martedì 29 dicembre 2009

Un fratello distante.



Mio padre aveva voluto uscire con me quel mattino, senza stare a spiegarmi per quale motivo o dove si andasse. Aveva preso una delle due macchine piccole dal nostro garage, una che lui definiva per la città, ma solo perché la sua, quella grande, doveva passare un controllo. A lui piaceva guidare, anche se normalmente si lasciava portare in giro dal suo autista rimanendo seduto sul sedile di dietro e limitandosi a telefonare e a prendere appunti. Però quasi ogni giorno, invece di farsi venire a prendere, ci teneva a guidare la sua auto almeno da casa fino alla fabbrica, e viceversa a fine giornata. Dal momento che varcava il cancello della sua fabbrica la macchina era in mano all’autista, ma fino a lì voleva sentirsi uno come gli altri, senza alcun privilegio. Era sabato, e dapprima facemmo un giro lungo i viali, la radio in sottofondo per i notiziari; poi mio padre parcheggiò al bordo di un grande giardino comunale. La passeggiata sembrava calma e tranquilla, quasi innaturale in confronto alla fretta costante che lui aveva sempre. Rimaneva in silenzio, anche se io mi aspettavo da un momento all’altro che iniziasse una delle sue solite prediche. A me dispiaceva deluderlo nelle cose che normalmente facevo, ma lo trovavo così diverso da me che il pensare le mie cose in modo alternativo alle sue mi veniva spontaneo. Argomento difficile da spiegare, base corrente di ogni discussione in famiglia, così quando mi chiese se fossi contento dei miei risultati scolastici e dei miei rapporti sociali con i compagni, e con gli amici e i parenti, dissi subito di no, quasi di getto. Immaginai che mi avesse osservato qualche volta, che si fosse accorto di un mio disagio, e mi sentii geloso dei miei comportamenti. Così rettificai, per paura di dover entrare in qualche dettaglio, spiegando meglio che mi riferivo solo a piccole cose e che in fondo tutto andava bene e che non avevo problemi. Mio padre continuava a camminare in silenzio con lo sguardo in avanti. Lungo il vialetto tra gli alberi la ghiaia rumoreggiava in modo allegro e simpatico sotto alle nostre scarpe, e i nostri passi apparivano cadenzati in modo divertente, quasi ridicolo. “Tuo fratello dice che quando c’è lui, tu sei a disagio, ti innervosisci, dici scempiaggini”. Rimanevo in silenzio. Tra di me cercavo le parole per affrontare quell’argomento che sinceramente non mi aspettavo, ma in fondo a me avevo solo voglia di fare una bella corsa tra gli alberi e perdermi fino a non avere più fiato. Certo; adesso era chiaro tutto quel comportamento insolito della passeggiata ed il resto. Il vero grande elemento centrale della nostra famiglia, il centro di ogni discussione e ogni pensiero: mio fratello minore, il preferito di mio padre. Sapevo già in partenza che avrei dovuto promettere qualcosa, ed ero pronto a farlo, bastava terminare in fretta quella cosa ridicola. Così dissi che sarei stato più attento con mio fratello, lo avrei considerato di più, e cose del genere. Suonò fortunatamente il telefono a mio padre, e lui si allontanò di qualche passo per parlare di affari e di lavoro con tutta la calma di cui aveva bisogno. A me scappava da ridere, forse per la tensione, e avrei voluto tornarmene a casa il più velocemente possibile. Ma qualcosa aveva irritato mio padre, lo intuii dal modo con cui volle riaffrontare con me l’argomento rimasto in sospeso. Non alzò affatto la voce, ma a me parve che urlasse, e scoprii di tremare leggermente per l’agitazione. Tutto culminò sul fatto che avrei dovuto funzionare da guida per mio fratello, non fargli nascere strane idee su di me, e quei cinque anni che ci separavano avrebbero dovuto darmi una spinta ad essere meno infantile, più accorto, maturo, in una parola un vero fratello maggiore. Dissi sottovoce di sì tutte le volte che mi era richiesto, poi, a passo più veloce di quando eravamo arrivati al giardino, ritornammo verso la macchina. Arrivarono altre telefonate, e per tutto il tempo fino ad arrivare alla villa, mio padre si occupò delle sue cose. Il resto della giornata scorse come in un film visto più volte, e non accadde niente, se non nella mia testa. In fondo al giardino della nostra casa c’era un muro basso; mi sarei alzato dal letto a notte fonda, mi sarei vestito in silenzio ed avrei sceso le scale fino al piano terra; avrei raggiunto il frigorifero in cucina ed avrei riempito il mio zainetto con qualcosa da mangiare, poi avrei aperto lentamente il finestrone del giardino e sarei uscito fuori. Il muro non era un problema, bastava arrampicarsi fino in cima e lasciarsi andare di là, senza problemi. Poi sarei andato alla stazione ferroviaria e con i soldi che avevo risparmiato mi sarei comprato un biglietto per salire sul primo treno. Più tardi fu l’ora di andare a letto esattamente come ogni sera, quasi alla medesima ora, ma dentro di me sentivo un ribollire di sensazioni. Finsi di avere la concentrazione per leggere qualche pagina di un libro di avventure che avevo iniziato qualche giorno prima, poi lo riposi sulla mensola accanto al mio letto e spensi la luce come per dormire. Dalla finestra chiusa filtrava una debole luce che diveniva più forte mentre i miei occhi si abituavano al buio della mia camera, e mi girai nel letto parecchie volte cercando posizioni più comode. Poi tutto sembrò stabilizzarsi, e il tepore delle lenzuola parve perfettamente in simbiosi con il mio corpo. Ad occhi aperti intravedevo la forma di tutta la stanza, e ciò che non riuscivo a vedere lo ricostruivo mentalmente con facilità. Immaginai il buio e il freddo di fuori e questo starmene sdraiato nel silenzio e nell’immobilità mi parve il massimo del confortevole. Non mi accorsi quando mi addormentai, ma sicuramente avvenne in modo così dolce e così naturale che il resto mi parve lontano, quasi qualcosa di estraneo.

Bruno Magnolfi


domenica 27 dicembre 2009

L'acqua che cambia.

