venerdì 29 luglio 2011

Una traccia di niente. 2.

          
            Ho visto una lunga nuvola bianca e sfilacciata oggi, quasi uno strappo a dividere due metà di qualcosa, un prima e un dopo, per esempio, come se invece di una gradualità quasi aritmetica il tempo avesse avuto all’improvviso un’interferenza inspiegabile, qualcosa che ne avesse calcato un vero e proprio spartiacque; così pensava il signor Guido mentre tornava a casa  a piedi con il suo passo cadenzato, come ogni venerdì, dopo essersi congedato dai pochi colleghi ancora rimasti sul posto di lavoro.
            Tutto in apparenza è identico, pensava, eppure qualcosa di impalpabile vibra dentro l’aria, come un elemento imprevisto all’interno di una composizione chimica, che sembra inerte inizialmente, ed invece corrompe rapidamente tutto il resto. Si era fermato, il signor Guido, in apparenza per osservare distrattamente una vetrina, ma in realtà perché improvvisamente affannato, con una leggera sudorazione sulla fronte, quasi che qualcosa si fosse messo in moto dentro di lui, qualcosa che non riusciva neppure a controllare.
            Quella nuvola gli provocava un inspiegabile malessere, quasi fosse un segno messo lì solo per lui, e tanto se ne sentiva scombussolato da non avere il coraggio di tornare a riguardarlo. Dentro al negozio, oltre la vetrina davanti alla quale era rimasto immobile, alcune persone stavano acquistando qualcosa, e lo avevano notato: lo sguardo perso, la faccia stravolta, le braccia abbandonate lungo i fianchi come di chi non ha neanche la forza per compiere un gesto o altro. Si sente male, ha bisogno di qualcosa?, disse la commessa affacciatasi alla porta.
            Il signor Guido non rispose, pur comprendendo con chiarezza che qualcuno stava riferendosi indubbiamente a lui; si limitò a girare lo sguardo verso quella voce, poi disse, con parole strascicate: signorina, ha visto quella nuvola?, indicando appena con un dito verso l’alto. La commessa sorridendo volse gli occhi per un attimo verso la porzione di cielo che si vedeva dalla strada, poi tornò a guardarlo. Non c’è nessuna nuvola, disse; oggi il cielo è limpido. Forse è questo sole e il caldo che le hanno fatto un brutto scherzo?
            L’uomo non commentò queste parole, si limitò a scostarsi e a riprendere lentamente a camminare, senza neppure salutare o ringraziarla. E’ tutto come ormai accade spesso in questi ultimi tempi, pensava tra sé il signor Guido mentre arrancava con passo malfermo lungo il marciapiede: ognuno vede qualcosa di diverso, qualcosa che poco per volta lo distanzia da tutti gli altri, ed anche se cerca di parlarne, le sue parole si perdono in un balbettio insignificante. Non c’è niente da aggiungere, dobbiamo rassegnarci: ognuno è solo nei propri convincimenti, impossibile anche mostrarne le evidenti tracce.


            Bruno Magnolfi  

giovedì 28 luglio 2011

Le cose quando vanno come dovrebbero.

            
No, non date fastidio, avevo detto piano ai due tizi che avevano continuato fino ad allora a ridere sguaiatamente, sbocconcellando i loro panini imbottiti davanti ad un paio di grandi bicchieri di birra. Non c’era nessun altro in quella tavola calda lungo la strada, ed io, di passaggio, ero entrato quasi distrattamente là dentro e mi ero seduto, con calma, la testa senza pensieri, i gesti lenti, come di chi non ha niente da fare. Rovistando dentro uno scatolone appoggiato accanto ai contenitori dell’immondizia, in una via lì vicino, avevo trovato poco prima una pistola giocattolo a tamburo, di un bel colore nero lucido, soltanto con il calcio spezzato, e senza farmi notare me l’ero fatta scivolare dentro a una tasca, non so neppure il perché.
            Adesso ero entrato là dentro, naturalmente non avevo neanche un soldo, così mi ero sistemato su uno sgabello e avevo appoggiato quell’arnese bene in vista sopra al bancone, nell’attesa che il gestore di quel locale venisse fuori dalla sua cucina e mi servisse qualcosa da mangiare, visto che era da un giorno che non mettevo sotto ai denti qualcosa. I due tizi si erano subito fatti silenziosi: se vuoi ce ne andiamo, aveva detto uno di loro senza alcuna convinzione, ma io avevo accennato che era meglio se restavano esattamente dov’erano, non c’era niente di male nel continuare a bere e a mangiare, avevo spiegato.
Loro però non avevano più avuto voglia di ridere, ed erano rimasti lì a guardarsi attorno e a guardare verso di me, forse paralizzati dal mio comportamento calmo e un po’ distaccato. Sicuramente avevano una certa paura immaginando il momento in cui il gestore di quella tavola calda fosse uscito dalla cucina per venire a vedere se c’era qualche cliente a quell’ora della tarda mattinata, così si tenevano pronti per muoversi e guadagnare l’uscita appena le cose si fossero complicate oltre misura. Ma a me non importava un bel niente di tutte le congetture che si potevano fare, mi interessava soltanto mangiare qualcosa e filarmela il più presto possibile, senza scatenare nessuna reazione.
Però ad un tratto mi resi conto che i due tizi avevano la faccia di chi comincia da un attimo all’altro a spararti delle domande, giusto per cercare di farti parlare e confonderti, così cercai di prevenirli dicendo loro che era meglio se continuavano a ingollare le loro birre in silenzio. In quell’attimo uscì il tipo dalla sua cucina, con il grembiale bianco, il cappello e tutto il resto; mi guardò soffermandosi un attimo, appoggiò lentamente qualcosa sopra al suo banco, e in una frazione di secondo si fece più pallido, come chi non riesce a sopportare certe emozioni.
Gli dissi di darmi un sacchetto con le polpette fredde e le crocchette che avevo visto dal vetro, e lui con le mani che gli tremavano fece subito quanto avevo chiesto. Riuscì giusto ad allungarmi il sacchetto di carta sopra al bancone, poi parve svenire, accasciandosi là dietro senza neppure una mezza parola. Con calma io presi quelle polpette, lasciai la pistola sopra al bancone ed uscii dal locale, senza mettermi fretta, come facessi una cosa qualsiasi. I due tizi rimasero immobili, dissi loro di occuparsi dell’altro e di gettargli un po’ d’acqua sopra la faccia, poi chiusi la porta. Non c’era nient’altro da dire, in fondo non era accaduto niente di brutto, e a mio modo di vedere tutto andava bene anche così.  


