domenica 30 dicembre 2012

L'assurda ragione.


            
            Lui cammina in silenzio. I suoi passi sono cadenzati, monotoni, le sue mani sprofondate dentro le tasche, il viso protetto dal bavero della giacca. Alcune persone per strada lo sfiorano camminando in senso contrario, altre lo notano per la sua aria assorta, i suoi pensieri forse persi dietro qualcosa di irraggiungibile. Poi entra dentro un portone, sale lentamente due rampe di scale, suona ad un campanello sul pianerottolo. Qualcuno gli apre silenziosamente, lo lascia entrare, chiude la porta alle sue spalle.
            Sa di essere atteso, ciò nonostante: sono qui per fare chiarezza, dice a voce bassa, e anche per prendere qualche decisione; come se alternativamente fosse lì soltanto per un puro caso. Viene fatto sedere ad un tavolo, da un cassetto si tira fuori una cartella piena di documenti. Lui se ci pensa forse vorrebbe già essere lontano da lì, anzi, probabilmente sarebbe contento di non esserci mai neppure venuto, eppure tutto quanto adesso pare andar bene, gli sembra anche più facile del previsto, una volta riuscito a superare qualsiasi moto spontaneo di repulsione, quella sua voglia naturale, dopo tutti quegli anni di guerre, di tenersi lontano da quella casa e anche da coloro che continuano ad abitarla.
            Là dentro si parla adesso in termini quasi legali, le carte riportano con chiarezza i confini di alcune proprietà da dividere, le espressioni sono fredde, niente di tutto questo esprime qualche sentimento, qualche bisogno reale, e le sensazioni che procurano, almeno a lui, quei nomi così legati a dei cari ricordi, che pur certamente convivono in mezzo a quei margini segnati sulle planimetrie e tra le parole degli atti, sono solo un’astrazione da quel contesto. Si prova sicuramente un certo disagio dietro agli occhiali con cui si osservano tutte le carte, ma in ogni caso si vuole andare avanti, fino in fondo, fino a quando tutto sarà debitamente appianato e deciso.
            Lui sa che sua sorella si trattiene nella stanza vicina, forse ascolta ogni parola restando in silenzio, al riparo di una porta ben chiusa: persino dopo tutti quegli anni non vuole incontrarlo, non vuole neppure vederlo, lascia che ogni cosa venga trattata da un legale e da suo marito, quel cognato pacato, tranquillo, che si è sempre offerto di fare da mediatore tra i loro caratteri a spigoli, cercando la giusta divisione di quelle proprietà di cui sono eredi, solo loro due, senza alcun dubbio. Si guardano ancora le carte, lui non dice quasi niente, lasciando che si formuli un’offerta finale: non si è neppure tolto la giacca, tanto riesce ad avvertire l’ostilità della casa, però sente con prepotenza la volontà di tutti di arrivare in fondo a quella faccenda, perché non è più proprio possibile lasciarla ancora in sospeso.
            Si prendono impegni, si firma qualcosa di importante, tutto quanto adesso, quasi per magia, sembra più facile di qualsiasi altra cosa; ogni nodo da sciogliere pare risolversi con poche frasi, con qualche sguardo, come se scorresse su una strada liscia e senza le curve. Infine tutto appare deciso, lui si alza, saluta, viene accompagnato alla porta, sta per andarsene, ma c’è sua sorella che esce improvvisa dal suo rifugio, lo guarda, gli va incontro, si abbracciano: che inutile cosa, credere di avere sempre ragione, pensa qualcuno.

            Bruno Magnolfi

giovedì 27 dicembre 2012

La danza di corteggiamento del niente.


            
            Oltre il raggio d’azione di questa lampadina elettrica perennemente accesa ad illuminare il piano del mio tavolo, c’è soltanto l’oscurità, un buio talmente denso, compatto ed omogeneo, da potersi paragonare ad un nulla assoluto. Dispongo in ordine sul tavolo i piccoli oggetti a cui sono maggiormente legato: un vecchio temperino, due penne di cui una non più funzionante, un tappo di sughero marchiato a fuoco all’estremità, un mozzicone di matita, e infine un anello di metallo per trattenere le chiavi. La lampadina mi permette di osservarli a lungo in ogni particolare, ed io mi lascio andare nello studio di tutti quei precisi dettagli.
            Non c’è nient’altro che valga la pena di essere ammirato come queste mie piccole preziosità: sono tutto ciò che mi porto dietro da anni, rimasugli di tempi diversi da questi, durante i quali forse mi sentivo addirittura migliore, meno rinchiuso come sono adesso nell’alveo rischiarato da questa semplice lampada. Ma non mi lamento, so che queste mie piccole cose sono ciò che avevo sempre desiderato di possedere, i fili robusti che legano il mio presente con il passato, segni concreti di qualcosa che adesso forse neppure ricordo, ma che indubbiamente una volta ha avuto una certa fondamentale importanza.
            Sul piano del tavolo, ora, tutto questo produce come una danza silenziosa, fatta di strani interscambi di un oggetto con l’altro, di allineamenti semplici eppure di grande interesse, quasi una ricerca continua di una disposizione finale, quella migliore, la più adatta di tutte. Dal buio si avvicina qualcuno con passi felpati da pantofole di casa: è una mia vicina parente che abita nelle stanze di questo appartamento, e viene qui ogni poco a sincerarsi di come io stia, se abbia bisogno di qualcosa, se perseguo anche oggi i miei scopi di sempre. Mi tocca una spalla, dice: stiamo guardando la televisione, di là; potresti venire anche tu, se vuoi. Sposto l’anello per le chiavi sul piano del tavolo, indico qualcosa che solo a me è evidente, ma lo faccio in silenzio, come se lei interrompesse qualcosa che porto avanti con grande applicazione. Se ne va, finalmente, senza aggiungere niente.
            Infine mi alzo, ripongo dentro la scatola di metallo tutti gli oggetti, avendo cura di metterli in una certa maniera sul fondo, poi affronto la zona buia della stanza. So che non c’è niente qui, niente che abbia davvero valore, però certe volte non posso fare a meno di rivolgermi verso quel qualcosa che neppure conosco, quasi un rincorrere degli elementi distanti da me, fuori dalla portata dei miei desideri. Avrei bisogno di un nuovo oggetto, penso, ma per quanto mi sforzi non so cosa possa mai essere, non riesco a mettere a fuoco ciò che mi manca davvero.
            Cammino fino alla porta, la apro, arrivo di là, dove tutti stanno guardando un programma alla televisione. Non dico niente, mi fermo, osservo la luce azzurrina che arriva da quello schermo, poi, accanto ad un soprammobile, osservo la stanghetta di plastica di un paio di occhiali rotti da tempo. Mi accosto, senza che nessuno mi veda: lascio scivolare dentro una tasca quel feticcio di qualcosa che neppure so bene che sia, ma che adesso è importante, serve per completare la danza sotto alla mia lampadina. Torno nella mia stanza e mi siedo. Dovrò smettere, penso; prima o poi gli altri me lo diranno in malo modo, con qualche minaccia e con la voce piuttosto alterata. Ma non importa, fingerò indifferenza, come ho sempre fatto, in fondo loro fanno solo parte del niente.

            Bruno Magnolfi 

lunedì 24 dicembre 2012

Distanza di sicurezza.


            

            Ero entrato nel piccolo appartamento alle spalle di quella signora che neppure conoscevo, ma alla quale avevo spiegato, con poche parole pronunciate sottovoce sulla porta, di essere un amico del figlio, e di avere notizie di lui. Ristagnava un vago odore di minestra nell’aria, e forse di chiuso e di mobili vecchi. Ero stato fatto sedere presso il tavolo del salottino, e la signora, in piedi, tenendosi le mani, mi aveva presentato rapidamente a sua figlia, una ragazza non bella e forse timida, che era rimasta in disparte e in silenzio, alzando appena il suo sguardo giusto un momento.
            Avevo spiegato con poche parole di non essere propriamente un amico, ma anzi di avere conosciuto Armando solo nell’arco di due o tre giorni, quando casualmente ci eravamo ritrovati insieme, a fronteggiare una situazione complessa quale quella di sopravvivere in qualche maniera in una terra straniera. Per me era stata solo una condizione momentanea, dicevo, ma lui non aveva più documenti, e per questo motivo mi aveva spiegato che non poteva arrischiarsi a varcare il confine e rientrare nella sua patria; e d’altra parte neppure cercare un lavoro era qualcosa in cui potesse facilmente confidare. Così stava vivendo alla giornata, spiegavo alle due donne, senza più un soldo né un indirizzo a cui farsi spedire un aiuto da voi o da chiunque altro.
            La signora sembrava comprendere perfettamente le mie parole, anzi, sembrava che fosse già preparata ad un rapporto del genere, tanto che fermò ad un tratto le mie parole giusto per chiedermi di quale città si stesse parlando e in che situazione fisica avevo trovato il suo Armando. Dissi che lui stava bene, almeno in apparenza, soltanto cercava di non dare troppo nell’occhio, e quindi si spostava continuamente, tanto da non permettermi di sapere con esattezza se attualmente fosse ancora nello stesso luogo in cui lo avevo lasciato, oppure no. In ogni caso è una persona che sa cavarsela, dissi con forza, sicuramente troverà la maniera di uscire da quella situazione.
            La signora era rimasta in silenzio sulle mie ultime parole, tanto che per uscire da quell’aria di imbarazzo che pareva aleggiare, stavo per alzarmi e prendere congedo da lei e da sua figlia, quando quest’ultima disse qualcosa, come parlando tra sé: voglio andare da lui, spiegò con una smorfia del viso; ho bisogno di vederlo di persona, o almeno di andare a cercarlo, anche se ho capito che non sarà facile. Dissi in due parole che era una faccenda complicata e pericolosa, che sconsigliavo vivamente, ma lei insisteva, quasi come una ripicca, o forse un proprio bisogno di staccarsi per un po’ di tempo da quella casa. In ogni caso spiegai con precisione dove avevo lasciato Armando l’ultima volta che lo avevo veduto, per il resto, dissi, ci vuole soltanto un po’ di fortuna.
            Quindi mi alzai, mi accorsi che la signora stava rigidamente in silenzio, come conservando una grande dignità, e ugualmente mi accompagnò verso la porta senza aggiungere una sola parola. La figlia, al contrario di ogni mia aspettativa, iniziò a dire che in quella casa c’era bisogno di Armando, che lei lo doveva trovare, che non poteva esserci nessuna soluzione diversa, quello era il suo compito, quella la missione a cui era chiamata. La signora mi guardò un momento negli occhi come a spiegare con uno sguardo ciò che non poteva con le parole, io le strinsi la mano ed uscii, ma fu mentre scendevo le scale che sentii urlare: lo amo, è un amico di Armando, voglio dedicargli la vita, andremo insieme a trovare mio fratello, lui saprà dove dirigersi. Raggiunsi la strada allontanandomi velocemente da lì, poi, più tardi, quando mi ritrovai con Armando, gli dissi soltanto che le cose che mi aveva precedentemente fatto presente, purtroppo non sembravano affatto cambiate.