          

            La signora Maria era uscita di casa per andare a prendere l’autobus. Andava a far visita a sua sorella, dall’altra parte della città, come da parecchio tempo faceva almeno una volta alla settimana. I figli della signora Maria erano grandi, suo marito sempre fuori al lavoro, lei poteva permettersi quei piccoli svaghi. Le piaceva attraversare la città sui mezzi pubblici, osservare la gente che saliva e scendeva dalle porte automatiche, guardare le case, i viali, le auto che correvano fuori da quei finestrini, lasciandosi dietro la solitudine, la tristezza dei giorni monotoni, il grigiore di anni in cui non si sentiva più molto utile. Quella linea di tram che prendeva, passava anche davanti alla stazione dei treni, con il suo flusso caotico di persone che correva da una parte a quell’altra,  poi proseguiva verso il quartiere dove abitava sua sorella, già vedova, di quattro anni più grande di lei. La città correva via dai finestrini quel giorno, forse più in fretta che qualsiasi altra volta, e la signora Maria era incantata dietro ai colori, alle forme, ai profili delle cose che le passavano sulla superficie degli occhi senza lasciarle una traccia, un dubbio, un sospetto qualsiasi, e quando si riscosse da quel leggero torpore, si rese subito conto che la strada dove avrebbe dovuto discendere, era passata. Se ne accorse quando ormai era tardi, la casa di sua sorella era già persa oltre le spalle, ma senza perdersi d’animo, poco male, pensò: così decise di rimanere seduta ad aspettare che l’autobus arrivasse al capolinea, e tornare poi indietro quando ripassava al contrario per le medesime strade. Ma poi accadde qualcosa che inizialmente non seppe spiegarsi: la gente dentro a quel tram era ormai poca, e la signora Maria ad una fermata qualsiasi si alzò dal sedile e scese dall’autobus, senza un motivo preciso, soltanto perché all’improvviso sentiva dentro a se stessa di avere la libertà di una scelta del genere. Sul marciapiede guardò attorno a sé senza riconoscere bene neppure dove fosse arrivata, e infine si incamminò lentamente verso un giardino lì accanto, dove si vedevano delle panchine. Si fermò, si mise ad osservare una piccola fontana che gettava dell’acqua in una vasca rotonda, dentro a un’aiuola, senza riuscire ad avere pensieri coerenti, che non fossero quell’incanto che improvvisamente provava per qualcosa anche di così scioccamente comune, ma che per lei era come non avesse mai visto. Poi si accorse che un uomo vicino la stava osservando, e lei con gesti veloci cercò di sistemarsi meglio il vestito, di posizionare per bene al braccio la borsa, di allontanare da sé l’interesse di quella persona. Ma quello le si fece ancora più vicino, sempre scrutandola con un leggero sorriso rassicurante, giusto per dirle: “…scusi se la guardo, non si preoccupi, non c’è niente che sia fuori posto…”. La signora Maria si sentì colta nel vivo, le parve impossibile che i suoi piccoli disagi fossero evidenti in quella misura. Si mosse di qualche passo da lì, pensò in un lampo tutte le cose possibili, sentì nelle orecchie il rumore dolce dell’acqua della fontana, e le parve che quell’acqua trascinasse con sé i suoi pensieri. Intanto quell’uomo, così estraneo alla sua vita, quella persona qualsiasi, incontrata per caso, per nulla vicino alle sue cose, si era già disinteressato di lei, e si era seduto su una panchina aprendo un giornale, accendendo una sigaretta, eliminandola dal suo campo visivo. La signora Maria si avvicinò a lui a sua volta, si fermò davanti al suo giornale spiegato, e senza una ragione precisa gli disse: “No; non ho niente che non debba andare, non mi preoccupo; sono una persona come tutte le altre, non ho niente di minimamente diverso: forse ho solo smarrito qualcosa, però adesso la devo cercare, immaginavo fosse qui già arrivando, da qualche parte, in mezzo a questi oggetti usuali, ed adesso ne sono sicura, così come son certa che presto, molto presto, la troverò”.

            Bruno Magnolfi
  

venerdì 25 dicembre 2009

Un sogno blu elettrico.

  

