentai, ma sicuramente avvenne in modo così dolce e così naturale che il resto mi parve lontano, quasi qualcosa di estraneo.

Bruno Magnolfi


domenica 27 dicembre 2009

L'acqua che cambia.

          

            La signora Maria era uscita di casa per andare a prendere l’autobus. Andava a far visita a sua sorella, dall’altra parte della città, come da parecchio tempo faceva almeno una volta alla settimana. I figli della signora Maria erano grandi, suo marito sempre fuori al lavoro, lei poteva permettersi quei piccoli svaghi. Le piaceva attraversare la città sui mezzi pubblici, osservare la gente che saliva e scendeva dalle porte automatiche, guardare le case, i viali, le auto che correvano fuori da quei finestrini, lasciandosi dietro la solitudine, la tristezza dei giorni monotoni, il grigiore di anni in cui non si sentiva più molto utile. Quella linea di tram che prendeva, passava anche davanti alla stazione dei treni, con il suo flusso caotico di persone che correva da una parte a quell’altra,  poi proseguiva verso il quartiere dove abitava sua sorella, già vedova, di quattro anni più grande di lei. La città correva via dai finestrini quel giorno, forse più in fretta che qualsiasi altra volta, e la signora Maria era incantata dietro ai colori, alle forme, ai profili delle cose che le passavano sulla superficie degli occhi senza lasciarle una traccia, un dubbio, un sospetto qualsiasi, e quando si riscosse da quel leggero torpore, si rese subito conto che la strada dove avrebbe dovuto discendere, era passata. Se ne accorse quando ormai era tardi, la casa di sua sorella era già persa oltre le spalle, ma senza perdersi d’animo, poco male, pensò: così decise di rimanere seduta ad aspettare che l’autobus arrivasse al capolinea, e tornare poi indietro quando ripassava al contrario per le medesime strade. Ma poi accadde qualcosa che inizialmente non seppe spiegarsi: la gente dentro a quel tram era ormai poca, e la signora Maria ad una fermata qualsiasi si alzò dal sedile e scese dall’autobus, senza un motivo preciso, soltanto perché all’improvviso sentiva dentro a se stessa di avere la libertà di una scelta del genere. Sul marciapiede guardò attorno a sé senza riconoscere bene neppure dove fosse arrivata, e infine si incamminò lentamente verso un giardino lì accanto, dove si vedevano delle panchine. Si fermò, si mise ad osservare una piccola fontana che gettava dell’acqua in una vasca rotonda, dentro a un’aiuola, senza riuscire ad avere pensieri coerenti, che non fossero quell’incanto che improvvisamente provava per qualcosa anche di così scioccamente comune, ma che per lei era come non avesse mai visto. Poi si accorse che un uomo vicino la stava osservando, e lei con gesti veloci cercò di sistemarsi meglio il vestito, di posizionare per bene al braccio la borsa, di allontanare da sé l’interesse di quella persona. Ma quello le si fece ancora più vicino, sempre scrutandola con un leggero sorriso rassicurante, giusto per dirle: “…scusi se la guardo, non si preoccupi, non c’è niente che sia fuori posto…”. La signora Maria si sentì colta nel vivo, le parve impossibile che i suoi piccoli disagi fossero evidenti in quella misura. Si mosse di qualche passo da lì, pensò in un lampo tutte le cose possibili, sentì nelle orecchie il rumore dolce dell’acqua della fontana, e le parve che quell’acqua trascinasse con sé i suoi pensieri. Intanto quell’uomo, così estraneo alla sua vita, quella persona qualsiasi, incontrata per caso, per nulla vicino alle sue cose, si era già disinteressato di lei, e si era seduto su una panchina aprendo un giornale, accendendo una sigaretta, eliminandola dal suo campo visivo. La signora Maria si avvicinò a lui a sua volta, si fermò davanti al suo giornale spiegato, e senza una ragione precisa gli disse: “No; non ho niente che non debba andare, non mi preoccupo; sono una persona come tutte le altre, non ho niente di minimamente diverso: forse ho solo smarrito qualcosa, però adesso la devo cercare, immaginavo fosse qui già arrivando, da qualche parte, in mezzo a questi oggetti usuali, ed adesso ne sono sicura, così come son certa che presto, molto presto, la troverò”.

            Bruno Magnolfi
  

venerdì 25 dicembre 2009

Un sogno blu elettrico.

  

Ho chiuso gli occhi ed ho visto delle forme di colore blu elettrico danzarmi davanti. Poi, lentamente, si è come alzato un sipario, e le immagini sono tornate ad essere grigie come sempre in quel mio teatrino personale. I miei sogni non rispettano un ordine, un bisogno, una volontà, vanno e vengono senza una logica, certe volte sono semplici sprazzi di qualcosa che mi è incomprensibile, altre volte logici e chiari nel loro essere storia compiuta. Resto qui, in questa specie di confine mentale, quasi un esilio. Rimango in casa, le finestre oscurate, e non mi interesso di quello che succede là fuori; anzi, quando ci penso, immagino sempre che piova, e che girare per strada con ombrelli e impermeabili sia tra le cose più sgradevoli e uggiose. Nessuno mi cerca, e questo è un aspetto meraviglioso di libertà vera nei confronti degli altri; io giro per casa con una giacca da camera sopra le spalle, e lascio che il legno dei pavimenti del mio grande appartamento in cui vivo da solo con un cameriere ormai anziano che si prende cura di me, scricchioli sotto ai miei piedi mentre passeggio da una stanza all’altra.
Poi vado nel salone che funge anche da biblioteca, come aveva voluto mio padre, e prendo un libro, lo apro, e lo vado a leggere seduto su una comoda vecchia poltrona di cuoio. Vado avanti così, mesi su mesi che sfuggono via, muovendomi tra lampade basse che rischiarano gli angoli delle mie stanze, nuotando immerso nel silenzio di casa, mosso da mille pensieri scombinati e incoerenti che mi attraversano continuamente la testa. Vado avanti così, e nei libri che leggo e che certe volte rileggo di nuovo, trovo tutta la linfa vitale che serve, tutta l’energia di cui ho bisogno. Poi torno a chiudere gli occhi e i miei sogni riempiono velocemente ogni spazio, coinvolgendo tutta la mente con immagini e fatti che non ho mai vissuto, e nei quali la mia fantasia svolazza tranquilla, a suo agio nel suo naturale elemento. Non mi interessa sapere di essere il prototipo dell’isolato sociale; non mi riguarda riconoscere che la mia delusione del mondo abbia annullato i miei rapporti con gli altri. Il dottore, quando mi visita, cerca spesso di parlarmi di cose che restano soltanto parole, e non apportano effetti. Soltanto così come sono riesco a sopportare la vita, soltanto vagando tra queste stanze e le mie fantasie so di essere vero, di sentirmi me stesso, anche se questa è una rinuncia a ciò che per altri è un valore.
Il mio cameriere parla con me solo delle cose essenziali, poi sparisce in cucina o nelle sue stanze: lui mi rispetta ed io rispetto il suo silenzioso lavoro, come peraltro faceva mio padre. Ma stasera l’ho scoperto mentre bofonchiava qualcosa tra sé, convinto di essere solo. Diceva: “quel vecchio pazzo…”, riferendosi a me; e poi: “quando c’era suo padre, era tutto diverso; quello era un uomo…”, e cose del genere. Così l’ho aspettato dietro a una porta, e quando è passato gli ho stretto al collo, da dietro, la fascia della mia giacca da camera. Lui si è ribellato, ha dato numerose pedate nell’aria davanti, ha cercato di liberarsi dalla stretta che gli toglieva il respiro, ha tentato di divincolarsi in ogni maniera, fino a che ha dovuto cedere alla mia determinazione e alla mia forza. Quando l’ho lasciato l’ho fatto per un moto di disprezzo improvviso per la sua persona; lui è caduto per terra, si è rotolato sopra di sé, ha tossito per molti minuti e lentamente ha ripreso le forze; quindi, senza aggiungere niente, ha preso la sua poca roba e se n’è andato. Io ho passeggiato a lungo dentro la casa, e ho lasciato scricchiolare più volte quel legno dei pavimenti sotto ai miei passi. Infine la spossatezza mi ha preso, così sono andato a sedermi sopra alla mia solita poltrona di cuoio e ho preso sonno in pochi minuti: sono tornate le solite forme di colore blu elettrico davanti ai miei occhi e tutto mi è parso riprendere l’andamento di sempre, la mia vita d’ombra, la mia realtà incomprensibile a tutti, tutto ciò che ho voluto da sempre, come un sollievo per la mia anima vuota.

Bruno Magnolfi
   

lunedì 21 dicembre 2009

Glia amanti della fine del Giorno (seconda parte).