Bruno Magnolfi

lunedì 25 luglio 2011

La prima di ogni volta.

            
            Chissà se tra qualche tempo ci sembrerà persino assurdo che adesso siamo giunti a dirci queste cose, diceva lei. Basta poco, un’inezia, e questi nostri atteggiamenti risulteranno superati una volta per tutte, e sembreranno retaggio di tempi arcaici, quando ancora si stava dietro a cose come i sentimenti e altre sensazioni elementari, mostrando più che superato tutto ciò che adesso passa per fondamentale. Lui stava seduto, senza parlare, evitando di guardarla, come se le sue riflessioni lo portassero verso pensieri forse ancora più distanti, dove tutto mostrava un ineffabile e confuso intreccio di passioni, pieno di congetture così passatiste, come diceva lei.
Qualcosa si muoveva nella stanza, ma forse era soltanto un po’ di vento che si insinuava dalla finestra aperta sopra le tende, lui aveva osservato qualcosa sopra al tavolo, lei era rimasta a guardare la parete bianca, dove campeggiava un vecchio disegno a carboncino di qualcuno degli amici artisti. Non c’era molto altro da dire, visto che la dichiarazione che lui aveva fatto lasciava poco spazio alla loro relazione retta fino a quel momento da vero amore, anche se clandestino, privo di qualsiasi interesse differente, visto che loro due erano sposati ed avevano sempre dichiarato di volere continuare ad esserlo. 
Poi lui disse: non devi pensare che tutto questo tempo sia trascorso invano, o che nei miei comportamenti abbia regnato fino adesso la finzione; è solo che sento cambiato qualcosa dentro di me nei tuoi confronti, e non vorrei iniziare adesso a dirti cose che non sono vere, o che non lo sono più. D’accordo, disse lei, è chiarissimo il tuo punto di vista; d’altronde è tutto normale, voltiamo pagina, come si fa da persone adulte in questi casi, e via, ognuno per la propria strada.
Il vento dalla finestra soffiava adesso ancora più forte sulle tende, come a voler drammatizzare quel loro dialogo, lui avvertiva la presenza di qualcosa e voltandosi verso di lei vide che lei a sua volta aveva posato lo sguardo su di lui; si guardarono in silenzio per un lungo istante e forse parve ad ambedue del tutto assurdo quello che stavano cercando di chiarire. Forse lei aveva ragione quando diceva che non erano più gli anni per parlare di passioni e sentimenti, pensava adesso lui; forse era stupido cercare di chiudere delle porte spingendosi verso qualche soluzione differente. Si mosse risoluto verso la finestra mentre lei continuava ad osservarlo come per non scordare più la sua espressione.
Qualcuno mormorò qualcosa in quel momento, un verso animalesco, forse, una parola disarticolata, ed ambedue tornarono a guardarsi, come a cercare dalla loro vicinanza un conforto rispetto al mondo ostile che pareva circondarli. Non dissero niente, ma all’improvviso quel futuro senza sentimenti parve sopraggiungere spostando di nuovo la tenda davanti alla finestra aperta. Un brivido percorse lo spazio della stanza, ambedue si sentirono preda di qualcosa, forse di tempi che non riuscivano neppure a comprendere adeguatamente.
Lui le andò vicino sfiorandole una mano, lei tornò ad osservarlo ma con la faccia dura, di chi ha già digerito quanto stabilito. Restarono fermi, vicinissimi, immobili dentro a un equilibrio instabile di cui nessuno dei due sarebbe mai riuscito a dare spiegazione; infine qualcosa cadde a terra, si ruppe in mille pezzi mosso da quel vento. Loro tornarono a guardarsi, e forse si videro davvero, per la prima volta.


Bruno Magnolfi    

sabato 23 luglio 2011

(Profilo n. 11). Per abitudine.