Ho chiuso gli occhi ed ho visto delle forme di colore blu elettrico danzarmi davanti. Poi, lentamente, si è come alzato un sipario, e le immagini sono tornate ad essere grigie come sempre in quel mio teatrino personale. I miei sogni non rispettano un ordine, un bisogno, una volontà, vanno e vengono senza una logica, certe volte sono semplici sprazzi di qualcosa che mi è incomprensibile, altre volte logici e chiari nel loro essere storia compiuta. Resto qui, in questa specie di confine mentale, quasi un esilio. Rimango in casa, le finestre oscurate, e non mi interesso di quello che succede là fuori; anzi, quando ci penso, immagino sempre che piova, e che girare per strada con ombrelli e impermeabili sia tra le cose più sgradevoli e uggiose. Nessuno mi cerca, e questo è un aspetto meraviglioso di libertà vera nei confronti degli altri; io giro per casa con una giacca da camera sopra le spalle, e lascio che il legno dei pavimenti del mio grande appartamento in cui vivo da solo con un cameriere ormai anziano che si prende cura di me, scricchioli sotto ai miei piedi mentre passeggio da una stanza all’altra.
Poi vado nel salone che funge anche da biblioteca, come aveva voluto mio padre, e prendo un libro, lo apro, e lo vado a leggere seduto su una comoda vecchia poltrona di cuoio. Vado avanti così, mesi su mesi che sfuggono via, muovendomi tra lampade basse che rischiarano gli angoli delle mie stanze, nuotando immerso nel silenzio di casa, mosso da mille pensieri scombinati e incoerenti che mi attraversano continuamente la testa. Vado avanti così, e nei libri che leggo e che certe volte rileggo di nuovo, trovo tutta la linfa vitale che serve, tutta l’energia di cui ho bisogno. Poi torno a chiudere gli occhi e i miei sogni riempiono velocemente ogni spazio, coinvolgendo tutta la mente con immagini e fatti che non ho mai vissuto, e nei quali la mia fantasia svolazza tranquilla, a suo agio nel suo naturale elemento. Non mi interessa sapere di essere il prototipo dell’isolato sociale; non mi riguarda riconoscere che la mia delusione del mondo abbia annullato i miei rapporti con gli altri. Il dottore, quando mi visita, cerca spesso di parlarmi di cose che restano soltanto parole, e non apportano effetti. Soltanto così come sono riesco a sopportare la vita, soltanto vagando tra queste stanze e le mie fantasie so di essere vero, di sentirmi me stesso, anche se questa è una rinuncia a ciò che per altri è un valore.
Il mio cameriere parla con me solo delle cose essenziali, poi sparisce in cucina o nelle sue stanze: lui mi rispetta ed io rispetto il suo silenzioso lavoro, come peraltro faceva mio padre. Ma stasera l’ho scoperto mentre bofonchiava qualcosa tra sé, convinto di essere solo. Diceva: “quel vecchio pazzo…”, riferendosi a me; e poi: “quando c’era suo padre, era tutto diverso; quello era un uomo…”, e cose del genere. Così l’ho aspettato dietro a una porta, e quando è passato gli ho stretto al collo, da dietro, la fascia della mia giacca da camera. Lui si è ribellato, ha dato numerose pedate nell’aria davanti, ha cercato di liberarsi dalla stretta che gli toglieva il respiro, ha tentato di divincolarsi in ogni maniera, fino a che ha dovuto cedere alla mia determinazione e alla mia forza. Quando l’ho lasciato l’ho fatto per un moto di disprezzo improvviso per la sua persona; lui è caduto per terra, si è rotolato sopra di sé, ha tossito per molti minuti e lentamente ha ripreso le forze; quindi, senza aggiungere niente, ha preso la sua poca roba e se n’è andato. Io ho passeggiato a lungo dentro la casa, e ho lasciato scricchiolare più volte quel legno dei pavimenti sotto ai miei passi. Infine la spossatezza mi ha preso, così sono andato a sedermi sopra alla mia solita poltrona di cuoio e ho preso sonno in pochi minuti: sono tornate le solite forme di colore blu elettrico davanti ai miei occhi e tutto mi è parso riprendere l’andamento di sempre, la mia vita d’ombra, la mia realtà incomprensibile a tutti, tutto ciò che ho voluto da sempre, come un sollievo per la mia anima vuota.

Bruno Magnolfi
   

lunedì 21 dicembre 2009

Glia amanti della fine del Giorno (seconda parte).



La casa sul lago appariva immobile, solo leggermente tremolante nei suoi contorni dentro al riflesso dell’acqua. Da lontano pareva appoggiata proprio alla fine della collina sovrastante, dentro ad uno spiazzo orizzontale inventato dalla natura proprio per lei, come a lasciare un luogo di vedetta da cui ammirare quella natura. L’ultimo tratto di strada era tutto malandato e sconnesso, ma quando si riusciva a fermarsi e a spegnere il motore dell’auto sul piccolo piazzale dietro alla casa di selce, immediatamente arrivava un silenzio e una pace che giustificavano qualsiasi sacrificio per arrivare fin lì. Il bosco attorno allo spiazzo che racchiudeva la casa era tutto costituito da alberi adulti, giganteschi con quei tronchi spesso diritti, su verso il cielo, a troneggiare sul tetto, la loggia di fianco, la grande terrazza appoggiata sull’acqua, quasi a rimpicciolire i contorni di tutto ciò che costituiva quella abitazione isolata, frutto di una scommessa col mondo: restarsene separata da tutto.
Pensare di dare una festa, o attirare persone fin lì senza una motivazione precisa superiore ai comportamenti mondani, era impensabile: troppo lontano da tutto, quel luogo, troppo isolato, forse troppo romantico se non per stare due o tre giorni nel silenzio completo a leggere libri, a parlare sottovoce, a gustare un silenzio irreale. Si erano ritrovati in diversi quel giorno, consapevoli di quello che avrebbero scoperto arrivando alla casa, tutti ragazze e ragazzi, uomini e donne, conoscenti ed amici, in tutto dieci persone, che avevano preso in affitto quel posto per riunirsi in un modo un po’ insolito, e restarsene lontani da ogni altra cosa forse per indagare entro se stessi, allontanare dalla mente la noia borghese di sempre, e lasciare che il pensiero assumesse una forma diversa, qualcosa che desse la misura negativa della evanescente quotidianità.
Avevano preso una sedia ciascuno, senza neanche suggerirselo a vicenda, e si erano piazzati sopra la grande terrazza, quasi senza parlare, solo assumendo punti di vista e posizioni diverse per osservare con calma l’acqua del lago. Il sole rosseggiava su un fianco, ed il lago riproduceva il profilo della collina di fronte raddoppiandone la maestosità e la leggerezza, tracciandone un’impercettibile linea laggiù, sull’altra riva. Ci sarebbe voluta probabilmente un’altra ora al tramonto, e quei raggi scaldavano ancora ogni superficie in modo piacevole, fiammeggiando i colori in un modo sublime, mescolandoli ad un fondo pieno e maturo. Non c’era bisogno di pensare ad un futuro oltre quell’ora: tutto in un attimo si sarebbe spento nella vallata, dopo quel breve tempo, e il mondo avrebbe capovolto se stesso proiettando ogni cosa in un suo aleatorio rovescio.
Piero era contento di essere riuscito a trascinare tutti fin lì, di aver riunito quelle persone in quel luogo convincendoli soltanto con poche parole, con la sua capacità di far immedesimare gli altri nelle sue fantasie, ma aveva desiderato tanto quello che relativamente con facilità aveva ottenuto, che adesso non sapeva del tutto cosa aspettarsi dalla situazione creata. All’improvviso quel silenzio gli metteva paura, sembrava che i pensieri di tutti agissero come a formare qualcosa di cui ognuno non fosse cosciente. Lui avvertiva quella vibrazione che univa le menti e ne moltiplicava ogni potenzialità, e mentre il sole cadeva oltre quell’orizzonte, pareva che un potere diverso assumesse i contorni del loro riunirsi, come una forza che sfuggisse al loro controllo per andare a scagliarsi chissà contro chi, o contro cosa.
Lentamente, alle spalle di tutti, Piero si era alzato dalla sua sedia, era scivolato verso la casa mentre il sole moriva, e subito prima di entrare si era voltato ancora, impaurito, dalla parte degli altri che erano rimasti lì, immobili. Era stato allora che tutti si erano girati a guardarlo, come se lui fosse diverso, come se lui fosse una persona lontana dagli altri, come se loro avessero assunto all’improvviso un potere comune di cui lui era immune, e in funzione di questo, adesso appariva da solo, terribilmente da solo.  


