domenica 29 marzo 2015

Primato del pensiero.

         

La descrizione di questo caso non appare troppo semplice, dice l'insegnante. Sicuramente oltre allo scarso rendimento dobbiamo parlare anche di disagio, anche se non c'è la sicurezza che questa parola alla fine spieghi molto. Bisogna però dire che i fatti sono più che evidenti, e che risulta impossibile fingere che siano cose di ogni giorno. Ma forse a questo punto alcuni genitori magari vorrebbero porre delle domande, interrogarci su qualcosa di specifico, dice ancora l'insegnante rivolgendosi un po’ a tutti. Invece, a parte il borbottio diffuso, sembra che nessuno abbia davvero qualcosa di ulteriore da chiedere. Difficile immaginare lo sviluppo di un ragazzo pieno di piccoli problemi come quello, pensano e dicono quei genitori mentre già alcuni si alzano dalle sedie; eppure sicuramente è doveroso affrontare anche quel caso, e cercare di comprenderne tutti i possibili risvolti. La piccola riunione a quel punto sembra però conclusa: tutti adesso sono in piedi e qualcuno inizia anche a salutare gli altri per scappare via, dietro ai problemi di ogni giorno.
Papà e mamma si comportano sempre normalmente con me, spiega il ragazzo nella registrazione audio effettuata dentro all’ufficio del preside. L’uomo lo guarda dalla sufficiente distanza che gli conferiscono la laurea alle sue spalle e la lucida scrivania di legno, ma infine si alza, gira attorno al mobile per arrivargli più vicino, ed anche se poi finisce per osservarlo terribilmente dall’alto al basso, ugualmente gli chiede: tu lo capisci vero che non posso proprio fare altro? Il ragazzo si alza, come per rompere quel senso di disagio che continua a provare; ed anche se adesso tiene gli occhi bassi, si sente deciso a salutare il preside e ad uscire dal suo ufficio, ma mentre si volta per andarsene via, gli viene spontaneo di dire sottovoce che secondo lui è stato sbagliato proprio tutto, anche se l’uomo finge di non sentirlo, proprio mentre anche lui di rimando finge come di aver detto quella frase soltanto per se stesso.
I compagni lo salutano, pur senza enfasi, quando lo vedono passare dal corridoio scolastico. Lui esce dall’edificio, senza minimamente affrettarsi: la sua sospensione durerà ancora qualche giorno, poi le cose forse riprenderanno in un’aura di normalità. Però il ragazzo sa già dentro di sé che non potrà più essere la stessa cosa lo stare in classe e seguire le lezioni, lasciarsi interrogare da quei soliti insegnanti, fare i compiti e le esercitazioni, scherzare come tutti gli altri ragazzi. Qualcosa si è incrinato, anche se non riuscirebbe mai a descrivere che cosa effettivamente sia successo. Anche con i suoi genitori, non sarà più lo stesso di prima: adesso è come se portasse un elemento estraneo a tutti dentro di sé, qualcosa che probabilmente terrà gli altri più a distanza, quasi fosse un appestato, oppure uno diverso, uno del quale non ci si può fidare completamente.
Ciao mamma, dice il ragazzo rientrando in casa. Lei risponde al saluto, ma avrebbe forse voglia di abbracciarlo, di spiegargli che d’ora in avanti dovranno stare più vicini, dirsi tutte le cose che fino adesso hanno taciuto, spiegare ogni piccolo dettaglio; ma non lo fa, restando ad occuparsi di qualcosa in cucina, come sempre. Probabilmente affronteranno l’argomento quando saranno tutti a tavola, di fronte ai piatti e alle posate. Il ragazzo terrà i suoi occhi bassi, suo padre dirà qualcosa di analitico e pesante, sua madre cercherà di prendere le sue difese. Ma lui si sentirà già differente, e le sue riflessioni lo renderanno grande, forse più consapevole di sé. E non gli importerà assolutamente niente di quello che è successo: i suoi pensieri saranno ancora suoi, non avrà da spartirli con nessuno, e nessuno si immaginerà mai che cosa lui avesse davvero immaginato.


Bruno Magnolfi

giovedì 26 marzo 2015

Guerra persa.