            
            Certe volte mi dispiace proprio. Guardo nel buio la mia donna che finalmente si è addormentata e vorrei quasi dirle che non volevo trattarla così, non era mia intenzione offenderla, alzare le mani su di lei. Però ci sono dei giorni in cui sto male, lei deve capirlo, ci sono momenti in cui non riesco proprio a controllarmi, è come se tutto ciò che sto facendo in quei casi fosse governato da qualcun altro, e io dovessi solo obbedire, passivamente. Le mie cose non vanno bene, lo so, per questo a volte butto giù qualche birra di troppo, ne ho bisogno, c’è poco da fare. E poi ecco che lei viene lì con quella voce che si fa subito insopportabile, così tremolante, carezzevole, misericordiosa, come se già avesse paura di qualcosa, ed io le dico di togliersi dai piedi, che non cerchi di farmi la morale o roba del genere, e invece niente, sembra proprio non ci sia niente da fare.
            Si prosegue così, ed io che alzo la voce, e lei che insiste con le sue stupidaggini proprio come se non volesse capire, ha la testa più dura di chiunque conosca, e mi si para davanti, lì nel mezzo di quella stanza, e continua a ripetere costantemente le sue solite cose, come se proprio non riuscisse ad intendere. Io la scanso con il braccio, le dico di lasciar perdere, che piuttosto tiri fuori quel paio di birre che tiene nascoste, ma lei nulla, dice che non ce l’ha, che devo solo calmarmi e altre cose del genere. Mi fa uscire fuori dai gangheri quando mi chiede di essere ragionevole, con quella voce già piena di paura, e non si scansa di mezzo, sta lì a guardarmi e a chiamarmi per nome, come se io non ricordassi neppure chi sono.
            Ha fatto venire suo fratello già un paio di volte, giù dal paese, a dirmi qualcosa di ragionevole, ma io non ho detto niente, ho solo spiegato che lei è la mia donna e lui non si deve mettere in mezzo. Mi ha fatto promettere qualcosa che ho dimenticato appena è uscito di casa, ed io non gli ho detto la cosa più importante di tutte: le cose non vanno bene, lo so, tutto si è fatto difficile, ma ci sono delle volte che qualcun altro arriva dentro di me a dirmi come comportarmi, senza che io possa oppormi. Spesso avrei solo voglia di buttarmi sul letto e farmi una bella dormita per neutralizzare tutti quanti i miei guai, ma ecco che lei si fa avanti, con quel suo tono impaurito ma da predicatrice, e tutto inizia ad andare per un verso che non so controllare.
            Dice che un giorno o l’altro andrà dai servizi dell’ordine e mi farà incarcerare per tutte le botte che prende, ma io non le credo, penso che dica così tanto per dire; lei è la mia donna, se proprio ci rifletto non ho proprio nient’altro , non credo dovrei fare qualcosa per la paura che lei mi tradisca, così lascio correre e tutto va avanti. Certe volte penso che le cose vadano così perché tutto spesso si fa soltanto per abitudine, e vorrei tanto che si inserisse qualcosa a cambiare i miei modi, ma alla fine neppure lei cambia mai di una virgola, penso, e tutto rimane invariato. Poi però la guardo dormire e so che mi dispiace che le cose vadano così, ma se anche mi impegno, se ci penso fino a farmi scoppiare la testa, non riesco proprio a trovare la maniera per cambiare davvero questa faccenda.

            Bruno Magnolfi
           



martedì 19 luglio 2011

Futuro prossimo (ripresa cinematografica n. 3).

            
            Il viale è bello e tortuoso, l’immagine che ne traggo discende da una macchia di verde data dai grandi alberi che sembrano affastellarsi laggiù in prossimità della curva, e arretrando costeggia la carreggiata d’asfalto, fino a giungere nei pressi della panchina dove sono seduto ad osservare le rare auto che transitano. Tengo le mani a pugno, appoggiate sopra la pietra, l’espressione del mio viso è forzatamente neutrale. Non so decidermi a nulla, resto qui per non dover prendere l’iniziativa di andare da qualche altra parte, la mattina di questo giorno qualsiasi è ancora lunga, dovrei pur impegnarla in qualche maniera, bisognerebbe che il senso di queste mie piccole cose si decidesse ad uscire all’aperto, e mi indicasse un percorso, ma tutto appare difficile.
            Fare qualcosa, penso, fingere di avere raggiunto lo stato di grazia di chi vive affrontando un gradino alla volta, senza scomporsi, concentrandosi sullo scopo che si staglia ogni volta di fronte. Attendo qualcuno; si, certo, qualcuno dovrà pur arrivare, ne avverto quasi i passi cadenzati sopra la ghiaia: una persona che si siederà su questa mia stessa panchina, fingerà indifferenza spiegando avanti a sé un giornale da leggere, scambierà con me un buongiorno che non sia edulcorato e meno che mai doveroso, e attenderà il momento migliore per esporre la propria opinione. Sono preoccupato, dirà, con un’espressione quasi divertente ai miei occhi: oggi viviamo troppo il presente. Silenzio, le pagine del giornale frusciano mentre vengono voltate.
            Darò uno sguardo lungo la strada, soppeserò le macchine che paiono rincorrersi sopra l’asfalto, poi lascerò che quell’uomo divaghi ascoltando tutte le cose che avrà voglia di dire, annuirò su qualche passo più difficoltoso per lui, gli permetterò il tentativo di inserire la sua opinione politica all’interno di quelle sue frasi, e aspetterò che lasci una pausa, una semplice pausa minuta in mezzo a tutte quelle parole, ed il silenzio allora farà mostra di sé, incoraggiando i pensieri.
            Il presente è solo il tempo che passa, che pulsa dentro di noi, dirò sottovoce. Ma dopo, aggiungerò, quali certezze possiamo mai manifestare? Abbiamo la memoria, i ricordi che mutano poco per volta all’interno di noi, assumendo la nostra stessa maniera di porre le cose, e ci spingono sull’orlo del baratro di questo presente che sembra certe volte sia tutto, e che invece si fa beffe di noi, ci toglie gli anni, poco per volta, ci toglie la voglia di spingerci ancora più in là; oltre, non si può proprio andare. Mi osserverà con maggiore attenzione, il mio compagno della panchina, ma soltanto per un attimo; poi ripiegherà il suo giornale, dirà ancora buongiorno, e come era arrivato andrà via, chissà dove, forse alla ricerca di qualcun altro a cui dire le stesse parole.
            Allora il viale, avanti a me, addolcirà la sua curva, ed io con lo sguardo percorrerò tutta quanta la strada, fino alla congiunzione dei bordi. In quel punto laggiù, dove la mia immagine fonde, saprò individuare qualcosa che non ho mai conosciuto, e sarà questo lo scopo ulteriore per rimettersi di nuovo in cammino. Tutto il percorso così si mostrerà chiaro, potrò sentire il mio tendere verso qualcosa che per un attimo avevo perduto, avrò di nuovo con me una certezza, e sarò felice di questo, come pochissime volte era già potuto accadere.