Bruno Magnolfi       

venerdì 18 dicembre 2009

Un soffio di mare.

            

            I due vecchi erano piccoli di statura, ma forse apparivano ancora più piccoli così sprofondati nei due giacconi enormi da inverno, i calzoni di jeans fin troppo larghi, e le berrette di lana scura sul capo calate fino a coprire le orecchie. Parevano due ex-marinai, gente che aveva lavorato su qualche rimorchiatore o che aveva svolto qualche lavoro di mare giù al porto; anche la pelle dei loro visi pareva cotta al sole di passate stagioni, e segnata dal salmastro e dalle mareggiate, come i loro sguardi, sempre pronti a guardare lontano, verso quell’orizzonte perennemente in movimento, denso di novità. Due amici ormai vecchi, pelle e ossa sotto a quegli indumenti, ma duri di scorza, con in testa ancora un qualche progetto, un’idea bislacca come quelle che a volte prendono agli uomini anziani; e stavano lì alla stazione dei treni, le mani sprofondate dentro alle tasche, davanti al loro binario pronti a partire, e intanto si scambiavano qualche parola, qualche impressione, dei ricordi di tempi passati forse, oppure del loro presente, ancora più interessante del resto, e uno dei due, nei momenti in cui l’altro restava in silenzio, diceva soltanto: “Eh si…”, come a voler definire che si era tutti soggetti al trascorrere del tempo, all’ineluttabilità delle cose, al destino. O che la vita, che per loro non aveva segreti, era così, lo sapevano per le dure esperienze che avevano dovuto affrontare, lo sapevano perfettamente con la certezza che era così, che niente si poteva cambiare del suo alveo principale, e solo le piccole cose potevano essere variate, soltanto le sfumature, solo quella piccola umanità che sfuggiva per sua natura alle cose grandi, e loro lo sapevano bene, perché da anni vivevano di quelle piccole cose. Poi arrivò il treno locale e si fermò ai loro piedi con il solito stridore di freni, e i due vecchi salirono, si cercarono un posto a sedere, e si misero comodi ma senza togliersi niente dei loro indumenti, neppure appoggiandosi agli schienali, come dovessero scendere subito. Stavano vicini tra loro, ma non di fronte, bensì affiancati, come a guardare ambedue verso la medesima direzione, e continuavano a parlare come avevano fatto fino ad allora, senza guardarsi, quasi come dicendo le loro cose ognuno a se stesso, alla propria coscienza, conservando le stesse espressioni, la medesima faccia, quasi usando le stesse parole. Il treno si fermò in qualche stazione, salirono e scesero diverse persone, ma i due vecchi rimasero imperterriti esattamente dov’erano, come se tutto quel movimento non li riguardasse per niente. “Eh si…”, diceva uno dei due, e andavano avanti. Poi arrivò anche la loro stazione, un paesino di mare deserto in inverno, e loro si alzarono, si misero davanti allo sportello del treno, attesero che si fermasse il convoglio, che si aprissero le porte pneumatiche, poi scesero. I loro passi erano corti e decisi, la loro strada portava diritta verso le case sopra la spiaggia, spesso poco più che baracche scolpite dai venti e dal sale di mare. Forse erano rimasti da soli a cercare ancora qualcosa in quel posto, forse appariva insignificante anche quel loro tragitto, quel loro percorso, ma non era così anche per loro. Infine bussarono a una piccola porta di legno, senza insistere, e dopo pochi momenti, con garbo infinito e educazione, entrarono in casa, perché la porta era aperta, soltanto accostata, come a permettere a chiunque di entrarvi. Un uomo della loro medesima età sorrise vedendoli, e restando fermo in fondo alla stanza, seduto sulla sua sedia a rotelle, li salutò evitando di esagerare, solo chiedendo loro di prendere una sedia e sedersi, proprio lì, accanto a lui. Fu allora che i due vecchi si tolsero i loro giacconi, e si misero comodi, e tutt’e tre si voltarono con le sedie per guardar fuori dalla finestra che dava sul mare per scrutare l’orizzonte, a parlare, a scambiarsi le parole che conoscevano bene, i loro discorsi di sempre, ma senza guardarsi, come parlando ognuno a se stesso, e uno dei tre continuava a dire quando c’era qualche silenzio: “Eh si…”, e gli altri sapevano perfettamente cosa intendesse.


            Bruno Magnolfi

martedì 15 dicembre 2009

Elisa a Natale.

          

