giovedì 30 luglio 2020

Musica in minore.

          

 

            “Sono contento, sapete; sono proprio contento di essere qui una volta per tutte a spiegarvi come possa accadere che quando in certe giornate mi metto seduto al pianoforte, la mia sensibilità in fondo alle dita subito tenti semplicemente di trasformarsi in musica, intrecciando serie di accordi che certe volte urlano tra loro, e in altri casi si distendono come amanti abbracciati, nel formare cadenze e suoni spesso poco usuali, questo è vero, ma mostrando aspetti a cui difficilmente si pensa, e che sono comunque dentro di noi, di tutti noi, come costituenti primari delle nostre diverse personalità”. Questo dice con un vago sorriso sopra le labbra il nostro maestro, questo grande compositore di brani musicali forse poco orecchiabili, ma dalla valenza assolutamente profonda, riconosciuta da tutti, forti di un’indiscussa capacità nel parlare come di semplici sprazzi di vita vissuta, con l’uso spregiudicato e difficile di complesse e ardite melodie. Qualcuno non riesce ad apprezzarlo, ma questo adesso non ha alcuna importanza, la cosa essenziale è che lui senta la necessità di spargere in aria le proprie note, e ce ne faccia dono.

            Partono delle domande dal fondo della sala, chiedono come sia possibile che tutto fluisca, nel modo come è stato appena ascoltato, in maniera così naturale nella sua musica, ma lui si schernisce, dice che è solo attenzione ai dettagli, impegno nel piazzare le note nei luoghi più opportuni del pentagramma, quelli dove fanno migliore mostra di sé. Un ragazzo dice che sta studiando il violino, va ad una scuola di musica naturalmente, ma pur mettendo molta passione in quello che gli viene chiesto di fare, non ottiene i risultati che invece tanto vorrebbe. “La tecnica per suonare uno strumento è soltanto una base su cui poggiare la propria individualità”, dice il maestro. “Riflettere a fondo sulle potenzialità espressive che offrono le cose che si sanno già fare può essere una spinta entusiastica per migliorarsi”. Infine ringrazia, saluta tutti con il classico inchino del capo, e poi se ne va, lasciando alla platea il tempo di raccogliere le proprie cose ed uscire da quella sala.

            Fuori tutti si sorridono, stringono con cura le mani dei conoscenti, mostrano di avere molto apprezzato le parole del maestro a conclusione del concerto in suo onore. Qualcuno è più serio, forse pensa che questa musica sia quasi di una noia mortale, ma è divenuto purtroppo del tutto obbligatorio dire che c’è del sublime nell’ascolto di queste cascate di accordi in minore, anche se sanno di vecchio e di risaputo, senza offrire nient’altro. “La musica ormai si è esaurita”, azzarda una signora di bell’aspetto. E qualcuno la sostiene, dicendo che: “dopo tutta l’interpretazione possibile, adesso si va avanti soltanto a fare cose apparentemente nuove, ma basate sui vecchi stilemi”. Alcuni fanno cenni di assenzio, altri, a cui probabilmente piace lo spirito della polemica, sorridono semplicemente, però si attardano davanti all’ingresso, nel vedere se qualche focoso abbia voglia di alzare la voce per difendere qualche personale punto di vista.

            Infine vanno via tutti, lasciando soltanto alle loro spalle un senso di vuoto e di amarezza consapevole, come se si proseguisse ad occuparsi di qualcosa pur sapendo che non servirà praticamente più a nulla. Alla fine si incamminano lungo le strade adiacenti anche i musicisti e gli addetti alla sala, con le loro custodie rigide manovrate con estrema attenzione ed i completi neri impeccabili sopra le loro camicie bianche. Il maestro è già andato via, qualcuno tra gli addetti ai lavori ha tirato un sospiro di sollievo, altri sono riusciti a mostrare apprezzamento fino all’ultimo, ma adesso che lui non c’è, riescono a sbuffare con sincerità per quelle parole prive di qualsiasi contenuto ascoltate sopra a quel palco. “Soltanto lui oramai crede davvero in quello che fa”, dice un violoncellista. “Chi gli sta attorno finge semplicemente di sentirsi trasportato in qualche maniera dalle sue note. La musica ha chiuso, purtroppo; riesce soltanto ad essere un garbato sottofondo intellettuale per serate in cui probabilmente non si saprebbe neppure che cos’altro fare”. 

 

            Bruno Magnolfi


lunedì 27 luglio 2020

Segreti quasi svelati.