            Noi due siamo invincibili, dice sorridendo Richi all’amico mentre passeggiano nella zona pedonale della loro città, quasi indifferenti alla moltitudine di persone che li sfiorano. Di fatto sanno di essere ben attrezzati contro chiunque, pronti a lottare come leoni nel caso di un attacco contro di loro, anche se alla fine non sanno nemmeno spiegare chi poi dovrebbe essere il vero nemico. Ridono, comunque, sprezzanti di qualcosa che forse addirittura gli sfugge, anche se sono convinti che oggi si deve essere così, e che non ci sono possibili alternative.
Si siedono su un gradino, Richi dice che la cosa piu importante in fondo è quella di non annoiarsi, ma l’altro sbadiglia, anche se forse non vorrebbe. Non me ne importa niente, dice tanto per dire; tu sei sempre pronto a consolarti in qualche maniera, però qui non c’è mai niente da fare, e così non va bene. Richi, tanto per distrarsi, chiama una ragazza che passa, le chiede svogliatamente se le va di stare con loro, ma quella tira subito diritto, e come risposta, senza guardarsi indietro, si picchia un dito sopra la tempia. Ridono i due, è la loro maniera di esternare gli scherzi, far vedere che ci sono, che sono sempre fuori dagli schemi ordinari.
L’altro infine si prende la testa tra le mani, spiega che a volte gli pare che le cose non stiano proprio andando per il verso giusto. Guardaci, dice: non abbiamo mai un soldo in tasca, non sappiamo mai che fare, forse siamo anche disposti ad affrontare qualsiasi cosa, anche se nessuno di fatto ci viene a chiedere di farlo, ma questo poi dove ci porta, a che cosa serve? Giriamo di qua e di là, galleggiamo dentro un liquido vischioso che neppure ci appare, anche se lo riteniamo almeno qualcosa di concreto, e forse è proprio questo il vero elemento che lavora contro di noi, quello dal quale prima o dopo dovremo riuscire a liberarci. Non ho capito niente, dice Richi, però sono sicuro che tu dica bene: fa tutto schifo qua attorno, e se non ci aiutiamo da noi stessi, è chiaro che non lo farà proprio nessuno.
Senti, dice l’altro, dobbiamo dare un taglio alle cose, prendere un’iniziativa, far vedere a tutti di che pasta siamo composti. Non ci vuole molto, è sufficiente trovare la strada giusta, il giusto settore che può fare meglio di tutti al caso nostro. Va bene, risponde Richi, scriviamo su un foglio un elenco di possibilità, poi eliminiamo una per volta quelle meno opportune. D’accordo, dice l’altro, ma non saprei da dove iniziare. Lo so io, ribatte Richi: bisogna andarsene via, ecco il punto. Dobbiamo volarcene lontano, e ricominciare tutto daccapo, con un altro entusiasmo, cercando soluzioni diverse, tutto nuovo insomma. Ed anche se andarsene via può sembrare come una solenne dichiarazione di sconfitta, di fatto non è così, perché è solo un rilancio per gente come noi.
L’altro rimane in silenzio, forse è perplesso, non aveva mai pensato qualcosa del genere. Non posso, dice alla fine. Non riesco ad immaginarmi in un luogo diverso da questo. Sono troppo legato alle cose, alle strade, alle poche persone che conosco. Però non voglio dire che questa scelta vada male per te, anzi, forse tu dovresti proprio farlo, andartene via, trovare davvero la strada che cerchi. Poi si alza in piedi e osserva meglio Richi: siamo ad un bivio, dice, non c’è niente da fare, dobbiamo separarci, anche se questo ci dispiace. Va bene, dice Richi, forse però non siamo davvero così forti come si credeva un tempo: di fronte ai primi problemi dobbiamo subito dichiararci sconfitti. Forse è così, fa l’altro; ma forse è proprio in questo modo che inizia la vera battaglia.

Bruno Magnolfi  


lunedì 23 marzo 2015

Parcheggio abusivo.



Silenziosa, con calma, anche oggi lei parcheggia la sua auto davanti al supermercato, così mescolando la sua alle decine di altre macchine che sostano normalmente in questo enorme piazzale, ognuna entro il confine delle apposite strisce bianche, spegnendo il motore e lasciando accesa la radio, ma ad un volume il più possibile attenuato. Questa utilitaria, insieme alla sofferenza per una separazione non voluta da lei, praticamente è tutto ciò che le ha lasciato il marito, e lei comunque gli rimane grata ancora adesso per averla spinta, in anni più giovanili, ad acquisire la patente per poterla almeno guidare.
Sta qui, anche se non sempre scende dall’auto per fare delle spese. Guarda quelle persone che si muovono tutt’intorno con le loro buste e i carrelli, ben attenta a non farsi troppo notare. Finge di leggere qualcosa, generalmente, ascolta i notiziari della radio, perde tempo, senza stare a preoccuparsi quasi di niente. Le piace quel senso di normalità che si respira da queste parti, le piace sapere di essere una come tutte le altre, tanto da perdersi volentieri nel mucchio. Certe volte pensa che potrebbe fare qualcosa, imporsi degli scopi da perseguire. Ma in fondo le piace più di ogni altra cosa sonnecchiare con le mani sopra al volante in questo parcheggio, stare qui come pronta a fare chissà che cos’altro, senza preoccuparsi davvero di che possa essere.
I clienti del supermercato vanno e vengono, forse qualcuno addirittura la vede mentre se ne sta qui a scaldarsi al sole. Uno di loro poi si avvicina, le bussa sul vetro, dice che deve uscire dal parcheggio a fianco, e se lei con la sua auto potesse andare due metri più avanti renderebbe la sua manovra più facile. Certo, niente di male, dice lei, che avvia il motore ed immediatamente si sposta. L’uomo che le ha parlato adesso sorride mentre va via, la saluta con un semplice gesto, una forma di ringraziamento, o forse la conosce, magari l'ha già incrociata da queste parti.
Lei non ci tiene al saluto di qualcuno, preferisce che tutti la scambino per una persona indaffarata che viene a fare spese per la sua famiglia, anche se in verità abita da sola. In fondo anche lei è una famiglia, pensa talvolta: si deve preoccupare sempre di tutto, pagare le bollette, fare gli acquisti. Certe volte si chiede se davvero abbia senso la vita che manda avanti, poi in altri casi riprende ad interrogarsi sui suoi errori, ammesso che ce ne siano. Ma alla fine, più di tutto le piace proprio stare qui, senza pensare niente, in questo parcheggio, dove nessuno può sostenere davvero che non si stia preoccupando di niente.
Dopo poco torna il signore di prima, è a piedi stavolta, le bussa al vetro, proprio come aveva fatto precedentemente, e quando lei abbassa il finestrino, le dice che se le va vorrebbe offrirle un caffè, qui vicino, in questo locale subito di fronte. Lei cerca di darsi un contegno, adesso dovrebbe andare a far spese, anzi, prima cercare la lista delle compere che ha preparato e che adesso non trova, ma alla fine, dopo essersi mossa varie volte sul seggiolino, risponde di si, sorridendo: può permettersi addirittura di perdere dieci minuti.
Scende, chiude l'auto, l'uomo si presenta, dice che l'ha già notata altre volte ferma dentro la macchina, come aspettasse sempre qualcuno. E' vero, dice subito lei, mio marito lavora al supermercato, così spesso vengo a prenderlo a fine turno. L'uomo annuisce, ma comprende che la donna stia inventando qualcosa per coprire la sua solitudine. Insieme prendono il caffè, parlano del più e del meno e poco dopo si salutano, stringendosi la mano. Domani tornerò qui, dice lui mentre sta andando via. La cercherò di nuovo: se fosse in zona magari potremmo prendere un altro caffè.