Molte volte lei si era già detta, nei momenti in cui lo sconforto era stato maggiore, che lo svolgere quel lavoro aveva comunque di positivo diversi elementi: le permetteva di conoscere molte persone, di interagire con loro, di imparare cosa dire, come sorridere, come parlare, in breve essere più socievole di come mai fosse stata in precedenza. Ma non era facile affrontare i problemi che ogni giorno le si presentavano, neppure così, neanche con tutto quel suo entusiasmo. Erano trascorsi solo due mesi da quando era stata assunta come commessa in quel negozio di abiti confezionati per uomo e per donna, e certi giorni per lei erano stati davvero duri, pesanti, infiniti, quasi insopportabili. Le era stato detto già al primo giorno che non c’era una scuola, doveva essere sveglia, imparare da sé, fare semplicemente quello che facevano le altre, le sue colleghe, perché non c’era neanche il tempo per consigliarla. E lei aveva fatto così, pur avendo tantissimi dubbi.
Poi, dopo la prima settimana, si era sentita più forte. Però non riusciva a capire perché quei clienti certe volte fossero così scortesi, aggressivi, mai soddisfatti. Se assumeva l’espressione della servizievole, della vittima a disposizione di chi voleva provare le giacche, le camicie, le gonne, i calzoni e tutto quello che era esposto dentro al negozio, allora era anche peggio. L’unica possibilità per resistere, era quella di dare poca importanza a ciò che veniva richiesto, ascoltare una persona alla volta e poi incoraggiarla a comprare ciò per cui era entrata dentro al negozio, magari usando soltanto un gesto, un sorriso, un’espressione simpatica, oppure qualche parola azzeccata. Il cliente alcune volte non chiedeva nient’altro se non quel minimo apprezzamento, quel surrogato sociale di incoraggiamento alla vita, quella semplice spinta a stare con gli altri, a sentirsi bene con tutti, ed era sufficiente quella piccola convinzione, non occorreva nient’altro.
Lei certe volte si vergognava quasi di quei modi che imparava ad usare, si sentiva finta, ridicola, insulsa, ma vedeva le altre colleghe più esperte di lei e capiva che era quello il modello a cui stare dietro. Però con tutte quelle ore in piedi ogni giorno a fare la sorridente con tutti per quei pochi soldi, e con un contratto che scadeva dopo appena sei mesi, le pareva che il mondo reale fosse più triste di quello che si sarebbe aspettata. Elisa aveva quasi vent’anni, si era presa un diploma irreale ed inutile anche con sacrificio, perché studiare e andarsene a scuola non le piaceva, perciò aveva cercato un lavoro appena le era stato possibile, con gioia, con un senso di liberazione, e aveva girato e bussato alle porte di tutti, solo per rendersi conto in un anno di tempo che era ben più difficile di quello che aveva pensato. Infine le era capitata quella occasione, e si era ritrovata lì, ad occuparsi di taglie, colori e camerini di prova; però sapeva di essere tosta, una che non avrebbe mollato facilmente: aveva voluto un lavoro e quello era tale. In fretta poi era anche giunto il periodo natalizio, e tutto si era complicato in un modo incredibile: non vedeva neanche più le persone dentro al negozio, correva avanti e indietro cercando di dire a tutti le medesime cose, sorridendo quando era il momento, ripiegando continuamente camicie provate che non andavano bene e mostrandone altre, per cercare lo stile, il colore, insomma la maniera di far contento il cliente.
Un pomeriggio, nella confusione di una giornata identica a tutte le altre, era arrivato quel ragazzo carino, un po’ timido, che era entrato dentro al negozio con le idee poco chiare; sottovoce le aveva chiesto qualcosa, una camicia e una giacca, e lei si era subito immedesimata nei pensieri di lui, quasi come se i loro desideri fossero simili. Elisa gli aveva consigliato i capi di abbigliamento migliori, o quelli che a lei piacevano di più, e soprattutto era riuscita a vedere le cose tramite lui, attraverso i suoi occhi, i suoi modi, i suoi gusti, i suoi giudizi garbati, senza sapere perché. Lui invece si era lasciato presto convincere: la giacca che Elisa aveva consigliato andava benissimo, anche la camicia, certo. Lui le aveva spiegato che era per andare ad una festa, una cena importante, e lei lo aveva subito immaginato in quella serata, con la sua giacca, con quella camicia e anche quei suoi modi cortesi. Poi lui era andato alla cassa, aveva pagato, si era fatto piegare la camicia e la giacca dentro ad una busta e si era incamminato verso la porta, già proiettato al di fuori da lì, come tutti i clienti quando ormai avevano scelto, quando ormai soddisfatti lasciavano tutto alle spalle, ma prima di uscire era tornato indietro, da Elisa: Grazie, le aveva detto con semplicità; mi piacerebbe tanto venissi anche tu con me a quella festa.


Bruno Magnolfi   

domenica 13 dicembre 2009

Il pianto di gioia.

           

            Camminare per strada, mettermi seduto su una panchina del giardinetto del mio quartiere, sfogliando un giornale giusto per occupare gli occhi e la mente, e far trascorrere il tempo. Tornare a casa, dopo il lavoro, accendere la radio sul mobile, compiere i soliti gesti di rito, pressappoco con i medesimi orari, quasi ad osservare delle direttive precise, e lasciar trascorrere il tempo. Scendere certe volte giù al bar a scambiare qualche parola con le conoscenze di sempre, ragazzi che giocano a carte, che si prendono in giro e che ridono, passare la serata a guardarli, e farmi fare un caffè dal barista, proprio per conservare quell’aura di cliente dentro al locale, e lasciare che il tempo trascorra. Questi i miei giorni, le mie settimane, gli anni che passano, come un percorso da compiere, e basta; ma qualcosa di differente si è inserito in mezzo a quei giorni, a quel tempo indolente. Una bella ragazza la Laura, abita in fondo alla strada, a volte ci siamo incontrati, ma non l’ho mai salutata, forse per timidezza, forse perché nessuno ci ha mai presentati. Ma ieri, dentro al negozio di generi alimentari, le è caduto qualcosa mentre ero lì, un foglietto di carta, una cosa da niente, ma io l’ho immediatamente raccolto, lei è arrossita e mi ha ringraziato. “E’ solo la lista delle cose che devo acquistare…”, ha aggiunto con voce piacevole, ed io, non so come, le ho detto, mentre uscivamo assieme da dentro al negozio: “Potrei accompagnarti, ti va?...”. Lei ha fatto segno di si con il capo, mentre sistemava la borsa, poi lentamente ci siamo avviati sul marciapiede. Le ho detto che sono triste in questo periodo, che a volte le giornate mi sembrano lunghe, che sono stufo di far trascorrere il tempo senza che questo comportamento mi dia nello scambio qualcosa per cui sentirmi contento. Le ho detto che credo di essere un ragazzo qualsiasi, come tutti, però mi sento sempre da solo, anche quando sono in mezzo alla gente. Certe volte ho invidia di chi si diverte, le ho detto; non so cosa abbiano di diverso da me quelli che ridono tanto, però qualche volta mi manca quel loro sentirsi leggeri, sereni. Lei ha guardato quasi sempre diritto, avanti ai suoi piedi sul marciapiede, ha fatto cenno di si con la testa, ha detto che mi comprendeva benissimo, che anche lei certe volte si sentiva nella stessa maniera. “Non so cosa manca nella mia vita”, le ho detto, “ma questa mancanza è così forte da annullare anche il resto, come se quello che ho perdesse di senso al confronto”. Poi Laura era arrivata, ci siamo fermati davanti al portone, le ho detto che mi aveva fatto tanto piacere parlare con lei, e lei mi ha risposto che dovevamo ancora parlare, faceva bene parlare, che avevamo iniziato un dialogo, una cosa importante, dovevamo vederci il giorno seguente, ai giardinetti, quelli dove io certe volte andavo da solo a sfogliare il giornale. Andava bene, era tutto perfetto, non c’era da aggiungere altro. L’ho salutata, poi ho quasi trattenuto il respiro. Un giorno intero è trascorso così, senza che io mi fossi accorto di niente: mi sono messo seduto a quei giardinetti, nel pomeriggio, come d’accordo, sopra la panchina di sempre, ho guardato gli alberi spogli, mi sono reso conto di sentirmi ancora più triste di quello che avevo creduto, e che l’unica cosa che adesso mi sollevava lo spirito era lei, sapere che Laura stava arrivando. Poi ho visto da lontano la sagoma, ho riconosciuto il suo passo, mi sono sistemato ancora meglio sopra quella panchina, ho cercato di assumere un’espressione che le facesse piacere vedere, e lei è arrivata davvero, si è fermata lì, davanti ai miei piedi, con il suo viso dolcissimo, ed io, proprio come un cretino, non ho saputo trattenere le lacrime.