            Bruno Magnolfi

venerdì 21 dicembre 2012

Chiuso dentro un pensiero.


            
            Era uscito dal locale quasi con stizza. Aveva perduto a carte, anche se questo in fondo non era particolarmente importante. Però non era riuscito ad essere il giocatore di sempre, spiritoso, brillante, di compagnia. Si era lasciato andare anche ad un piccolo sfogo contro la sfortuna che secondo il suo parere lo aveva perseguitato per tutta la sera, e questo non era da lui.
            Così era uscito dal circolino con l’impellente necessità di starsene solo, ma quel nervosismo che aveva accumulato lo faceva ancora star male. Perciò si era incamminato verso la stazione ferroviaria, giusto per guardare qualche treno in partenza e prendersi un caffè in quel bar quasi anonimo, in mezzo a qualche faccia che probabilmente non aveva mai visto.
            Ma alla fine si era ritrovato ad osservare la parte lucida dei binari, ad essere stanco senza il coraggio di tornarsene a casa, e ad avere sonno senza la possibilità di andare a dormire. Un barbone gli si era avvicinato senza neppure chiedergli niente, e lui aveva sopportato con indifferenza quella presenza, senza la volontà di allontanarsi o di dire qualcosa.
            Poi era arrivato un treno locale, fermandosi con un certo stridore dei freni, qualche passeggero era sceso dai vagoni e lui era rimasto ancora quasi impassibile. Non c’era alcun senso in ciò che stava pensando, eppure non riusciva neppure a riflettere qualcosa di minimamente diverso. Osservava gli sportelli aperti di quel convoglio come una possibilità di fuga da tutto, repentina, irrazionale, inspiegabile, e questa era l’unica idea che riusciva ad avere.
            Infine il barbone all’improvviso gli aveva chiesto sottovoce dei soldi, come se ognuno prima o dopo dovesse pur fare la propria parte: prima che parta, aveva detto, me lo lascia uno spicciolo? Ma lui lo aveva guardato a lungo senza rispondere, quasi incantato; e infine, come lasciando affiorare alle labbra un pensiero sofferto, aveva detto semplicemente: mi dispiace, in tasca ho soltanto il biglietto del treno, nient’altro; e con queste parole era salito senza più indugi.

            Bruno Magnolfi

mercoledì 19 dicembre 2012

Stretta dai sogni.


            
            E’ soltanto il risveglio il vero problema. Io dormo e sogno, ed il mio mondo in questa fase meraviglia per la sua ricchezza.
La donna in genere inizia la sua giornata per automatismi, assaporando a volte, insieme alla consapevolezza del giorno reale, il gusto residuo che certe volte trattiene del suo assopimento. Qualche volta, proprio per questo, lei ha addirittura provato ad annotare ciò che riesce a ricordare di quei suoi sogni, ma non è mai riuscita a restituire minimamente qualcosa di quei sapori. Così affronta la realtà, esce da casa e osserva gli altri sopra il suo autobus, quasi come figure fantastiche imprigionate all’interno di un ruolo.
            Va da suo padre, quasi ogni giorno, a tenergli compagnia un’ora o due, a sbrigare qualche faccenda per lui, a rendersi conto con attenzione del suo stato corrente. Lui abita da solo la sua vecchiaia, non troppo distante da casa della donna, e trascorre le giornate in silenzio, seduto accanto alla finestra, come in attesa di qualcosa. Lei si muove in fretta, gli fa delle domande, a volte gli racconta qualche piccolo fatto, ma non gli parla mai dei suoi sogni e di come tutto sia diverso quando questi si snodano di notte nella sua mente addormentata ma vigile.
            Anche la donna vive nell’attesa, e intanto inganna le giornate portando avanti ciò che le sembra più naturale. Suo padre non le chiede mai niente di sé, forse per pudore, forse perché secondo lui tutta la vita è soltanto riuscire ad essere concreti, realizzati nello scandire il tempo nei giusti attimi. Lei non si sofferma quasi mai ad osservarlo, però qualche volta gli tocca un braccio, o una mano ruvida, lo sfiora come per sentirne la corporalità. Le giornate si assomigliano tutte in questa maniera, eppure ciascuna ha una sua peculiarità, una qualche caratteristica propria.
            Lei torna a casa, rivedrà suo padre la mattina seguente, gli porterà qualcosa di buono da mangiare, forse, starà di nuovo con lui, a tenergli un po’ di compagnia, perché certe volte ha paura che la solitudine per lui poco a poco diventi un disturbo o un malore. Nel pomeriggio si occuperà della sua famiglia, del marito, della sua casa. Sarà esattamente ciò che ognuno si aspetta che sia, senza minimamente cercare qualcosa di diverso. Certe volte poi la donna si siede a pensare, senza un oggetto preciso a cui riferirsi, e immagina tutta la sua giornata come una lunga pausa di sospensione nell’attesa dei sogni che coroneranno come sempre il suo sonno notturno.
            In molte occasioni le pare una forma solo egoistica la sua, ma non può farci niente. La rende felice quel suo pensiero, e la coscienza che tutto il suo tempo prima o poi terminerà in quel cullarsi di immagini oniriche, per lei è più importante di tante altre cose; ed anche se sa che i suoi sogni sono solamente proiezioni positive della sua fantasia, ugualmente è contenta soltanto al pensiero che la sua mente riuscirà ancora a vagare in quei suoi mondi fantastici, e forse questo, anche se non è sufficiente a darle una serenità che comunque non riesce quasi mai ad avere, sa che è comunque qualcosa di estremamente importante, almeno per lei.

            Bruno Magnolfi

domenica 16 dicembre 2012

L'uomo contemporaneo, 2.


            

Lui era entrato al caffè-lunch poco prima delle quattordici, ora di punta per quella tipologia di locale inserito in un contesto da quartiere dirigenziale di tipo avanzato. L’interno era giocato sostanzialmente sulla superficie di tre materiali: legno di ciliegio, acciaio inox con forme spigolose e taglienti, e soprattutto ritagli di specchi inseriti in ogni contesto possibile, a riflettere le persone presenti decine di volte, ingigantendo gli spazi e lasciando sconfinare gli sguardi oltre ogni limite. L’esterno era tutto coperto da enormi ombrelloni bianchi e quadrati, e al di sotto sedie e tavoli sempre in acciaio, con dei parallelepipedi piccoli e grandi usati come fioriere cariche di piante verdissime finte e improbabili, a delimitare tutte le aree. Dappertutto ragazze eleganti, a volte vistose, e uomini giovani spesso in cravatta, quasi come si desse un ricevimento a coronare un evento mondano. Entrare significava mostrarsi alla vista di chi era presente, e percorrendo i primi cinque o sei metri si camminava lungo una specie di passerella d’acciaio, al centro esatto di tutti gli sguardi.
Lui andava in quel locale ogni volta che gli era possibile, diceva che gli pareva un posto pieno di donne, anche se alla fine non era la cosa che lo attraeva di più; in realtà si sentiva estremamente a suo agio all’interno del gioco di sbirciare e guardarsi nelle tante porzioni di specchio, ed anche se cercava in apparenza di mimare un personaggio che tenta di passare il più inosservato possibile, vestendo i panni della persona qualsiasi, in fondo la sua era soltanto una posa. La maniera che generalmente gli piaceva di più era quella di entrare là dentro parlando sottovoce al telefono, senza fare alcun gesto, se non qualche sorriso o un saluto pacato indirizzato verso una conoscenza qualsiasi in fondo al locale, restando impassibile e guardandosi attorno in un attimo breve di sospensione quasi pneumatica, decidendo di dirigersi inevitabilmente verso il bancone del bar. Pur scegliendo di mangiare qualcosa, un toast, una tartina, un sandwich, pareva scegliere a caso, pur insistendo con garbo per avere sempre una cosa precisa, generalmente accompagnando tutto con un semplice bicchier d’acqua, e rimanendo rigorosamente in piedi vicino ai piani su cui si servivano tramezzini e caffè, ma senza mai né appoggiarsi né toccare la superficie del banco.
Lui amava andare nei posti da solo, specialmente locali pieni di gente, proprio come quel giorno, e spesso trovava da scambiare uno sguardo, un sorriso, a volte persino qualche parola, in genere considerazioni confezionate con spirito su qualcosa che appariva piuttosto evidente. Si tratteneva per il tempo strettamente necessario, forse anche meno, pur riuscendo ad evitare di venire scambiato per un tipo nervoso o peggio nevrotico. La ragazza, entrata dopo di lui nel locale, gli aveva chiesto in inglese se sapeva indicarle un negozio specificando un nome curioso. Lui, nel suo modo semplificato di parlare quella lingua straniera, aveva risposto che gli dispiaceva, ma non aveva mai sentito quel nome, però immediatamente ne aveva chiesto notizia in italiano al barista, che in due parole aveva saputo indicare dove si trovasse quell’esercizio. Una volta tradotta l’informazione, la ragazza aveva ringraziato con un gran sorriso, e a lui, pensando tra sé che avrebbe potuto benissimo invitarla a bere un caffè, o accompagnarla addirittura fino al negozio che peraltro rimaneva vicino, non gli era passato per la testa di fare né questo né quello, e non per una sorta di timidezza o di impaccio, ma per quel suo bisogno sovrano di stare da solo, anche in un posto pieno di gente.
Lui, infine, quando era uscito da quel caffè, si era accorto che la ragazza straniera era ancora nei pressi, fingendo di cercare con grande impegno qualcosa dentro la borsa, di fatto probabilmente aspettandolo, proprio per dargli una ulteriore possibilità; ma lui stava osservando con grande interesse un punto qualsiasi, qualcosa che restava in una zona distante del viale su cui si affacciava il locale, e sempre con il suo passo, mai affrettato, quasi una vera e propria cadenza, raggiunse la sua macchina parcheggiata vicino, e così, senza neppure voltarsi, se ne andò. 

