sabato 31 dicembre 2011

(Profilo n. 15). A spasso nel mondo.

         

            La piazzetta del paese, da un anno all’altro, appariva identica, invariabile, con le sue panchine di legno nel centro, intorno alle quali erano state ricavate delle aiuole che costituivano nell’insieme un piccolo giardinetto, con quattro alberi di tiglio messi in modo simmetrico, dalle foglie verde scuro perennemente polverose. Lui, potevi incontrarlo lì, seduto, generalmente intento a leggere qualche giornale, immerso nei suoi pensieri, o certe volte impegnato a scrivere qualcosa sopra a dei fogli bianchi, o anche sopra qualche vecchio quaderno. 
            Nessuno ricordava di averlo mai visto lavorare, o occuparsi di qualcosa, forse un’invalidità permanente lo aveva reso inabile a qualsiasi attività, o forse aveva una piccola rendita che gli permetteva di mandare avanti le giornate così, senza uno scopo preciso. In ogni caso stava là, in modo assiduo, da solo, praticamente in ogni stagione, come se quello fosse l’unico luogo dove si trovasse a suo agio, in pace, soddisfatto di sé e delle sue riflessioni. Lo salutavamo, è evidente, se si incontrava lungo il marciapiede, quando magari se ne tornava verso casa, ma lui rispondeva in genere con appena un bofonchio, segno evidente della sua scarsa disponibilità verso gli altri.
            Una volta dei ragazzetti gli avevano urlato dietro qualcosa, tanto per ridere, ma lui non si era preoccupato più del dovuto. Si era fermato, aveva girato indietro solo metà del suo corpo, ed era semplicemente rimasto lì per qualche minuto, ad osservare quel gruppo che si allontanava, come se già soltanto quello sguardo fosse una punizione più che sufficiente. La maggior parte delle volte, però, nessuno faceva mai troppo caso alla sua persona, come se la sua figura fosse scontata, facesse parte di quel panorama paesano, e non ci fosse da preoccuparsene troppo.
            Un giorno qualsiasi, poi, senza neppure un motivo apparente, come fosse per la prima volta, lui aveva iniziato a parlare. All’improvviso chissà che cosa era scattato dentro di lui, aveva iniziato a fermare per strada qualcuno, e gli chiedeva qualcosa, e poi di seguito iniziava a parlare di sé, delle sue convinzioni, di ciò che pensava, a volte addirittura anche della sua opinione sul nostro piccolo paese. Da un giorno all’altro aveva iniziato a parlare di tutto con tutti, anche di cose che non interessavano troppo, come se dovesse rifarsi di un lungo periodo solitario, in cui non aveva detto niente. Raccontava che a lui sarebbe piaciuto girare, andarsene a spasso nel mondo, e questo ai più di noialtri sembrava praticamente incredibile, proprio lui che era sempre sembrata la persona più inamovibile tra tutti, quasi incastrata dentro a quelle poche abitudini di cui aveva fatto sfoggio da sempre. Eppure adesso questo diceva.
            E infine sparì dalla strada, d’improvviso, come si fosse stufato di tutto, come se avesse iniziato a cercare di starsene in casa il più a lungo possibile. Non lo si vedeva più nella solita piazzetta, non si incontrava lungo la via, ma nessuno stette davvero a preoccuparsi di quella sua nuova stranezza, e il fatto di non incontrarlo sul marciapiede, per alcuni fu quasi motivo di alleggerimento, rispetto a quei suoi discorsi un po’ noiosi e inconcludenti. Così passarono alcune settimane, forse anche di più, e solo per caso si scoprì a un certo punto che era partito. Allora parve mancare di più a tutti noi, e molti solo allora si ricordarono di essere suoi concittadini, e qualcuno prese quasi a parlarne con nostalgia, come se quella assenza fosse una perdita per coloro che lo avevano conosciuto, anche se alla fine parecchi paesani si abituarono velocemente a non incontrarlo più sul marciapiede, perché lui era andato via veramente, e ognuno se ne dovette fare una propria ragione: era andato sul serio, come a qualcuno aveva confessato di voler fare prima o dopo, ed ora era possibile soltanto immaginarlo in chissà quali dei suoi giri, sicuramente a spasso nel mondo.


            Bruno Magnolfi  

martedì 27 dicembre 2011

In attesa del vento.