Poco tempo fa ho ereditato una piccola scatola di legno. O meglio, mio nonno d'improvviso ha avuto l'idea di farmi un regalo poco prima di morire, cosa avvenuta pochi giorni dopo, senza peraltro che lui avesse dato dei segni particolari di malessere prima della notte in cui, mentre placidamente dormiva, se n'è andato. Il dono che mi ha fatto, oltre la precisa e quasi inquietante scelta di tempo, potrebbe forse apparire una stranezza, soprattutto perché questa scatola di legno, al momento in cui è giunta nelle mie mani, era assolutamente vuota, tanto che mi sono subito sentito in dovere di metterci dentro qualche stupidaggine di mia proprietà prima di appoggiarla su uno scaffale della mia cameretta; però considerando che questo è un oggetto che per qualche ragione lui ha sempre portato con sé nell’arco di quasi tutta la sua esistenza, ecco che adesso ha assunto in questo modo un valore affettivo del tutto particolare per me.
Un contenitore di aria, ecco cosa rappresenta ai miei occhi; e se forse sembra un po’ poco, in realtà basta essere muniti di fantasia per immaginarci dentro tutto ciò che si vuole. Così ho pensato di riporvi all’interno delle fotografie, magari proprio quelle poche di mio nonno che mi sono rimaste: lui ritratto in bella posa da giovane, vestito da soldato, poi quando si è sposato con mia nonna, e ancora prima, mentre lavora, un bracciante in mezzo a tanti come lui a quell’epoca, però con uno sguardo particolare, una luce negli occhi che a me adesso appare del tutto diversa da quella degli altri. Mi sono chiesto che cosa durante tutti quegli anni avesse mai riposto mio nonno dentro quella scatola, che appare ancora ruvida, di legno duro, con delle cerniere anche un po’ arrugginite, e tracce di vernice verde che si è quasi tutta scrostata con l’andare degli anni. Forse i pochi soldi che aveva, forse i suoi risparmi da giovane, come un piccolo tesoro da custodire in qualche luogo nascosto.
Poi l’ho lasciata lì, come un soprammobile qualsiasi, e non ci ho più pensato. Ma oggi mi è venuta la voglia di guardarci ancora dentro, e come seguendo un’ispirazione, mi sono accorto che il fondo all’interno è costituito da un foglio sottile di legno della stessa esatta misura della scatola, ma semplicemente appoggiato alla base. Aiutandomi con una lama, usando grande cautela e non senza difficoltà, sono alla fine riuscito a sollevare quel rettangolo semplice, e sotto ho scoperto un foglio di carta piegato, una lettera, ho pensato subito, qualcosa di talmente prezioso da essere stato tenuto per chissà quanti anni nascosto là dentro. La scrittura diceva così:
“Cara Maria, mi sento disperato; ormai non posso più fare diversamente che seguire la strada che ho intrapreso da subito. Però adesso non ne sono affatto contento, soprattutto perché non potrò rivederti per chissà quanto tempo, e quando poi infine giungerà quel momento, chissà quante cose nel frattempo saranno cambiate”.
Mia nonna si chiamava Ada, quindi non era scritta per lei, e poi quella lettera non era mai stata spedita, visto che era rimasta nelle mani di mio nonno. Doveva essere stato qualcosa di veramente importante a spingere lui nello scrivere quelle parole, anche se poi forse non aveva avuto il coraggio di consegnare la lettera o di spedirla. Comunque quello doveva essere stato il segreto della sua vita, visto che lo aveva sepolto dentro la scatola, anche se mio nonno aveva sempre saputo le parole ed il messaggio che quella conteneva. Naturalmente ho subito rimesso il foglio di carta al suo posto, e ripristinato la scatola esattamente com’era, orgoglioso comunque di essere stato messo al corrente di un segreto lungo quanto un’intera esistenza.


Bruno Magnolfi



venerdì 24 luglio 2020

Cambio di idea.


          

            Con voce appena sussurrata lei gli comunica adesso che è stanca, anzi, che è assolutamente stufa di quel rapporto inconcludente, inutile, sterile, senza futuro. Soltanto la settimana precedente loro due si sono incontrati in un alberghetto fuori mano con ben altre aspettative, specialmente da parte di lei, che si è quasi mostrata, come dire, innamorata pazza. “Puoi fare quello che vuoi con me”, gli ha confessato in quell’occasione; “mi troverai sempre dalla tua parte, pur ancora in un angolo, nascosta, attenta come sempre a non svelare mai la mia segreta presenza nella tua vita”. Ormai la loro relazione effettivamente prosegue da diversi anni ad andare avanti, tanto da aver mostrato in qualche occasione dei momenti di normale stanchezza, segni forse di manifesta abitudine, anche se ogni volta le cose in breve si sono sempre rivelate capaci di nuovo futuro.
            Durante il tardo pomeriggio di uno dei mesi precedenti, si sono dati appuntamento in un caffè del centro normalmente poco frequentato, e lei si è mostrata contenta, quasi radiosa, mentre è rimasta seduta al tavolino, tanto che ad un certo punto ha persino tirato fuori dalla sua borsetta un regalo per lui, un piccolo libro dalla copertina rigida, cosa che lui inizialmente ha molto apprezzato, nonostante riportasse sulla prima pagina una frase poetica scritta a penna da lei riguardante il loro rapporto. Quando si sono separati naturalmente lui ha subito gettato in un cestino dei rifiuti quel libro scottante, riproponendosi comunque di acquistarne al più presto una nuova copia, in modo da iniziarne la lettura quanto prima. Ma alla lunga si è purtroppo dimenticato sia dell’autore che del titolo, perciò in seguito ha sempre dovuto usare frasi e parole estremamente vaghe nel descriverne il contenuto, di fronte alla insidiosa insistenza di lei per conoscerne il suo parere.
            L’anno passato, al contrario, durante una breve passeggiata, loro due si sono fermati per curiosità presso una piccola libreria, ed hanno acquistato un sottile volume di poesie che si sono riproposti di leggere insieme qua e là ogni volta che si fossero visti. Anche in questo caso le cose alla lunga si sono mostrate noiose, anche se nessuno dei due ha fatto mai sospettare l’altro di provare, durante quella semplice attività in cui hanno finto di impegnarsi, persino un piccolo fastidio. Si sono conosciuti per caso, come sempre succede, in una pausa di lavoro nel corridoio aperto al pubblico degli uffici in cui lei svolge la sua attività. Si sono dati appuntamento per un caffè in un locale lì vicino, con la scusa di farsi spiegare meglio alcune pratiche di cui lui ha mostrato un vivo interesse, ed in seguito hanno preso a vedersi regolarmente. Lui si è sposato, dopo un lungo rapporto, dieci anni prima, ma con sua moglie le cose non sono mai andate bene, anche se neppure così male da decidere di affrontare un divorzio.
            Lei ha vissuto durante il passato diverse relazioni con uomini vari, ma nessuna di queste ha mai resistito più a lungo di quanto avrebbe voluto. In fondo però adesso le va bene così: non sente la necessità di legarsi più di tanto ad una persona, e vedersi clandestinamente con lui soltanto quando ne ha voglia, le pare un compromesso del tutto accettabile. Agli inizi il loro rapporto è stato quasi uno scherzo, una maniera come un’altra di provare un forte interesse per lasciar trascorrere meglio ogni giornata. Poi le cose dopo si sono fatte più intime, più intense, e la loro conoscenza reciproca molto più approfondita. Il proprio carattere però non è mai stato molto accomodante, ma in tutto questo tempo da quando lo frequenta le cose sotto questo profilo sono filate via lisce. Però adesso ne ha piene le tasche. Non sa neppure lei comprenderne bene il motivo, in ogni caso sa che è così e che non può andare più avanti la loro storia. “Forse è l’età che sento avanzare”, vorrebbe quasi dirgli. “Forse la noia di affrontare sempre le solite cose”. Comunque è in questo modo, pensa in questo preciso momento; soprattutto perché non posso certo essere diversa da come sono fatta; e poi anche in considerazione del semplice fatto che non ci vuole neanche molto per cambiare qualcosa di ciò che non va bene. In seguito, forse, avrò persino il tempo di pentirmene.