Bruno Magnolfi

venerdì 20 marzo 2015

Fuori posto.

            

            Dopo la fine del primo turno di lavoro, ed una volta iniziato ormai il secondo, in questa casa di cura c’è sempre un po’ di tempo in cui generalmente nessuno sembra più cercarmi, come se tutti all’improvviso si dimenticassero di me, lasciandomi completamente libero di andare ad infilarmi in questo spogliatoio deserto del terzo piano, per restare qui da solo almeno una mezz’ora. Mi immobilizzo volentieri nel silenzio ovattato di tutti gli armadietti, tra le sedie di plastica e la finestra luminosa proprio sul fondo, alla quale però mi avvicino solo con circospezione, per paura di essere notato da qualcuno che per caso sollevi lo sguardo dal parcheggio qui di fronte. Mi prendo una pausa, ecco il punto, non ci vedo niente di male.
Stamani c’è stata confusione, in tre abbiamo dovuto immobilizzare uno dei gravi, tenendolo con le mani sulla schiena mentre gridava e si contorceva, poi siamo riusciti a fargli l’iniezione e a metterlo sul letto. Ma adesso non vorrei pensare questo: mi piace sentire sulla pelle l’aria ferma e calda che c’è qui, in questa stanza. Le foglie degli alberi in giardino riverberano la luce, ed io mi metto seduto accanto ad un termosifone, giusto per chiedermi dove starà mai il limite dell’uomo e del pensiero. Certe volte qualcuno degli ammalati mi fa pena, vedo i suoi sforzi, la voglia di comunicare qualcosa di difficile; poi mi chiedo se in condizioni un po' particolari non sarei finito anch'io qua dentro insieme a loro, nella zona dei degenti senza possibilità di guarigione. Li osservo certe volte, e in fondo mi sembrano esattamente come me.
Poi mi muovo sulla sedia, ho sentito forse un rumore fuori della porta, lungo il corridoio. Mi piazzo subito in piedi, apro il mio armadietto, devo pur giustificarmi nel caso passi da qui uno dei medici. Mi avvicino alla porta, resto in ascolto, sto attento ad ogni più piccolo rumore: mi piace interpretare ciò che si sente, anche ogni debole alito di vento. D’improvviso entra il primario, mi scruta, spiega subito che se lo immaginava di trovarmi proprio qui. Dice che non va bene che mi assenti mentre magari i miei colleghi hanno qualche difficoltà.
Cerco di spiegargli che era soltanto per un attimo, volevo giusto controllare qualche cosa, ma lui mi incalza, dice che lo sto prendendo per uno stupido, che sa benissimo cosa stia facendo. All’improvviso provo un senso estremo di sgradevolezza per la persona che ho davanti: proseguo a piagnucolare mentre a lui non interessa proprio niente di tutte le mie scuse e di tutto ciò che riesco a dirgli; così mi muovo sulle gambe senza più neanche guardarlo, come cercando di sfuggirgli, ma lui mi para la strada, mi fronteggia, non mi lascia neppure uno spiraglio per respirare.
Perdo il controllo, penso che potrei ucciderlo se avessi un’arma, eppure non vorrei toccarlo, mi fa ribrezzo la sua faccia, l’espressione, quel suo corpo da grande professore, con il camice pulito e ben stirato, quei capelli pettinati e quegli occhiali tutti lucidi. Mi mordo una mano mentre ringhio, lui continua ad irritarmi, io stringo più forte, mi faccio uscire il sangue. Infine mi strappo la camicia, urlo e faccio a pezzi tutto quello che le mie mani riescono a ghermire, e lui neppure mi frena, anzi lascia che io continui a dare compimento a tutte le mie azioni.
Cado a terra, mi copro il viso con le mani, e resto in questo modo, nell’attesa che tutto ormai precipiti, che accada così l’inevitabile, che mi trascinino via, mi facciano anche a me un’iniezione di tranquillante. Trascorrono i minuti, mi calmo, torno ad aprire gli occhi e mi accorgo che sono solo nello spogliatoio, non è successo niente di quello che avevo immaginato. Quando torno a rimettermi in piedi, mi accorgo di tremare: siamo tutti uguali, torno a pensare; siamo tutti con qualcosa fuori posto, convinti di essere perfetti, razionali, degni della stima di ogni altro.


Bruno Magnolfi

giovedì 19 marzo 2015

Inevitabile digestione.