            
Seduto in un bar all’aperto Renato osserva la strada. Non c’è niente da vedere, se non la polvere accumulata sui bordi, e le auto che ogni tanto transitano da li, come fossero impegnate nella invariabile ricerca dell’introvabile. Il cameriere, disimpegnato dal locale deserto, si fa sulla porta, dice: è una giornata allentata, e sorride. Renato lo guarda, chiede un altro caffè, poi si corregge: un succo di frutta, alla pesca. Dovrebbe andarsene, pensa, fare qualcosa, ma si sente indeciso su tutto, non riesce neppure a immaginarsi qualcosa di positivo.
Il cameriere lo serve, lui resta immobile, pensa che il tempo gettato via in quella maniera non tornerà mai, poi si accende una delle sue sigarette. Un’auto si ferma a tre o quattro metri, una donna chiede un’informazione qualsiasi, Renato indica con la mano qualcosa, senza parlare, quella riparte con un grazie sbiadito. Il caldo del pomeriggio si fa sentire, un isolato più avanti c’è il mare, ogni tanto se ne avverte il profumo, pur nella calma di vento.
Non succederà niente, non può succedere niente, pensa lui senza sorpresa. Poi si alza da quella sedia, tira fuori di tasca qualche moneta e paga le sue consumazioni, quindi si volta, inizia a camminare lentamente nella stessa direzione che ha indicato alla donna dell’auto, e va avanti, quasi senza pensieri. Raggiunge la piccola chiesa bianca dei marinai, lungo la via, e dietro l’angolo vede la macchina parcheggiata accanto al marciapiede. La donna sta uscendo dal portone di una delle case poco distanti, lo vede, sorride, dice qualcosa che Renato non riesce a comprendere. Lei passa da dietro alla sua vettura, apre lo sportello, si volta di nuovo, ha forse bisogno di un passaggio? dice con lo sguardo più serio.
Lui prosegue a camminare verso la donna, non le risponde, ma arriva allo sportello dell’auto accanto al marciapiede, si ferma appena un secondo, lo apre e si mette seduto. Lei avvia il motore, innesta la marcia e guarda la strada mentre la sua vettura va avanti diritta. Dove andiamo?, gli fa. Non saprei, dice lui, mi basta muovermi un po’, scoprire che questa giornata ha un qualche senso, che la vita non è fatta soltanto per vegetare e perdersi nell’attesa di niente, o del vento.


Bruno Magnolfi

lunedì 26 dicembre 2011

L'eclissi di tutti i pensieri.


L’immagine costruita nella mente sembra perfetta, quasi più di una fotografia già scattata e stampata. Ripercorro lentamente le linee che ho intravisto, ed incornicio i personaggi così come li ho immediatamente pensati. Un uomo, di profilo, in primo piano, con le sue rughe sottili, che osserva da una parte qualcosa che non è possibile vedere, e intanto assume un’espressione compiaciuta, quasi sorridente. Due ragazze, un po’ più lontano, alle sue spalle, che camminano serie, quasi senza interesse: la strada sembra poco più di un viottolo, mentre si snoda tra qualche casa di pietra, forse un piccolo borgo di campagna, e sullo sfondo alcune piccole colline qualsiasi, dove qualcuno sta lavorando la terra. 
Mi distraggo girando per casa, spostando qualcosa da una parte e dall’altra, accendo la radio, ascolto qualche notizia, mi raggiunge ad un tratto una musica che pare lontana, quasi fuori da quelle mie stanze. Allora prendo un foglio di carta e qualche matita, ma tutto mi appare sbagliato, anche il solo sedermi al tavolino vicino ad una finestra. Ripenso all’immagine che soltanto poco fa mi era sembrata indelebile, senza neanche sapere perché, ma scopro che qualcosa è cambiato, il senso di ciò che mi era passato sugli occhi soltanto un attimo fa, adesso è diverso. 
Inutile inerpicarsi a comprendere, penso senza interesse; ogni variazione porta un segno che sfugge, e anche se riesco a convincermi dell’importanza di fissare dei punti salienti, il tempo che passa si prende un’immediata rivincita, e rende insulso qualsiasi tentativo. Cerco di disegnare il profilo dell’uomo con pochi segni leggeri: lui ad un tratto si volta verso di me, mi osserva conservando il suo vago sorriso. Si è avvicinato dentro al mio foglio, ha occupato ormai tutto lo spazio, sembra quasi che voglia parlarmi, ma rimane in silenzio. Non è affatto uno specchio, penso mentre proseguo a tracciarne i dettagli, è una persona che non conosco quella che scruta nella mia mente, ma è proprio inutile che io cerchi di sfuggire a quel suo controllo: è lì, ma anche dentro di me, anche qua attorno, devo semplicemente affrontarla, non esiste una possibilità differente.
Mi alzo, riprendo a camminare nelle mie stanze, la radio gracchia qualcosa. Il foglio di carta, sollevato da una piccola corrente d’aria che ho prodotto muovendomi, scivola a terra rovesciandosi. Lo tiro su prendendone un margine: l’uomo disegnato ormai è una macchia grigia scomposta che adesso non ha più alcuna sembianza, così lo appallottolo e lo getto dentro al cestino. Non ha senso che cerchi di definire sempre qualcosa, penso mentre ripongo carta e matite: è soltanto quel filo sottile che scorre lentamente senza rumore, che serve a comprendere come tutto si snodi in mezzo alla massa scomposta dei propri pensieri; ad un tratto è come se si fermasse, tu allarghi lo sguardo, senti che è quello il momento in cui tutto è chiaro e la realtà sembra svelarsi. Poi, come un’eclissi improvvisa, si rabbuiano tutte le cose che avevi immaginato in quell’attimo, e il pensiero riparte, senza radici, sperso nello spazio infinito.