            Bruno Magnolfi

mercoledì 22 luglio 2020

Semplici opinioni.


           

            “Non preoccupatevi per me”, dico ogni tanto per avvertire gli altri quando sembrano agitati. “Sto bene; i movimenti che compio corrispondono davvero a quello che penso”. Certo, non si può pretendere molto di più da chi si tiene continuamente al margine di tutto ciò che accade, e che sembra costantemente defilarsi rispetto ad alcuni luoghi troppo frequentati durante il succedersi della giornata. Ma lo sanno tutti che non è colpa di nessuno se non credo alla volontà collettiva, al gesto generalizzato, all’insieme delle tante persone che si sperticano cercando di dare il proprio contributo ad un’idea che poi spesso nessuno di loro minimamente ha nella testa. Trovo debole la riflessione per cui si dice che l’insieme faccia la forza, o perlomeno credo si debba indagare meglio su ciò che tiene realmente incollati questi individui.
            Giro per strada quasi sempre a tarda ora, lungo direttrici un po’ fuori mano, fermandomi a bere un bicchierino soltanto in certi locali perlopiù deserti, dove a nessuno in genere viene mai a mente di chiederti qualcosa. Mi sento a posto, non ho bisogno di sposare una causa o di legarmi ad una cordata per sentirmi davvero utile. Ho un amico che non vedo e non sento da anni, però credo che vada bene così, nessuno di noi due sente la necessità di scambiarsi opinioni frivole oppure degli aggiornamenti su quello che rispettivamente ci accade nel corso di questo tempo imperturbabile. Esistono dei legami per i quali non ha alcuna importanza dare dimostrazione di sé ogni poco.
            Naturalmente non sono un individualista, uno che prosegue ad accentrare ogni riflessione possibile sopra di sé e con questo filtro osservi tutto il resto. Sono soltanto uno che se ne sta fuori dalla mischia, e crede che molti al contrario ci sguazzino all’interno soltanto perché non possiedono una propria personalità, ed è così che si fanno scudo di pensieri presi a prestito, andando avanti senza avere mai troppe cose proprie da dare a chi sta loro intorno. Per questo sono malvisto, e più tendo ad isolarmi più mi isolano. Eppure con superficialità tornano in tanti a chiedermi come mi vadano le cose, se stia davvero bene, se abbia deciso qualcosa per il mio futuro oppure no. “Tutto a posto”, dico senza astio. “Davvero, non ho bisogno di nulla”.
            Infine incontro questa tizia che parla con grande naturalezza della sua solitudine, e di come viva male il fatto di essere giudicata come una persona strana. “Mi pare non ci sia niente di cui preoccuparsi”, le fo. “Oggi tutti stanno assieme per sorreggersi l’un l’altro; avere dei sostegni propri è già una gran fortuna”. Lei mi guarda, sorride, probabilmente pensa cose diverse dalle mie, però le piace il mio modo di porre la questione. Decidiamo di entrare in un posto dove si beve birra senza impegno, così ci sediamo e lei inizia a raccontarmi qualcosa di sé, tanto per fare conoscenza. Dopo un attimo mi pare già una grande noia questa sfilza di fatti che srotola con calma. “Sai”, le fo tanto per interrompere le sue parole. “Credo che dovresti lavorare maggiormente sulla spontaneità; evitare modi risaputi, espressioni troppo usuali, spiegare tutto come si fosse dentro ad una videoconferenza”.  Lei adesso mi guarda con una smorfia un po’ da offesa, però non ribatte niente, lascia correre, forse soltanto sta pensando meglio a quello che le ho detto.
            Usciamo, adesso va trovata la maniera per salutarci senza essere esageratamente bruschi nel farlo, così le dico che posso fare la sua strada almeno per un pezzo, ma lei dice che ha la macchina e che possiamo separarci anche in questo preciso attimo. “Va bene”, le dico, “come vuoi; non vorrei averti deteriorato un’idea di me che ti eri fatta”. Lei ci pensa. “No, tutt’altro”, mi fa. “Anzi, ti ringrazio, quello che mi hai detto mi è molto utile, devo soltanto pensarci con più calma”. “Va bene”, fo io; allora ti aspetterò dentro la birreria una di queste prossime sere, tanto per sapere se le mie sciocchezze ti sono state utili davvero”.

            Bruno Magnolfi

lunedì 20 luglio 2020

Pura e vera.