La vecchia è caduta sul marciapiede, proprio lì, davanti a tutti. Forse si è rotta le costole oppure un femore, non è molto chiaro. Tutti sono corsi da lei, hanno cercato di aiutarla, di rialzarla, di rendere meno pesante e dolorosa la sua situazione. Qualcuno ha detto che ci sono dappertutto sconnessioni dei piani stradali, altri hanno spiegato che per certe persone purtroppo ci vorrebbero dei perfetti biliardi per riuscire a non farle cadere. L’ambulanza ci ha impiegato un minuto di troppo ad intervenire; per altri invece è stata persino troppo solerte. La donna anziana si guarda attorno spaurita. La gente le parla, qualcuno le dice stia ferma, uno muova le mani, qualcun altro le spiega delle banalità che lei forse ascolta soltanto perché è stata sempre una donna cortese, oppure addirittura fa così solo perché spaventata.
La sistemano sulla barella, infine, la portano via, ma non si sa ancora cosa abbia davvero. Lei fa un segno veloce con una mano, gli inservienti si fermano un attimo, la lasciano guardarsi ancora attorno per un lungo momento: forse la vita della vecchia non sarà più la stessa da ora in avanti. Lei lo sa, ne ha coscienza, magari lo sanno anche due o tre persone intorno a quel piccolo assembramento che si è formato. Qualcuno dice che la sua vita ormai l’ha vissuta, altri annuiscono a quelle parole, ma soltanto perché non sanno proprio cos’altro pensare.
Forse non c'è neppure tutta questa fretta, dice un uomo vestito piuttosto male, noto in tutto il quartiere. L'ambulanza prosegue a stazionare accanto al marciapiede, creando con le luci girevoli quel senso di dramma urbano che in breve si sta consumando, per qualcuno forse un fatto del tutto ordinario, abituale, e per altri invece una situazione limite, naturalmente, quasi assurda. La vecchia piange, è disperata, alcuni dicono che qualcuno si preoccuperà senza alcun dubbio di avvertire i parenti di quanto successo, ma lei non sta affatto pensando quello; anzi, al contrario, non vorrebbe mai essere di peso a nessuno, né amici e né parenti, le dispiace persino per quei barellieri che stanno lì solo per lei, quei bei ragazzi che potrebbero fare chissà quali cose, invece di starsene attorno ad una donnetta senza futuro.
L'autista dell'ambulanza è nervoso: vorrebbe che tutto si svolgesse più in fretta: ha ansia di guidare veloce tra le macchine ed il traffico, con le luci e le sirene spiegate, per mostrare quanto la sua attività sia quasi superiore a tutte le altre. La vecchia improvvisamente dice che adesso non vuole andare da alcuna parte, ed al contrario vuol rimanere lì, e morire sul marciapiede, per non dare fastidio a nessuno. Pensa adesso alle lunghe giornate magari nel letto dell'ospedale, agli infermieri che continuano a girarla sui fianchi per evitarle le piaghe, al suo sentirsi sempre più oggetto, senza volontà, forse senz'anima, rannicchiata per forza nel proprio egoismo, e sorretta da quell’ultimo attaccamento alla vita, pur surrogata, certo, pur di altro ordine. Qualcuno lì attorno forse vorrebbe piangere con lei per qualcosa che crede di avere intuito, ma tutti in fondo hanno altro da fare, e alla fine alcuni se ne vanno un po’ alla spicciolata, anche se vengono immediatamente sostituiti da altri curiosi, da perdigiorno che volentieri si accostano, immancabilmente chiedendo qualcosa, spalancando gli occhi, indicando un punto, una cosa laggiù, forse la direzione che dovremmo tutti tenere, chissà verso dove.
Infine la vecchia è caricata, e pur lentamente l'ambulanza riparte: è stato inevitabile, pensano alcuni, mentre tutti gli altri se ne vanno via, ed ogni cosa torna ad essere com’è sempre stata. Ognuno adesso riprende la propria attività, i propri compiti, meno che lui, proprio l'uomo più strano, quello vestito piuttosto male che tutti conoscono; lui resta, rimane ancora qualche momento in quell’angolo, sul marciapiede, fermo esattamente dov’era prima, ma forse soltanto perché di fatto non ha proprio nient’altro da fare.


Bruno Magnolfi

martedì 17 marzo 2015

Incomprensibilmente.

            