Bruno Magnolfi

venerdì 23 dicembre 2011

La prova decisiva.

            
            Nella saletta d’attesa, lei aveva detto qualcosa senza cambiare espressione, lui era rimasto in silenzio, continuando a guardare il movimento di gente fuori dai vetri. Una persona era passata davanti alla loro fila di sedie, raggiungendo il binario dove, da lì a poco, sarebbe sopraggiunto un treno veloce, e lui aveva pensato qualcosa, poi si era frugato dentro una tasca e aveva osservato per un secondo il profilo di lei, ma quasi senza interesse. Quella fuga da tutto, pensata nei giorni precedenti come una liberazione, come unica soluzione a tutti gli affanni, doveva diventare il coronamento del loro rapporto, ma già ancora prima della partenza mostrava crepe e contraddizioni nel loro diverso modo di riflettere su quel futuro nebbioso.
            Andavano via, questo si, lasciandosi alle spalle tante cose, una manciata di soldi dentro le tasche e la voglia di ricominciare esattamente da quel punto, loro due insieme, a sostenersi l’un l’altra, come fosse possibile azzerare ogni passato. Era difficile far combaciare le idee, i propositi: avevano sei mesi di autonomia, forse anche di più, poi avrebbero dovuto far funzionare le cose, trovare un lavoro, sistemarsi in qualche maniera.
            Nella sala d’attesa, i tubi al neon sul soffitto generavano una luce nervosa, capace di distogliere qualsiasi pensiero positivo: lei sentiva dentro di sé la voglia di parlare, forse di spiegare a qualcuno la scelta estrema ormai già decisa, ma si accontentava di osservare le persone indifferenti, quasi che in quelle facce seriose stesse il segreto di tutto il futuro. Lui si sentiva convinto di ciò che avrebbero dovuto affrontare, ripassava mentalmente ogni gesto che avrebbe messo in pratica già dal giorno seguente, e il resto gli pareva soltanto una sciocchezza di cui liberarsi al più presto. Dai megafoni una voce metallica seguitava imperterrita ad annunciare arrivi, partenze, ritardi, itinerari più o meno famosi, e la gente proseguiva a spostarsi da una parte all’altra della stazione, seguendo indicazioni ed orari.
            Poi qualcosa parve librarsi nell’aria: lui le aveva toccato una mano come se avesse bisogno di quel minuto contatto per sentire che non era da solo; lei aveva sorriso, come a rassicurarlo da ogni pensiero diverso, che non fosse quella convinzione profonda che doveva mostrarsi superiore a qualsiasi ripensamento. Mancavano ormai poche decine di minuti prima di sentire la voce annunciare quel loro treno, il momento si mostrava importante, forse, da qualche parte del loro veloce riflettere, era già arrivata la proiezione di loro due a distanza di un anno, o di due. Lui aveva tirato fuori la mano da dentro la tasca, l’aveva osservata quasi a convincersi che contenesse davvero i biglietti di sola andata per quella destinazione decisa, poi di nuovo era tornato ad osservare il viso di lei, come depositaria di una verità che all’improvviso pareva sfuggirgli.
            Lei lo aveva guardato con un calmo sorriso stampato sopra la faccia, aveva ascoltato la voce che annunciava finalmente, da un punto remoto dell’universo, il loro futuro, e aveva cercato di infondergli un po’ di coraggio, quasi una spinta ulteriore a perseguire ciò che avevano deciso in comune. Si erano alzati in piedi, senza fretta, guardandosi, lui sentiva vicina la commozione, lei gli aveva strinto un braccio quasi a rassicurarlo; poi, lentamente, avevano preso a camminare verso il marciapiede che era stato indicato, si erano guardati ancora diverse volte negli occhi senza parlare, e infine, quasi immersi in uno stato di insensibilità, avevano preso posto dentro il loro scompartimento, ormai quasi sicuri che tutto quanto sarebbe crollato nei giorni seguenti.