         

            Nella perfezione; in null’altro sta la sola e più alta verità. Per questo lei si sente continuamente tormentata: le sue mani sono piccole per arrivare ogni volta dove vorrebbe la sua testa, ed il fatto di sentirsi incapace di riuscire a vedere le cose finite come il suo desiderio reclamerebbe, è un continuo motivo per lei di angoscia sottile. Quindi è persino inutile anche solo provare a compiere qualcosa che si sa già in partenza non potrà mai essere come si vuole. Tanto vale mettersi seduti e lasciare che tutto scivoli per proprio conto. Così sempre più spesso lei trascorre le sue giornate tormentandosi per ciò che non fa, eppure meditando continuamente che non può impegnarsi in niente di ciò che realmente vorrebbe, perché i risultati finali non potrebbero mai essere all’altezza dei suoi desideri. Suo marito le dice che per curare questo suo abbattimento, sarebbe quasi meglio si trovasse un’occupazione, un lavoretto qualsiasi, anche soltanto qualcosa che la impegnasse per una mezza giornata, visto che proprio non riesce a mandare avanti la loro casa, e così togliersi dalla mente una buona volta il pungolo di dedicarsi, come certe volte dice ancora che tanto desidererebbe, alle normali faccende domestiche.
            In realtà a suo marito pare impossibile che si possa cadere in una contraddizione del genere, però fa finta di credere che sia davvero come lei certe volte tenta di spiegargli, e si limita ad annuire quando lei chiarisce come vorrebbe davvero che fosse tutto ciò che la circonda. “Si deve fare un compromesso”, le dice qualche volta, ma lei si limita a guardarlo con quell’espressione sempre seria, corrucciata, di chi non vorrebbe mai affrontare la realtà per come questa si presenta. Certe volte in cui inizia a fare qualcosa, come per esempio spolverare il loro salotto, nel dedicarsi a ciò che realmente le suggerisce la mente va così a fondo per curare ogni dettaglio, da far trascorrere intere giornate nel solo tentativo di rendere perfetto persino un solo mobile, fino al punto di prendere coscienza che è del tutto impossibile andare avanti in questa maniera. Eppure tutti i suoi modi non lasciano spazio a maniere diverse di comportamento, in qualsiasi cosa lei intenda impegnarsi, per questo la soluzione finale e definitiva di agire, secondo la propria opinione, peraltro del tutto inattaccabile, è tornare ad essere assolutamente inerte.
            “La vita quotidiana non fa per me”, dice a volte rivolgendosi a suo marito ma guardando nel vuoto. Poi si trattiene, perché quando qualche volta per esempio si mette semplicemente ad osservare con attenzione la barba di lui, secondo il suo parere sempre esasperatamente mal rasata, sente montarle dentro di sé la voglia incombente di fargli subito una scenata. Alla stessa maniera le pare sempre imperfetto il modo che ha lui di vestirsi; oppure persino quei suoi gesti che adopra quando si mette a parlare, ed anche quei suoi stessi modi di fare, di camminare, di gesticolare, di muovere la bocca. Lei non dice niente, naturalmente, però si vede che soffre anche per questo. Per se stessa si sente così inadeguata nella sua persona, da imporsi di non uscire da casa per intere giornate, limitandosi a farlo solo al momento in cui appare del tutto indispensabile.
            Suo marito vorrebbe chiedere un parere ad uno psicologo, ma soltanto usare con sua moglie questa parola, fa scatenare in lei una chiusura comunicativa ancora più forte e duratura di qualsiasi altro fastidio si trovi a sopportare. Infine lei a questo proposito riesce soltanto a dire tra i denti: “non sono sbagliata; è tutto quello che mi circonda ad esserlo”. In altri casi poi, sostiene con suo marito che senz’altro la verità è purezza; la confusione, la mescolanza, il pressapochismo, sono risvolti di un mondo sbagliato che non cerca neanche più di soddisfare i veri bisogni che ha, ma lascia che tutto poco per volta si corrompa, dimenticando oramai di rifarsi a dei veri principi.

            Bruno Magnolfi   

sabato 18 luglio 2020

Inutile ridere.


       