Di lei, osservandola in un momento qualsiasi della giornata, sembra di non poter riuscire quasi mai ad immaginare esattamente quale sarà il suo comportamento appena un attimo dopo. La guardi certe volte e ti pare triste, quando poi sai che le basta magari ascoltare qualche parola di un impiegato nel corridoio degli uffici, ed eccola irrompere nell'aria con una delle sue risate cristalline. Quando poi termina l’orario di lavoro, e presa la sua borsa se ne incammina giù per le scale, a volte ti pare inspiegabilmente che debba andare al patibolo, tanto sembra abbacchiata. Nessuno tra tutti i colleghi riesce ad avere troppa confidenza con lei: forse perché risulta troppo contorta la sua personalità, probabilmente, e troppo instabili quei suoi comportamenti. 
Poi la incontro al supermercato, di sabato, per la prima volta fuori dal nostro solito luogo di lavoro, e lei mi saluta, appena mi vede, pur senza grande enfasi. Non mi preoccupo, la guardo mentre spinge il carrello, scorre la fila lungo gli scaffali, si sofferma a prendere qualche prodotto, e mi pare proprio una come tutte le altre, senza alcuna differenza rimarchevole. Però mi sento a disagio, vado verso le casse ed ho quasi paura di incontrarla di nuovo, poi torno indietro, percorro un altro corridoio e forse vorrei addirittura ritrovarmela all’improvviso di fronte.
Alla fine pago ed esco da lì, le mani ingombre con i sacchetti e tutto il resto; infine raggiungo il parcheggio, ed eccola nuovamente di faccia a me mentre sta discutendo con qualcuno che io non conosco. Vorrei disinteressarmi del tutto di quanto sta accadendo e di tutti i suoi problemi, però mi appare leggermente in difficoltà, cosi mi faccio forza e mi avvicino; lei effettivamente è irritata: spiega all'altro, con voce squillante, che non va bene tenderle quasi un agguato in un qualsiasi parcheggio. Forse quello è il suo ex fidanzato, penso, così le volto subito le spalle, e cerco la maniera migliore per andarmene, ma lei mi chiama, dice subito all'altro che io sono soltanto il suo collega di lavoro, e che comunque i fatti suoi a me non riguardano.
L'altro mi osserva, spiega, con voce che in parte mi coinvolge, che vorrebbe soltanto spiegarsi con calma, nient'altro, ma lei continua a dire che sa già perfettamente cosa lui vuole dirle, e che non le interessa minimamente. Lui allora resta in silenzio, io sto fermo, non so cosa fare, lei apre la sua macchina, sistema le compere: Marretti, mi dice improvvisamente, perché non andiamo io e lei a prenderci un caffè?, e poi sorride, senza neanche voltarsi un attimo verso di lui. Lui al contrario si volta, se ne va, e mi fa persino un po’ pena. Non so cosa rispondere, ma dico va bene per non dover trovare una scusa che mostrerebbe la mia indole poco felice nell’inventare balle.
Salgo sulla sua macchina, si arriva velocemente presso un bar poco lontano, lei accosta, scendiamo. Lei adesso pare preoccupata. Forse addirittura proprio di quel tizio a cui ha voltato le spalle, penso senza dire niente. Il cameriere ci serve, io le sorrido tanto per rompere quel lieve imbarazzo. Lei mi guarda fisso, poi dice che non sa come ringraziarmi per quello che ho fatto, ma probabilmente pensa già ad altro. Se ci rifletto non capisco neppure a che cosa si riferisca, ma la lascio dire, anche se vorrei farmi piccolo e basta.
Il giorno seguente in ufficio lei sta fotocopiando qualcosa nel corridoio. Le tocco un braccio arrivando, sorrido, lei si volta; mi guarda per un attimo, come per chiedermi che cosa io voglia da lei, così abbasso lo sguardo, mi discosto. Quando torno a sedermi alla mia scrivania so che c’è qualcosa che non ho compreso per niente; ma non so cosa sia, neppure se ci penso, per questo forse è bene che mi lasci semplicemente sprofondare nel mio lavoro.


Bruno Magnolfi

lunedì 16 marzo 2015

Senza alternativa.



La stanza ha due finestre. Spesso mi piazzo seduto a guardare fuori dai vetri, al primo piano dell’appartamento dove abito con la mia famiglia, e scansando le tende osservo tutte quante le persone che lungo i camminamenti transitano a fianco di questa strada di fronte, soprattutto quegli individui che girano all’angolo, ed offrono alla mia vista dapprima il loro fianco, ed appena un attimo dopo anche l’altro, a patto che non riescano a sfuggirmi improvvisamente attraversando la via sopra al passaggio pedonale. Generalmente fingo con indifferenza di essere impegnato in qualcosa, perché non vorrei in nessun modo essere notato come un curioso qualsiasi, ma di fatto osservo attentamente quei modi di camminare, quelle espressioni del viso, ed anche quelle diverse maniere di affrontare la realtà pur sopra questo semplice marciapiede del nostro quartiere.
Evidente che ritengo di avere la stoffa dell’osservatore, di quello che riesce assolutamente a percepire dettagli di personalità da semplici scampoli di atteggiamenti, ma tutto questo in fondo non ha per me minimamente importanza, in quanto il piacere vero che riesco a provare è solo quello dato dalla mia innata intuizione dei gesti e dei comportamenti degli altri. Conosco perfettamente la maniera dettata da timidezza di toccarsi il naso di uno, proprio mentre l’altro lo incrocia. Così come non mi meraviglia affatto l’abbassare lo sguardo di una donna di fronte ad un gruppo di gente che gli sta proprio passando vicino.
Sto qua, scanso le tende, spolvero il davanzale di una finestra, ancora pulisco con un panno i vetri già cristallini che mi stanno davanti. Perdo tempo, spingo in avanti qualcosa che forse dovrei affrontare sull’immediato, ma tutto questo non ha ancora alcuna importanza, se non quando mi accorgo che proprio in questo momento, in questo attimo esatto, sta passando davanti alle mie finestre una persona qualsiasi, un tizio preoccupato soltanto di sé, dei suoi modi di comportarsi pubblicamente, delle sue sciocche maniere di essere soltanto un animale sociale. Sorrido, sostengo la sua maniera di essere, conosco quel modo di stringere i denti di fronte a qualcosa che non si conosce, all’oscuro che ti sbarra la strada, che la fa divenire quasi una giungla zeppa di insidie.
Non nutro un interesse particolare per lui, certo, però mi attirano i suoi modi, ed ancora di più mi attrae cercare di comprendere quali siano i suoi pensieri, perché sono quasi sicuro di conoscerli, di averne un'idea più che precisa, e di sapere che cosa quell’individuo si aspetti dalla sua giornata. Lo lascio scivolare lungo il marciapiede, aspetto con fermezza che giri all'angolo, come d’altronde fanno quasi tutti, ma invece lui si ferma, resta perplesso, quasi preoccupato, forse addirittura non sa neanche come, oppure verso dove procedere. Si guarda in giro, ho come l'impressione che, quasi avvertendo la presenza di un assurdo campo magnetico, cerchi attorno a sé la naturale fonte di tutto questo. Infine alza la testa, si volta verso le case, affina il suo sguardo, ed in conclusione mi punta direttamente, come scoprendo che sono proprio io, di fronte a lui, apparentemente protetto dai vetri, l’ origine delle sue indecisioni. Mi osserva, aspira l'aria come caricando dell’astio, poi sputa a terra in segno di profondo disprezzo.
Quando riprende a camminare attraversando la strada, io resto del tutto sbalordito: ancora pochi secondi per vedere le sue spalle, poi più niente, ancora meno di un grande punto interrogativo rimasto sopra la strada. Mi guardo le mani, sento la faccia scottare: tutto mi sfugge, le mie convinzioni sono crollate; tiro le tende, rientro, mi siedo: basta per oggi, rifletto, non ho nessuna diversa possibilità.