            Bruno Magnolfi

giovedì 10 dicembre 2009

Opportunità di esistenza.



            Il lampione al neon davanti a quella sua finestra di casa si accendeva sempre alla medesima ora. Era quello il momento più triste di tutta la giornata, quando lui si rendeva conto di essere solo e che un’altra volta il sole da qualche parte stava già tramontando senza che niente fosse cambiato nella sua vita. La sua casa era piccola, solo due stanze, e all’interno tutto era essenziale, tanto da far apparire disadorne quelle due stanze, quasi vuote, soltanto il letto, l’armadio, e un piccolo tavolo assieme a due sedie in cucina, di cui una in un angolo, mai usata. L’assistente sociale ogni settimana suonava il suo campanello, stava un po’ assieme a lui, gli parlava di tutto, gli faceva qualche domanda, a volte apriva quel suo frigorifero, poi se ne andava, mai soddisfatto del tutto, ma non gli faceva rimproveri, gli assicurava soltanto che sarebbe tornato, domani o il giorno seguente. Poi lui restava da solo, di nuovo, e i suoi pensieri tornavano ad essere quelli di sempre. Spesso l’immagine di sé gli appariva sgranata, fuori fuoco, con troppo poco contrasto, come una vecchia fotografia fatta male, dove il bianco ed il nero apparivano spalmati di grigio e senza colore. Quel giorno che aveva capito di stare più male del solito era uscito di casa, aveva girato quanto aveva potuto cercando di stancarsi e sperando così di ritrovare se stesso, ma non c’era riuscito. In ospedale si era presentato da solo, aveva spiegato che così non ce la faceva a procedere oltre, che non sapeva come spiegarlo, ma lui stava male, quel giorno e ogni giorno di più. “Vorrei addormentarmi”, aveva detto ai dottori non trovando altra maniera per esprimere cosa passasse tra i suoi pensieri, “e aspettare che tutte le nuvole sopra la testa se ne andassero via”. Lo avevano ricoverato, lo avevano analizzato in molte maniere, nell’arco di un tempo che a lui era parso lunghissimo; poi gli avevano dato dei farmaci e infine era stato dimesso con una cura da fare e rispedito alla sua finestra e al lampione, chiedendogli solo di ritornare dopo un certo periodo per effettuare un controllo. Adesso lui si sentiva svuotato, prendeva quei farmaci, un’infermiera andava da lui per l’iniezione, ma solo per quei primi giorni, e dormiva tantissimo, non sognava mai niente, passava le giornate seduto guardando nel vuoto. Poi era tornato l’assistente sociale, ma era di fretta, si era trattenuto soltanto pochi minuti, aveva riempito come sempre i suoi fogli, gli aveva fatto qualche domanda, infine era andato. Nei giorni seguenti lui si era ridotto a mangiare pochissimo, poco per volta aveva dimenticato di prendere le sue medicine, l’infermiera non era tornata, e lui non si era più presentato all’ospedale per fare i controlli. Era dimagrito e aveva iniziato a torcersi le mani l’una nell’altra, percorrendo tra sé strani sogni che adesso faceva anche a occhi aperti. Un giorno poi era uscito da casa, aveva raccattato tutti i sassi trovati dentro a un giardino, spalancato la finestra di casa, e quando si era acceso aveva iniziato a lanciare quei sassi verso il lampione, finché lo colpì. Gli piacque la piccola esplosione che fece il lampione spegnendosi e lasciando nell’aria una leggera fumata, gli parve il giusto compenso per averlo disturbato per tutti quegli anni. Così si sentì sollevato e gli parve che in cielo per quella serata non ci fossero nuvole, e il cielo sereno e la luna fossero sufficienti da soli a rischiarare la strada davanti alla casa; infine si chiuse nella sua stanza ad aspettare che qualcuno venisse a cercarlo, e forse senza volerlo si addormentò, sognando qualcosa che sicuramente assomigliava alla vita.

Bruno Magnolfi

          

lunedì 7 dicembre 2009

Sentimenti di mare.