La casa sul lago appariva immobile, solo leggermente tremolante nei suoi contorni dentro al riflesso dell’acqua. Da lontano pareva appoggiata proprio alla fine della collina sovrastante, dentro ad uno spiazzo orizzontale inventato dalla natura proprio per lei, come a lasciare un luogo di vedetta da cui ammirare quella natura. L’ultimo tratto di strada era tutto malandato e sconnesso, ma quando si riusciva a fermarsi e a spegnere il motore dell’auto sul piccolo piazzale dietro alla casa di selce, immediatamente arrivava un silenzio e una pace che giustificavano qualsiasi sacrificio per arrivare fin lì. Il bosco attorno allo spiazzo che racchiudeva la casa era tutto costituito da alberi adulti, giganteschi con quei tronchi spesso diritti, su verso il cielo, a troneggiare sul tetto, la loggia di fianco, la grande terrazza appoggiata sull’acqua, quasi a rimpicciolire i contorni di tutto ciò che costituiva quella abitazione isolata, frutto di una scommessa col mondo: restarsene separata da tutto.
Pensare di dare una festa, o attirare persone fin lì senza una motivazione precisa superiore ai comportamenti mondani, era impensabile: troppo lontano da tutto, quel luogo, troppo isolato, forse troppo romantico se non per stare due o tre giorni nel silenzio completo a leggere libri, a parlare sottovoce, a gustare un silenzio irreale. Si erano ritrovati in diversi quel giorno, consapevoli di quello che avrebbero scoperto arrivando alla casa, tutti ragazze e ragazzi, uomini e donne, conoscenti ed amici, in tutto dieci persone, che avevano preso in affitto quel posto per riunirsi in un modo un po’ insolito, e restarsene lontani da ogni altra cosa forse per indagare entro se stessi, allontanare dalla mente la noia borghese di sempre, e lasciare che il pensiero assumesse una forma diversa, qualcosa che desse la misura negativa della evanescente quotidianità.
Avevano preso una sedia ciascuno, senza neanche suggerirselo a vicenda, e si erano piazzati sopra la grande terrazza, quasi senza parlare, solo assumendo punti di vista e posizioni diverse per osservare con calma l’acqua del lago. Il sole rosseggiava su un fianco, ed il lago riproduceva il profilo della collina di fronte raddoppiandone la maestosità e la leggerezza, tracciandone un’impercettibile linea laggiù, sull’altra riva. Ci sarebbe voluta probabilmente un’altra ora al tramonto, e quei raggi scaldavano ancora ogni superficie in modo piacevole, fiammeggiando i colori in un modo sublime, mescolandoli ad un fondo pieno e maturo. Non c’era bisogno di pensare ad un futuro oltre quell’ora: tutto in un attimo si sarebbe spento nella vallata, dopo quel breve tempo, e il mondo avrebbe capovolto se stesso proiettando ogni cosa in un suo aleatorio rovescio.
Piero era contento di essere riuscito a trascinare tutti fin lì, di aver riunito quelle persone in quel luogo convincendoli soltanto con poche parole, con la sua capacità di far immedesimare gli altri nelle sue fantasie, ma aveva desiderato tanto quello che relativamente con facilità aveva ottenuto, che adesso non sapeva del tutto cosa aspettarsi dalla situazione creata. All’improvviso quel silenzio gli metteva paura, sembrava che i pensieri di tutti agissero come a formare qualcosa di cui ognuno non fosse cosciente. Lui avvertiva quella vibrazione che univa le menti e ne moltiplicava ogni potenzialità, e mentre il sole cadeva oltre quell’orizzonte, pareva che un potere diverso assumesse i contorni del loro riunirsi, come una forza che sfuggisse al loro controllo per andare a scagliarsi chissà contro chi, o contro cosa.
Lentamente, alle spalle di tutti, Piero si era alzato dalla sua sedia, era scivolato verso la casa mentre il sole moriva, e subito prima di entrare si era voltato ancora, impaurito, dalla parte degli altri che erano rimasti lì, immobili. Era stato allora che tutti si erano girati a guardarlo, come se lui fosse diverso, come se lui fosse una persona lontana dagli altri, come se loro avessero assunto all’improvviso un potere comune di cui lui era immune, e in funzione di questo, adesso appariva da solo, terribilmente da solo.  


Bruno Magnolfi       

venerdì 18 dicembre 2009

Un soffio di mare.

            

            I due vecchi erano piccoli di statura, ma forse apparivano ancora più piccoli così sprofondati nei due giacconi enormi da inverno, i calzoni di jeans fin troppo larghi, e le berrette di lana scura sul capo calate fino a coprire le orecchie. Parevano due ex-marinai, gente che aveva lavorato su qualche rimorchiatore o che aveva svolto qualche lavoro di mare giù al porto; anche la pelle dei loro visi pareva cotta al sole di passate stagioni, e segnata dal salmastro e dalle mareggiate, come i loro sguardi, sempre pronti a guardare lontano, verso quell’orizzonte perennemente in movimento, denso di novità. Due amici ormai vecchi, pelle e ossa sotto a quegli indumenti, ma duri di scorza, con in testa ancora un qualche progetto, un’idea bislacca come quelle che a volte prendono agli uomini anziani; e stavano lì alla stazione dei treni, le mani sprofondate dentro alle tasche, davanti al loro binario pronti a partire, e intanto si scambiavano qualche parola, qualche impressione, dei ricordi di tempi passati forse, oppure del loro presente, ancora più interessante del resto, e uno dei due, nei momenti in cui l’altro restava in silenzio, diceva soltanto: “Eh si…”, come a voler definire che si era tutti soggetti al trascorrere del tempo, all’ineluttabilità delle cose, al destino. O che la vita, che per loro non aveva segreti, era così, lo sapevano per le dure esperienze che avevano dovuto affrontare, lo sapevano perfettamente con la certezza che era così, che niente si poteva cambiare del suo alveo principale, e solo le piccole cose potevano essere variate, soltanto le sfumature, solo quella piccola umanità che sfuggiva per sua natura alle cose grandi, e loro lo sapevano bene, perché da anni vivevano di quelle piccole cose. Poi arrivò il treno locale e si fermò ai loro piedi con il solito stridore di freni, e i due vecchi salirono, si cercarono un posto a sedere, e si misero comodi ma senza togliersi niente dei loro indumenti, neppure appoggiandosi agli schienali, come dovessero scendere subito. Stavano vicini tra loro, ma non di fronte, bensì affiancati, come a guardare ambedue verso la medesima direzione, e continuavano a parlare come avevano fatto fino ad allora, senza guardarsi, quasi come dicendo le loro cose ognuno a se stesso, alla propria coscienza, conservando le stesse espressioni, la medesima faccia, quasi usando le stesse parole. Il treno si fermò in qualche stazione, salirono e scesero diverse persone, ma i due vecchi rimasero imperterriti esattamente dov’erano, come se tutto quel movimento non li riguardasse per niente. “Eh si…”, diceva uno dei due, e andavano avanti. Poi arrivò anche la loro stazione, un paesino di mare deserto in inverno, e loro si alzarono, si misero davanti allo sportello del treno, attesero che si fermasse il convoglio, che si aprissero le porte pneumatiche, poi scesero. I loro passi erano corti e decisi, la loro strada portava diritta verso le case sopra la spiaggia, spesso poco più che baracche scolpite dai venti e dal sale di mare. Forse erano rimasti da soli a cercare ancora qualcosa in quel posto, forse appariva insignificante anche quel loro tragitto, quel loro percorso, ma non era così anche per loro. Infine bussarono a una piccola porta di legno, senza insistere, e dopo pochi momenti, con garbo infinito e educazione, entrarono in casa, perché la porta era aperta, soltanto accostata, come a permettere a chiunque di entrarvi. Un uomo della loro medesima età sorrise vedendoli, e restando fermo in fondo alla stanza, seduto sulla sua sedia a rotelle, li salutò evitando di esagerare, solo chiedendo loro di prendere una sedia e sedersi, proprio lì, accanto a lui. Fu allora che i due vecchi si tolsero i loro giacconi, e si misero comodi, e tutt’e tre si voltarono con le sedie per guardar fuori dalla finestra che dava sul mare per scrutare l’orizzonte, a parlare, a scambiarsi le parole che conoscevano bene, i loro discorsi di sempre, ma senza guardarsi, come parlando ognuno a se stesso, e uno dei tre continuava a dire quando c’era qualche silenzio: “Eh si…”, e gli altri sapevano perfettamente cosa intendesse.


            Bruno Magnolfi

martedì 15 dicembre 2009

Elisa a Natale.

          

Molte volte lei si era già detta, nei momenti in cui lo sconforto era stato maggiore, che lo svolgere quel lavoro aveva comunque di positivo diversi elementi: le permetteva di conoscere molte persone, di interagire con loro, di imparare cosa dire, come sorridere, come parlare, in breve essere più socievole di come mai fosse stata in precedenza. Ma non era facile affrontare i problemi che ogni giorno le si presentavano, neppure così, neanche con tutto quel suo entusiasmo. Erano trascorsi solo due mesi da quando era stata assunta come commessa in quel negozio di abiti confezionati per uomo e per donna, e certi giorni per lei erano stati davvero duri, pesanti, infiniti, quasi insopportabili. Le era stato detto già al primo giorno che non c’era una scuola, doveva essere sveglia, imparare da sé, fare semplicemente quello che facevano le altre, le sue colleghe, perché non c’era neanche il tempo per consigliarla. E lei aveva fatto così, pur avendo tantissimi dubbi.
Poi, dopo la prima settimana, si era sentita più forte. Però non riusciva a capire perché quei clienti certe volte fossero così scortesi, aggressivi, mai soddisfatti. Se assumeva l’espressione della servizievole, della vittima a disposizione di chi voleva provare le giacche, le camicie, le gonne, i calzoni e tutto quello che era esposto dentro al negozio, allora era anche peggio. L’unica possibilità per resistere, era quella di dare poca importanza a ciò che veniva richiesto, ascoltare una persona alla volta e poi incoraggiarla a comprare ciò per cui era entrata dentro al negozio, magari usando soltanto un gesto, un sorriso, un’espressione simpatica, oppure qualche parola azzeccata. Il cliente alcune volte non chiedeva nient’altro se non quel minimo apprezzamento, quel surrogato sociale di incoraggiamento alla vita, quella semplice spinta a stare con gli altri, a sentirsi bene con tutti, ed era sufficiente quella piccola convinzione, non occorreva nient’altro.
Lei certe volte si vergognava quasi di quei modi che imparava ad usare, si sentiva finta, ridicola, insulsa, ma vedeva le altre colleghe più esperte di lei e capiva che era quello il modello a cui stare dietro. Però con tutte quelle ore in piedi ogni giorno a fare la sorridente con tutti per quei pochi soldi, e con un contratto che scadeva dopo appena sei mesi, le pareva che il mondo reale fosse più triste di quello che si sarebbe aspettata. Elisa aveva quasi vent’anni, si era presa un diploma irreale ed inutile anche con sacrificio, perché studiare e andarsene a scuola non le piaceva, perciò aveva cercato un lavoro appena le era stato possibile, con gioia, con un senso di liberazione, e aveva girato e bussato alle porte di tutti, solo per rendersi conto in un anno di tempo che era ben più difficile di quello che aveva pensato. Infine le era capitata quella occasione, e si era ritrovata lì, ad occuparsi di taglie, colori e camerini di prova; però sapeva di essere tosta, una che non avrebbe mollato facilmente: aveva voluto un lavoro e quello era tale. In fretta poi era anche giunto il periodo natalizio, e tutto si era complicato in un modo incredibile: non vedeva neanche più le persone dentro al negozio, correva avanti e indietro cercando di dire a tutti le medesime cose, sorridendo quando era il momento, ripiegando continuamente camicie provate che non andavano bene e mostrandone altre, per cercare lo stile, il colore, insomma la maniera di far contento il cliente.
Un pomeriggio, nella confusione di una giornata identica a tutte le altre, era arrivato quel ragazzo carino, un po’ timido, che era entrato dentro al negozio con le idee poco chiare; sottovoce le aveva chiesto qualcosa, una camicia e una giacca, e lei si era subito immedesimata nei pensieri di lui, quasi come se i loro desideri fossero simili. Elisa gli aveva consigliato i capi di abbigliamento migliori, o quelli che a lei piacevano di più, e soprattutto era riuscita a vedere le cose tramite lui, attraverso i suoi occhi, i suoi modi, i suoi gusti, i suoi giudizi garbati, senza sapere perché. Lui invece si era lasciato presto convincere: la giacca che Elisa aveva consigliato andava benissimo, anche la camicia, certo. Lui le aveva spiegato che era per andare ad una festa, una cena importante, e lei lo aveva subito immaginato in quella serata, con la sua giacca, con quella camicia e anche quei suoi modi cortesi. Poi lui era andato alla cassa, aveva pagato, si era fatto piegare la camicia e la giacca dentro ad una busta e si era incamminato verso la porta, già proiettato al di fuori da lì, come tutti i clienti quando ormai avevano scelto, quando ormai soddisfatti lasciavano tutto alle spalle, ma prima di uscire era tornato indietro, da Elisa: Grazie, le aveva detto con semplicità; mi piacerebbe tanto venissi anche tu con me a quella festa.