Bruno Magnolfi


giovedì 12 marzo 2015

Dentro un comportamento già definito.

            

Come va? dice subito lui mentre osserva con curiosità il suo collega che entra dentro al magazzino, il passo incerto, l'espressione di chi forse vuol mostrare che il suo periodo di malattia non è stato per nulla una normale passeggiata. Tutto a posto, dice l'altro sollevando una mano per lo scambio di una stretta veloce, come a mostrare che comunque può ancora farcela a salutare come si deve, e che gli serviranno forse soltanto pochi minuti, una mezz’ora al massimo, per riprendere appieno il suo lavoro come sempre. Durante i lunghi periodi precedenti, non  sempre c'è stato esattamente un buon clima tra di loro: certe volte hanno battibeccato a fondo ed aspramente su come portare avanti i compiti in reparto, e in altri casi si sono tenuti il muso lungo anche solo reclamando ognuno una superiore competenza in quella attività; in molti di quei casi le scaffalature del magazzinaggio sono state evidentemente interpretate in maniera differente, anche se ambedue hanno sempre saputo che era soltanto la loro diversa personalità a far apparire tutto suscettibile di profonde differenze di valutazione. Adesso però, dopo che lui ha dovuto far fronte da solo a tutto quanto, durante quelle due ultime interminabili settimane, è chiaro che sente come naturale tirare un pur leggero sospiro di sollievo al rientro del collega.
Nel capannone sembra almeno a prima vista che non sia cambiato niente: gli stessi nastri trasportatori al centro dove vengono assemblati i colli, e tutto intorno in verticale gli imballaggi siglati dei pezzi di ricambio, inventariati e sistemati sopra i piani, ai soliti posti. Lui sorride indossando il camice blu, l'altro esegue la stessa operazione in attesa che gli venga suggerito da dove riprendere la propria attività. Ci sono i fogli degli ordini sulla scrivania, ma vanno considerate diverse cose prima di iniziare con le procedure. Lui lo guarda, gli dice qualcosa di tecnico, un aggiornamento, l'altro sembra seguirlo perfettamente in quelle riflessioni. Poi iniziano a mettere insieme il primo pancale, a prendere quello che serve, e ad iniziare la composizione dell’unità di carico. Pare proprio che tutto riprenda esattamente com’è sempre stato, ma ad un tratto l'altro si ferma, lo guarda, dice: senti, ho deciso di chiedere il trasferimento ad un altro reparto. Lui si ferma, lo guarda, poi sistema lentamente un' altra scatola.
Per quale motivo?, vorrebbe forse chiedergli; ma non lo fa, perché in qualche modo conosce già quale sia la risposta. Per un attimo forse si sente sollevato, ma contemporaneamente anche perplesso, e se continua a pensarci un po’ più a fondo, un filo di amarezza sembra quasi paralizzarlo. Vorrei che tu ci riflettessi bene, gli dice soltanto. L’altro sorride, come a sottolineare che ne ha avuto davvero tutto il tempo durante quei giorni trascorsi in malattia. Segue una pausa, in cui i due proseguono con pieno impegno le loro occupazioni. Se è solo per le mie sparate a cui ti ho sottoposto qualche volta, dice lui, sappi che mi dispiace, e vorrei tanto che tu non dessi seguito alla tua decisione. L’altro lo guarda, pare riflettere: no, non è esattamente per questo, gli dice. Credo però che con il nostro comportamento stiamo facendoci del male a vicenda, ed è bene il prima possibile porre un rimedio a tutto questo.
Il lavoro procede, ed anche la giornata, ma le parole che si scambiano i due all’interno del magazzino sono oramai puramente di ordine lavorativo, senza fare più nessun accenno a quanto emerso inizialmente. Lui non si sarebbe mai aspettato qualcosa di quel genere, ed adesso, maggiormente ci riflette, sempre più stupido gli pare il proprio comportamento, qualsiasi sia stato. Arriva la fine dell'orario di lavoro, l'altro passa dallo spogliatoio, si cambia, poi lo saluta uscendo, senza aggiungere parole. Lui lo guarda, gli dice solo ciao, nient'altro; forse però, dentro di sé, vorrebbe quasi correre dal suo collega, abbracciarlo, e adesso dirgli che la colpa di tutto è solo sua.


Bruno Magnolfi

domenica 8 marzo 2015

Nuove idee.

          