            Bruno Magnolfi

domenica 17 luglio 2011

Al cospetto di un pensiero diverso.

            
            Corrado entra in casa, si siede, aspira la tranquillità che emana dalle sue cose, da quegli oggetti comuni da cui è circondato. Immagina qualcuno, là dentro, accanto a lui, un personaggio qualsiasi, inventato, che si muova lentamente lungo la parete, e che semplicemente osservandolo sia in grado di ricavare un giudizio su quella sua solitudine, quelle abitudini, quel continuo cercare la protezione delle mura di casa. Lo vede, sta fermo, lo guarda. Lui si volta, sa perfettamente che se riesce a distrarsi il suo personaggio svanisce, riappare soltanto nei casi in cui resta immobile e non ha niente di cui occuparsi. Allora si siede, il suo personaggio è lì, accanto a lui, sembra che dica tra sé: il vento muove le foglie degli alberi, sulle strade la gente s’incontra, dentro ai locali alcuni si sentono bene a scambiare opinioni tra loro. 
            Silenzio, l’orologio sul muro ticchetta le ore per proprio conto, Corrado si alza, la serata fuori dalla finestra appare bella, non c’è alcuna ragione per trattenersi ancora tra le mura domestiche: il suo personaggio è presente, adesso è seduto con le braccia rilasciate sopra le gambe, sembra aver assunto un atteggiamento diverso, come se non trovasse più necessario rompere l’intimità della casa per lasciare entrare quel tanto di fresco, di inesplicato, di novità che le strade della città sembrano offrire.
            Corrado si sente preoccupato: qualche volta la sua solitudine è superiore a qualsiasi altra realtà, e anche uscendo, andandosene in giro in mezzo alla gente, le cose non sembrano cambiare, anzi, certe volte quella sensazione angosciosa sembra acuirsi. Si muove per casa indeciso su tutto, poi capisce, dallo scatto della serratura nel portoncino, che la sua vicina del piano di sopra è rientrata. Resta attento a qualsiasi rumore, la sente muoversi lungo le tre stanze dell’appartamento identico al suo, la segue da un vano a quell’altro, gli riesce persino di vederla tanto è concentrato intorno a tutti quei suoi comportamenti.
            Infine cala il silenzio, Corrado disperato guarda il suo personaggio che lo osserva a sua volta, sembra quasi che uno di loro non riesca a rendersi conto di quel vuoto improvviso, come se il tempo, invece di prendersi una semplice pausa, si fosse interrotto del tutto. Corrado si alza, adesso sente il bisogno di fare qualcosa, allora indossa la giacca, il peso rassicurante delle chiavi dentro una tasca, la voglia improvvisa di lasciare là dentro tutto quanto: esce chiudendo con cura il portoncino del suo appartamento, senza avvertire dentro la testa neppure un pensiero su ciò che sta componendosi.
Poi si immobilizza sul pianerottolo, osserva le scale che scendono e salgono, quasi smette di respirare tanto la spinta che prova è ormai determinata: in un attimo, senza neppure riuscire a rendersi conto davvero di ciò che lo spinge, è davanti alla porta della sua vicina, al piano di sopra. Appoggia con accortezza l’orecchio sul legno, analizza ogni rumore che percepisce, resta lì a lungo come incapace di qualsiasi altra cosa, fino a quando il suo personaggio, con modi lenti e rassicuranti, gli si para davanti, lo prende per mano, lo riporta nel suo appartamento. Corrado adesso si sente più tranquillo, ma quella solitudine sa che lo sta frastornando, si convince in un attimo che deve finire, che deve smetterla di starsene lì, lo ha promesso a qualcuno, a quel personaggio che non lo abbandona, che è sempre con lui e non lo tradirà mai, probabilmente, per nessuna buona ragione.


Bruno Magnolfi  

venerdì 15 luglio 2011

Il duello.

            
            Qualcuno da fuori chiama a voce alta il nome di Caterina, e la donna, nel sole e nel caldo del pomeriggio estivo, esce svogliatamente sulla soglia del suo piccolo appartamento al piano terra, scansando la tenda a nastri di plastica quanto basta per vedere chi sia che la sta cercando. Non si aspetta niente di buono dagli altri da quando suo marito è andato ad abitare in un paese vicino, però adesso che è rimasta in casa da sola, finiti tutti i litigi e i mal di stomaco quotidiani, lei vorrebbe ritrovare poco per volta quella tranquillità che da molto tempo ha perduto, e così è con sospetto e malavoglia che osserva una persona sulla strada che non conosce, una donna, ferma sulle gambe, come per un duello.
            Qualcuno, mesi addietro, le aveva riferito che suo marito si era accompagnato con un’altra, così adesso, pensa Caterina, quella donna è forse proprio quella che adesso le sta lì di fronte, una povera disgraziata che non sa neppure in quale guaio si sia andata a cacciare, e che magari viene a dirle qualcosa come se a lei importasse ancora degli affari di quel suo marito. Forse le piacerebbe subito dirle qualcosa, affrontarla con parole aggressive ancora prima di ascoltare la ragioni che l’hanno spinta fin lì, ma per una sorta di rispetto resta in silenzio, forse in attesa di qualcosa che non riesce a comporre pienamente nella sua testa.
            Caterina continua a guardare dritto verso la donna, e quella donna prosegue a guardare dritto verso Caterina, come se già lo studio attento e reciproco delle loro figure dovesse dare risultati certi, finalità importanti. Le loro espressioni un po’ ruvide sembrano sottintendere chissà quali realtà differenti, i motivi di scontro potrebbero essere a portata di mano, pensa Caterina, ma qualcosa sembra si sollevi lì accanto, come un pallone leggero, gonfio della medesima aria che pare dividerle. Infine una delle due ha un piccolo gesto come di noia per quel prolungato studiarsi.
            Caterina si volta per togliere qualche foglia secca al geranio lì accanto, quasi a mostrare a quella donna che se aveva voglia di dirle qualcosa era quello il momento, e probabilmente non ce ne sarebbe stato uno ulteriore. L’altra fa un passo a sua volta, si gira quasi di fianco, poi torna a dare uno sguardo nell’espressione di Caterina, allarga leggermente la bocca in un timido sorriso che non vuole essere ironico, e lei, con naturalezza, ricambia la medesima espressione dell’altra.
            Nessuna delle due dice niente, forse perché non c’è proprio niente da dire, ma quella donna all’improvviso si lascia andare in una risata di gusto, proprio mentre si gira per allontanarsi e riprendere la strada da dove è venuta, e Caterina l’accompagna con un largo sorriso, come se fosse stata trovata un’intesa che lascia ambedue soddisfatte, o almeno coscienti di qualcosa che senz’altro non avrebbero nemmeno saputo spiegare, ma che era lì, adesso, senza alcun dubbio.