Bruno Magnolfi   

domenica 13 dicembre 2009

Il pianto di gioia.

           

            Camminare per strada, mettermi seduto su una panchina del giardinetto del mio quartiere, sfogliando un giornale giusto per occupare gli occhi e la mente, e far trascorrere il tempo. Tornare a casa, dopo il lavoro, accendere la radio sul mobile, compiere i soliti gesti di rito, pressappoco con i medesimi orari, quasi ad osservare delle direttive precise, e lasciar trascorrere il tempo. Scendere certe volte giù al bar a scambiare qualche parola con le conoscenze di sempre, ragazzi che giocano a carte, che si prendono in giro e che ridono, passare la serata a guardarli, e farmi fare un caffè dal barista, proprio per conservare quell’aura di cliente dentro al locale, e lasciare che il tempo trascorra. Questi i miei giorni, le mie settimane, gli anni che passano, come un percorso da compiere, e basta; ma qualcosa di differente si è inserito in mezzo a quei giorni, a quel tempo indolente. Una bella ragazza la Laura, abita in fondo alla strada, a volte ci siamo incontrati, ma non l’ho mai salutata, forse per timidezza, forse perché nessuno ci ha mai presentati. Ma ieri, dentro al negozio di generi alimentari, le è caduto qualcosa mentre ero lì, un foglietto di carta, una cosa da niente, ma io l’ho immediatamente raccolto, lei è arrossita e mi ha ringraziato. “E’ solo la lista delle cose che devo acquistare…”, ha aggiunto con voce piacevole, ed io, non so come, le ho detto, mentre uscivamo assieme da dentro al negozio: “Potrei accompagnarti, ti va?...”. Lei ha fatto segno di si con il capo, mentre sistemava la borsa, poi lentamente ci siamo avviati sul marciapiede. Le ho detto che sono triste in questo periodo, che a volte le giornate mi sembrano lunghe, che sono stufo di far trascorrere il tempo senza che questo comportamento mi dia nello scambio qualcosa per cui sentirmi contento. Le ho detto che credo di essere un ragazzo qualsiasi, come tutti, però mi sento sempre da solo, anche quando sono in mezzo alla gente. Certe volte ho invidia di chi si diverte, le ho detto; non so cosa abbiano di diverso da me quelli che ridono tanto, però qualche volta mi manca quel loro sentirsi leggeri, sereni. Lei ha guardato quasi sempre diritto, avanti ai suoi piedi sul marciapiede, ha fatto cenno di si con la testa, ha detto che mi comprendeva benissimo, che anche lei certe volte si sentiva nella stessa maniera. “Non so cosa manca nella mia vita”, le ho detto, “ma questa mancanza è così forte da annullare anche il resto, come se quello che ho perdesse di senso al confronto”. Poi Laura era arrivata, ci siamo fermati davanti al portone, le ho detto che mi aveva fatto tanto piacere parlare con lei, e lei mi ha risposto che dovevamo ancora parlare, faceva bene parlare, che avevamo iniziato un dialogo, una cosa importante, dovevamo vederci il giorno seguente, ai giardinetti, quelli dove io certe volte andavo da solo a sfogliare il giornale. Andava bene, era tutto perfetto, non c’era da aggiungere altro. L’ho salutata, poi ho quasi trattenuto il respiro. Un giorno intero è trascorso così, senza che io mi fossi accorto di niente: mi sono messo seduto a quei giardinetti, nel pomeriggio, come d’accordo, sopra la panchina di sempre, ho guardato gli alberi spogli, mi sono reso conto di sentirmi ancora più triste di quello che avevo creduto, e che l’unica cosa che adesso mi sollevava lo spirito era lei, sapere che Laura stava arrivando. Poi ho visto da lontano la sagoma, ho riconosciuto il suo passo, mi sono sistemato ancora meglio sopra quella panchina, ho cercato di assumere un’espressione che le facesse piacere vedere, e lei è arrivata davvero, si è fermata lì, davanti ai miei piedi, con il suo viso dolcissimo, ed io, proprio come un cretino, non ho saputo trattenere le lacrime.

            Bruno Magnolfi

giovedì 10 dicembre 2009

Opportunità di esistenza.



            Il lampione al neon davanti a quella sua finestra di casa si accendeva sempre alla medesima ora. Era quello il momento più triste di tutta la giornata, quando lui si rendeva conto di essere solo e che un’altra volta il sole da qualche parte stava già tramontando senza che niente fosse cambiato nella sua vita. La sua casa era piccola, solo due stanze, e all’interno tutto era essenziale, tanto da far apparire disadorne quelle due stanze, quasi vuote, soltanto il letto, l’armadio, e un piccolo tavolo assieme a due sedie in cucina, di cui una in un angolo, mai usata. L’assistente sociale ogni settimana suonava il suo campanello, stava un po’ assieme a lui, gli parlava di tutto, gli faceva qualche domanda, a volte apriva quel suo frigorifero, poi se ne andava, mai soddisfatto del tutto, ma non gli faceva rimproveri, gli assicurava soltanto che sarebbe tornato, domani o il giorno seguente. Poi lui restava da solo, di nuovo, e i suoi pensieri tornavano ad essere quelli di sempre. Spesso l’immagine di sé gli appariva sgranata, fuori fuoco, con troppo poco contrasto, come una vecchia fotografia fatta male, dove il bianco ed il nero apparivano spalmati di grigio e senza colore. Quel giorno che aveva capito di stare più male del solito era uscito di casa, aveva girato quanto aveva potuto cercando di stancarsi e sperando così di ritrovare se stesso, ma non c’era riuscito. In ospedale si era presentato da solo, aveva spiegato che così non ce la faceva a procedere oltre, che non sapeva come spiegarlo, ma lui stava male, quel giorno e ogni giorno di più. “Vorrei addormentarmi”, aveva detto ai dottori non trovando altra maniera per esprimere cosa passasse tra i suoi pensieri, “e aspettare che tutte le nuvole sopra la testa se ne andassero via”. Lo avevano ricoverato, lo avevano analizzato in molte maniere, nell’arco di un tempo che a lui era parso lunghissimo; poi gli avevano dato dei farmaci e infine era stato dimesso con una cura da fare e rispedito alla sua finestra e al lampione, chiedendogli solo di ritornare dopo un certo periodo per effettuare un controllo. Adesso lui si sentiva svuotato, prendeva quei farmaci, un’infermiera andava da lui per l’iniezione, ma solo per quei primi giorni, e dormiva tantissimo, non sognava mai niente, passava le giornate seduto guardando nel vuoto. Poi era tornato l’assistente sociale, ma era di fretta, si era trattenuto soltanto pochi minuti, aveva riempito come sempre i suoi fogli, gli aveva fatto qualche domanda, infine era andato. Nei giorni seguenti lui si era ridotto a mangiare pochissimo, poco per volta aveva dimenticato di prendere le sue medicine, l’infermiera non era tornata, e lui non si era più presentato all’ospedale per fare i controlli. Era dimagrito e aveva iniziato a torcersi le mani l’una nell’altra, percorrendo tra sé strani sogni che adesso faceva anche a occhi aperti. Un giorno poi era uscito da casa, aveva raccattato tutti i sassi trovati dentro a un giardino, spalancato la finestra di casa, e quando si era acceso aveva iniziato a lanciare quei sassi verso il lampione, finché lo colpì. Gli piacque la piccola esplosione che fece il lampione spegnendosi e lasciando nell’aria una leggera fumata, gli parve il giusto compenso per averlo disturbato per tutti quegli anni. Così si sentì sollevato e gli parve che in cielo per quella serata non ci fossero nuvole, e il cielo sereno e la luna fossero sufficienti da soli a rischiarare la strada davanti alla casa; infine si chiuse nella sua stanza ad aspettare che qualcuno venisse a cercarlo, e forse senza volerlo si addormentò, sognando qualcosa che sicuramente assomigliava alla vita.

Bruno Magnolfi

          

lunedì 7 dicembre 2009

Sentimenti di mare.