Oggi tutto è difficile. I ragazzi stanno seduti, qualcuno scomposto, e quasi non parlano mentre con le facce lunghe si mostrano annoiati, o fingono di essere stanchi, svogliati, senza neppure la forza di parlare di un argomento diverso dalle solite stupidaggini. Il barista scuote la testa quando getta un'occhiata verso di loro in quell'angolo della saletta, e prosegue a sistemare tazze e bicchieri.
Non c’è niente di male, si dice, nello starsene immobili cercando di non cambiare una virgola di quello che siamo. Lui sta insieme con gli altri, e in serate così vorrebbe quasi andarsene da quel solito posto, tanto gli sembra ottuso perdere tempo in questa maniera. Ma il senso di appartenenza a quel gruppo fa in modo che proprio in quell’esatto momento in cui il suo pensiero è così negativo, lui si alzi, si scuota, dica: dobbiamo assolutamente fare qualcosa, ragazzi.
Gli altri lo guardano, lo valutano, poi lentamente, quasi rispondendo al richiamo ma per una specie di inerzia, iniziano ad alzarsi dalle sedie di plastica. Fuori la serata non è niente di speciale, da un lato della strada ci sono tutte le luci accese del loro paese, e dall'altro soltanto la campagna aperta con qualche casa isolata. Accendono i motorini e gli scooters, fanno tra loro qualche battuta, poi tutti in gruppo si avviano e finiscono in piazza, la piazza principale di quell’agglomerato di case, con le panchine e qualche cespuglio dentro le aiuole, e dove a quell’ora della serata si incrociano soltanto alcuni anziani che generalmente non hanno niente da fare.
Dobbiamo trovare uno scopo che ci porti fuori da questa palude, fa lui. Ci sarà pure qualcosa che ci fa schifo, contro la quale scagliarsi con tutte le forze che abbiamo. Dobbiamo scovare l'elemento che ci renda degli attori, dei personaggi della commedia, invece di subire tutto in questo stupido modo. Alcuni ridono, qualcuno accenna di sì con la testa, ma nessuno sa neppure vagamente dove quei discorsi possono andare a parare. Poi uno dice che è la politica la cosa peggiore di tutte, e gli altri dicono subito che è vero, che è così, e mentre molti sembrano essere d'accordo, lui dice soltanto che quello che devono fare adesso è inventarsi una semplice corrente d'opinione che faccia diventare vecchio e sorpassato quasi tutto il resto.
Si trova carta e matita, e si incomincia a scrivere e progettare cosa sia meglio fare nell’immediato. Una manifestazione, ecco quel che ci vuole, dice qualcuno. Scuotere questo paese senza spina dorsale, inventarsi una nuova bandiera, uno slogan, un ideale a cui andare dietro. Un paio di ragazzi si fa venire qualche altra idea, alcuni poi aggiungono qualcosa, e la data sembra già fissata: tutti in quel giorno deciso dovranno semplicemente sfilare lungo quella strada gridando qualcosa, si dice; qualcosa di forte, di estremamente spiazzante, che lasci di stucco anche chi, per evidente disinteresse, persino in un’occasione del genere non ha saputo far altro che restarsene a casa propria.
E’ il sindaco che fa schifo, dice lui, e gli altri scuotono la testa in segno di approvazione. Dobbiamo costringerlo alle dimissioni, la nostra manifestazione sarà contro di lui. Si cercano le parole giuste, le frasi più adatte, si pensa agli striscioni da approntare, le idee da gridare in un coro. Si annota tutto ciò che viene detto: qualsiasi idea nei giorni seguenti dovrà essere valutata con attenzione, ed intanto i ragazzi sembrano come elettrizzati, sono sicuri che in futuro potranno tenere in pugno le cose, dare una svolta decisa anche alla vita monotona della provincia.
Infine finiscono le loro birre e poi se ne vanno, ognuno a casa propria. L’appuntamento è per il giorno seguente: serviranno altre idee, e anche sostegno, condivisione, accordi con tutti. Lui è soddisfatto: qualcosa si sta muovendo qua attorno, pensa; in fondo non ci voleva poi molto.

Bruno Magnolfi


mercoledì 4 marzo 2015

Decise variazioni.



La prima volta che lo vidi, mi lasciò del tutto indifferente. Comunque fosse però, non ci trovavo niente di male a darmi un'occhiata in giro ogni tanto, anche se mia madre sicuramente avrebbe avuto qualcosa da ridire. Non ero bella, come peraltro non sono mai stata, e a quell'epoca neppure mi curavo troppo. Diciamo che con un certo impegno riuscivo a fare bella figura giusto se assumevo qualche espressione curiosa con gli occhi oppure con la faccia. Così, incontratolo di nuovo, lo guardai un po’ meglio, ed iniziai a far caso a quei suoi modi, alla maniera di camminare, all'abbigliamento, e così via. In seguito però mi sentii noiosa, e così mi disinteressai di lui quasi completamente, e presi addirittura a transitare dall'altro marciapiede della strada, dove spesso mi fermavo ad osservare la vetrina di qualche negozio già illuminato di mattina. Forse il mio comportamento era del tutto inconscio, non saprei dirlo, e in fondo è probabile mi comportassi così soltanto per non trovarmi nuovamente di faccia proprio quel ragazzone taciturno.
Fu lui invece che una mattina si fece trovare lì, davanti a me, come se fosse la cosa più naturale della terra. Avrei dovuto sorridergli, penso adesso, fargli un qualsiasi cenno timido, ma invece non lo feci, e neppure quel ragazzo a dire la verità cambiò espressione quando mi avvistò. Però prendemmo ad incontrarci quasi ogni giorno da quel lato della strada, nella stessa esatta maniera, sempre senza salutarci, solo sfiorandosi ed evitando addirittura di rallentare il passo, mentre presumibilmente ci recavamo ognuno al proprio posto di lavoro.
Lo odiavo quasi, a un certo punto, proprio perché non riuscivo a sopportare quella situazione di stallo creatasi in questo modo, senza che nessuno di noi due ne avesse neanche avuta in fondo alcuna responsabilità. Lui probabilmente non mi ignorava del tutto, però era chiaro come non facesse niente per cambiare qualche cosa di tutta la faccenda. Poi iniziai a pensare che doveva esserci come un accordo segreto tra me e lui, una specie di intesa attraverso la quale noi due perduravamo a comportarci in quella stessa maniera, quasi come un gioco, o una scommessa. Evitavo persino di guardarlo, la maggior parte delle volte, però mi veniva da sorridere anche da sola mentre in quell’attimo gli passavo vicina. Le cose a quel punto sarebbero diventate soltanto frutto delle più scontate abitudini, se non fosse stato che una mattina portai insieme con me, raccontandogli una frottola per convincerlo, mio fratello minore.
Lo presi a braccetto camminando, e lui, il ragazzone, rimase indubbiamente stupefatto della comparsa, ne sono certa, al punto che mi parve addirittura allargasse la bocca in una smorfia proprio mentre i nostri sguardi si incontravano. Nei giorni seguenti però le cose ripresero il medesimo andamento, fino al momento in cui, una mattina qualunque, lui mi fermò sul marciapiede, e disse con una voce quasi esile di chiamarsi Enrico, e che secondo lui, visto oramai che ci incontravamo tutti i giorni, dovevamo iniziare almeno a salutarci. Accennai di sì con la testa, ma non mi aspettavo quella uscita, cosi mi sentivo improvvisamente frastornata, perciò dopo quella breve interruzione, ripresi il mio passo di sempre, anche se poco dopo mi girai più di una volta quasi a sincerarmi che fosse proprio vero quanto era accaduto appena un momento prima. Però non riuscii a comprendere, e ancora adesso non riesco a deciderlo, se mi piacque davvero tutto questo, o se al contrario mi parve solamente una gratuita forzatura di qualcosa. Però, sin dalla mattina seguente, dopo averci pensato quasi tutta quella notte, fino a farmi venire un enorme mal di testa, decisi che non sarei passata più da lì, e fu per questo che, quasi con naturalezza, semplicemente cominciai a cambiare strada.