            Bruno Magnolfi

martedì 12 luglio 2011

Nel mondo degli uomini.


            L’uomo era entrato nel bar, aveva scelto un tavolo libero e si era seduto. Al cameriere che si era accostato aveva ordinato un caffè, quindi aveva aperto svogliatamente il giornale con calma. Poco dopo al suo fianco era arrivato qualcuno che lui conosceva, gli aveva appoggiato una mano sopra la spalla e aveva sorriso; infine anche lui si era seduto a quel tavolino.
            L’ordigno era scoppiato pochi secondi più tardi, al passaggio dell’auto lungo la strada principale, sicuramente azionato a distanza, e tutto davanti al locale si era trasformato in un caos completo. I due si erano precipitati là fuori, avevano visto l’auto squarciata e due uomini coperti di sangue che urlavano e si contorcevano sdraiati sopra l’asfalto.
            Tutti i curiosi parevano tenersi a distanza, ognuno col telefono all’orecchio, salvo loro due che cercavano di portare un primo soccorso a quei poveri feriti. Le autoambulanze erano arrivate in un attimo assieme alle volanti della polizia, e nella confusione dei gesti e delle sirene quei due, che si erano abbondantemente sporcati di sangue, furono presi e infilati in un’auto medica, scortata verso l’ospedale dalle forze dell’ordine.
            Nei giorni seguenti, una volta che tutto era stato chiarito, i due erano tornati a vedere la scena di quell’attentato politico, davanti a quel bar, proprio per cercare di comprendere che cosa fosse effettivamente accaduto, qualcosa che neppure i giornali avevano spiegato in maniera esauriente. Fu allora che una moto si era accostata, i due con i caschi avevano tirato fuori le rivoltelle per sparare verso di loro con una freddezza da professionisti, senza chiedere niente, lasciandoli a terra mortalmente feriti. In seguito si disse che i due erano senz’altro implicati in quell’attentato, per questo dovevano esser stati messi a tacere.

            Bruno Magnolfi  


lunedì 11 luglio 2011

(Profilo n. 10). I pezzi che mancano.

            
            Franko a fine giornata sta sistemando le ultime cose prima di chiudere la sua officina e andarsene a casa come già hanno fatto i suoi ragazzi da poco più di mezz’ora. Due tizi che non ha mai visto si fermano davanti ai suoi piedi in silenzio, dopo aver abbassato la testa sotto alla serranda mezza calata ed essere entrati, le mani dentro le tasche, le facce serie, senza espressione. Dicono, senza attendersi alcuna risposta, che hanno una macchina da riparare, e poi basta.
            Franko capisce al volo che non è il caso di replicare, resta immobile ad osservare il tizio che si è fatto più avanti, mentre l’altro tira su la serranda e va a prendere l’auto di fronte, una grossa Ford con la parte anteriore sinistra completamente sfasciata. Puoi smontare i pezzi ammaccati, dice il tizio; domani mattina la prima cosa che fai prendi le parti da sostituire dal tuo rivenditore, le vernici con attenzione e rimonti tutto quanto, come se niente fosse accaduto, noi staremo con te. E’ semplice, adesso telefoni ai tuoi ragazzi e gli dici che domani la carrozzeria sarà chiusa, inventati tu una scusa qualsiasi. 
            Franko non dice niente, sa che non può fare altro che quello che gli è stato detto, lui abita da solo, probabilmente lo sanno anche loro, nessuno lo aspetta, può rimanere lì a lavorare per tutta la notte, e loro ci contano. Rimane in silenzio, ripassa quelle istruzioni e si proietta con i pensieri al giorno seguente, quando quei due saranno usciti da lì, con la macchina a posto. Telefona, poi prende gli attrezzi e senza parlare inizia a smontare il faro e il parafango.
            Franko con la coda dell’occhio vede i due tizi che si sono seduti sul fondo della sua officina, su dei sedili smontati, e senza farsi notare raggiunge l’ufficio lì accanto, in mente il numero di telefono della polizia. Gli tornano in mente gli anni in cui andava a scuola, e si firmava con quella kappa per guadagnarsi maggiore rispetto. Non è una telefonata ciò che davvero vuol fare, ma non riesce ad avere un’idea, così esce da lì e riprende il lavoro.
            Franko si sente un po’ stanco, sa che dovrà dormire là dentro stanotte, e dopo due ore la macchina ha la parte davanti completamente smontata. I tizi osservano tutto quanto annuendo, gli dicono di far sparire da qualche parte i pezzi smontati, uno va a prendere qualcosa da mangiare alla tavola calda: quando torna tutti si sistemano sui sedili reclinati delle auto in riparazione. La notte trascorre in maniera estenuante, al mattino presto niente è diverso, tutto è rimasto com’era.
            Franko si sente uno stupido inetto, il nervosismo gli corre sotto alla pelle, ma continua a cercare di starsene tranquillo e in silenzio, mandando avanti tutte le cose. Forse potrebbe sollevare un po’ la serranda, uscire velocemente e chiudere i tizi là dentro, ma la sua vita sarebbe segnata. Percorre diverse volte tutta l’idea, come a cercare un sollievo, poi fa un cenno ad uno di loro. Salgono ambedue sul suo furgone e si incamminano per andare a prendere i pezzi che mancano. La giornata passerà, pensa più volte, in seguito non ci sarà neppure bisogno di ricordarla.