            Soprattutto per educazione, ma anche proprio per formazione culturale, lui, quando si trova a parlare di qualcosa, lo fa sempre a nome di qualcun altro, mai esponendo direttamente il suo pensiero o la propria opinione. A volte si ritrova a citare alcuni scrittori ed intellettuali del passato, quelli che conoscono più o meno tutti, e generalmente sempre gli stessi, nel caso che gli argomenti in ballo naturalmente ne reclamino i precetti, quasi a mostrare così un percorso di riflessioni coerente con coloro che hanno orientato da sempre il pensiero generale, ma in particolare, e in speciale misura quando si ritrova nei corridoi lungo i quali svolge ogni giorno il proprio lavoro, dice con convinzione le medesime cose di cui normalmente parla il suo capo, il ragioniere Gianni Berletti, impiegato proprio come lui negli Uffici Amministrativi Comunali. Non c’è neppure una ragione precisa che lo spinga in qualche modo a comportarsi così, ma è come se le proprie opinioni, ammesso che davvero ne abbia qualcuna nella sua testa, non mostrassero alcuno spessore, tanto da fargli decidere una volta per tutte di prendere a prestito quelle di altri, e soprattutto quelle del suo superiore, oltre che, ma più raramente, quelle di sua moglie.
            Non ne fa neppure un segreto di questo comportamento volto a riaffermare le stesse cose dell’altro, tanto che agli inizi, quando era appena stato inserito tra le forze di quel settore dove si trova adesso a prestare la sua opera, giungendo da parecchi anni di lavoro come semplice usciere, al momento in cui era stato quasi ridicolizzato dai suoi nuovi colleghi per quel suo spudorato comportamento, lui aveva continuato, parlando già con le sue frasi praticamente copiate, a sorridere a tutti, come a mostrare che quei suoi strani modi erano parte integrante della sua natura, niente di particolarmente diverso. In seguito gli altri avevano cominciato a prendere l’abitudine a quella sua prassi, tanto da arrivare a non farci quasi più caso, ed anzi a richiedere a lui in modo piuttosto diretto, almeno da un certo punto in avanti, quali potessero essere i pareri, su una cosa o sull’altra, proprio del suo capo, il ragioniere Gianni Berletti.
            Inutile porgli delle domande precise su di sé, o cercare di farlo cadere in un qualche tranello: lui in qualsiasi caso non si scompone, dice sempre quello di cui ha già sentito parlare qualcun altro, oppure in mancanza di dati più certi, quello che verosimilmente potrebbe essere stato già detto dal suo capufficio. Il ragioniere Gianni Berletti naturalmente si limita a sorridere della situazione che si è creata poco per volta, non prendendo mai troppo sul serio questo inusuale comportamento, ma col tempo ha comunque iniziato a fargli sempre sapere, al suo sottoposto, esattamente quello che desidera sappiano tutti nel settore di sua competenza. Lui fa cenno di si con la testa, poi prende per il corridoio e va ad inserire la sua moneta nella macchinetta per sorbirsi un caffè, e a chiunque trovi in quei pressi confida esattamente quello che gli è stato detto, sena omettere né aggiungere niente.
            Giorni fa il ragioniere Gianni Berletti lo ha mandato a chiamare, lo ha fatto sedere davanti alla sua scrivania, gli ha sorriso come sempre, e poi gli ha chiesto su che cosa stesse lavorando in quella mattina. “Ripongo le cartelle in archivio per numero di pratica”, dice subito lui, “come mi avevate chiesto di fare già ieri”. “Bene”, fa il ragioniere, “ed allora cosa c’entra adesso andare in giro a dire che ti è stato assegnato un compito di grande importanza direttamente dal tuo capufficio? E’ un impegno qualsiasi, un lavoro che chiunque potrebbe fare, anche se nessuno si offre mai spontaneamente per farlo. Oggi lo fai tu, come adesso mi confermi, ma domani potrebbe toccare a chiunque, ed è inutile da parte degli altri cercare di riderci sopra”. “Va bene”, fa lui; “ho capito benissimo. Se qualche collega per caso desiderasse occuparsene, io non mi dovrò mai opporre”.

            Bruno Magnolfi

mercoledì 15 luglio 2020

Insolitamente.


         

            Mi sono vergognato, ecco tutto il punto della questione. Mi sono vergognato spesso di non essere riuscito ad avere fino ad oggi un’esistenza intensa ed interessante come avrei voluto da sempre, e come d’altronde sarebbe stato giusto che avessi, fin dagli inizi; ed anche di non essere stato capace, magari con un pizzico di fortuna in più, di portare a compimento tutte quelle iniziative che mi vanto di aver sempre avuto, durante tutto questo tempo. Non è però vergogna nei confronti degli altri, o di chi mi conosce. E’ un dispiacere che reputo tutto mio, visto che non ho mai cercato la fama o il successo. Questione di personalità, cosa che non ho mai coltivato in maniera adeguata, molto probabilmente. Difatti, tutto quello di cui oggi torno ad occuparmi con più assiduità, è soltanto ciò che fa parte dei miei interessi privati, niente che possa attirare altri appetiti, nulla che in qualche modo riguardi altra gente, altre persone, differenti individui. Tutto nasce e muore dentro di me, senza tentativi di coinvolgimento di amici o di conoscenti.
            Perciò oggi reputo strano, forse proprio perché del tutto lontano da ogni mia abitudine, questo improvviso interesse di molti per la mia persona: gente che mi ferma per strada, altri che mi salutano senza che io ricordi di averli mai visti, altri ancora che mi cercano tramite messaggi postali o telefonici, complimentandosi spesso per qualcosa di cui neppure ricordo di essermi mai occupato, tanto che spesso ho dovuto considerare, in mezzo alla mia meraviglia, la possibilità effettiva per uno scambio di persona piuttosto evidente, forse una somiglianza con chissà chi, magari un sosia, nelle fattezze o nei gesti, forse persino nel nome, capace di prestarmi una notorietà peraltro ingiustificata. “Ma no”, mi ha invece detto qualcuno per strada ridendo; “è proprio lei: esattamente quello di cui sappiamo il valore, e del quale ci onoriamo di essere semplici concittadini”.   
            Perciò ho lasciato perdere qualsiasi dubbio rimasto, anche perché sarei apparso fuori di senno, e pur continuando a svolgere la mia vita di sempre, ho acconsentito al fatto che queste benedette persone proseguissero ad ammirare nella mia soggettività qualcosa che stento parecchio nel riconoscere io stesso. Niente di male, ho riflettuto, se qualcuno si è accorto alla fine che dentro di me soggiorna una vera persona. Purtroppo però ci si abitua in fretta a certe novità, e quanto è iniziato ad accadere non è stato, come avrei potuto pensare, del tutto privo di inconvenienti. Ho iniziato a riflettere maggiormente sulle iniziative di cui mi stavo occupando, ponendomi continuamente il dubbio che queste fossero davvero all’altezza di quanto tutti si sarebbero attesi da me, fino ad interrogarmi se non fosse il caso di lasciar perdere alcune cose. Brevemente è intervenuta così una paralisi quasi completa nell'occuparmi dei miei interessi, tanto da indurmi a restare immobile per la maggior parte della giornata, piuttosto che combinare dei guai.
Mi sento triste adesso, fermo come sono, nell'attesa di non so neppure io cosa, e quando iniziano a girarmi delle idee dentro la testa, immediatamente i dubbi che in modo inevitabile arrivano subito dopo, paiono subito aggredirle, tanto da lasciarmi spossato e privo della volontà di decidermi a smuovere almeno qualcosa. Continuo a ricevere complimenti e congratulazioni, specialmente via posta, al punto che sono quasi sommerso dai messaggi di una messe di sconosciuti entusiasti per aver avuto in qualche maniera la possibilità di farsi vivi con una persona della mia specie, tanto che da ogni parte proseguono a dirsi addirittura onorati di potermi così contattare. Naturalmente non ho mai risposto a nessuno, almeno fino adesso, forse anche per timidezza; ma da qualche giorno ho iniziato persino a pensare che forse è proprio questo che mi rende così particolare agli occhi di molti; un individuo insolito, magari un po’ strano, però indubbiamente diverso da tutti.   