           

            Alla metà di settembre in spiaggia non c’era ormai quasi nessuno, ed il mare appariva un tavola di colore scuro ed intenso. La ragazza camminava lungo la battigia, la testa vuota, nessun’altra voglia se non quella di starsene da sola cercando di attenuare il malessere. Quello che andava iniziando era il suo ultimo periodo in facoltà, aveva soltanto da completare la tesi, poi, dopo la laurea, davanti a sé c’erano soltanto decisioni da prendere. Lei aveva sempre continuato a studiare, grazie ai suoi genitori, ma senza chiedersi mai cosa doveva succedere dopo. Si era sempre immaginata di trovare qualcuno, negli anni appena trascorsi, l’amore forse, o un rapporto stabile e serio, un ragazzo con cui condividere il futuro che ormai era alle porte; ma non c’era stato nessuno, niente da ricordare o che valesse la pena per cui spingersi a formulare un progetto. Così, per automatismo, si era procrastinata la vita per lei, rinviando ogni momento di vera esistenza, come aspettando sempre momenti migliori, attimi più adeguati o più adatti, e adesso era lì, quella vita, fredda ed immobile, come quel mare di fronte, una tavola scura che non lasciava mostrare niente di sé, solo la superficie increspata. Lei era come già stanca, stufa di quello che adesso avrebbe dovuto iniziare: cercarsi un lavoro, instradarsi nel campo per cui aveva sempre studiato, trovare le strade migliori per introdursi dentro a un mestiere il più possibile dignitoso, senza inaccettabili compromessi, probabilmente senza dover cedere niente a nessuno, in modo da sentirsi rispettata dal mondo: alla fine, una vita ordinaria, senza sogni o segreti, senza sbalzi di umore, senza grandi vere scelte da fare. Un percorso senza entusiasmi, carente di un qualcosa che adesso a lei pareva essenziale. Improvvisamente tutto era lì, e si trattava soltanto di raggranellare quello che lei per apatia aveva perseguito in tutto il percorso degli anni: tanti piccoli granellini di sabbia trasportati per inerzia spontanea sulla battigia del mare, spersi tra miriadi di granelli tutti identici, mossi con lo stesso destino, senza che niente della sua natura sensibile avesse potuto variare quel moto naturale delle maree e delle burrasche impetuose. Una crudeltà terribile si annidava nell’andamento di tutte le cose; lei che adesso si sentiva disposta a barattare tutta la scienza che aveva acquisito con tutti i suoi studi, per un sorriso qualsiasi, tale da riuscire a scaldare almeno una volta il suo cuore, ecco, lei non aveva più alcuna scelta, la sua strada appariva segnata, forse anche dentro alle sue fantasie, che non erano state capaci di spingersi oltre ad un certo confine. Il mare era bello, in quel settembre inoltrato, eppure il tempo trascorso per lei adesso era un peso: un’altra estate trascorsa chinata sui libri, invece di cercare qualcosa che eppure era dentro di lei, lei ne sentiva gli effetti, e a tratti la spingeva lontano, come quel vento di mare che certe volte le aveva scompigliato i capelli e asciugato le lacrime agli occhi. Poi, la ragazza, priva di altre risorse, era risalita con calma verso la strada, abbandonando la spiaggia, ormai rassegnata a quello che il destino le indicava di fare, e all’improvviso aveva visto quel cane, un cagnolino spaurito, senza collare, senza padrone, che era andato verso di lei, come cercando un appiglio, una riva, un rifugio per la sua vita quasi randagia, e lei lo aveva accolto con sé come un segno, un simbolo per tutte le cose che forse si era lasciata sfuggire per non essere stata capace di coglierle. Domani, domani sarebbe stato diverso, si era subito detta, il cagnolino avrebbe vissuto con lei, adottato da lei, ed il suo spirito da domani sarebbe stato più libero, privo di quei freni di sempre, adesso era improvvisamente sicura di sé, lo giurava a se stessa, a quel mare, e soprattutto a quel cane che senza saperlo l’avrebbe traghettata lontano, verso una sponda di cui adesso era ignara, ma che ci sarebbe stata senz’altro per lei, ne era sicura, pronta ad accoglierla.


            Bruno Magnolfi

Sentimenti di mare.

          
            Alla metà di settembre in spiaggia non c’era ormai quasi nessuno, ed il mare appariva un tavola di colore scuro ed intenso. La ragazza camminava lungo la battigia, la testa vuota, nessun’altra voglia se non quella di starsene da sola cercando di attenuare il malessere. Quello che andava iniziando era il suo ultimo periodo in facoltà, aveva soltanto da completare la tesi, poi, dopo la laurea, davanti a sé c’erano soltanto decisioni da prendere. Lei aveva sempre continuato a studiare, grazie ai suoi genitori, ma senza chiedersi mai cosa doveva succedere dopo. Si era sempre immaginata di trovare qualcuno, negli anni appena trascorsi, l’amore forse, o un rapporto stabile e serio, un ragazzo con cui condividere il futuro che ormai era alle porte; ma non c’era stato nessuno, niente da ricordare o che valesse la pena per cui spingersi a formulare un progetto. Così, per automatismo, si era procrastinata la vita per lei, rinviando ogni momento di vera esistenza, come aspettando sempre momenti migliori, attimi più adeguati o più adatti, e adesso era lì, quella vita, fredda ed immobile, come quel mare di fronte, una tavola scura che non lasciava mostrare niente di sé, solo la superficie increspata. Lei era come già stanca, stufa di quello che adesso avrebbe dovuto iniziare: cercarsi un lavoro, instradarsi nel campo per cui aveva sempre studiato, trovare le strade migliori per introdursi dentro a un mestiere il più possibile dignitoso, senza inaccettabili compromessi, probabilmente senza dover cedere niente a nessuno, in modo da sentirsi rispettata dal mondo: alla fine, una vita ordinaria, senza sogni o segreti, senza sbalzi di umore, senza grandi vere scelte da fare. Un percorso senza entusiasmi, carente di un qualcosa che adesso a lei pareva essenziale. Improvvisamente tutto era lì, e si trattava soltanto di raggranellare quello che lei per apatia aveva perseguito in tutto il percorso degli anni: tanti piccoli granellini di sabbia trasportati per inerzia spontanea sulla battigia del mare, spersi tra miriadi di granelli tutti identici, mossi con lo stesso destino, senza che niente della sua natura sensibile avesse potuto variare quel moto naturale delle maree e delle burrasche impetuose. Una crudeltà terribile si annidava nell’andamento di tutte le cose; lei che adesso si sentiva disposta a barattare tutta la scienza che aveva acquisito con tutti i suoi studi, per un sorriso qualsiasi, tale da riuscire a scaldare almeno una volta il suo cuore, ecco, lei non aveva più alcuna scelta, la sua strada appariva segnata, forse anche dentro alle sue fantasie, che non erano state capaci di spingersi oltre ad un certo confine. Il mare era bello, in quel settembre inoltrato, eppure il tempo trascorso per lei adesso era un peso: un’altra estate trascorsa chinata sui libri, invece di cercare qualcosa che eppure era dentro di lei, lei ne sentiva gli effetti, e a tratti la spingeva lontano, come quel vento di mare che certe volte le aveva scompigliato i capelli e asciugato le lacrime agli occhi. Poi, la ragazza, priva di altre risorse, era risalita con calma verso la strada, abbandonando la spiaggia, ormai rassegnata a quello che il destino le indicava di fare, e all’improvviso aveva visto quel cane, un cagnolino spaurito, senza collare, senza padrone, che era andato verso di lei, come cercando un appiglio, una riva, un rifugio per la sua vita quasi randagia, e lei lo aveva accolto con sé come un segno, un simbolo per tutte le cose che forse si era lasciata sfuggire per non essere stata capace di coglierle. Domani, domani sarebbe stato diverso, si era subito detta, il cagnolino avrebbe vissuto con lei, adottato da lei, ed il suo spirito da domani sarebbe stato più libero, privo di quei freni di sempre, adesso era improvvisamente sicura di sé, lo giurava a se stessa, a quel mare, e soprattutto a quel cane che senza saperlo l’avrebbe traghettata lontano, verso una sponda di cui adesso era ignara, ma che ci sarebbe stata senz’altro per lei, ne era sicura, pronta ad accoglierla.