Bruno Magnolfi


martedì 3 marzo 2015

Prime donne.



L’uomo pare quasi non abbia alcuna fretta mentre attraversa la strada; forse, con il suo sguardo apparentemente indifferente, sembra quasi riconoscersi in un passante qualsiasi, ma questo avviene soltanto per un attimo, perché immediatamente dopo lui riprende la sua normale consapevolezza, quella di essere, come è quasi sempre stato, un personaggio principale. Si accosta ad un portone, cerca il nome giusto sopra le targhette, sta forse per suonare un campanello, ma da dietro lo raggiunge una donna, elegante, sorridente, ed ecco che insieme salgono subito dopo sopra ad un taxi che si è appena accostato al marciapiede.
Non preoccuparti, dice lei, ogni cosa si aggiusterà; sarà sufficiente spiegare a tutti con chiarezza i nostri veri intenti, i nostri comportamenti, e giurare che siamo soltanto dei buoni amici, e nient'altro. L'uomo annuisce mentre detta l'indirizzo all'autista del mezzo pubblico. Quindi partono, e la scena si offusca. Un’ora prima l’uomo le aveva telefonato. Mi stanno ricattando, le aveva detto, e lei aveva fissato immediatamente quell’incontro allo scopo di prendere delle importanti decisioni.
Il giorno precedente qualcuno, tramite un messaggio, aveva fatto sapere all’uomo che non avrebbe dovuto mai accettare la parte che gli avevano proposto in quella commedia. Altrimenti ne sarebbe andata di mezzo la sua tranquillità attuale, e addirittura il suo futuro. Lei non era stata citata, ma era abbastanza evidente quel riferimento. Recarsi negli uffici della polizia era probabilmente l’unica cosa giusta da fare, aveva pensato lui, ma tutto questo avrebbe gettato comunque un’ombra inquietante sul suo nome e quindi sulla sua carriera.
Per quanto avesse trascorso l’intera serata a domandarsi chi poteva mai esserci dietro quella vicenda, non era riuscito a trovare un solo elemento di chiarezza. Soprattutto gli pareva quasi impossibile che potesse essere davvero l'invidia il vero movente di quell'operazione, considerato soprattutto che gli era sembrato del tutto naturale scartare ogni altra possibilità.
Il regista al telefono si era mostrato poco comprensivo e assolutamente recalcitrante nei confronti di una sua eventuale sostituzione, ed a lui in quell’attimo erano tornati a mente i suoi inizi di carriera, quando per una qualsiasi particina in un lavoro minore, sarebbe stato disposto a fare praticamente qualsiasi cosa. Si era preso del tempo, certo, come si fa in questi casi, ma in capo a due giorni avrebbe comunque dovuto dare una risposta definitiva riguardante la sua partecipazione o meno a quell’importante lavoro teatrale.
Al tassista aveva detto a un certo punto di fermarsi, aveva pagato frettolosamente la corsa, ed era sceso dall’auto insieme alla donna. Si erano rifugiati dentro un caffè lì vicino, ma l’uomo, tornato da solo fuori dal bar, aveva telefonato nervosamente dal marciapiede alla propria moglie. Le aveva detto che qualcuno presumeva una sua relazione con una donna, ma non c’era niente di vero. Lei, dopo una pausa, aveva risposto che gli credeva, e che non sarebbe stato certo uno squilibrato con una sospetta intraprendenza di stupida rivalità ad influire sulla loro vita coniugale.
Così lui era tornato dentro al locale, aveva preso un caffè frettoloso con la donna rimasta al tavolino ad attenderlo, poi era uscito di nuovo con lei. Avevano camminato a piedi per tutto quel tratto di strada, quasi in silenzio. Poi lui di colpo aveva detto soltanto che ormai si era deciso, avrebbe confermato la sua partecipazione a quella commedia come attore principale, affrontando con fermezza ciò che ne sarebbe potuto conseguire. Ti amo, aveva risposto lei quasi d'istinto, anche se tutto ciò suonava adesso quasi come una sciocca ironia.


Bruno Magnolfi