            Bruno Magnolfi    

domenica 10 luglio 2011

Uno per volta.

            
            C’era buio in tutto il corridoio, tanto quasi da infondere una leggera ma tenace sensazione di oppressione, come se soltanto aprendo la finestra in fondo a quello spazio piuttosto ristretto si fosse potuto respirare davvero. Il silenzio regnava. Una specie di scricchiolio però era parso giungere da dietro una porta che si apriva a metà di una parete, senza che ne fosse comprensibile la natura. Angelo era fermo, osservava la finestra con gli scuri accostati che separava il corridoio dallo spazio all’esterno, tanto che si intravedeva, lungo quegli spiragli attorno ai vetri, delle lame di luce che parevano pressare per entrare il più possibile dentro.
            Una lieve risata remota si faceva strada da qualche parte, come se niente fosse importante, se non quella leggerezza stentorea, l’indifferenza per qualsiasi preoccupazione. L’aria era ferma, il caldo invischiante, denso, ai limiti del sopportabile. Angelo si mosse, arrivò fino alla porta, mise la mano sulla maniglia. Buonasera, disse qualcuno alle sue spalle. Una donna con un piccolo cane al guinzaglio lo stava osservando da dietro senza interesse, lui non ebbe neppure l’istinto di rispondere a quel saluto. Venga pure, disse la donna entrando avanti a lui dentro alla stanza. Angelo la seguì senza trovare altro da aggiungere.
            Si sedettero entrambi, lei appoggiò la borsa sul tavolo e il piccolo cane si acciambellò in una cesta di vimini sul pavimento al suo fianco. Angelo disse qualcosa, senza convinzione, la donna sorrise, consultò qualche foglio che aveva di fronte nella lieve luce della lampada, poi prese una pausa. Accese una grossa candela rallentando i movimenti, infine alzò lo sguardo sulla sua faccia. Mi spieghi soltanto il suo pensiero principale, disse con voce pacata.
            Angelo si accomodò sulla seggiola stringendo i braccioli di legno, osservò la luce della candela, infine disse: da un po’ di tempo sono diventato insicuro; cerco di fare le cose di sempre e mi viene ogni volta più naturale chiedermene il motivo, tanto da tendere a non combinare più niente. Resto in silenzio, da solo, certe volte, tormentato da mille preoccupazioni che prima non avevo. Non mi pare ci sia niente di diverso nella mia vita, se non questo abbattimento che non so neppure spiegarmi da dove derivi.
            Il cane si era scosso conformemente alla fiammella della candela, la donna aveva abbassato lo sguardo lasciando una pausa, e infine aveva detto come scolpendo la frase sopra una pietra: chiedersi il perché delle cose, è naturale; le risposte vanno cercate dentro di noi. Angelo aveva ascoltato con scarsa convinzione, poi aveva detto, muovendosi ancora un po’ sulla scomoda seggiola: non trovo alcuna risposta. La donna si era sollevata all’impiedi, si era spostata verso un lato di quella stanza, infine aveva spiegato: non posso aiutarla, il problema che pone è di tutti; posso ascoltarla se vuole parlare, e forse in questa maniera può riuscire a trovare i motivi della sua depressione. Altro per me è impossibile, il resto dipende da lei.  
            Angelo guardava perplesso le carte sopra il piano del tavolo, senza interesse, infine disse: va bene; e si alzò dalla sedia. La donna lo seguì con lo sguardo in silenzio, lui arrivò fino alla porta, infine voltandosi disse soltanto: se mi viene voglia di venirle a parlare, allora, prendo un appuntamento con la sua segretaria? No, venga direttamente, disse la donna, forse anche aspettare il suo turno nel corridoio può esserle utile.


            Bruno Magnolfi

Uno per volta.