           

            Alla metà di settembre in spiaggia non c’era ormai quasi nessuno, ed il mare appariva un tavola di colore scuro ed intenso. La ragazza camminava lungo la battigia, la testa vuota, nessun’altra voglia se non quella di starsene da sola cercando di attenuare il malessere. Quello che andava iniziando era il suo ultimo periodo in facoltà, aveva soltanto da completare la tesi, poi, dopo la laurea, davanti a sé c’erano soltanto decisioni da prendere. Lei aveva sempre continuato a studiare, grazie ai suoi genitori, ma senza chiedersi mai cosa doveva succedere dopo. Si era sempre immaginata di trovare qualcuno, negli anni appena trascorsi, l’amore forse, o un rapporto stabile e serio, un ragazzo con cui condividere il futuro che ormai era alle porte; ma non c’era stato nessuno, niente da ricordare o che valesse la pena per cui spingersi a formulare un progetto. Così, per automatismo, si era procrastinata la vita per lei, rinviando ogni momento di vera esistenza, come aspettando sempre momenti migliori, attimi più adeguati o più adatti, e adesso era lì, quella vita, fredda ed immobile, come quel mare di fronte, una tavola scura che non lasciava mostrare niente di sé, solo la superficie increspata. Lei era come già stanca, stufa di quello che adesso avrebbe dovuto iniziare: cercarsi un lavoro, instradarsi nel campo per cui aveva sempre studiato, trovare le strade migliori per introdursi dentro a un mestiere il più possibile dignitoso, senza inaccettabili compromessi, probabilmente senza dover cedere niente a nessuno, in modo da sentirsi rispettata dal mondo: alla fine, una vita ordinaria, senza sogni o segreti, senza sbalzi di umore, senza grandi vere scelte da fare. Un percorso senza entusiasmi, carente di un qualcosa che adesso a lei pareva essenziale. Improvvisamente tutto era lì, e si trattava soltanto di raggranellare quello che lei per apatia aveva perseguito in tutto il percorso degli anni: tanti piccoli granellini di sabbia trasportati per inerzia spontanea sulla battigia del mare, spersi tra miriadi di granelli tutti identici, mossi con lo stesso destino, senza che niente della sua natura sensibile avesse potuto variare quel moto naturale delle maree e delle burrasche impetuose. Una crudeltà terribile si annidava nell’andamento di tutte le cose; lei che adesso si sentiva disposta a barattare tutta la scienza che aveva acquisito con tutti i suoi studi, per un sorriso qualsiasi, tale da riuscire a scaldare almeno una volta il suo cuore, ecco, lei non aveva più alcuna scelta, la sua strada appariva segnata, forse anche dentro alle sue fantasie, che non erano state capaci di spingersi oltre ad un certo confine. Il mare era bello, in quel settembre inoltrato, eppure il tempo trascorso per lei adesso era un peso: un’altra estate trascorsa chinata sui libri, invece di cercare qualcosa che eppure era dentro di lei, lei ne sentiva gli effetti, e a tratti la spingeva lontano, come quel vento di mare che certe volte le aveva scompigliato i capelli e asciugato le lacrime agli occhi. Poi, la ragazza, priva di altre risorse, era risalita con calma verso la strada, abbandonando la spiaggia, ormai rassegnata a quello che il destino le indicava di fare, e all’improvviso aveva visto quel cane, un cagnolino spaurito, senza collare, senza padrone, che era andato verso di lei, come cercando un appiglio, una riva, un rifugio per la sua vita quasi randagia, e lei lo aveva accolto con sé come un segno, un simbolo per tutte le cose che forse si era lasciata sfuggire per non essere stata capace di coglierle. Domani, domani sarebbe stato diverso, si era subito detta, il cagnolino avrebbe vissuto con lei, adottato da lei, ed il suo spirito da domani sarebbe stato più libero, privo di quei freni di sempre, adesso era improvvisamente sicura di sé, lo giurava a se stessa, a quel mare, e soprattutto a quel cane che senza saperlo l’avrebbe traghettata lontano, verso una sponda di cui adesso era ignara, ma che ci sarebbe stata senz’altro per lei, ne era sicura, pronta ad accoglierla.


            Bruno Magnolfi

Sentimenti di mare.

          
            Alla metà di settembre in spiaggia non c’era ormai quasi nessuno, ed il mare appariva un tavola di colore scuro ed intenso. La ragazza camminava lungo la battigia, la testa vuota, nessun’altra voglia se non quella di starsene da sola cercando di attenuare il malessere. Quello che andava iniziando era il suo ultimo periodo in facoltà, aveva soltanto da completare la tesi, poi, dopo la laurea, davanti a sé c’erano soltanto decisioni da prendere. Lei aveva sempre continuato a studiare, grazie ai suoi genitori, ma senza chiedersi mai cosa doveva succedere dopo. Si era sempre immaginata di trovare qualcuno, negli anni appena trascorsi, l’amore forse, o un rapporto stabile e serio, un ragazzo con cui condividere il futuro che ormai era alle porte; ma non c’era stato nessuno, niente da ricordare o che valesse la pena per cui spingersi a formulare un progetto. Così, per automatismo, si era procrastinata la vita per lei, rinviando ogni momento di vera esistenza, come aspettando sempre momenti migliori, attimi più adeguati o più adatti, e adesso era lì, quella vita, fredda ed immobile, come quel mare di fronte, una tavola scura che non lasciava mostrare niente di sé, solo la superficie increspata. Lei era come già stanca, stufa di quello che adesso avrebbe dovuto iniziare: cercarsi un lavoro, instradarsi nel campo per cui aveva sempre studiato, trovare le strade migliori per introdursi dentro a un mestiere il più possibile dignitoso, senza inaccettabili compromessi, probabilmente senza dover cedere niente a nessuno, in modo da sentirsi rispettata dal mondo: alla fine, una vita ordinaria, senza sogni o segreti, senza sbalzi di umore, senza grandi vere scelte da fare. Un percorso senza entusiasmi, carente di un qualcosa che adesso a lei pareva essenziale. Improvvisamente tutto era lì, e si trattava soltanto di raggranellare quello che lei per apatia aveva perseguito in tutto il percorso degli anni: tanti piccoli granellini di sabbia trasportati per inerzia spontanea sulla battigia del mare, spersi tra miriadi di granelli tutti identici, mossi con lo stesso destino, senza che niente della sua natura sensibile avesse potuto variare quel moto naturale delle maree e delle burrasche impetuose. Una crudeltà terribile si annidava nell’andamento di tutte le cose; lei che adesso si sentiva disposta a barattare tutta la scienza che aveva acquisito con tutti i suoi studi, per un sorriso qualsiasi, tale da riuscire a scaldare almeno una volta il suo cuore, ecco, lei non aveva più alcuna scelta, la sua strada appariva segnata, forse anche dentro alle sue fantasie, che non erano state capaci di spingersi oltre ad un certo confine. Il mare era bello, in quel settembre inoltrato, eppure il tempo trascorso per lei adesso era un peso: un’altra estate trascorsa chinata sui libri, invece di cercare qualcosa che eppure era dentro di lei, lei ne sentiva gli effetti, e a tratti la spingeva lontano, come quel vento di mare che certe volte le aveva scompigliato i capelli e asciugato le lacrime agli occhi. Poi, la ragazza, priva di altre risorse, era risalita con calma verso la strada, abbandonando la spiaggia, ormai rassegnata a quello che il destino le indicava di fare, e all’improvviso aveva visto quel cane, un cagnolino spaurito, senza collare, senza padrone, che era andato verso di lei, come cercando un appiglio, una riva, un rifugio per la sua vita quasi randagia, e lei lo aveva accolto con sé come un segno, un simbolo per tutte le cose che forse si era lasciata sfuggire per non essere stata capace di coglierle. Domani, domani sarebbe stato diverso, si era subito detta, il cagnolino avrebbe vissuto con lei, adottato da lei, ed il suo spirito da domani sarebbe stato più libero, privo di quei freni di sempre, adesso era improvvisamente sicura di sé, lo giurava a se stessa, a quel mare, e soprattutto a quel cane che senza saperlo l’avrebbe traghettata lontano, verso una sponda di cui adesso era ignara, ma che ci sarebbe stata senz’altro per lei, ne era sicura, pronta ad accoglierla.


            Bruno Magnolfi

venerdì 4 dicembre 2009

Incontrarsi (quarta parte).

            

            L’erba era stata rasata regolarmente, e in virtù delle innaffiature frequenti aveva assunto un colore brillante, capace di far risaltare le bordure e le aiuole di tutto il giardino. Era adesso un piacere passeggiare lungo i vialetti all’ombra degli alberi, in mezzo a quei cespugli fioriti e a tutte le piante: aveva avuto ragione la signora Torrini a far lavorare una persona come me ogni giorno alla manutenzione del verde, adesso i risultati erano evidenti e tutta la casa racchiusa dentro al giardino pareva più viva, più allegra, più giovane. La signora negli ultimi mesi si era fatta vedere anche meno di quello che avrei immaginato, e soprattutto non mi aveva dato nessuna direttiva sui lavori da fare, di fatto lasciandomi padrone del campo e delle mie iniziative. Ogni giorno, terminato il lavoro, andavo come sempre a sedermi sopra le sedie del mio solito bar, lungo la via principale in paese, e tutto pareva procedere in maniera ordinata e tranquilla. Restavo lì, perso dietro ai pensieri di sempre, ad osservare le rare macchine che passavano lungo la via provinciale.  Quasi ogni sera la signora Torrini entrava nel bar passandomi accanto, mi salutava con un certo distacco e si lasciava servire il suo aperitivo al bancone. C’era un’intesa perfetta tra noi. Era come non ci fosse bisogno di alcuna parola, però, se ci fosse stato un problema reale, era evidente che potevamo contare l’uno sull’altra. Poi, uno di quei tizi che in genere perdono il giorno giocando alle carte, passò lentamente vicino a dove ero seduto, si fermò un momento guardandomi con un sorriso ammiccante, e riferendosi alla signora, appena uscita dal bar, con un gesto del capo, disse soltanto: “…puoi essere orgoglioso di aver domato una puledra del genere…”. Restai indifferente, assecondando il mio modo di essere, e lasciai che il mio primo istinto sbollisse; però quella frase non mi era piaciuta, e non potevo lasciarla passare, così, dopo pochi minuti, finii la mia birra e mi alzai dalla sedia per andare verso quel tizio. Era molto che non fronteggiavo qualcuno, mi passarono per la testa in un lampo le lotte di quando era ragazzo fuori da scuola, poi mi fermai alla sua sedia. Lui capì, e si alzò per farmi vedere che non aveva paura. Senza parlare lo colpii con un pugno sul viso, e lui barcollò sdraiandosi a terra tra i tavolini del bar. Gli altri che stavano giocando con lui, rimasero senza parole, mentre il tizio si lamentava sanguinando un po’ dalla bocca. “Ci vuole rispetto”, dissi, con voce per niente alterata, ma in modo tale che tutti capissero bene quelle mie poche parole. Pagai la mia birra ed uscii dal locale. Dentro al capanno dove stavano gli attrezzi che usavo per curare il giardino, il giorno seguente trovai una bottiglia di birra ghiacciata. La aprii, ma ancora prima che iniziassi a prenderne un sorso, arrivò lei, la signora Torrini. Entrò dentro al capanno e socchiuse la porta, mi squadrò con un mezzo sorriso ma senza dir niente, poi prese la bottiglia di birra dalle mie mani bevendone un po’. Mi baciò sulla bocca, ma in maniera affettuosa, come voleva che rimanessero le cose tra noi. Poi, quando prese la porta per tornarsene in casa, disse soltanto: “…saremo sempre più forti, noi due, di qualsiasi stupida idea giri qua attorno…”. Rimasi contento di sorseggiare quella sua birra, il suo sapore quel pomeriggio mi parve migliore di qualsiasi altra birra avessi bevuto, e quell’intesa tra noi la sentii come qualcosa che mi riempiva la vita.