            Bruno Magnolfi

venerdì 14 dicembre 2012

L'uomo contemporaneo, 1.




Per un attimo mi ero specchiato nei vetri lucidi della finestra, muovendomi lentamente ora in avanti ed ora indietro nell’ufficio, ma non avevo propriamente guardato fuori, piuttosto avevo avuto come la sensazione che fosse il fuori ad osservarmi. Poi avevo parlato per brevi monosillabi ai miei collaboratori vagamente imbarazzati, che continuavo a tenere ancora inchiodati di fronte a me, due seduti ed uno in piedi vicino allo scaffale, senza dare troppa importanza a nessuno di loro, o ai loro fogli e ai blocchi per appunti che tenevano tra le mani. Proseguivo piuttosto a guardare dei punti indefiniti, mostrando preoccupazione per qualcosa d’altro, qualcosa che oscillava tra la mia testa e qualche breve telefonata che ricevevo e che in genere mi aggiornava semplicemente sui tanti aspetti del mio lavoro. Avevo posto loro delle domande, naturalmente cambiando più volte argomento, e mi rammaricavo che molte cose fossero rimaste in aria, sospese e quasi in attesa di giudizio: l’accavallarsi dei fatti e delle decisioni nel mio ufficio era comunque sempre stato un elemento del tutto ordinario, perciò non c’era niente da stupirsi.
Poi, durante un’ulteriore telefonata al cellulare, ero uscito dalla stanza, giusto per farmi sentire dagli altri e dare una scrollata eventuale a chi non fosse pienamente impegnato nel proprio compito, e avevo visto così quella persona in sala attese, un ragazzo poco più che ventenne, mentre aspettava il suo turno probabilmente per un colloquio. Non mi piacque, anche se non avrei saputo dirne il motivo, ma per questo decisi subito che lo avrei fatto aspettare più di quanto fosse stato necessario. Tornando verso la mia scrivania alzai un po’ la voce spiegando che non era possibile complicare sempre le cose fino al punto di non trovare più in seguito una via d’uscita. Era una frase riferita a certe squadre di lavoro che per un motivo o per un altro, usando scuse tendenzialmente pretestuose, non completavano mai le cose così come veniva chiesto di fare ai caposquadra, creando in seguito pregiudizio sulla programmazione delle attività. Poi ebbi un vuoto, mi parve di rivivere una stessa situazione, come spesso capita, ma con la differenza che adesso mi pareva con terrore che tutto mi sfuggisse, e di non avere pieno controllo sulle persone. Per questo decisi di essere più duro con quei miei collaboratori scansafatiche.
Feci uscire tutti, dettai degli ordini da eseguire cercando il massimo dell’incisività, poi chiesi a che punto fossero arrivati certi aggiornamenti. Fu risposto con timore che erano indietro, come peraltro già sapevo, così con voce leggera chiesi di lavorare nella serata oltre le venti, per rimediare al più presto alle mancanze. Cambiai argomento prima che si commentasse il precedente, e detti una sferzata critica e generica a tutti coloro che probabilmente pensavano di fare un po’ come pareva loro, almeno secondo me, in modo che ognuno riflettesse bene prima di sollevare qualsiasi obiezione. Infine mi lamentai che niente ultimamente andava come avrebbe dovuto: le squadre di lavoro erano seguite troppo poco, la programmazione era poco definita e lasciata molto al caso, le contabilità spesso erano indietro, i mezzi ed i materiali nuotavano nel caos o nell’abbandono. Tutti abbassavano la testa; le mie parole inchiodavano ognuno di loro: ero sicuro che soltanto così potevo gestirli come volevo io.
            Con molto impegno solo apparente la segretaria continuava nella stanza a fianco a digitare qualcosa sulla sua tastiera del computer, ottemperando all’ordine di eseguire una relazione circa la produzione dell’impresa nell’ultimo mese, e aveva alzato la testa dallo schermo appena per un attimo, quando le avevo chiesto in malo modo e con voce troppo alta le date dei corsi per gli operai sulla sicurezza nei cantieri. Poi aveva riguardato il documento finito, zeppo di note e di cifre, lo aveva riletto svariate volte sostituendo qualche parola e limando qualche frase, lo aveva stampato e con qualche titubanza aveva portato i fogli debitamente spillati tra loro nel mio ufficio.
In quel momento stavo seduto sulla mia poltrona in pelle nera, e continuavo come sempre a discutere al telefono; così avevo allungato una mano senza alzare mai gli occhi dai numerosi fogli e incartamenti che invadevano la mia scrivania, e mi ero fatto consegnare il documento, disponendomi ad osservarlo attentamente. Lo avevo scorso tutto, velocemente, leggendo solo qualcosa e proseguendo la conversazione al telefono, segnalando con un lapis diversi punti da correggere mentre tenevo con la spalla la cornetta incollata ad un orecchio; alla fine lo avevo firmato con la mia penna in ultima pagina, non degnando la segretaria neppure di uno sguardo, neanche per un attimo; lei era rimasta lì, ad attendere istruzioni, ed io infine avevo appeso il telefono. Pausa. Quel documento probabilmente andava bene, pensavo, ma questo era inammissibile, e così le avevo detto: cancelli i miei segni, andrebbe senz’altro migliorato, è quasi illeggibile; purtroppo devo accettarlo, anche se con una certa sofferenza, adesso non c’è più neppure il tempo per renderlo minimamente presentabile.


            Bruno Magnolfi

martedì 11 dicembre 2012

L'incognita.


            Sono una sciocca, riflette Laura mentre torna casa, dopo il lavoro. Me ne vado, le aveva detto lui la sera prima, dopo l’ennesima litigata su cose futili. Lo ha già detto chissà quante altre volte, pensa adesso lei, con un sorriso. E’ una sua caratteristica, quella di volersi sentire sempre libero di fare, di scegliere, di interpretare la vita ad ogni passo, quasi non accorgendosi forse di perdere sempre qualcosa con i suoi modi da eterno ragazzo scapestrato. Non devo stare a preoccuparmi, pensa Laura, anzi: ogni volta che torniamo a fare la pace le cose improvvisamente si mettono ad andare d’incanto, almeno per un certo periodo, non sarà certo differente stavolta.
            L’autobus percorre il viale che attraversa il quartiere dove loro due abitano da quasi tre anni. Lei tra non molto dovrà scendere e farsi a piedi un tratto dove si aprono alcuni negozi. Voglio cucinare qualcosa di speciale stasera, pensa, mentre già immagina il bancone alimentari dell’esercizio dove va sempre, pieno di cose buone da mangiare. Qualcosa che gli faccia capire quanto non sia mia intenzione tenergli il broncio o allungare fin troppo il nostro malinteso. Perché di un malinteso si tratta, e di nient’altro. Lui probabilmente terrà ancora la parte, attenderà sicuramente un minuto o forse due, ma alla fine allargherà il sorriso, come sempre, giusto per dimostrare che la voglia di serenità e di leggerezza non è soltanto mia.
            Strano rapporto il loro, in certi momenti pieno di rancori e di recriminazioni, ed in altri dolcissimo e colmo di coccole e di affetto. A lei piace questa continua alternanza, inutile negarlo: ogni giorno sembra un po’ differente, da interpretare, come se niente fosse scontato, anzi, tutto da prendere solo tramite riflessioni e chiarimenti. Lei è convinta che le cose anche stavolta fileranno via lisce, in ogni caso, e che tra loro due non ci sarà alcuna necessità di tenersi mai troppo a distanza: la loro reciproca alternanza di comportamenti e di umori diversi sarà sempre l’ingrediente principale del loro realizzato rapporto, quello che alla fine li terrà uniti, dalla stessa parte.
            Con questi pensieri scende dal mezzo pubblico, incontra dopo pochi metri una vicina di casa e la saluta cordialmente. Come vanno le cose?, le chiede quella con slancio, fingendo di non apparire curiosa. I soliti alti e bassi, risponde Laura, ma non mi lamento, anzi, stasera mi sento addirittura piena d’entusiasmo, come se, rientrando a casa, trovassi qualche bella sorpresa. Non ti fidare troppo, dice l’altra, gli uomini a volte sanno essere infidi. D’accordo, dice lei, adesso ti lascio. Si ferma al negozio alimentari come aveva previsto per i suoi acquisti, e poi, con la busta delle spese, arriva davanti al portone di casa.
            Ma qualcosa l’ha indisposta, adesso non sa più bene cosa aspettarsi: lui potrebbe addirittura essersene andato veramente, pensa. Poi gira la chiave nella serratura del portoncino che dà accesso al loro appartamento, e lui è lì, seduto, rilassato, addirittura tranquillo. Ciao Laura, dice subito alzandosi in piedi. Sono qui soltanto perché volevo chiederti scusa prima di andarmene definitivamente da questa casa e dalla tua vita.

            Bruno Magnolfi

domenica 9 dicembre 2012

Il collezionista.