            
            C’era buio in tutto il corridoio, tanto quasi da infondere una leggera ma tenace sensazione di oppressione, come se soltanto aprendo la finestra in fondo a quello spazio piuttosto ristretto si fosse potuto respirare davvero. Il silenzio regnava. Una specie di scricchiolio però era parso giungere da dietro una porta che si apriva a metà di una parete, senza che ne fosse comprensibile la natura. Angelo era fermo, osservava la finestra con gli scuri accostati che separava il corridoio dallo spazio all’esterno, tanto che si intravedeva, lungo quegli spiragli attorno ai vetri, delle lame di luce che parevano pressare per entrare il più possibile dentro.
            Una lieve risata remota si faceva strada da qualche parte, come se niente fosse importante, se non quella leggerezza stentorea, l’indifferenza per qualsiasi preoccupazione. L’aria era ferma, il caldo invischiante, denso, ai limiti del sopportabile. Angelo si mosse, arrivò fino alla porta, mise la mano sulla maniglia. Buonasera, disse qualcuno alle sue spalle. Una donna con un piccolo cane al guinzaglio lo stava osservando da dietro senza interesse, lui non ebbe neppure l’istinto di rispondere in maniera adeguata a quel saluto. Venga pure, disse la donna entrando avanti a lui dentro alla stanza. Angelo la seguì senza trovare altro da aggiungere.
            Si sedettero entrambi, lei appoggiò la borsa sul tavolo e il piccolo cane si acciambellò in una cesta di vimini sul pavimento al suo fianco. Angelo disse qualcosa, senza convinzione, la donna sorrise, consultò qualche cosa che aveva di fronte nella lieve luce della lampada, poi prese una pausa. Accese una grossa candela rallentando i movimenti, infine alzò lo sguardo sulla sua faccia. Mi spieghi soltanto il suo pensiero principale, disse con voce pacata.
            Angelo si accomodò sulla seggiola stringendo i braccioli di legno, osservò la luce della candela, infine disse: da un po’ di tempo sono diventato insicuro; cerco di fare le cose di sempre e mi viene ogni volta più naturale chiedermene il motivo, tanto da tendere a non combinare più niente. Resto in silenzio, da solo, certe volte, tormentato da mille preoccupazioni che prima non avevo. Non mi pare ci sia niente di diverso nella mia vita, se non questo abbattimento che non so neppure spiegarmi da dove derivi.
            Il cane si era scosso conformemente alla fiammella della candela, la donna aveva abbassato lo sguardo lasciando una pausa, e infine aveva detto, come scolpendo la frase sopra una pietra: chiedersi il perché delle cose, è naturale; le risposte vanno cercate dentro di noi. Angelo aveva ascoltato con scarsa convinzione, poi aveva detto, muovendosi ancora un po’ sulla scomoda seggiola: non trovo alcuna risposta. La donna si era sollevata all’impiedi, si era spostata verso un lato di quella stanza, infine aveva spiegato: non posso aiutarla, il problema che pone è di tutti; posso ascoltarla se vuole parlare, e forse in questa maniera può riuscire a trovare i motivi della sua depressione. Altro per me è del tutto impossibile, il resto dipende da lei.  
            Angelo guardava perplesso le carte sopra il piano del tavolo, senza interesse, infine disse: va bene; e si alzò dalla sedia. La donna lo seguì con lo sguardo in silenzio, lui arrivò fino alla porta, infine, voltandosi, disse soltanto: se mi viene voglia di venirle a parlare, allora, prendo un appuntamento con la sua segretaria? No, venga direttamente, disse la donna, forse anche aspettare il suo turno nel corridoio può esserle utile.


            Bruno Magnolfi

venerdì 8 luglio 2011

(Profilo n. 9). Accanto al muro.

            
            Mi soffermo ad osservare la campagna, certe volte, quella che si vede da qui, oltre questo vecchio muretto di pietre che costeggia la strada dietro al paese, mentre serpeggiando scende dalla nostra collina. Incontro qualcuno, ci salutiamo, ma basta uno sguardo, non c’è bisogno di dirsi qualcosa, assaporiamo la giornata che scorre con la coscienza di chi non ha orpelli per gli altri e neppure ne chiede.
            Tutti riconoscono in me una persona di margine, uno che passa le giornate da solo, con cui è bene tenersi a distanza, non si sa mai cosa potrebbe inventare. Mi muovo di un passo, appoggio una mano sul muro, guardo la fila di cipressi più in basso che sembrano tante persone silenziose mentre camminano proprio come faccio io, lungo il bordo di questa anonima strada.
            Il mio disagio è il pensiero: troppo spesso lascio che porti la mia mente lontano da qui, sempre partendo da questo scorcio di campagna, da questa macchia di verde sfumata dai tempi delle stagioni. Passa una donna che conosco, mi dice con voce squillante che oggi è una bella giornata, annuisco, lascio che scorra mentre sorrido e la osservo.
            Ci si guadagna la rispettabilità giorno per giorno, penso, poi a volte la si perde in un attimo, e infine siamo qualcosa di incasellato per sempre. Non ha alcuna importanza, guardo la donna da dietro e forse vorrei stringerla a me, spiegarle quanto sia stato bello sentirmi salutare a quel modo, rendermi conto di essere anch’io una persona, lasciato per rispetto al mio gioco di sempre, a questo osservare da qui ciò che si vede.
            E’ il punto di osservazione la cosa importante, penso: basta spostarsi di poco, appena un’inezia, e tutto cambia in un attimo. Riconosco una macchia di lecci, là in fondo, e col pensiero mi spingo là dentro, come un animale del bosco. Un giorno prenderò questa strada, penso, forse camminerò in avanti senza fermarmi, e continuerò così fino a percorrerla tutta, senza voltarmi.

            Bruno Magnolfi

              

martedì 5 luglio 2011

Via da qui.