            Bruno Magnolfi

giovedì 3 dicembre 2009

Terrorista per forza.



Vorrei non avere ancora nelle orecchie il sibilo delle sirene. In questura mi trattarono male, mi interrogarono per tutta la notte. A niente era valso continuare a ripetere che nulla c’entravo con i terroristi di cui andavano in cerca. Sulla rubrica di quello che avevano preso c’ero anch’io, ma neanche io sapevo spiegarmi il perché. Infine arrivò l’avvocato d’ufficio e mi disse di stare tranquillo. Al processo mi condannarono, mi fecero uscire solo perché avevo la fedina penale pulita. In seguito fui contattato dall’organizzazione, e così diventai terrorista davvero: tanto ormai ne avevo la fama.

            Bruno Magnolfi




lunedì 30 novembre 2009

Segnali.

            

            All’interno del Grande Centro Commerciale la gente era quella di un sabato pomeriggio qualsiasi. Ognuno attraversava continuamente gli enormi fasci di luce brillante, oscillando tra i corridoi e i negozi, senza una meta precisa. Era un pullulare continuo di espressioni, risate, sguardi, parole fugaci e pensieri da niente, come un continuo accendersi e spegnersi di una miriade di piccole lampadine. I due ragazzi si erano messi assieme soltanto da una settimana, come fanno tutti a quindici anni. Si erano sentiti grandi del loro rapporto trovandosi assieme agli amici e alle amiche, ma adesso che stavano soli, per mano, in mezzo agli sguardi di tutti, era già un’altra cosa. C’era la preoccupazione di incontrare un parente, o qualche conoscente dei genitori; però, sopra ogni cosa, c’era quel rendere pubblico quel loro rapporto, che probabilmente era anche una forza, però li coglieva in un momento di debolezza di spirito, persi dietro a un comportamento intimo che sacrificava le proprie individualità, il loro sentirsi soggetto pensante, gestore unico delle proprie espressioni e dei propri comportamenti. Le loro mani unite in mezzo alla calca dimostravano l’unione  indissolubile eppure contemporaneamente fugace del loro bisogno di sentirsi più adulti, già grandi, capaci di affrontare i passaggi naturali della loro esistenza. Camminavano, e cercavano di apparire naturali. Poi la ragazza aveva detto qualcosa a proposito della sua voglia di fermarsi a guardare vestiti, ed il ragazzo aveva risposto in modo un po’ brusco che non gli pareva possibile una cosa del genere, così lei aveva messo su il broncio, ritirando la mano da quella di lui. Lui si era sentito deluso del comportamento di lei, e un po’ dispiaciuto del fatto di doversi mostrare in quel modo, anche se non gli era proprio possibile comportarsi in modo diverso. Così erano andati ancora avanti, svogliatamente, scorrendo vetrine e scansando persone, fino a quando non avevano incontrato delle ragazze che lei conosceva. Grandi saluti, grandi sorrisi: in un attimo, senza necessità di spiegazioni di sorta, lei era rimasta con le sue amiche, e lui si era allontanato da solo, senza voltarsi. Probabilmente così terminavano le piccole storie di quei loro anni, senza neppure spiegarsi, mentre tutta la gente del Grande Centro Commerciale proseguiva imperterrita con la giostra di acquisti e di consumo di massa. La ragazza adesso era triste, quel pomeriggio all’improvviso si dimostrava un inferno, e il ragazzo, perso dentro alla calca, continuava a girare chiedendosi ancora che cos’era davvero più importante per lui. Infine si erano incontrati di nuovo, per caso, ma dopo essersi cercati a lungo con gli occhi, senza neppure averne coscienza, comprendendo in un attimo che si erano mancati l’un l’altra. Non c’era molto da dire, era sufficiente allungare una mano e stringere ancora quella dell’altra, e avviarsi assieme e da soli al reparto vestiario.


            Bruno Magnolfi 

giovedì 26 novembre 2009

La sognatrice.

            

            Aveva passeggiato a lungo nei vialetti del parco della città, godendosi il sole di quel pomeriggio e rincorrendo i pensieri leggeri che le sfioravano ogni poco la mente. Poi era uscita, attraversando l’ingresso con l’enorme cancello di ferro, e si era soffermata davanti ad alcune vetrine di quel quartiere ad osservare borsette e tailleur, soltanto per una normale curiosità, senza un effettivo interesse; infine era salita sull’autobus per tornarsene a casa. Non c’era niente che le piacesse di più di quel lasciar scorrere il suo giorno libero camminando da sola senza una meta precisa. Le piaceva soprattutto quel tempo indolente, quel perdersi in sguardi verso realtà per lei più inconsuete. Tanto, lo sapeva benissimo, rientrando dentro al suo piccolo appartamento, tutto avrebbe ripreso velocemente il suo corso.
Già aprendo la porta le sarebbero venuti incontro i suoi doveri verso se stessa: riassettare tutto l’appartamento sempre in disordine, togliere i vestiti sparsi sopra le sedie sistemandoli dentro l’armadio, spolverare e pulire un po’ dappertutto; e poi pensare soprattutto al suo lavoro: la relazione mensile da fare, preparare le lezioni dei giorni seguenti, migliorare poco per volta il suo ruolo di insegnante di scuola elementare. Sua madre l’avrebbe chiamata al telefono, poco più tardi, quella sera come tutte le sere, più o meno alla solita ora; solo per dirle le cose di sempre, per chiederle ancora: “…ma non c’è proprio nessuno che ti interessi? E’ mai possibile, eppure ti manca ben poco al compimento dei quarant’anni…”, e lei avrebbe risposto nella maniera di sempre, che stava bene da sola, che non sentiva necessità di conoscere proprio nessuno, e di legarsi ad un rapporto sentimentale meno che mai, ma erano tutti discorsi che la spossavano ancor più che riassettare la casa, specialmente in quelle ultime sere.
Era incinta, al primo mese, e aveva deciso di tenersi il bambino. Solo lei lo sapeva, e non aveva certo intenzione di rivelarlo a nessuno. Conoscere l’insegnante supplente che l’aveva invitata a cena una sera, e aver finito per lasciarlo dormire con lei, a casa sua, era stato un fatto così naturale, che quando lui aveva terminato quella supplenza di due o tre settimane, lei lo aveva salutato come un collega, un amico qualsiasi, senza chiedergli niente per un futuro impossibile, e facendo in modo che lui non se ne uscisse con le solite frasi fasulle, volte a dar seguito a un rapporto che di fatto non era neppure iniziato.
Così adesso solo lei lo sapeva di portare dentro di sé quel grande segreto. L’avrebbe coltivata con tutto il suo amore quella sua gravidanza, era questo il pensiero leggero e costante che più di ogni altro accompagnava adesso i suoi giorni, e quando si fosse vista la pancia lo avrebbe detto a sua mamma, e forse sua mamma sarebbe stata ancora più disperata di adesso, ma che cosa importava, non ci sarebbe stato mai niente di maggiormente importante della sua decisione, sarebbe andata avanti con chiunque avesse voluto aiutarla, e il suo amore sarebbe nato dentro di lei, poco per volta, a cambiarle dolcemente la vita.

            Bruno Magnolfi

domenica 22 novembre 2009

Una strada di pioggia.



            I colori dell’acquarello erano trasparenti, leggerissimi, e i contorni del disegno una linea sottile che appena tratteggiava le cose. Quasi non esisteva senso nel disegnare, se non quel dolce lasciarsi andare ad una fantasia leggera, che superava qualsiasi intento, riusciva a prendere la mano e lasciare che la forma sul foglio acquistasse la vita, diventasse colore, forma, illustrazione. Non c’era senso nel fare un disegno qualsiasi, la semplice rappresentazione di un’immagine vista. La cosa che toglieva il respiro era quel cercare di interpretare un piccolo, infinitesimale, minuscolo frammento di vita, un pensiero esile e sottile fino a quel momento celato dietro a chissà quali altri pensieri, mescolato dentro a chissà quali altri ragionamenti ordinari, perso dietro a miriadi di altre cose, magari più appariscenti, più forti, più importanti di tutto, eppure ammantate di sciocchezze senza rimedio. Un gesto affettuoso che dura lo spazio di un  attimo, e  si prolunga nel tempo in modo imprevisto, incorniciato nonostante il suo bisogno di essere una cosa qualsiasi, senza importanza. Questo stava dentro al disegno, e solo guardandolo spiegava da solo quanto era riuscito a scrollare da sé la facilità di cadere in percorsi già visti, elementi sicuri di cose più consuete. Lui lo aveva veduto il disegno, ne aveva assaporato in un attimo la freschezza piacevole, ne era rimasto colpito pur senza comprendere il motivo trainante da cui ne era attratto. Poi, una volta uscito dalla galleria d’arte, aveva fatto un giro in quella serata piovosa, camminando sui lucidi marciapiedi sotto al suo ombrello, con calma, ripensando al disegno, a quell’acquarello che pareva parlasse di sé, della sua vita, dei suoi pensieri. Aveva riflettuto a lungo su che cosa gli ricordasse quella figura di donna fermata in un gesto così naturale, con l’espressione del viso leggermente ammiccante, come di chi ha dentro di sé un lungo percorso alle spalle, un itinerario difficile, forse sofferto, una strada impervia affrontata e forse non completamente percorsa. Poi era entrato dentro a un caffè, si era accostato al bancone e si era fatto servire un liquore, qualcosa che riuscisse a scuoterlo un po’. Alcune persone a fianco e dietro di lui parlavano di cose ordinarie scambiandosi brevi risate e conversando in modo piacevole. Infine lui aveva pagato la sua consumazione, augurato la buonasera al barista, e riaperto l’ombrello uscendo da dentro al locale. Fu allora che vide la donna, da sola, con un normale impermeabile stretto alla vita e i capelli non lunghi e ben pettinati. Camminava lungo la strada, con l’espressione di chi ha già affrontato più volte itinerari difficili, eppure serena, immedesimata nei suoi gesti così naturali. Era lei l’acquarello, ne era sicuro, era lei quel disegno denso di cose, di vita, di elementi minuti eppure ben forti nella sua espressione; era lei che adesso senza motivo riempiva con la sua presenza tutto lo spazio che c’era; era lei che senza ricordare qualcosa di preciso, parlava di sé, solo passando, solo camminando dove camminavano tutti; ed era lì, quasi per una magia, uscita dal quadro per dare colore a quei marciapiedi, a quella strada bagnata di pioggia.