Bruno Magnolfi

domenica 12 luglio 2020

Ancora una cosa.


       

            “Mi sento come esaurita”, dice lei alla dottoressa mentre resta seduta ed immobile, con lo sguardo basso. Non ha compreso neppure lei stessa il motivo per cui è voluta venire proprio oggi in questo antipatico ambulatorio a raccontare una cosa del genere ad una persona a suo parere capace soltanto di prescrivere farmaci contro il dolore oppure qualche antibiotico, ed il fatto adesso di non guardarla neppure negli occhi la salva comunque dal fatto che questa donna che ha di fronte sia davvero un medico, in quanto secondo lei potrebbe forse sedersi chiunque oltre questa chiara ed anonima scrivania, chiunque abbia una minima volontà per mettersi ad ascoltare una persona da sola con parecchi problemi da risolvere. Perché più che di farsi dare un’opinione su questi suoi malesseri, lei adesso ha soltanto voglia di spiegare a qualcuno che non sta bene, che certe volte si sente perduta, che non prova nessuna speranza per il futuro, e che è vuota di ogni volontà. 
            E’ una donna di poche parole peraltro, per cui strascica un po’ quella prima frase che le è giunta alla mente, senza muovere alcun altro muscolo, e poi un attimo dopo si acquieta, ancora senza alzare lo sguardo, forse nell’attesa che la dottoressa la sproni chiedendole qualcosa di più. Generalmente comunque non le piacciono molto le domande dirette, ed anche quando qualche volta arriva fino al solito circolo associativo delle donne, in una stradina poco lontano da casa sua, a coloro che salutandola le chiedono come stia in quel periodo, risponde quasi sempre a voce bassa che si sente benissimo, proprio per non alimentare ulteriori domande. In questo caso comprende benissimo che la dottoressa che ha di fronte desidera senz’altro conoscere meglio quanto si è decisa a venirle a spifferare su di sé, ma probabilmente, nella comprensione medica del suo disagio, adesso attende con semplicità che sia lei a parlarne, come di propria spontanea volontà.
            Trascorrono così un paio di minuti di completo silenzio, l’altra si annota qualcosa su di un taccuino sopra al piano della scrivania, lei aspetta che da dentro le venga qualche frase da dire, così come certe volte si sta a bocca aperta sopra ad un secchio, nell’attesa impellente dell’urto di vomito. Quindi solleva lo sguardo un momento, e poi: “ho soltanto voglia di dormire”, le dice, come se una rivelazione del genere si mostrasse esaustiva rispetto ad ogni altro argomento. Magari potrebbe spiegarle da quanto tempo va avanti questa cosa, oppure se c’è qualche elemento durante la giornata che le scatena più di altro queste sue sofferenze, o addirittura se ha cercato negli ultimi tempi di fare qualcosa per cercare di scrollarsi di dosso questo suo stato, ma adesso sembra aver d’improvviso ritrovato il silenzio come miglior disposizione ad ogni altra evenienza.
            Nel corridoio, davanti alla porta chiusa della piccola stanza in cui loro due si trovano adesso, qualcuno passando sembra parlare con voce spigliata, sicuro di sé, forse convinto di non dare fastidio a nessuno. Lei aggiusta qualcosa nella sua borsa che tiene sopra le gambe, getta una semplice occhiata sul piano dello scrittoio dove la dottoressa prosegue a scrivere le sue annotazioni, infine si alza con una certa lentezza da quella sedia, come per andarsene e riprendere con sé tutti quegli argomenti che le pare di aver snocciolato completamente di fronte a quell’altra. “Aspetti”, dice dopo un attimo il medico, come risvegliata all’improvviso da quel suo gesto. Lei però sistema la sedia, controlla ancora qualcosa all’interno della sua borsa, forse le chiavi, il borsello, gli oggetti usuali ch porta sempre con sé; poi compie mezzo passo verso la porta, ed alla fine appoggia la sua mano calda sulla maniglia, come se non avesse nemmeno sentito quanto le ha chiesto la sua dottoressa. Finalmente, quasi con titubanza, si gira di tre quarti verso quella che col suo camice bianco adesso si è messa in piedi, e la sta osservando forse con curiosità da dietro la sua scrivania. “Perché”, le fa; “deve forse dirmi qualcos’altro?”.

            Bruno Magnolfi  

martedì 7 luglio 2020

Direzione definita.