            
            Sono un collezionista, inutile negarlo. Ho memorizzato i gesti, le espressioni, i modi di comportarsi e di parlare di decine di persone, e le ho condensati dentro di me, restituendo quasi inconsapevolmente, in ogni momento della mia giornata, una raccolta completa di tutto questo mio lavoro. In tanti anni ho sempre cercato di perdere del tutto le mie caratteristiche più personali, ed ho lasciato spazio a tante altre cose da cui, in un periodo o in un altro, sono rimasto colpito, o che ho semplicemente visto fare o dire da qualcuno. Adesso nessuno di quelli che a volte incontro si accorge di niente, è soltanto una cosa che ha valore per me quella che continuo a portare avanti, e che naturalmente conosco soltanto io, però mi sembra di avere in questo modo un grande rispetto per tante persone che prima o poi sono riuscito a conoscere, e qualcuno di queste magari l’ho visto appena una volta o due, anche se in fondo io cerco semplicemente di memorizzare e di interpretare in qualche maniera soltanto un piccolo frammento dei modi di essere di ciascuno.
            Non ho mai potuto spiegare bene tutto questo perché mi hanno sempre fatto davanti le solite espressioni divertite, prendendomi per uno che probabilmente non ci sta con la testa. Ed invece io qualche volta ho proprio cercato al contrario di spiegare quanto cervello ci volesse per fare una cosa come la mia. Ma non c’è stato niente da fare, e quando ho iniziato a mimare certe piccole espressioni che ho visto fare a più d’uno, ecco che hanno subito pensato che fossi proprio uscito di senno. Il mio è un lavoro da attore, ho detto a voce alta qualche volta, ma nessuno mi ha dato retta, e mi hanno sempre lasciato da solo, ignorato da tutti, a portare avanti il mio nobile lavoro.
            Ho sempre seguito la mia vocazione, per nessun motivo ho pensato di smettere e di lasciare che gli altri iniziassero a guardarmi come una persona qualsiasi. Non perché non volevo esserlo, questo è il punto; quanto perché la mia normalità sta condensata nei gesti e nelle espressioni di tutti, che io ho recuperato per dare ad ognuno perfino una maggiore importanza. Ma perché continuo a spiegarlo ancora, mi chiedo; è bene lasciar perdere, tanto più che mi sento sempre più evitato, e alla fine la mia testardaggine non porterà certo a niente di buono.
            Così esco, vado al caffè, strizzo gli occhi come fa il barista, ma non cerco più di dirglielo, altrimenti mi intima di non entrare più nel suo locale. Allora mi guardo attorno, mi accosto ad un tavolo dove stanno portando avanti una partita a carte. Qualcuno fa una smorfia e mi dice di allontanarmi, perché teme gli porti soltanto sfortuna, ed io lo accontento subito annuendo con la medesima smorfia che mi ha fatto lui. Cosa importa se mi trattano male, penso; alla fine riesco a portare con me qualcosa di loro, senza che neppure se ne accorgano. Mi sento ricco di questo, è come se potessi avere in una tasca tutti loro. Esco dal locale e me ne torno verso casa. Un giorno mi metterò a descrivere in ogni dettaglio i particolari che ho notato nella gente in tutti questi anni. Ne farò un bel libro e poi lo regalerò in giro a quelle stesse persone che me lo hanno ispirato. Sarà la mia rivincita, penso, e forse per allora la mia collezione spero sarà proprio completa.

            Bruno Magnolfi
            

venerdì 7 dicembre 2012

La verità in un attimo.


          
            Il ragazzo guarda attorno a sé, cerca qualcosa o qualcuno che lo faccia momentaneamente sentire un po’ meno solo; finge di cercare qualcosa di necessario dentro una tasca della sua giacca, poi attraversa la strada e va a sedersi su una panchina del piccolo spazio verde ricavato in mezzo alle case. Forse gli servirebbe qualcosa da leggere, pensa, ma non ha niente, neppure un foglio di giornale o un volantino di una pubblicità lasciato in terra o da qualche parte là attorno.
            Conosce quasi perfettamente le parole da dire appena arriverà lei: cercherà di essere cortese, di apparire simpatico senza strafare, di parlare di sfuggita ma in modo lusinghiero di sé, giusto per farle capire chi veramente sia lui, cosa pensi quando è da solo, quale sia la sua vera natura. Poi le dirà dei film che gli piacciono, dei libri che legge, di tutto ciò che gli verrà a mente, insomma.
            Lui non sarebbe mai potuto arrivare in ritardo, pensa mentre guarda il suo orologio da polso, ma con le donne è così. Cerca di concentrarsi su qualcosa di importante, giusto per assumere un’espressione interessante, ma non gli viene a mente niente, e in più quei dieci minuti da quando è in attesa gli sembrano il periodo più lungo che abbia mai dovuto affrontare nella sua vita.
            Poi vede un amico con il suo ciclomotore, si alza, lo chiama, quello si ferma, a lui pare esattamente la salvezza che andava cercando, però pensa subito che non vorrebbe farsi scoprire ad aspettare lei, così lo saluta frettolosamente accostandosi un attimo, scambia giusto una battuta o due, e poi gli dice che ha qualcosa da fare, deve andare via. L’altro riparte, lui spera che la ragazza lo abbia visto, che lei adesso stia proprio arrivando, così si volta attono con circospezione, ma di lei ancora nessuna traccia. Non può pensare che abbia deciso di non venire al loro primo appuntamento, così comincia a riflettere a fondo su questo aspetto, ma gli pare, da qualsiasi parte guardi la cosa, che sia soltanto un’assurdità, qualcosa di stupido, di inaccettabile.
            Torna verso la panchina, ma adesso non se la sente più di sedersi. Vorrebbe quasi sparire, immagina lei da qualche parte nascosta che ride del suo struggimento, e questo è il pensiero più brutto che gli passi dentro la testa. Cerca con uno sforzo di scacciare dalla mente ogni idea triste che gli sia venuta negli ultimi minuti, ma ad un tratto gli prende quasi da ridere: perché mai doveva arrivare davvero, pensa; lo ha detto così, quando le ho chiesto di vederci, giusto per farmi contento. Quando la rivedrò nella scuola dirà che del nostro appuntamento se ne era completamente dimenticata.
            In ogni caso tentare non è stato male, pensa ancora il ragazzo. Ho capito cosa si prova se si tiene a qualcuno, se ci mettiamo in balia dei suoi modi di intendere le cose, dei suoi comportamenti. Continua a camminare a passi lentissimi intorno a quel giardinetto che adesso sente di odiare, poi si ricorda di avere con sé un pacchetto di gomme da masticare; ne scarta una ed inizia a mangiarla, con modi consunti e forse un po’ rassegnati. Infine si volta, ha deciso di andarsene, domani dirà che aveva capito che non sarebbe venuta, era soltanto uno scherzo, certo, e che lui era passato da lì soltanto perché gli rimaneva di strada. Però guarda qualcosa avanti a sé, e lei è lì, veramente.

            Bruno Magnolfi

martedì 4 dicembre 2012

La notte in città.


           
            Allungo una mano nel buio insonne della mia camera. Avverto il vuoto, e l’aria ferma, assieme a quel senso di protezione e di silenzio dato dalle pareti mentre racchiudono lo spazio finito di questa stanza. Mi metto seduto sul bordo del letto, non mi interessa neppure sapere che ore siano, mi basta immaginarmi sperduto come sono tra i sogni e il riposo di tutta la gente che abita questa città. Vorrei spingermi fino ad una finestra, osservare dai vetri la strada vuota rischiarata da qualche lampione, ma non lo faccio, resto qui a pensare al miglior comportamento da seguire appena si sarà fatto giorno.
            Sono una persona comune, penso; uno qualsiasi che persegue una lotta di sopravvivenza per riuscire a conservare se stesso; uno come tutti, un altro tra coloro che si ritengono capaci di avere ancora pensieri propri. Non voglio però sentirmi in balia della solita angoscia di cui soffrono gli altri, voglio reagire, immaginarmi qualcosa di diverso per la giornata che vado ad affrontare, magari sentirmi capace di riflettere a fondo sui gesti e le espressioni che mi appaiono di fronte, quali elementi da interpretare ed a cui almeno provare a dare un significato.
            Resto seduto sul letto, nel buio, ma immagino la stanza, non riuscendo a vederla, molto più grande di quanto lo sia veramente, e mi sento quasi sperduto in questa specie di capannone industriale dove è stato collocato per me questo giaciglio. L’aria adesso sa di lavoro, di persone che affrontano dei sacrifici, di gesti consuetudinari portati avanti nella ricerca di qualcosa che almeno sia di sollievo a questo niente di cui siamo fatti. Osservo il procedere delle cose che mi circondano, tutto mi sembra un assurdo, tanto vale distogliere la mente da questi pensieri.
            Vado alla finestra, la apro, lascio che il freddo mi punga la pelle, ma ancora non riesco a sentire la solidarietà che vorrei manifestare verso tutti coloro che avverto in tutte le case che ho intorno. Mi vesto, scendo per strada, mi pare che adesso tutto sia vivo, che attenda soltanto il momento in cui l’ingranaggio riparte, che la macchina ritrovi il suo moto. Corro, mi metto ad urlare lungo la via come fossi uscito completamente di senno. Nessuno mi ferma, vado avanti a sentire il freddo della notte sopra la faccia, sento la disperazione farsi largo nella mia testa. Infine mi fermo, mi accuccio per terra, spossato: spesso la realtà è incomprensibile, penso; adesso mi sento figlio di questa incomprensibilità, e anche di tutta questa follia.

            Bruno Magnolfi

sabato 1 dicembre 2012

Un saluto frettoloso.


            Forse, in tanti anni, ho soltanto cercato delle varianti, degli argomenti alternativi, delle possibilità differenti, che mi permettessero di non vedere quello che ero veramente, pensa Ernst; e tutto questo almeno fino a quando non ho conosciuto te, che mi hai fatto scoprire, soltanto con uno sguardo, la semplice umanità da cui ero composto.
            Poi lui esce dalla stanza, s’incammina verso la strada che lo attende, non si volta indietro, ciò che aveva da dire lo ha già detto, chiude la porta alle sue spalle ed improvvisamente ha la coscienza di essere da solo, come se questo stato fosse un vantaggio e non un limite. Guarda la campagna che si snoda avanti a sé, respira l’aria fresca che lo accompagnerà, e infine si avvia, senza alcun ripensamento.
            Lei lo osserva con distacco dalla sua finestra: quando lo rivedrà saranno ambedue diversi, non si può far niente per evitare tutto questo; tanto vale cercare di raccogliere tutti quei piccoli elementi positivi che possono quasi per gioco essere rimasti impigliati nella personalità di ognuno, e in questo modo archiviare il vissuto sotto l’egida dell’esperienza, perché nient’altro è possibile pretendere.

            Bruno Magnolfi

venerdì 30 novembre 2012

Solamente un ragazzo a cavallo.