            Bruno Magnolfi

giovedì 19 novembre 2009

Tranquillamente nevrotico.


            E’ sempre stato il tempo il mio vero tiranno. Per questo ho sempre portato l’orologio al polso; in ogni momento, anche di notte. Persino a letto. Proprio per sconfiggerlo. Minuto su minuto. Perché solo la puntualità è stata sempre la mia vera alleata in questa dura battaglia. Il polso ticchettante. Perfino durante le ore di sonno. Ecco; quel semplice, lieve rumore regolare, da solo, mi ha sempre procurato l’inequivocabile e desiderata tranquillità. Perché una parte indubbiamente grande del problema è sempre consistita nella suoneria della mia sveglia sul ripiano accanto al letto. Per rimetterne l’orario giusto, è legge di natura tenere conto, come minimo, dei quindici minuti per la barba e per lavarsi, dei dodici per il caffè e la colazione, degli altri quindici per scegliere e indossare i vestiti con i colori giusti e le tonalità adeguate, dei venti per uscire, acquistare il giornale ed arrivare alla fermata del mio autobus. Anche l’autobus poi, una vera lotteria. In certi giorni è possibile vederlo transitare dalla mia fermata alle otto e dieci, altre volte alle otto e venti. In più, per quel tragitto in mezzo alla città, sostanzialmente breve anche se tortuoso, impiega in media venticinque minuti. Ma nei giorni di pioggia se ne superano abbondantemente trentacinque, per via del traffico. Insomma, arrivare alle nove esatte sul posto di lavoro e passare il tesserino magnetico dentro alla macchinetta della biblioteca, dove svolgo mansioni d’impiegato ordinario da diciannove anni, è sempre stato un problema. Già, perché non è solo il ritardo a spaventarmi. E’ anche l’anticipo con cui certe volte mi sono ritrovato davanti al massiccio portone della biblioteca (anche dodici, quindici minuti), che mi ha sempre fatto soffrire maledettamente. Per cui tutto quanto, da sempre, è determinato in grande misura dalla capacità di tenere conto di ogni variabile nel posizionare la suoneria della sveglia. Per questo, per essere sicuro che tutto si svolga bene e con i tempi giusti, ordinariamente mi sono spesso ritrovato, durante l’ultima ora di sonno, a svegliarmi anche quattro o cinque volte: proprio per controllare il mio orologio da polso, per sorvegliare che tutto il meccanismo funzionasse degnamente. Poi, qualche tempo fa, ho ritrovato un vecchio amico e abbiamo parlato di parecchie cose. Io ho annuito sorridendo a tutto quello che continuava a dirmi, ma quando, come giustificazione a certe sue manie, ha sentenziato che quando si superano i cinquant’anni non è più possibile riuscire a controllare certe piccole fissazioni, mi sono sentito come colpito da un’arma da fuoco. Mi è parso terribile. Per qualche momento ho addirittura creduto che si riferisse proprio a me, e sorrideva pure, di quella sua sortita, ma non ho replicato assolutamente niente. Però il giorno seguente, dopo aver meditato a lungo anche durante la nottata, mi sono tolto dal polso l’orologio. Ho iniziato, giorno dopo giorno, a cercare di andare a letto più tardi la sera, proprio per lasciar suonare a lungo la sveglia prima di spegnerla. Ho iniziato ad impiegare una maggiore cura nel radermi, ed ho preparato una colazione meno frugale. Così sono arrivato in biblioteca con un consistente ritardo per ben tre volte in una sola settimana. La direttrice si è meravigliata del mio comportamento, e mi ha richiamato ai doveri d’ufficio, senza che io avessi potuto controbattere. Ma dentro di me, mi veniva addirittura da sorridere. La battaglia che stavo conducendo era appena agli inizi, ma non potevo dirglielo, così sono rimasto in silenzio, con gli occhi bassi. Sono tornato a casa a piedi, un paio di volte, uscendo dalla biblioteca a fine orario. Forse ho impiegato parecchio tempo per arrivare fino a casa, ma ho attraversato una parte di città dove non vado mai. Sto pensando seriamente di fare la stessa cosa anche al mattino, magari uscendo da casa molto presto. Potrei anche cambiare itinerari, battere nuove vie, riappropriarmi di marciapiedi e scorci di strade che da tanti anni non frequento più. Il mio progetto è in pieno svolgimento, e francamente mi sento molto meglio, indubbiamente ho ritrovato una tranquillità della quale neppure ricordavo la possibilità. Ogni tanto sento ancora la necessità del mio orologio che ticchetta al polso la sua ineluttabile regolarità. Però m’impongo di evadere da quel pensiero, e forse prenderò un periodo d’aspettativa al lavoro, proprio per esplicare meglio questa mia esigenza. Ho iniziato ad essere sbadato, a dimenticarmi con facilità delle cose che invece dovrei ricordare, anche le più importanti, e sorrido delle mie gaffe, degli equivoci nei quali continuo ad inciampare. Credo di dover ancora affinare, e di parecchio, tutte le particolarità che il mio carattere sta mettendo a nudo, e sempre più spesso sto pensando che queste variazioni dentro alla mia vita erano un destino ineluttabile, una strada dalla quale era impossibile deviare. Forse questa strada non mi porterà da alcuna parte, però non è la meta che adesso m’interessa; è il percorso, il lento procedere verso un certo appuntamento di cui non so ancora nulla, neppure l’orario fissato, e di questo sto vagamente iniziando a preoccuparmi, visto che adesso non ho più neppure il mio orologio da polso a potermi assicurare la puntualità.


            Bruno Magnolfi

lunedì 16 novembre 2009

La scelta.

            

            Sul marciapiede i tacchi delle scarpe scandivano i suoi passi in maniera regolare, non affrettata. Dentro di sé avrebbe anche voluto rallentare ulteriormente il suo moto, addirittura fermarsi, girarsi indietro e andar via, ma non era possibile. Se ci pensava odiava tutto di sé: i suoi modi, le espressioni che usava, persino quei tacchi e quelle scarpe da donna ordinaria, quasi senza caratteristiche riconoscibili. In azienda aveva cercato di comportarsi in diverse maniere, aveva anche provato a dire cose che neanche pensava, ma non erano mai usciti fuori risultati diversi. In fondo, pensava a volte cercando di ritrovare un po’ di fiducia in se stessa, lei era soltanto una segretaria, non poteva far altro se non accondiscendere a tutto quello le veniva chiesto di fare, impersonando il suo ruolo e fingendo sempre di essere professionale e appagata. Eppure sentiva benissimo che quel soffocare la sua personalità giorno per giorno era l’elemento che scatenava al suo interno un malessere generale e indomabile, che si riversava in qualsiasi momento della sua vita privata, soprattutto quando non si trovava al lavoro. Aveva provato a parlarne anche in casa, con le persone nelle quali riponeva  fiducia, con le sue amiche, con il suo fidanzato, ma nessuno di loro era riuscito a chiarirle quale fosse la soluzione migliore. Così aveva affrontato quell’argomento anche con il suo medico, e lui senza scomporsi le aveva consigliato quell’analista. C’era già andata due volte, da quell’analista, ma adesso era ancora più giù di morale: si sentiva sconfitta, sostanzialmente, incapace di decidere da sé della sua vita. Così si sentiva ancora di più davanti ad un bivio, e pur con tutte le paure che riusciva a provare, sapeva dentro di sé che tutto dipendeva da lei, dalle sue scelte. Quel marciapiede, quando ogni giorno lo percorreva prima di entrare in azienda, era l’elemento che più di ogni altro le faceva assaporare il passaggio da uno stato a quell’altro: in quelle poche decine di passi che divideva il parcheggio delle auto dall’ingresso in azienda, si giocavano in lei tutti quegli elementi importanti di cui riusciva a soffrire. Era inutile, poteva parlarne con quante persone voleva, non poteva essere diversa là dentro, il meccanismo che le era richiesto era proprio quello di abbandonarsi a ciò che il suo ruolo dettava, era così, doveva farsene per forza una ragione precisa. Ormai le veniva naturale persino contarli quei passi, tanto il varcare quella porta di vetro dietro alla quale si svolgeva il suo lavoro, la faceva star male. Sentiva il frusciare leggero della porta automatica che si apriva appena arrivava, immaginava i sorrisi finti e i saluti con i quali si rapportava ai colleghi e agli impiegati che lavoravano lì, vedeva la sua scrivania con computer e telefono alla quale restava incollata per mandare avanti le cose, pronta a qualsiasi richiamo dell’ingegnere o dei dirigenti. Con questi pensieri, in fondo a quel marciapiede, era infine arrivata; però si era fermata un momento, come percorsa da un nuovo pensiero, aveva osservato la porta di vetro mentre si apriva, ancora restando ferma dov’era, aveva lasciato che qualcuno da dentro osservasse il suo viso, il vestito, le sue scarpe da donna ordinaria, e infine, senza cambiare espressione, si era girata, lentamente, aveva lasciato che la porta si chiudesse di nuovo dietro di sé, e aveva ripercorso al contrario tutto quel marciapiede, per andarsene via.