        

            Le mie mani tremano mentre osservo il mio amico assopito in un letto d’ospedale, con le macchine perennemente in azione a prolungarne il corpo in molte delle proprie funzioni, ed io, al di qua di una vetrata a tenuta d’aria che mi permette solamente una vista fredda e distante da lui, mentre cerco di immedesimarmi nelle sue condizioni e di provare il senso di quanto realmente gli sta succedendo, riesco soltanto a provare con forza la sensazione della paura, anche se non sono capace di immaginare bene neppure di cosa. L’aria sembra ferma attorno a me, ed anche il tempo pare abbia subito un forte rallentamento; le luci vibrano leggermente nel perenne gioco artificiale di gettare il loro sguardo proprio su tutto, tra i letti, i corpi, i mobili, le attrezzature, fin nei minimi angoli maggiormente remoti di queste stanze, ed i sanitari percorrono il largo corridoio accanto a questo mio premuroso non ingombrarli, camminando in completo silenzio, quasi scivolando sui pavimenti, pur carichi delle loro professionalità indiscutibili.  
            Magari poter davvero essere utili, riuscire a mostrarsi precisi, puntuali, capaci, almeno con la domanda giusta in testa da porre adesso al medico di turno, oppure all’infermiera che si occupa costantemente di lui, in modo da comprendere meglio tutto ciò che succede, e rendere ogni dettaglio inseribile in un contesto più chiaro e già collaudato in mezzo ai molti pensieri. Invece che proseguire a starsene qui come sciocche comparse di una pellicola scialba, le mani dentro le mani, lo sguardo perennemente alla ricerca di qualcosa su cui soffermarsi, senza alcuna possibile azione, neanche una qualsiasi, privi di scelte che non siano già state fatte, e di possibilità differenti all’inerzia. Tanto vale andarsene, penso. Eppure resto, perché sono queste mie mani tremanti alla fine che mostrano il mio stato d’animo, pur nude e capaci soltanto di sfiorare questa cornice d’alluminio che sembra immortalare in un’unica immagine la condizione umana, tutta quanta.
            I ricordi, le risate, le tante giornate trascorse senza alcun dettaglio, e poi invece le frasi azzeccate, il gesto memorabile, la parola più adatta; un insieme di tante piccole cose gettate adesso come alla rinfusa dentro una di queste sacche di plasma, oppure in mezzo alle gocce di viva sostanza che tengono in piedi ogni funzione, assieme al respiro cadenzato provocato da un mantice plastico, puramente meccanico, privo di qualsiasi umanità eppure essenziale, come tutto del resto. La massa dei tanti pensieri si riduce alla fine ad un pugno di pochi elementi, e ad un esile filo che li tiene legati tra loro, e poi la pesantezza insopportabile che preme proprio sul cuore, immaginando semplicemente la possibilità di poter essere stato diverso, almeno in questi ultimi tempi: più vicino, più attento, forse più disponibile, come se questo da solo riuscisse a cambiare qualcosa del risultato.
            Lo sguardo gettato attorno, mentre si distillano lunghi minuti, pare un faro che in un attimo illumini debolmente lo spazio ma senza vedere, come incapace di rendersi conto davvero di ciò che il cammino lascia talvolta lungo la strada, quasi vergognandosi adesso delle ore piacevoli, divertenti, incantate, trascorse senza bisogno di niente, di altro, se non di quelle personalità ormai cambiate per sempre, in contrasto al dolore, alla sofferenza, al dispiacere. Nulla, amico mio, dico soprattutto a me stesso, non posso nutrire rimpianti di fronte alla tua battaglia in atto in questo momento; soltanto sostenerla idealmente, accoglierla dentro di me come mia, nella sicurezza che niente sarà mai tanto diverso qualsiasi risultato si ponga dopo questa prova tremenda. Rimarremo gli stessi difatti, lo so, ne sono certo, perché un inciampo durante la via è sempre previsto, ma non può in nessuna maniera riuscire a cambiarci davvero la direzione.

            Bruno Magnolfi     

sabato 4 luglio 2020

Analisi dei sintomi.


           

            Da qualche tempo lei non si sente bene, ormai è chiaro. “Ho l’espressione stanca” dice mentre si trova nel bagno di casa davanti allo specchio; “probabilmente avrei bisogno di vitamine”. Suo marito naturalmente non si è accorto di nulla, lei è pienamente consapevole da sempre della superficialità di quest’uomo, e sa benissimo che in merito ad ogni difficoltà della sua consorte è come se si trovasse di fronte qualcosa che non rientra minimamente nel campo dei suoi interessi, tanto che se lei gli facesse notare proprio adesso questo suo aspetto poco promettente, è sicuro che come ogni volta lui si limiterebbe ad alzare le spalle, quasi per sostenere che non si intende di cose del genere, e che quindi è meglio se cercasse di sbrigarsela assolutamente da sé. “Provo stanchezza per qualsiasi piccola cosa abbia in mente di fare”, dice ancora lei mentre si trova in casa da sola; “e non possono essere certo un paio di chili di troppo a fare davvero la differenza”.
            Avverte qualche volta un preciso dolore alla schiena, nel momento in cui decide di sedersi a guardare in pace la televisione, e quando prova a rialzarsi dopo aver seguito la puntata del suo programma pomeridiano preferito, ecco che quel piccolo segnale torna rinforzato, riducendola per due o tre minuti a muoversi lentamente ed a rimettersi in piedi soltanto per gradi. Se a questo si aggiunge che le gambe a volte sembrano non reggerla più volentieri, tanto da spingerla ad appoggiarsi continuamente al corrimano quando scende le scale che portano dal suo appartamento fino alla strada, e che quando esce da casa chiudendo il portone condominiale le pare, almeno per qualche momento, che l’aria libera della via e la stessa luce del giorno le facessero girare la testa, non sembra proprio mancare più nulla tra quei tormenti che sembrano alla base del suo nervosismo.
            Così decide di aprire il cassettone dove tiene la serie completa dei suoi medicinali, e si mette a guardare con estrema attenzione tutte le istruzioni e le controindicazioni riportate in scrittura minuta sopra le piccole scatole e nei bugiardini delle confezioni. Però più affonda gli occhi nella lettura e più tutti i suoi sintomi sembrano in mezzo a quelle parole scientifiche amplificarsi, fino a dimostrare con limpida chiarezza che lei avrà bisogno prestissimo di un bravo dottore che se ne intenda, uno di quelli a cui in genere si affida la massima fiducia. “Certo”, riflette con convinzione; “uno specialista, ecco che cosa mi ci vuole; un professore di larga fama che prenda in mano il mio caso e riesca a guidarmi attraverso un percorso terapeutico personalizzato”.
            Poi rimette a posto ogni cosa, e quando va per sedersi davanti alla televisione cercando di rilassarsi un momento, le pare che tutti i sintomi di cui ha letto qualcosa in mezzo a quelle frasi complesse e zeppe di parole per lo più incomprensibili, si siano radunati improvvisamente in un unico povero corpo instabile e dolorante: il suo. Attende in questo modo con estrema impazienza il ritorno a casa di suo marito, cercando dentro di sé le frasi migliori per comunicargli il fatto che lei dovrà essere ricoverata al più presto in una clinica adatta, e curata a lungo e al più presto per tutti quei mali che la stanno affliggendo. Ma i minuti sono lunghi certe volte, e va ad iniziare proprio in quel momento il suo programma preferito, tanto che lei inizia a seguirlo, quasi dimenticando improvvisamente tutte le sue sofferenze. Quando rientra suo marito, prima che lei apra bocca, le dice subito di sentirsi la febbre, e che forse è il caso di stare distanti e chiamare subito il numero delle emergenze epidemiche. Lei ovviamente resta sorpresa, senza parole, e le pare in un attimo che il mondo stia quasi sprofondando sotto ai suoi piedi, tanto che quando si alza di scatto per andare rapidamente a comporre il numero telefonico, non avverte più, nei movimenti che compie, alcun dolore tra quelli a lei ben noti, proprio come se non si fossero mai fatti sentire.