            
            Non so, dice lei; forse ci potrei pensare. E’ strana certe volte Rita quando parla di alcuni argomenti. Non riesci a capire se una cosa le vada oppure no, pensa lui mentre guarda da qualche altra parte per non dimostrarle di essere leggermente deluso. Certe volte lei lascia delle pause piene di interrogativi, lui si sente quasi imbarazzato in quei casi, anche se proprio non saprebbe neppure dire effettivamente per quale motivo.
            Poi all’improvviso Rita lo abbraccia, forse per rassicurarlo, ma è come se non lo toccasse nemmeno, tanto il suo comportamento appare impalpabile, quasi incomprensibile. E in un orecchio gli dice: va bene, come se l’entusiasmo che lui aveva inserito nella sua proposta di prima, non fosse ormai irrimediabilmente perduto.
            Rita si siede sul letto della sua camera, in silenzio. Non è un invito, lui lo sa bene, ma soltanto un comportamento come un altro, una maniera forse per prendere tempo, per vedere che cosa potrà dire lui adesso. Invece lui va verso la finestra, guarda fuori qualcosa mentre continua a tenere aperta tra le mani una rivista di arte dove ci sono, in molte pagine, una serie infinita di riproduzioni di altrettanti dipinti; il soggetto è un ragazzo a cavallo che galoppa come solo il vento può fare, tanto da plasmare le forme e i colori di tutto, quasi un’espressione di nuovo futurismo, portato in questa maniera fino al paradosso.
            A lui piace passare il tempo con Rita in quella stanza, gli sembra l’ambito dove possa capitare di tutto, e difatti, se ancora ci pensa, tante cose sono accadute là dentro, quasi fosse un vero spazio teatrale, un ambiente all’interno del quale tutto o quasi possa essere ammesso. Lei dice: usciamo; ma sottovoce, quasi parlasse soltanto a se stessa. Lui le risponde in modo ambiguo, come se davvero ne avesse gran voglia, ma qualcosa fosse capace di trattenerlo là dentro.
            Hai visto?, fa lui mostrando a Rita le illustrazioni che aveva osservato. Non mi piace, risponde lei senza aggiungere altro. Forse sarebbe possibile parlare a lungo di queste immagini, pensa lui muovendo qualche passo dentro la stanza e richiudendo la sua rivista. Ma non ha forse alcuna importanza; gli torna a mente la domenica precedente, quando loro due sono andati a vedere il mare in burrasca, e stringendola a sé gli è quasi venuto da piangere, tanto sentiva che lei era lì, con lui, non come adesso.
            D’accordo, dice alla fine, quasi con una leggerissima forma di rassegnazione: usciamo. Rita si alza, lo guarda, forse si attende qualcosa d’altro, magari cerca soltanto di studiare il suo comportamento. Raccoglie la rivista d’arte che lui ha lasciato sul letto, dice: portiamo anche questa, così parliamo di quelle immagini che ti hanno colpito. Lui la guarda, sa che è quello il suo vero abbraccio, così sorride, e le dice: va bene, vorrei anche parlare di noi, qualche volta, anche se credo proprio non mi sarà mai possibile. Ma forse non ha alcuna importanza, pensa; spesso le nostre sono soltanto parole destinate a sfumare in modo confuso nei concetti che esprimono, tanto da lasciarne nell’aria appena un’interpretazione possibile. E poi davvero, cosa importa: va bene così.

            Bruno Magnolfi

mercoledì 28 novembre 2012

Piccoli spostamenti.2.


            Sono sempre più convinto che voi abbiate tutti torto, penso, che non valga neppure la pena di stare ad ascoltare le vostre parole, le spiegazioni insensate che riuscite a mettere assieme. Osservo la strada che scorre sotto alla mia terrazza, e mi viene da ridere nel vedervi piccoli, sempre di corsa mentre vi muovete avanti e indietro alla ricerca di chissà che cosa. Rifletto sulle parole che ho appena ascoltato alla radio, mi sembrano solo tentativi falliti di spiegazione della realtà, e mi sento sempre più lontano dalle vostre idee, convinto della mia differenza di impostazione. Mi sono permesso uno strappo in avanti, penso, questo è il punto, adesso tutto il resto, anche voi, rimane semplicemente dietro di me.
            Poi mi siedo, appoggio una mano sul piano dello scrittoio, sposto alcuni libri, dei fogli, le mie penne per scrivere: non riuscirò a fare niente neppure stasera, penso, ma l’impianto di tutto quello che voglio dire ce l’ho, pervade ogni pensiero che mi passa dentro la testa, riesce a riempirla di significati, di senso, come una brezza improvvisa che gonfia le vele delle barche rimaste piantate fino ad ora nella bonaccia, durante la regata estiva sul lago.
            Di getto prendo un foglio, una matita, scrivo: forse potrei insegnare a qualcuno le mia esperienza, la mia maniera di vedere le cose; non perché abbia particolare importanza, ma soltanto perché in questa maniera voi forse riuscireste ad essere diversi da me, a scansare quegli ostacoli che non sono riuscito mai a togliere dal mio cammino, con i quali molto spesso ho dovuto perfino fare dei conti.
            Torno a spostare i libri da una parte all’altra del tavolo, a sistemare in un ordine diverso tutte le mie matite, mettere la sedia più accanto a questo scrittoio, e a schiarirmi la voce. Forse potrei dire cosa ho immaginato fin dall’inizio di questa faccenda, penso, così torno a scrivere: sembra strano, ma sono sicuro di non ricordare perfettamente tutto quanto, perché sono sicuro che la memoria poco per volta addolcisca le cose, le faccia diventare migliori, più familiari, in un modo tale che tutto ciò che succede, in una maniera o nell’altra, riesce dopo un po’ ad assumere un senso compiuto.
            Poi torno ad alzarmi e ad uscire sopra al terrazzo. Un vento leggero sembra spiri dal gruppo di case di fronte, quasi che la natura si stia adattando poco per volta alle invenzioni degli uomini, al loro ingegno, ai pensieri che hanno, e così torno a guardare la strada che adesso pare quasi un fiume di gente che si muove sopra l’asfalto. Il mio malessere è forte, penso, quasi quanto la mia distanza da tutto; sarà difficile riuscire a descrivere questo, tanto vale gettare via la carta su cui stanno scritti i miei appunti, queste poche parole, e restare sopra al terrazzo ad immaginare le barche che bordeggiano lente tra i marciapiedi e i palazzi, e guadagnano il largo, spinte da questo inusuale profumo di vento.

            Bruno Magnolfi

lunedì 26 novembre 2012

Donna di fiume.


            
            La casa sul fiume pareva come solcare incessantemente le acque, indirizzando la prua non verso una vera e propria direzione, ma quasi auspicando un mare remoto che doveva esserci per forza laggiù, da qualche parte, in fondo a quella corrente. Lei dalla finestra del primo piano osservava il tremolare dell’erba lungo la riva, mentre attendeva con impazienza il suo ritorno, come ogni sera, la cena pronta nel forno, la volontà solita di rompere al più presto possibile quella insopportabile solitudine, immersa completamente dentro l’attesa.
            Poi sentiva la macchina arrivare sul retro, lo sportello sbattuto, le scarpe sopra i tambureggianti gradini di legno. Avrebbe sempre voluto urlare in quel momento, inscenare un dolore che non sapeva neanche lei da dove potesse provenire, se non da ognuno di quei pomeriggi dolenti, silenziosi, marcati solo dal viaggio, dallo spostamento costante e continuo di tutta la sua abitazione, controcorrente, non verso il mare, ma verso le montagne lontane, dove stavano le sorgenti di tutte le cose. L’acqua scorreva al suo fianco, la navigazione era lenta e costante, certe volte l’orizzonte pareva quasi a portata di mano.
            Era felice del suo ritorno, certo, ma dentro a quel sentimento qualcosa sembrava assorbirne ogni dimostrazione, come se il tempo solitario appena trascorso ne reclamasse per sé almeno una parte. Quello era il momento più difficile del giorno, quel veloce trapasso da una stato a quell’altro: qualsiasi cosa sarebbe stata migliore potendo evitare quell’attimo. Certe volte aveva voglia di piangere, in altre occasioni era andata persino a nascondersi, come ad evitare una fase che il suo spirito non riusciva a sorreggere. Si sentiva raggiunta in quel momento, affiancata da lui, come se il suo lento percorrere il fiume avesse trovato in quell’attimo qualcosa capace di farle piegare la testa, inchinata ad una specie di volontà superiore.
            Certe volte si sentiva soltanto come una bambina; non ne aveva mai parlato con lui: lui l’abbracciava, le sussurrava piccole dolci frasi, mostrava la sua gioia, forse gli sembrava di incarnare ogni volta il ritorno dell’eroe senza meriti, quello che torna e basta, come è giusto che sia, lasciando alle spalle, con indifferenza, una battaglia vinta oppure perduta. Lei certe volte sentiva la sua presenza ancora distante, ma lasciava che tutto scorresse con naturalezza, come il fiume là accanto, anche se il suo inconfessato dolore pareva gonfiare poco per volta il suo stato, spingerla via, come un vento impetuoso, lontano il più possibile da quella terribile attesa.
            Infine tutto accadde come per caso: lei uscì di casa per non sentire quel morso, seguì incantata l’onda del fiume che quel giorno pareva lasciarla navigare in maniera molto più libera di quanto si fosse mai immaginata, e quando lui tornò a casa, semplicemente, lei non c’era più.

            Bruno Magnolfi

venerdì 23 novembre 2012

Dialogo n. 9. Questo steccato cadente.