            Bruno Magnolfi

venerdì 13 novembre 2009

Le regole sociali.

            

            L’interminabile corridoio dal pavimento di piastrelle chiare e lucide lasciava intravedere, lungo i muri a destra e a sinistra, due serie di porte grigie posizionate in maniera regolare e simmetrica tra loro, e la sala d’attesa a quegli uffici, ricavata mediante batterie di sedie collegate tra di loro e poste in quattro o cinque file uniformi nella larga sala che fronteggiava il corridoio stesso, era piena a metà di persone che attendevano pazienti il proprio turno.
Andrea era appena arrivato, si era seduto nel primo posto libero che aveva visto osservando contemporaneamente il suo talloncino numerato distribuito da una apposita macchina all’entrata, confrontandolo con l’altro numero che riportava il grande tabellone elettronico che fronteggiava tutta la stanza. Aveva immediatamente dedotto tra sé che avrebbe schiacciato in quella sala d’attesa non meno di una mezz’ora, forse anche molto di più, così aveva cercato con lo sguardo un qualche elemento confortevole che gli potesse far trascorrere quel tempo nella maniera migliore.
Ma poco dopo era arrivata lei, apparentemente una donna qualsiasi, forse quasi timida, ma di un modo di intendere la timidezza assolutamente fuori dal comune. Non aveva numero, naturalmente, solo una strana cartella con dentro fogli e documenti: si era soffermata un momento, quasi per prendere fiato, poi a voce alta aveva chiesto, senza riferirsi a nessuno di preciso, ma neanche parlando proprio a tutti, come funzionasse il meccanismo per accedere agli uffici. Qualcuno razionalmente le aveva detto del numero in funzione di ciò che aveva da trattare, ma quasi subito lei aveva tirato fuori le sue carte, spiegando le proprie cose e coinvolgendo più persone circa i propri guai. I suoi argomenti erano particolari, ma ciò che più colpiva era l’ingenuità con cui manifestava le sue cose, come se rifiutasse l’accesso a regole sociali da tutti accettate e confermate.
Infine si era stufata, forse anche troppo in fretta, di tutte le raccomandazioni che sembravano continuare a farle le due o tre persone che si erano occupate di lei, e togliendo d’improvviso interesse e importanza a ciò che aveva chiesto fino ad allora, si era seduta casualmente accanto ad Andrea, dopo essersi fatta consegnare un talloncino numerato da qualcuno dei presenti più gentile e paziente degli altri. Aveva subito sistemato bene quei fogli all’interno della sua cartella, tolto il soprabito, ravviato i capelli lunghi e sciolti, sistemato con attenzione e in  modo adeguato il proprio corpo sopra la sua sedia, accavallando le gambe in due o tre maniere differenti, invadendo di profumo l’aria intorno e guardando dappertutto come per carpire qualcosa che ancora non le era perfettamente chiaro.
Poi, come se non avesse ascoltato niente fino ad allora, aveva chiesto ad Andrea con fare distaccato, ma con voce calma e pacata, se era giusto l’ufficio al quale era stata consigliata di rivolgersi, e se andava bene fare tutta quella attesa per quei suoi piccoli problemi. Andrea, nella risposta aveva usato il minimo di parole disponibili, cercando di sviare l’interesse verso di lui, ma lei aveva insistito subito pungolandolo con due o tre domande abbastanza dirette alle quali era impossibile non dare seguito.
Era venuta in soccorso la persona accanto, che aveva detto il suo parere in modo simpatico e puntuale, ma a lei evidentemente non interessava affatto far parlare qualcuno che non fosse chi aveva deciso, così aveva chiesto ad Andrea se le teneva il posto mentre lei cercava il bagno. Tornò in un attimo, ringraziando con larghi sorrisi e con apprezzamenti impersonali per quegli uffici, cosa alla quale Andrea si mostrò subito solidale. Infine, sempre parlando, si alzò immediatamente quando si aprì la prima porta grigia lungo il corridoio, sparendo dentro a quell’ufficio e lasciando tutti come dei poveri scemi.

            Bruno Magnolfi

            

venerdì 6 novembre 2009

L'autostrada del sole.


            La mia casa è sotto al margine del cavalcavia di un sentiero poco frequentato che scavalca l’autostrada. Quando mi metto a dormire, durante la notte, mi sembra di vivere il confine tra la civiltà e la natura. In quel punto, attorno a quella mia specie di abitazione, ci sono solo campi verdi a distesa tra file sfumate di alberi, e per arrivare al paese più vicino ci si impiega a piedi più di mezz’ora. Sopra la mia testa transitano pochi mezzi, lungo quella via non ci passa quasi nessuno. In autostrada invece il traffico non termina mai, è un fiume continuo di materiale umano e di merci che scorrono accanto a me, quasi ai miei piedi. Certe volte mi chiedo se qualcuno che guida tutti quei mezzi non immagina che ci sia io al margine della sua traiettoria, e poi qualche volta sogno che qualcuno di loro si fermi e mi porti con sé. Non immagino un posto preciso dove recarmi, però dentro di me formicolano spesso così tante voglie che devo per forza ricacciarle all’indietro, e questo, penso, non è da persona, ed io, certe volte me lo ripeto per darmi più forza, sono una persona, anche se sono da solo, e anche se sono arrivato fin qui non mi ricordo neanche più in quale maniera. Ho ricavato due pareti con delle lamiere lungo il margine del cemento armato del ponte, e davanti a me, con delle assi di legno, mi chiudo la notte all’interno del mio spicchio di mondo. Il rumore continuo del traffico sull’autostrada è fortissimo, però ci si abitua. Ho una vecchia bicicletta con me, e con quella durante le belle giornate arrivo fino al fiume, e lì a volte mi lavo, prendo l’acqua che mi serve per la mia casa, mi siedo, osservo la natura bellissima di quella campagna. Qualche volta, di giorno, passano da sotto al cavalcavia gli operai che svolgono le manutenzioni, oppure le squadre per il taglio dell’erba al margine dell’autostrada, con i loro trattori giganteschi, le attrezzature meccaniche e tutta una serie di segnali luminosi bellissimi, e a volte mi salutano, mi gridano qualcosa nella loro maniera: sono calabresi, rumeni, marocchini. Certe volte li invidio, mi sembrano persone importanti, svolgono un mestiere che li pone al disopra di tutti: lavorano per gli altri, penso, per la sicurezza di quelli che non si accorgono neppure che c’è chi li veglia. Ho conosciuto Artur, un giorno, uno della manutenzione dell’autostrada, con la polvere e l’asfalto appiccicati sui suoi vestiti arancione ed il viso di chi non ride mai. Ha detto che la vita è uno schifo, ma io gli ho sorriso, non poteva dire sul serio. In primavera l’erba cresce giorno per giorno, siamo già usciti da questo inverno freddo e piovoso, tra qualche mese lavorerò nei campi vicini a raccogliere gli ortaggi, poi i pomodori, forse mi prenderanno per tagliare l’uva. La mia vita è naturale, con la luce del giorno e con le stagioni, ed i miei sogni viaggiano con gli autoarticolati che passano davanti a me. Sembrano tutti uguali, ma non è vero. Uno di loro prima o poi mi porterà via, in fondo a questo braccio di autostrada, e sarà là che inizierà tutto il riscatto della mia vita. Ci sarà qualcuno su un camion che si fermerà sulla corsia di emergenza, sorriderà senza chiedermi niente, ed io andrò assieme a lui e mi ricorderò che sono anch’io come lui, una persona, e tutto inizierà ad andare in maniera migliore, ed il futuro mi farà scordare del tutto di avere abitato sotto questo cavalcavia. Forse tornerò indietro, un giorno in cui tutto scorrerà per me nella maniera migliore, cercherò di ritrovare questo cavalcavia, e gli alberi, i campi, anche il fiume, e aspetterò la squadra della manutenzione dell’autostrada, e sarò tanto contento di ritrovare tutte quelle persone, perchè potrò dire ad Artur che si era sbagliato, che la vita non era come diceva lui.

            Bruno Magnolfi



mercoledì 4 novembre 2009

Incontrarsi (terza parte).

           

            Il giardino era grande. Solo lavorando con cura attorno a tutti quei piccoli alberi, quei cespugli, quelle aiuole di fiori, si capiva che ogni pianta aveva bisogno di cure appropriate, cosa questa che ad uno sguardo superficiale non appariva per niente. La signora Torrini mi aveva procurato un grosso libro con molte spiegazioni sulle essenze vegetali di ogni tipo, ed io avevo iniziato a studiarlo dentro a quel bar dove regolarmente mi piazzavo in compagnia di una birra, una volta terminato il lavoro. Lei, in quei miei primi giorni del mio nuovo impegno di giardiniere, era stata un po’ assieme a me, indossando guanti spessi di gomma e un buffo grembiule pesante, giusto per spiegarmi qualcosa con poche dirette parole, e illustrandomi le particolarità del suo giardino e di altre cose inerenti la mia attività dei giorni a seguire. Poi era sparita, però mi aveva lasciato la chiave del cancello della sua recinzione, così ero autonomo, anche se sospettavo che lei mi osservasse dalle finestre di casa. In fondo, a me non importava per niente, e nelle settimane a seguire ogni tanto entravo dentro al capanno dove erano riposti gli attrezzi, e là dentro affilavo le lame da taglio, sistemavo gli utensili che usavo, mi fumavo una sigaretta, e lasciavo che il suo sguardo curioso vagasse attorno a tutta la casa nella ricerca del suo giardiniere da tenere sotto controllo. Poi un giorno arrivò mentre stavo dentro al capanno: mi disse che non poteva farsi vedere troppo con me, il vicinato ne avrebbe parlato e questo a lei non piaceva. Mi chiese senza aspettare risposta di raggiungerla in casa passando dal retro quando avessi terminato il lavoro, ed io le dissi che andava bene, ma senza che lei mi avesse chiesto un parere. Quel pomeriggio caddi malamente per terra inciampando su un ramo d’albero che avevo tagliato. Quando mi presentai alla signora Torrini le dissi che sentivo dolore ad un braccio, e forse era meglio se il giorno seguente fossi stato a riposo. Lei disse che non c’era problema, poi mi fece sedere, slacciò la manica della mia camicia e mi fece piegare il gomito in più posizioni, cercando di capire cosa fosse accaduto. Infine tirò fuori una pomata da applicare sulla parte che mi procurava dolore, e senza chiedermi niente la spalmò sul mio braccio. “Si sarà sicuramente chiesto il perché ho cercato proprio lei per lavorare al giardino”, disse. “Non si deve fare strane illusioni, non sono in cerca di un uomo. La mia vita va bene com’è. Però tra tutte le persone di questo paese lei è il più sfuggente, quello che riesce a guardare attraverso le cose, a restare indifferente di fronte a persone o fatti curiosi, e questo mi piace”. Le dissi che il primo giorno avevamo deciso di darci del tu, almeno quando fossimo stati da soli, così si scusò, e fu ancora più diretta: “Soffro di solitudine, purtroppo”, disse di colpo; “e solo vederti mentre lavori in giardino mi riempie lo sguardo. E’ una mia debolezza, ma ciò non toglie che io debba avere un grande rispetto per quello che fai, per la tua pazienza nei miei confronti, per la capacità che hai dimostrato fino ad adesso, di essere serio, comprensivo, una persona per bene”. Poi, d’improvviso, come consapevole di aver speso anche troppe parole con me, si alzò dalla sedia lasciando che io mi avviassi verso la porta, ma poi, guardandomi a fondo con i suoi occhi duri e sfuggenti, le venne da esprimermi un breve sorriso, e con un moto che non mi sarei mai aspettato, mi accarezzò per un momento la mano, e come in un soffio, disse soltanto: “i nostri anni migliori sono passati, a nulla serve oggi essere falsi…”.