            
            Elisa adesso era rimasta da sola a quel tavolino, sotto agli ombrelloni bianchi del bar all’aperto. Non era stata capace di parlare sinceramente all’amica con la quale aveva passato quella mezz’ora, e anche se qualcosa superficialmente aveva accennato, adesso pensava di scriverle un biglietto nel quale con due parole avrebbe cercato di spiegare che lei se ne andava, ormai aveva deciso, via da quella città, da quelle strade che adesso sentiva quasi ostili, non sue. In fondo le pareva una scelta ormai fatta e archiviata, non le era facile neppure ritrovare le ragioni precise che l’avevano spinta fin lì, ma era in questa maniera che andavano le sue cose, ne era convinta, ormai nella sua testa era tutto ben stabilito.
            Il suo lavoro di cameriera d’albergo lo poteva svolgere in qualsiasi altro posto, era da tanto tempo che lo pensava, da qualche parte avrebbe sicuramente trovato dove occuparsi, non c’era assolutamente bisogno di darsene ulteriore pensiero. Aveva due soldi da parte, sarebbero bastati per ripartire. Elisa si guardò attorno, spense la sigaretta nel posacenere di plastica, poi si alzò dal tavolino. La giornata era bella, la luce della tarda mattinata era forte. La sensazione che ultimamente aveva provato in qualche occasione parve ad un tratto riprendere vigore dentro di lei: sentiva la nausea per quelle strade, per quella gente, come se tutti fossero lui, quel vigliacco che le aveva inventato un sacco di storie e che adesso pareva si fosse stufato continuando addirittura a negarsi alle sue telefonate.
            Ma in fondo non le importava, quella storia si era subito mostrata balorda, lei lo aveva capito, non riusciva neppure a spiegarsi come avesse potuto cascarci in quella maniera. Ci voleva niente però ad attraversare la strada, preparare con calma la sua valigia, sistemare quelle due o tre cose rimaste in sospeso e salire sul treno, destinazione qualsiasi, pronta per una nuova avventura. Le scappava da ridere, così si faceva, pensava, senza lasciare niente alle spalle, come seguendo un semplice percorso mentale. Una macchina in mezzo alla strada l’aveva sfiorata, strombazzando alla sua sbadataggine, poi Elisa quasi senza averne coscienza aveva raggiunto l’altro marciapiede, era arrivata davanti al portone del palazzo dove stava il suo monolocale e si era fermata un momento, indecisa. Si era guardata attorno sentendosi ormai all’orlo di qualcosa, aveva tirato fuori la chiave e le era venuto da piangere, ma aveva saputo controllarsi.
            A tratti le pareva di essere forte, convinta delle cose da fare, e in altri momenti avrebbe avuto voglia di disperarsi, di lasciare a qualcun altro il compito di indicarle il percorso migliore da prendere. Restava lì davanti, ferma, con le chiavi dentro la mano, pensando alle sue cose fino quasi a farsi scoppiare la testa, indecisa di tutto, persino se muoversi subito o se invece aspettare. Si accostò una vettura che lei riconobbe: era lui, e ad Elisa già soltanto farsi trovare in quella situazione emotiva le dette fastidio. Lui scese, con calma, le andò vicino, la salutò senza guardarla, Elisa osservava i suoi gesti, i suoi modi che conosceva perfettamente, restando immobile lasciava che fosse lui a farsi avanti, a mostrare le sue buone ragioni, se ne aveva. Passò un attimo, poi lui disse qualcosa, una sciocchezza, una parola qualsiasi, e lei non aprì neppure la bocca, però si volse, infilò la chiave nella serratura ed entrò, senza darsene fretta. Poi richiuse il portone.


            Bruno Magnolfi

venerdì 1 luglio 2011

Corsa insensata (ripresa cinematografica n. 2).

            
Corro per strada,  la faccia spaurita, i muscoli delle braccia e delle gambe che si muovono ritmicamente con tutto il corpo. Le persone m’incontrano e mi guardano un attimo, ma non ho tempo, devo arrivare con grande fretta, sempre più di fretta.
            Gastone ha la fronte sudata, non è abituato agli sforzi, la sua faccia traduce fatica e paura, bisogno di andare, di vivere, necessità di spingersi oltre. L’aria è quella di un giorno qualunque, ma qualcosa non torna, qualcosa non è come dovrebbe.
            Continuo a correre tra le persone, anche se so che dovrò fermarmi, non ci sono altre possibilità, forse lo sanno anche loro, niente può continuare in eterno, questa è la logica, ma io non lo so, non riesco a immaginare quando i miei piedi si fermeranno, quando le mie braccia dovranno abbandonarsi sui fianchi, quando resterò lì, immobile. Il marciapiede è largo, proseguo a correre nonostante il mio ritmo ormai sia allentato, si vede probabilmente lo sforzo fin sulla mia faccia, qualcuno forse potrebbe anche riderne, ma tutto questo non ha alcuna importanza.
            Accanto a Gastone qualcuno lo incita ad andare più avanti, qualcosa a lui gli dice di spingersi oltre, quasi senza pensare, come un gesto da compiere e basta. Ormai è senza fiato, non può resistere più così, e allora rallenta, inciampa sul marciapiede pieno di gente, prosegue ma traballando quasi preda di quello sforzo, di quella fatica.  
            Cerco con gli occhi qualcuno che capisca il mio stato, mi fermi, mi dica che forse non c’era necessità di questa mia prova, che comunque tutto è andato nella maniera prevista, non c’è più bisogno di spingersi oltre, è sufficiente così, sono stato capace di un gesto importante, penso che questo verrà sicuramente riconosciuto. Ma nessuno di loro mi guarda, ognuno mi scansa mentre passo in mezzo alla gente, la mia corsa è ormai disordinata, qualcosa che forse mette soltanto paura, e non interessa nessuno, così sono sempre più solo, inevitabilmente da solo.
            Due o tre persone seguono Gastone con gli occhi, cadrà a terra tra non molto, lo sanno benissimo, sarà necessario rialzarlo, dargli coraggio, spiegargli che deve lasciare ad altri la possibilità di occuparsi di lui, delle sue condizioni, del suo stato inadatto a proseguire così. La solidarietà è il gesto più umano di tutti, deve capirlo, deve lasciarsi sorreggere. 
            Ho voglia soltanto di gettarmi per terra, di trovare qualcuno che mi comprenda, che mi restituisca quel fiato che adesso non ho, che mi faccia riprendere da questa fatica, che mi spieghi, forse, come fosse stato possibile arrivare fin qui senza questo sforzo, senza questa fatica pazzesca che adesso pare non serva neanche, che ormai non serva più a nulla.

            Bruno Magnolfi