            

            Il vecchio sta fermo sopra la veranda mentre osserva Peter che si avvicina costeggiando un tratto ancora in piedi dello steccato di fronte. Non pensa niente in particolare, sa soltanto che tra poco rientrerà in casa per versarsi un altro bicchiere di vino rosso. Peter lo osserva distrattamente camminando con lentezza, e ad un tratto sente squillare dentro la tasca il telefono portatile, risponde, e senza fermarsi ascolta qualcuno che gli parla direttamente dentro l’orecchio. Poi interrompe la comunicazione con un grugnito, si ferma e dice soltanto: avrei bisogno di un favore, con una voce forse un po’ troppo alta se avesse continuato a parlare al telefono, ma non molto forte per convincere il vecchio che sta davvero riferendosi a lui.
            Difatti il vecchio non risponde né dice qualcosa, limitandosi a guardare una striscia di terra lontana sopra la spalla dello scocciatore che gli è quasi di fronte. Peter dice: se mi prestate il vostro furgone arrivo in paese e tra un’ora al massimo sono già di ritorno. Ho forato una gomma sulla strada principale, oltre quegli alberi, e quella di scorta è completamente sgonfiata.
            Un po’ di vento scivola sull’erba e sugli alberi senza rumore, il vecchio sogna il suo bicchiere di vino, adesso è sicuro che tra qualche momento starà seduto nella cucina di casa a vuotarselo in gola; riflette che lui non ha alcun furgone da prestare, suo figlio non tornerà prima di sera, ma oltre questo pensiero non gli interessa neppure rispondere. Peter si avvicina di altri tre o quattro passi, ma all’improvviso ha come la sensazione che l’uomo sull’uscio di casa abbia a portata di mano un fucile carico, così torna a fermarsi, forse capisce che non otterrà un bel niente dal vecchio, e infine pensa al volo che probabilmente sarà meglio per lui lasciar perdere tutto.
            Attende mezzo minuto, si accende una sigaretta, poi concede un’ultima occhiata al vecchio impassibile, e infine si volta per allontanarsi. Appoggia una mano sopra al paletto dello steccato, guarda attorno se ci sono altre case poco distanti, poi aspira una boccata di fumo. In molti passano da queste parti, dice il vecchio, non so cosa cercano, forse c’è qualcosa laggiù, oltre la fila degli alberi. Ho sempre badato ai fatti miei, dice ancora il vecchio, però non mi piace che qualcuno superi questo steccato, per quanto sia marcio e mezzo caduto. Non aiuto nessuno, sono abituato a stare da solo per il tempo di ogni giornata, e tutti i pensieri girano nella testa per conto proprio quando si vive così; ma in ogni caso non voglio lasciare che qualcuno interrompa i miei modi di essere, non lo permetterò, sono così e non voglio cambiare.
            Peter torna ad osservarlo, non si aspettava una tirata del genere, anche se il vecchio non si è riferito a nessuno, quasi avesse pensato qualcosa per sé dicendola al vento con voce alta. Sa che non ha bevuto la storia della gomma ed il resto, però pensa qualcosa che possa concedergli un’altra possibilità. Posso ripassare quando tornerà vostro figlio, dice tanto per mostrargli che è un osso duro. Il vecchio non lo ascolta neppure, però misura la faccia del forestiero forse per la prima volta, osserva i suoi atteggiamenti, perfino il modo come è vestito. Alla fine, con calma, estrae il suo fucile, prende la mira e spara di striscio ad un braccio di Peter. Quello cade urlando qualcosa, poi si rialza tenendosi la spalla, bestemmiando qualcosa mentre già si allontana, e imprecando contro tutto ciò che gli viene a mente in quel momento, come se avesse soltanto fatto uno stupido sbaglio.
            Poi il vecchio rientra, si siede, versa mezzo bicchiere di vino dalla bottiglia e ne beve subito un sorso. La vita è fatta di risposte, pensa; il resto sono soltanto chiacchiere insulse.

            Bruno Magnolfi

mercoledì 21 novembre 2012

Incontro.


            

            Cesare era entrato dentro al portone del palazzo dove abitava, lo aveva richiuso alle sue spalle, poi era rimasto lì, indeciso su ciò che aveva veramente voglia di fare. Qualcuno, proprio in quel momento, era sceso di fretta lungo le scale di quel palazzo, aveva percorso quel tratto di ingresso rallentando l’andatura, guardato Cesare con un’espressione crucciata e anche con una certa insistenza, e poi lo aveva superato, aprendo l’uscio che dava sulla strada e sparendo in un attimo.
            Lui non aveva mai visto quella donna, o forse non si ricordava di lei, anche se gli era parsa sicura di sé in quei pochi gesti, quasi abitasse in un appartamento dei piani superiori, e conoscesse bene il suo vicino di casa, tanto da concedergli quell’occhiata esauriente, anche se nessuna parola era uscita dalla sua bocca; in quell’attimo in cui lei gli era passata vicino era come accaduto qualcosa di strano, Cesare adesso ne aveva coscienza, come se una parte di lui avesse cessato di essere nella stessa maniera di sempre, lasciando quasi lo spazio sufficiente per qualcosa di nuovo.
            Cesare ormai da tempo si era reso conto di essere stufo di raccontare a tutti la solita storia della sua vita, anche se ogni volta che lo faceva gli pareva che piccoli dettagli si modificassero nel suo raccontare, plasmandosi in funzione delle parole che ogni volta trovava più adatte alle sue descrizioni. Però, la maggior parte delle volte, quando si impegnava a spiegare le vicende che aveva vissuto, aveva sempre voglia che qualcuno gli chiedesse ancora qualcosa, magari anche con una certa insistenza, in modo da ritrovarsi costretto a scavare, ad attingere ad ogni particolare dentro se stesso, fino a trovare qualcosa che forse fino ad oggi gli era probabilmente quasi sfuggito.
            Lui aveva pensato spesso al passato, riflettuto con calma sui molteplici aspetti, e aveva sempre ripercorso le sue vicende come dando un’occhiata ad una serie di immagini, come fossero tante figure statiche della sua mente, file di oggetti quasi sospesi nel tempo; ma adesso, nel silenzio scuro dell’ingresso del suo condominio, all’improvviso gli sembrava che d’ora in avanti niente di tutto questo, assolutamente nulla di quanto credeva di aver costruito sulla base delle sue semplici esperienze, potesse essere più assolutamente possibile.
            Cesare ad un tratto sapeva di dover fare qualcosa come cercare di arrestare quella rapida perdita, quella grave mancanza che iniziava già a farsi sentire, così cercava di far forza sul suo coraggio, spingersi in avanti, affrontare la nuova realtà, e accostarsi al portone, aprirlo con energia, uscire velocemente sul marciapiede. Quella donna era ancora lì che lo stava aspettando, certo, non poteva essere in altra maniera. Lui la guardava, gli pareva che niente fosse sbagliato, ogni elemento era perfetto, tutto collimava come travasando ogni aspetto che aveva coltivato fino ad allora in quel semplice piccolo attimo.
            La donna si era voltata di nuovo verso di lui, non più per osservarlo, ma per farsi osservare, per lasciare che la mente di Cesare costruisse un percorso completo di identificazione, memorizzando e confrontando ogni dettaglio. Lui si era avvicinato, non molto, poi era rimasto fermo, stupefatto, all’improvviso incapace persino di parlare. Sarebbe stato meglio aver finto un’indifferenza completa, pensava; sarebbe stato meglio avesse corso su per le scale, continuava a pensare; sarebbe stato meglio qualsiasi altra cosa, ne era certo: ma lei adesso era lì, e questo era un fatto del tutto impossibile da disconoscere.

            Bruno Magnolfi


lunedì 19 novembre 2012

Involucri concentrici.


            

            Avendo comunque coscienza che stavo dormendo, ho fatto un sogno talmente realistico da avere paura che il mio risveglio ne neutralizzasse ogni esperienza acquisita. Infine, com’era del tutto inevitabile, la giornata ordinaria ha preso come sempre il sopravvento sul resto, e così mi sono fatto la barba, mi sono vestito, e come ogni mattina sono uscito da casa. Prima di andare ad infilarmi nell’ufficio dove lavoro da ben dodici anni, mi sono fermato in un caffè, ho preso un cornetto, un cappuccino, e mi sono seduto a sfogliare un giornale a disposizione dei clienti.
            Nelle pagine centrali si parlava di qualcosa che mi è parso estremamente interessante: si trattava di una persona che era riuscita ad annotare tutti i sogni fatti nell’arco di anni, tanto da costituire uno scaffale pieno di quaderni con le storie vissute soltanto con la mente nell’attimo stesso del suo riposo. L’articolo sosteneva che questa persona, rileggendo in seguito il materiale che giorno per giorno aveva accumulato, ad un tratto si era accorta che c’era un senso preciso che animava quei sogni, quasi un filo rosso che legava tutte quelle storie e quelle parole, tanto da spingerla a trarne un libro completo, voluminoso, quasi un ciclo di romanzi.
            Mi è parso subito un incoraggiamento alla vita quell’articolo, come se tutto fosse sempre possibile, anche nel momento di intimità massima come dormire. Ho tardato ancora prima di andare a rinchiudermi nel mio ufficio, ho pensato a lungo agli aspetti che poteva delineare un’esperienza del genere. Ho guardato la strada fuori dai vetri, ho seguito con lo sguardo qualche passante di fretta che inseguiva qualcosa; mi sono soffermato a mettere fuori fuoco le immagini che giungevano via via davanti ai miei occhi, e ad estraniarmi almeno in parte dal luogo pubblico dove restavo ancora seduto. Il cameriere mi ha toccato una spalla: sta bene?, mi ha chiesto, io gli ho sorriso e mi sono alzato dal tavolino.
            L’aria fredda della mattina sembrava adesso soltanto un ricordo lontano di qualcosa che all’inizio appariva forse piacevole, ma che dopo pochi minuti era già un’altra cosa: la consapevolezza della forza che si poteva avere dentro se stessi pareva spingermi lontano da tutto, come se non fossi più una vera parte dell’intero ingranaggio già in movimento. Ero vicino all’edificio dove mi recavo per il mio lavoro, ma nella realtà mi sentivo lontano da lì, proiettato dietro a pensieri che non avevo mai fatto, come se la mia mente in autonomia avesse preso il controllo completo delle scelte da fare.
            Con lentezza estenuante mi avvicinavo al palazzo di uffici, cosciente di essere già in forte ritardo: un’indifferenza completa continuava a determinare i miei movimenti; le persone attorno si muovevano con rapidità, le auto, i mezzi pubblici, tutto quanto era proiettato in un vortice che non faceva più parte di me, come mi fossi sganciato da tutto, e all’improvviso sentissi una forte lontananza da ciò che ero stato, e che di fatto avrei dovuto essere ancora.  
            Gli ultimi passi prima di arrivare al lavoro si facevano sempre più estenuanti, gettandomi in un torpore colmo di disagio, quasi la ricerca faticosa di resistere prima di tornare ad essere l’uomo di sempre. Forse, d’improvviso, avrei voluto addirittura recuperare del tempo, magari mettermi a correre, ma pareva impossibile, come se le mie gambe non fossero adatte ad una sfida del genere. Infine ho avvertito vicinissimo un suono elettronico che continuava a trillare, e così, di soprassalto, mi sono svegliato davvero.

            Bruno Magnolfi


giovedì 15 novembre 2012

Una donna con la sua bicicletta. 2.