            Bruno Magnolfi 

lunedì 2 novembre 2009

La sola cosa da fare.

           

Con calma aveva tirato fuori le chiavi dalla sua tasca, si era guardato vagamente attorno come non fosse del tutto convinto che quello era veramente il palazzo dove abitava, aveva cercato la toppa del portone di vetro e metallo che dava direttamente sul marciapiede, aveva lasciato scattare il meccanismo elettrico della serratura, e infine era entrato, scivolando silenzioso fin dentro quell’andito ampio con l’ascensore e le scale sul fondo. Alberto si sentiva fuori di posto anche adesso, anche nel compiere i gesti di sempre. Marcella era andata, dopo tutti quegli anni in cui avevano diviso ogni cosa, avevano affrontato assieme tutte le difficoltà di ogni giorno, si erano sostenuti a vicenda; adesso lei aveva deciso che era tutto alle spalle, che il loro rapporto era finito. E per lui soltanto rientrare nel suo appartamento e non trovarla lì, come sempre, gli pareva ancora una cosa impossibile, per questo in quegli ultimi giorni aveva cercato in tutti i modi di ritardare il rientro. Si era interrogato in tutte le maniere possibili, Alberto, e quando Marcella aveva detto che era meglio così anche per lui, aveva fatto cenno di si con la testa, ma non lo pensava davvero. Gli aveva detto che non riusciva a vedere le cose, che viveva soltanto di superficie, non riusciva ad approfondirsi sui veri problemi del loro rapporto, quella vita monotona che non sapeva di niente, se non di grigiore quotidiano e di muffa, quelle giornate vuote di tutto, interscambiabili, prive oramai di aria nuova. Per Alberto non era in quel modo, e sarebbe stato disposto ad apportare tutti i cambiamenti di cui c’era bisogno se solo Marcella avesse voluto provare. Per lui bastava soltanto la sua presenza per riempire di colore le stanze di casa, ma era impossibile riuscire a spiegarle cosa vedesse davvero quando guardava il suo viso, i suoi occhi, ogni sua qualunque espressione. Nell’andito del palazzo c’era silenzio a quell’ora serale, Alberto aveva pigiato il pulsante luminoso e aveva sentito il motore elettrico che si avviava. Adesso toccava per la prima volta con mano il vero grigiore dei giorni. Gli pareva impossibile dover perseguire le attività quotidiane senza una vera ragione per portarle in avanti. L’ascensore, con un tuffo leggero, si era fermato e aveva spalancato le porte scorrevoli, Alberto era entrato e si era sentito sgomento a pigiare quel pulsante dell’ultimo piano che probabilmente portava ancora l’impronta del dito della sua Marcella, dell’ultima volta che lo aveva premuto. Poi si era fatto coraggio, le porte si erano chiuse e lui aveva intrapreso il viaggio in ascesa per arrivare nel suo appartamento.  Qualcuno gli aveva detto che il tempo rimarginava qualsiasi ferita, e lui aveva sorriso, con il sorriso distante di chi non vuole che il tempo apporti alcuna modifica, perché sa che quel vuoto che sente deve rimanere così, nella stessa esatta maniera. Se chiudeva i suoi occhi sentiva ancora il profumo di lei, dei suoi capelli, della sua presenza insostituibile. Poi l’ascensore si era fermato, le porte si erano aperte, e lui ad occhi bassi aveva cercato la chiave del suo appartamento. Era facile adesso odiare quel pianerottolo, quei gesti meccanici, quella vita di sempre, quei vicini che nei giorni seguenti gli avrebbero chiesto qualcosa di lei e della sua solitudine nuova. Ma Alberto si sentiva forte del suo passato, di tutto il tempo trascorso con lei, non ne avrebbe mai potuto parlar male, di tutti quegli anni, della loro vita in comune. Si era fermato solo per un attimo davanti alla porta, giusto per raccogliere assieme tutti i pensieri, e in quell’istante aveva visto Marcella lì accanto, con le lacrime agli occhi, con il suo dolce viso di sempre, con i colori del mondo sopra di sé, come sapeva essere lei, pronta di nuovo a togliere quel telo di grigio da sopra al suo Alberto, che non aveva creduto davvero che tutto si sarebbe fermato, e che forse in cuor suo l’aveva aspettata, perché era quella l’unica cosa che gli era rimasta da fare.

Bruno Magnolfi

venerdì 30 ottobre 2009

Un bel posto.



            La prima volta Federica non ne era stata neanche consapevole. Abitava con i suoi genitori in una casa grande e vecchia, a metà tra la periferia e la campagna, e da lì percorreva circa un chilometro di strada alberata, bianca e sassosa, prima di arrivare alla via principale. Da quando aveva compiuto gli anni per andarsene in giro da sola, lei quel tratto di strada l’aveva fatto ogni giorno, avanti e indietro, sempre rigorosamente a piedi, perché a Federica piaceva camminare, anche lentamente nelle belle giornate, e osservare le cose, ascoltare i suoi passi, respirare nel vento. Arrivava all’incrocio, dove c’era la fermata dell’autobus, e lì, accanto a quel palo, da quando era diventata una ragazzina, trascorreva quasi più tempo di quello che aveva passato da sempre in compagnia con i suoi genitori. Soprattutto perché loro non c’erano mai, sempre al lavoro nel capannone dell’allevamento dei polli, dove ce ne stavano ben cinquemila di quelle bestiacce, e nonostante un paio di persone che lavoravano lì, assieme a loro, in azienda c’era sempre qualcosa da fare. Federica odiava quei polli, avrebbe voluto andarsene da lì, al più presto possibile, via da quello starnazzare continuo e da quel puzzo onnipresente. Arrivava a quella fermata, osservava la strada asfaltata, aspettava il passaggio dell’autobus, poi lasciava che il rumore delle ruote e del motore sfumasse fino dietro la curva, e se ne ritornava lungo la strada bianca alberata. Al mattino andava a scuola, per mezzo dell’autobus, e dopo aver fatto le medie però, pur essendosi iscritta al liceo con tanti propositi dentro la testa, non aveva socializzato con nessuna compagna, e spesso, in quei primi due anni, si era ritrovata da sola, con la paura perenne di portarsi da casa l’odore dei polli intriso dentro ai vestiti. Poi aveva conosciuto un ragazzo, e per qualche mese aveva sognato. In un giorno qualsiasi, senza molte parole, era finita, il ragazzo l’aveva lasciata, e lei, poco dopo, aveva detto a suo padre che a scuola non ci sarebbe più andata. Suo padre, assolutamente in accordo con i suoi modi e con ciò che pensava, le aveva semplicemente risposto: “Va bene”, ed era normale, perché tanto nella loro piccola azienda, secondo suo padre, le braccia non bastavano mai. E da quel momento lei aveva iniziato a sognare la possibilità di andar via, in qualsiasi maniera, ma per quanti giornali con inserzioni economiche avesse guardato, non era riuscita a trovarsi nessun altro lavoro che non fosse l’accudire quei maledettissimi polli nel capannone accanto alla casa. Così, arrivata alla soglia dei vent’anni, si era ritrovata spesso da sola, a quella fermata dell’autobus, a sognare qualcuno che passando la portasse con sé. Arrivava in fondo alla strada bianca alberata della casa dei suoi genitori, e stava lì, ad aspettare che l’autobus rombasse fino oltre la curva, e nient’altro. Fu in questa maniera che un giorno, mentre era accanto a quel palo, si accostò veramente una macchina, e un ragazzo un po’ buffo si sporse dal finestrino per chiederle giusto qualcosa sulla direzione stradale, anche se era evidente il pretesto per parlare con lei. Dopo la risposta cortese di Federica, forse il ragazzo era già pronto per ripartire, ma all’improvviso parve farsi coraggio, giusto quello che serviva per dire, con titubanza: “…ma lei, quanto prende?...”. Federica sorrise, forse arrossì, e per scherzo disse una cifra qualsiasi, la prima che le venne alla mente, forse per non umiliarlo o solo per darsi un contegno da donna. Poi salì sopra la macchina, lasciò che il ragazzo facesse un pezzo di strada fino ad accostare in una piazzola deserta, e si lasciò palpeggiare, senza far niente. Quando la sera tornò verso casa si sentiva migliore, anche se non sapeva perchè. In seguito le cose furono semplici: il ragazzo tornò altre volte alla fermata dell’autobus, più o meno alla medesima ora, come ad un appuntamento fissato, fino a quando lei disse che non voleva più soldi da lui, non ce n’era bisogno, e fu allora che il ragazzo le chiese, se a lei faceva piacere, se poteva accompagnarla fino alla casa dei suoi genitori, in fondo a quella strada sterrata, che secondo quello che lui immaginava, doveva essere proprio un bel posto.


            Bruno Magnolfi