            Bruno Magnolfi

venerdì 4 dicembre 2009

Incontrarsi (quarta parte).

            

            L’erba era stata rasata regolarmente, e in virtù delle innaffiature frequenti aveva assunto un colore brillante, capace di far risaltare le bordure e le aiuole di tutto il giardino. Era adesso un piacere passeggiare lungo i vialetti all’ombra degli alberi, in mezzo a quei cespugli fioriti e a tutte le piante: aveva avuto ragione la signora Torrini a far lavorare una persona come me ogni giorno alla manutenzione del verde, adesso i risultati erano evidenti e tutta la casa racchiusa dentro al giardino pareva più viva, più allegra, più giovane. La signora negli ultimi mesi si era fatta vedere anche meno di quello che avrei immaginato, e soprattutto non mi aveva dato nessuna direttiva sui lavori da fare, di fatto lasciandomi padrone del campo e delle mie iniziative. Ogni giorno, terminato il lavoro, andavo come sempre a sedermi sopra le sedie del mio solito bar, lungo la via principale in paese, e tutto pareva procedere in maniera ordinata e tranquilla. Restavo lì, perso dietro ai pensieri di sempre, ad osservare le rare macchine che passavano lungo la via provinciale.  Quasi ogni sera la signora Torrini entrava nel bar passandomi accanto, mi salutava con un certo distacco e si lasciava servire il suo aperitivo al bancone. C’era un’intesa perfetta tra noi. Era come non ci fosse bisogno di alcuna parola, però, se ci fosse stato un problema reale, era evidente che potevamo contare l’uno sull’altra. Poi, uno di quei tizi che in genere perdono il giorno giocando alle carte, passò lentamente vicino a dove ero seduto, si fermò un momento guardandomi con un sorriso ammiccante, e riferendosi alla signora, appena uscita dal bar, con un gesto del capo, disse soltanto: “…puoi essere orgoglioso di aver domato una puledra del genere…”. Restai indifferente, assecondando il mio modo di essere, e lasciai che il mio primo istinto sbollisse; però quella frase non mi era piaciuta, e non potevo lasciarla passare, così, dopo pochi minuti, finii la mia birra e mi alzai dalla sedia per andare verso quel tizio. Era molto che non fronteggiavo qualcuno, mi passarono per la testa in un lampo le lotte di quando era ragazzo fuori da scuola, poi mi fermai alla sua sedia. Lui capì, e si alzò per farmi vedere che non aveva paura. Senza parlare lo colpii con un pugno sul viso, e lui barcollò sdraiandosi a terra tra i tavolini del bar. Gli altri che stavano giocando con lui, rimasero senza parole, mentre il tizio si lamentava sanguinando un po’ dalla bocca. “Ci vuole rispetto”, dissi, con voce per niente alterata, ma in modo tale che tutti capissero bene quelle mie poche parole. Pagai la mia birra ed uscii dal locale. Dentro al capanno dove stavano gli attrezzi che usavo per curare il giardino, il giorno seguente trovai una bottiglia di birra ghiacciata. La aprii, ma ancora prima che iniziassi a prenderne un sorso, arrivò lei, la signora Torrini. Entrò dentro al capanno e socchiuse la porta, mi squadrò con un mezzo sorriso ma senza dir niente, poi prese la bottiglia di birra dalle mie mani bevendone un po’. Mi baciò sulla bocca, ma in maniera affettuosa, come voleva che rimanessero le cose tra noi. Poi, quando prese la porta per tornarsene in casa, disse soltanto: “…saremo sempre più forti, noi due, di qualsiasi stupida idea giri qua attorno…”. Rimasi contento di sorseggiare quella sua birra, il suo sapore quel pomeriggio mi parve migliore di qualsiasi altra birra avessi bevuto, e quell’intesa tra noi la sentii come qualcosa che mi riempiva la vita.


            Bruno Magnolfi

giovedì 3 dicembre 2009

Terrorista per forza.



Vorrei non avere ancora nelle orecchie il sibilo delle sirene. In questura mi trattarono male, mi interrogarono per tutta la notte. A niente era valso continuare a ripetere che nulla c’entravo con i terroristi di cui andavano in cerca. Sulla rubrica di quello che avevano preso c’ero anch’io, ma neanche io sapevo spiegarmi il perché. Infine arrivò l’avvocato d’ufficio e mi disse di stare tranquillo. Al processo mi condannarono, mi fecero uscire solo perché avevo la fedina penale pulita. In seguito fui contattato dall’organizzazione, e così diventai terrorista davvero: tanto ormai ne avevo la fama.

            Bruno Magnolfi