            

            Soltanto pochi anni fa tutto mi sembrava ancora possibile. Avevo acquistato una bicicletta nuova, ed avevo iniziato a girare per tutte le strade di questa città che, per un motivo od un altro, non ero stata capace in tanto tempo di frequentare. Voltavo un angolo ad un incrocio, e improvvisamente scoprivo una prospettiva del tutto nuova, una fila di alberi lungo un viale, delle facciate di case particolari, dei vecchi muri di pietra, incanto di una cultura attenta anche al punto di vista di un qualsiasi anonimo viaggiatore.
            Pedalavo con calma, mi fermavo, entravo in qualche vecchia tabaccheria oppure da un droghiere, e mi pareva di respirare la mia città in ogni sua forma, quartiere dopo quartiere, un luogo dopo l’altro. Tornavo a casa, poi, e mi ritrovavo a pensare a tutto quello che ero riuscita a scoprire, e mi sentivo bene, contenta, parevano sufficienti queste piccole cose per vivere bene, sentirsi in perfetta armonia con questo agglomerato di vecchie case e di strade antiche. Abitavo da sola, non frequentavo nessuno, e anche se non avevo moltissimo tempo per questi miei giri, quando la giornata si mostrava propizia inforcavo la mia bicicletta e me ne andavo incontro alla città.
            Mi pareva poco per volta di conquistare qualcosa di particolarmente prezioso, e in questa maniera non mi sentivo mai sola, circondata com’ero da tutte quelle facce e quelle espressioni che incrociavo per strada nel mio pedalare. Un giorno però caddi a terra, non riesco ancora oggi a comprenderne bene il motivo. Avevo notato un uomo, lungo il viale, e ne ero stata attratta, inutile negarlo; e questo era successo nello stesso momento in cui avevo messo la ruota della mia bicicletta sopra una pietra sconnessa. Non mi ero fatta molto male, ma in molti erano accorsi, avevano cercato di rendersi utili fin troppo nel cercare di rialzarmi e farmi coraggio, ma quell’uomo che avevo notato non si era neppure sollevato dalla panchina dove stava seduto.
            Inizialmente avevo pensato fosse soltanto una scortesia da parte sua, ma una volta risalita sulla mia bicicletta, in considerazione di quanto era accaduto, mi era parso il suo un gesto atto solo ad evitare l’eccessiva curiosità che gli altri avevano mostrato. Così avevo ripreso con calma la mia pedalata, ma poco dopo mi ero sentita quasi in dovere di tornare sopra i miei passi, avvicinarmi alla panchina dove ancora si tratteneva quell’uomo, e ringraziarlo. Lui aveva sorriso, si era alzato dal suo posto, ed io avevo messo un piede a terra, fermandomi.
            Non si era poi fatta male, aveva detto lui sorridendo. Anch’io avevo sorriso, e l’uomo mi era venuto vicino, aveva sistemato la mia bicicletta accanto al marciapiede, poi mi aveva invitato a prendere qualcosa nel caffè accanto. Lo avevo seguito, ci eravamo presentati, ed avevamo fatto conoscenza. Ci eravamo dati appuntamento per il giorno seguente, e poi per il giorno dopo, e ancora per tutti i giorni a venire, lungo un tempo che andò avanti per molto. Lui mi aveva invitato da subito a salire sulla sua automobile, ed io avevo lasciato ben volentieri la bicicletta, andando insieme a lui a guardare quegli scorci della città che adesso avevo il piacere di mostrare anche a quell’uomo così attento ai particolari. Infine litigammo, iniziando a vederci sempre più raramente, e quando tirai fuori di nuovo la mia bicicletta, mi parve comunque di avere ormai perso qualcosa di importante, forse un vero rapporto d’affetto in cui avevo sperato, forse la concreta possibilità di non sentirmi più sola come molte volte era successo; oppure, all’improvviso, vedevo soltanto ormai tramontato anche lo spirito giusto per andarmene ancora a girare per la città senza una meta precisa.   

            Bruno Magnolfi


mercoledì 14 novembre 2012

Dialogo n. 8. Due, forse come altri due.


            
            Mi sento immerso in una situazione che non mi appartiene, eppure non ne soffro, credo anzi di poter sopportare a lungo tutta questa angoscia sottile che provo nel guardare gli altri, ascoltando perfino quelle risapute giustificazioni di chi si è adattato benissimo a tutto, e spesso sente anche il dovere di spiegare i suoi meravigliosi successi, il suo vivere bene, assolutamente integrato. Incontro ogni giorno persone così, hanno smesso quasi tutte ormai di nascondersi, adesso vagano in lungo e in largo quasi ridendo di tutti, ma quando incontrano qualcuno come me, pieno di rancori, senza alcun aggancio per mettersi davvero in carreggiata, cercano di stare apparentemente dalla sua stessa parte, fino però a farlo sentire, ad un certo punto, fuori da ogni logica, sbagliato, uno che non ha proprio capito come sia davvero starsene al mondo. Spargo quasi sempre indifferenza nei confronti di persone come queste, eppure sento forte da sempre un moto profondo di competizione verso di loro, quasi questo fosse un elemento fortemente radicato nella mia natura.
            Certe volte entro in un caffè per alleggerire questi miei pensieri, mi lascio servire una birra, anche più d’una, in certi casi, e resto lì, come in un angolo neutrale della realtà, dove certe logiche, almeno per quella mezz’ora o poco di più, sembrano non avere valore. E’ qui che ho incontrato quella ragazza, Francesca, un tipo di donna non bella, forse però interessante, leggermente maschile nei modi, come di chi, a furia di stare sulla difensiva, è riuscito a indurirsi, a corazzarsi con una pelle più spessa di qualsiasi avversità.
            Inutile leccarsi le ferite, le ho detto; e lei ha annuito. Forse sono una ragazza facile, ha spiegato, ma non mi concedo del tutto: trattengo tanto per me, anche se in fondo non ho molto da perdere, e questo mio modo di pormi ritengo per me sia una grande fortuna. Così siamo usciti da dentro al locale, abbiamo camminato insieme lungo le strade di sempre, cercando di avere degli occhi almeno un po’ differenti per osservare tutto ciò che già conoscevamo ampiamente. Ci siamo baciati con un certo stupore, come fosse una meravigliosa scoperta, oppure fingendo di avere ancora le capacità per sentirsi vicini, dallo stesso lato del mondo, migliori di tanti, anche se di quest’ultima cosa, a dire il vero, non abbiamo neppure saputo spiegarci il perché.  
            Sono trascorsi in questa maniera dei giorni, delle settimane, persino un paio di mesi, e le cose si sono complicate un poco per volta: vecchi problemi individuali mai risolti hanno messo in seria difficoltà la mia amicizia con Francesca, e la sua verso di me; il suo modo particolare di guardarmi mi ha fatto sentire sempre di più fuori dal mondo, come ancorato solo a delle pretese. Non abbiamo legami, le ho dovuto dire ad un tratto. E’ vero, ha risposto lei: ma se ci perdiamo adesso, non ci ritroveremo mai più.
            Così abbiamo provato un brivido comune, e allora ci siamo stretti, e abbiamo cercato in qualche maniera di superare quel momento negativo, perdendo in questo modo quel coraggio che ci faceva sentire diversi. Forse, proprio da quel momento, abbiamo iniziato a sentirci una coppia qualsiasi. Forse le nostre personalità non sono state capaci di quella coerenza che tanto ci premeva. Forse le cose si sono mostrate maggiormente ordinarie, risapute, quasi dozzinali. Ma in fondo che importa, abbiamo pensato: dobbiamo essere noi, persino quando sguazziamo in mezzo ai difetti.

            Bruno Magnolfi

lunedì 12 novembre 2012

Visite in ospedale.


            
            Gyorgy sta assolutamente immobile nella sua posizione, anche se sa che stasera non è stato legato al suo letto come in genere capita. Sente il tepore del suo stesso corpo, e questo basta a rassicurarlo, forse non ci sarà alcuna necessità di farsi del male, pensa, come è successo in altre occasioni. Tra poco probabilmente il suo amico sarà qui, come sempre, a soffiargli parole incomprensibili dentro le orecchie, a ridere di lui, a tormentarlo e farlo innervosire semplicemente con la sua insopportabile presenza. Intanto però lui può pensare, prepararsi ad affrontarlo, elencare dentro di sé le tante cose da dirgli, da urlargli contro appena sarà in questa stanza, una volta giunto, come quasi tutte le sere, fino a quando qualcuno non gli farà la sua solita iniezione.
            Questo letto è duro, scomodo, pensa Gyorgy, ma tutto quanto non ha alcuna importanza: comunque resto fermo, pensa, indifferente a questa situazione di attesa, però pronto ad affrontare il mio amico. Lo pensano tutti che è meglio diffidare di chi dice che fa qualcosa per te, per il tuo bene, per favorirti; sono soltanto menzogne, non esiste un amico che lo sia per davvero, sono soltanto della gentaglia che finge di avere una natura altruista solo per ridere, per prendere in giro.
            Forse dovrei muovermi, pensa ancora Gyorgy, ma se non lo faccio è soltanto per non mostrare di sapere che stasera non sono stato legato al mio letto. E poi qualcosa sembra apparire in fondo alla stanza. E’ il mio amico che viene, pensa Gyorgy con profonda certezza, anche se con una sicura apprensione. Ma presto si accorge, al contrario di sempre, che stasera sono due gli amici arrivati da lui, sono ben due che si apprestano a dirgli le cose di sempre e a tormentarlo.
            Si avvicinano, parlano tra loro sottovoce come fingendo di ignorarlo o di non accorgersi affatto di lui; o di essere lì soltanto per caso, non rispondendo ad un disegno preciso, e fare in modo che Gyorgy si agiti ancora di più, in risposta a quella incertezza, che si innervosisca, che inizi ad urlare contro di loro e che alla fine proprio per questo venga di nuovo legato al suo letto fino a ricevere la solita iniezione. Ora basta però, questo è troppo, pensa Gyorgy già a voce alta. Sono un professore, un insegnante di filosofia, ci vuole del rispetto per persone come son io. 
            Stavolta però i due amici lo guardano, hanno un’espressione curiosa, restano forse colpiti dalle parole che ha pronunciato. Mi pare ci sia qualcosa che accada senza che si riesca a capire cosa mai possa essere. I due amici si guardano tra loro, uno si allontana, l’altro si accosta maggiormente al mio letto: dice qualcosa, mi soffia le parole dentro le orecchie, l’altro lo guarda, ad una distanza direi di sicurezza. Sono legato, penso come per loro, non posso muovermi. Eppure se alzo un braccio riesco a vedere la mano davanti ai miei occhi; faccio la stessa cosa con l’altro. I miei legami stasera sono diversi, penso, di altra natura. Solleva il busto, Gyorgy, guarda con severità i due amici, e loro si allontanano di un passo, poi di due, infine se ne vanno.
            Preferisco la solitudine, pensa ancora Gyorgy mentre resta seduto, immobile nella posizione che è riuscito a raggiungere, piuttosto che confrontarmi con delle persone impossibili, che non hanno niente di serio da dire, se non prendere in giro, provocarmi, farmi urlare cose sconclusionate contro di loro. Stasera è una buona serata, pensa; i miei legami sono deboli, questo letto mi sostiene, forse non avrò ancora bisogno di urlare per fronteggiare quegli individui.