            Bruno Magnolfi

mercoledì 1 luglio 2020

Forse va bene così.


         

            Va bene, non ci sono problemi, faccio esattamente quello che mi dite di fare, così non c’è la possibilità di sbagliarsi. Eppure, se ci penso un po’ meglio, qualcosa non mi torna. Perché mai dovrei assomigliare a qualcuno di vostra conoscenza, agire come un individuo quasi senza personalità, e poi fingere di essere contento di come vanno le cose? Guido senza fretta lungo una strada che dovrebbe portarmi proprio lì, nel locale dove si svolge il solito raduno, uno di quelli dove si possono trovare solo degli amici sorridenti, e dove tutti sicuramente mostreranno all’esagerazione di essere contenti di esserci e di ritrovare le vecchie conoscenze, e anche altre cose del genere. Non sono il tipo per frequentare queste baracconate, però mi hanno spiegato che è proprio questo il mio problema: starmene troppo isolato, e fare della riservatezza un valore quasi assoluto.
            Va bene, dico allora a qualcuno sul mio diario elettronico, ci sarò, se è quello che mi consigliate di fare, e mi metterò in bella mostra, magari con un cappello elegante, tanto da far chiedere a qualcuno in sala dietro di me, chi sia mai questo tizio che sembra quasi essere uno dei grandi. Sorrido mentre proseguo a guidare, perché non è timidezza la mia, ma proprio incredulità sul buon fine di una pubblicità così spudorata. Mettere in mostra se stessi sperando che questo porti al proprio ego ed alla propria immagine un beneficio assoluto. Non sono convinto, però sono curioso, e questo aspetto è forse quello che mi caratterizza di più. In fondo tutti al giorno d’oggi mettono in mostra se stessi, sperando di ottenere in qualche maniera una controparte apprezzabile che lasci alle spalle rapidamente qualsiasi compromesso o sacrificio.
            Va bene, proseguo a dire, però c’è anche in ballo una questione d’onore, con cui si può tenere fede ai propri ideali, ed una di coerenza personale che ovviamente deriva da quella. Accosto con la macchina al margine della strada per riflettere meglio su questo aspetto, ma sono sicuro che qualcosa mi sfugga, tipo essere dichiarato pubblicamente poco furbo e soprattutto imbambolato su degli aspetti ormai fuori moda. Ascolto alla radio un notiziario lontano e antipatico, così prendo un foglietto e una penna e mi annoto: Sveglio o Imbecille, quasi come fosse il sunto più significativo e divertente di tutto un ragionamento che adesso però vorrei quasi spazzare via come si fa con il fumo di una candela nell’aria. Poi riprendo a guidare, non c’è molta strada fino al Punto di Raccolta, come lo chiamo io, e la preoccupazione di tutti coloro che saranno presenti naturalmente sarà trovare alla svelta un parcheggio il più vicino possibile.
            Va bene, confesso a voce alta; ho sempre sbagliato ad esprimermi nel modo come mi pareva più adatto alla mia personalità, anche se questa pare adesso soltanto una spudorata ironia; però non ho neppure richiesto di avere un seguito, o che a qualcuno piacesse il mio modo di affrontare le cose, e poi addirittura guadagnarmi una piccola fama, che per qualcuno appare direi fondamentale, è soltanto una cosa che se mai succedesse provocherebbe in me solamente un profondo disagio. Perciò vado avanti, ma quasi per inerzia sostanziale, riflettendo in questo preciso momento che oramai quel che deve accadere è bene che accada. Guido svogliatamente quasi fino al posto dove sono diretto, il mio navigatore lo segnala già nell’angolo in alto; poi provo una specie di attacco di panico: non posso scendere così a compromessi con tutti, anche se della mia integrità non interessa a nessuno. Continuo a percorrere la strada, supero allegramente il segnalino di arrivo e me ne vado, senza che nessuno mi abbia notato. Non va bene, dico in questo esatto momento a me stesso, mentre mi allontano: anche se nel profondo di me sono convinto che vada benissimo.

            Bruno Magnolfi