            Bruno Magnolfi 

venerdì 9 novembre 2012

In mezzo a tutto.


            
            Respiro con maggiore profondità, cerco di calmarmi dopo che ho colpito a mani nude, con una violenza che adesso, dopo pochi minuti, quasi non mi riconosco neppure, qualcuno che in fondo, forse semplicemente, proprio come me, stava immerso in questa calca incredibile. Sono convinto di aver messo in quel colpo tutta la rabbia repressa che sono riuscito a far emergere in me da questo periodo difficile, quasi la consapevolezza di un momento praticamente senza speranza  che mi ha dettato quel gesto terribile, come fosse un atto definitivo, quasi dipendesse da quello lo sviluppo di un futuro maggiormente accettabile sia per me che per gli altri.
            Adesso mi sono rifugiato nella nicchia di questo portone, guardo la manifestazione che continua a sfilare lungo la strada, mentre qualcuno, laggiù davanti, tira sassi e maneggia le spranghe; altri corrono, in molti sembrano disperati forse del loro stesso spavento, altri, al contrario, semplicemente spaventati dalla loro assurda disperazione. Alcune vetrine sono state spaccate e tutto intorno sembra parlare di violenza, ma soprattutto i celerini continuano a fronteggiare chiunque, come una moderna falange, in un assoluto e minaccioso assetto da guerra, quasi una sfida, una provocazione. Vedo qualcuno a terra già manganellato, giace sopra l’asfalto nelle nuvole dei lacrimogeni, mentre altri tentano di soccorrerlo pur nel caos generale.
            Provo a respirare con maggiore normalità nel mio fazzoletto, ma mi sento stanco, esausto, mi fanno male gli occhi e le gambe per la corsa assurda che ho fatto, e sento un forte dolore anche alla mano sanguinante con cui ho sferrato quel pugno; ricordo soltanto una faccia nemica ad un passo da me, e quella minuta porzione di tempo per decidere tutto: il mio bisogno di scaricare la rabbia coltivata da mesi sopra quell’espressione, senza chiedermi niente, senza interrogarmi su altro, colpire e basta, senza pensare.
            Guardo tutti mentre continuano a girare in quel carosello: ognuno sembra soltanto preoccupato di sé, della propria incolumità, ed io mi rendo conto, nella confusione pazzesca, di aver perso completamente di vista quegli altri, quelle persone con le quali all’inizio avevo raggiunto la mia postazione, alle spalle dello striscione, e come adesso io non riesca più neanche a capire cosa sia meglio che faccia, che senso abbia per me continuare a stare qui o cercare di andarmene, magari sparire prima che tutto degeneri ulteriormente. Mi rannicchio quanto posso sopra questo portone, poi spingo leggermente con la schiena, ma senza nessuna intenzione, e quello si apre.
            Entro titubante in quel grande ingresso buio, riaccosto il portone e mi avvicino al muro; poi rimango lì, a respirare quella calma irreale, quel relativo silenzio, quell’aria buona per i polmoni. Forse vorrei che qualcun altro mi raggiungesse, penso velocemente che non posso restare da solo proprio in questo momento, ho voglia di sapere cosa succede in mezzo alla strada, mi sento terribilmente vigliacco a restare qui immerso in quest’ombra. Ad un tratto si accende la luce elettrica che va ad illuminare improvvisamente un ambiente anche più caldo e piacevole di quello che mi ero immaginato, con una grande scalinata che si apre sul fondo; resto immobile un attimo, attendo gli eventi con gli occhi sgranati, infine scende con lentezza una ragazzina di dodici o tredici anni, con qualcosa dentro una mano. Mi guarda, forse ancora più intimidita di me, allunga un passo, lentissimo, poi dice soltanto: signore, le ho portato un po’ d’acqua da bere.

            Bruno Magnolfi

mercoledì 7 novembre 2012

Nascostamente.


           
            L’uomo ha come un gesto di stizza quando si rende conto, pensandoci, di ciò che in quel periodo gli sta capitando; poi, come ogni giorno, terminato il suo orario di lavoro, prosegue a camminare lungo la solita strada per tornarsene a casa. Inutile anche solo immaginare di scrollarsi di dosso tutte le preoccupazioni che lo assalgono, tanto vale fermarsi un momento al bar per un bicchierino.
            Si siede al bancone mentre si rende conto, nonostante quel locale gli rimanga di strada, che lì dentro non c’è probabilmente mai entrato prima di allora. Due vecchi parlano tra loro seduti ad un tavolino, per il resto lui è il solo cliente, così appoggia le braccia sul piano che ha davanti, ed osserva la ragazza che gli sorride lievemente mentre mette via qualche bicchiere.
            Una grappa, per favore, dice quasi sottovoce. Poi, mentre lei prepara la bevuta davanti ai suoi occhi, lui sente di dirle: certe volte ce la prendiamo soltanto per delle sciocchezze; forse essere saggi vuol solo dire imparare questa lezione. La ragazza lo guarda, inizialmente senza espressione, ma poi si ferma, osserva qualcosa sul banco, e infine si porta una mano sugli occhi, come avesse voglia di piangere.
            Mi scusi, gli dice; tutti noi forse abbiamo un dolore nascosto da qualche parte. La maggior parte delle volte fingiamo soltanto di non ricordarlo.

            Bruno Magnolfi

lunedì 5 novembre 2012

Dialogo n. 7. Al termine del giorno.


            

            Mi recavo da lei due o anche tre volte la settimana. Andavo la sera, dopo cena, passavo per sentire come stava, se aveva bisogno di qualcosa; mi lasciavo servire il caffè e mi trattenevo a parlare, qualche volta anche a guardare qualche programma alla televisione. Suo marito, Franco, il mio amico di sempre, era venuto a mancare da parecchi mesi ormai, ma io, che avevo sempre frequentato quella casa, mi sentivo in dovere di continuare a comportarmi quasi nello stesso modo, come quando lui era in vita, con la massima naturalezza.
            Io e Elena non si parlava mai di lui, però sapevamo che la sua presenza aleggiava tra di noi, quasi che Franco fosse andato nella stanza accanto a prendere qualcosa. In certi momenti io mi sentivo lui, e mi pareva addirittura doveroso, trattando certi argomenti, parlare perfino nella stessa maniera, dire le cose che avrebbe detto Franco, comportarmi in modo molto simile. Elena probabilmente comprendeva bene quel mio stato d’animo, e mi lasciava fare, certe volte sorrideva, ma cercava di non guardarmi mai negli occhi, come avesse paura di trovarvi qualche volta una persona differente da quella che arrivava lì da lei, a tenerle compagnia.
            Sono venuto a piedi, le dicevo a volte; la serata è bella, potremmo uscire insieme se ne hai voglia, e camminare un po’. Elena non diceva mai di si, ma sorrideva come lusingata: le piaceva quell’intimità del suo salotto, forse aveva soltanto paura di rompere quel nostro instabile equilibrio. Non pensavo che probabilmente avrei potuto anche baciarla, forse era ancora troppo presto per una cosa di quel genere. Abbracciarla si; anzi, qualche volta lo facevo, e spesso le toccavo un braccio o le tenevo la mano, come per una sorta di solidarietà che ci teneva uniti, vicini, dalla stessa parte; e lei mi lasciava fare, si vedeva che era fragile, ma resisteva nel guardare avanti, nel dare strada alla nostra amicizia, a quel forte ed evidente volerci bene.
            Poi Elena decise di affrontare quell’argomento spinoso, in un momento qualsiasi, quasi senza dargli peso. Prima o poi dovrai rimanere a dormire qui, insieme a me, disse con chiarezza. Sarà un momento importante, proseguì, vorrei che ci preparassimo, che niente avvenisse troppo presto o in malo modo. Io non mi sentii di dire niente; annuii come per non aggiungere niente a quelle parole che mi sembravano oltremodo sagge, ma anche difficili. Però iniziai a pensare a quello che significavano, ogni volta di più e con maggiore intensità, come se i nostri due fiumi corressero sempre più velocemente verso l’incontro, la fusione delle acque, in cui ognuno di noi avrebbe potuto quasi immaginare di essere affluente di quell’altro.   
            Con qualche scusa cercai di andare a casa sua un po’ meno spesso, almeno per un certo periodo; non provavo disagio, però tutto aveva preso una piega in cui non mi sentivo più spontaneo, mi pareva che il mio comportamento si stesse costruendo ad arte attorno a ciò che era stato abbondantemente immaginato, e questo non mi procurava alcun piacere. Di questo argomento non ne parlavo ad Elena, ma forse lei comprendeva perfettamente questo aspetto di me, e lasciava che io mi comportassi come meglio desideravo, senza chiedermi niente, senza accennare mai a qualcosa che potesse rompere la nostra sintonia.
            Per una settimana, poi, si recò fuori città, a fare visita a sua madre, ed io, una volta tornata, smisi quasi del tutto di andare da lei, limitandomi a passare da casa sua per un semplice saluto sulla porta, nelle ore del tardo pomeriggio. Infine, l’ultima volta che la vidi, Elena mi venne incontro, sorridente come forse mai l’avevo vista, mi guardò a lungo in fondo agli occhi e mi accarezzò una guancia con dolcezza: grazie, mi disse, e nient’altro.

            Bruno Magnolfi