            Bruno Magnolfi    

domenica 18 dicembre 2011

Il luogo fondamentale di ogni riflessione.

            
            Ciò che è accaduto, soltanto in minima parte somiglia a quello che avevo previsto, il resto è frutto dell’eventualità, del caso, di pura combinazione. Camminavo lungo le strade , cercavo quasi di carpire dall’aria i fondamentali della situazione, e intanto perseguivo la coerenza come elemento di peculiarità e distinzione. Un uomo mi aveva fermato, soltanto per avvertirmi di qualcosa che non andava nel mio aspetto: assomigliavo, secondo lui, ad un individuo isolato, che aveva come perduto il senso della propria esistenza. Risposi in fretta, seccato, che era assolutamente vero il contrario, il mio girare in mezzo alla gente era soltanto la semplice ricerca confermativa di ciò in cui credevo.
            L’altro, alle mie parole, aveva assunto una strana espressione, e abbassando lo sguardo aveva spiegato, secondo lui, che quello era un metodo assolutamente sbagliato: sarei rimasto persuaso delle mie idee in ogni caso, e anzi, avrei rafforzato così ogni mia convinzione, anche se ognuna di loro fosse stata assurda e irreale. Questo ragionamento mi aveva lasciato perplesso, e proseguendo avevo chiesto all’uomo di accompagnarmi in un caffè poco distante, in modo da spiegarmi con calma tutto il suo punto di vista.
            Ci eravamo scambiati, là dentro, seduti ad un tavolino, moltissime idee e convinzioni, ma le cose, a dire la verità, erano andate un po’ per le lunghe, e quando eravamo usciti da quel locale, dopo avere bevuto diversi bicchierini di acquavite, era tardi, e le strade erano quasi deserte. Mi ero subito offerto di accompagnarlo fino a casa, giusto naturalmente per terminare gli ultimi discorsi che avevamo da fare, ma quando si era giunti nella via dove lui abitava, mi era parso subito che gli argomenti che avevamo toccato fossero tutti rimasti nell’aria, da completare, come se ancora moltissimi aspetti fossero ancora da prendere del tutto in esame.
            Mi innervosii terribilmente della sua caparbietà nel voler ritirarsi lasciandomi lì, fino a spingermi addirittura ad offenderlo, pur di smuovere la sua voglia di completezza che senz’altro provava, ma non ci fu niente da fare. Maledetto, allora gli dissi, lei è una persona impossibile, che neppure crede a ciò di cui parla, un insulso, insomma, indegno di considerarsi un uomo davvero. Non so cosa di preciso accadde in quel preciso momento, sicuramente non riuscii a conservare la calma necessaria, qualcosa si rimescolò al mio interno, e allora presi una pietra e lo colpii sulla testa, lasciandolo a terra, forse morto.
            Immediatamente fuggii, probabilmente nessuno mi aveva notato, il sangue mi bolliva all’interno, ero preda di una febbre pazzesca. Raggiunsi velocemente il mio appartamento e mi chiusi a chiave nella mia camera, dove rimasi per un numero imprecisato di giorni, preda di un delirio quasi costante, accettando soltanto del tè e restando da solo per tutto il periodo. Poi, poco per volta, riuscii a scrollarmi di dosso quei forti malesseri, fui capace di riprendere lentamente la mia vita normale, e di ricominciare a pensare le cose quasi come avevo fatto fino ad allora. Non mi importava niente di ciò che era accaduto, non mi interessava per nulla il passato con tutto ciò che questo pareva comportare: adesso era il futuro il luogo di ogni mia riflessione, nient’altro.


            Bruno Magnolfi  

venerdì 16 dicembre 2011

Un albero vicino a cui piangere.

           
            Presto, sali, aveva detto Rino alla ragazza nello stesso momento in cui le aveva aperto lo sportello della sua auto, senza neppure che fosse particolarmente chiaro il motivo di tutta la fretta. Lei aveva eseguito, si era seduta e lo aveva osservato per un attimo come cercando nel profilo del viso una spiegazione sul luogo dove stessero andando. Lui, con gesti precisi, aveva fatto riprendere velocità all’automobile, poi aveva svoltato ad alcuni incroci, e con il suo modo di comportarsi, aveva dimostrato subito, con grande evidenza, di sapere perfettamente dove stesse recandosi.
            Erano rimasti in silenzio per alcuni minuti, Rino pareva concentrato nella sua guida, la ragazza guardava la strada davanti alla macchina, come cercando di decifrare ciò che passava davanti ai suoi occhi. Il pomeriggio di quella giornata continuava ad essere uggioso nella stessa maniera come lo era stata tutta la mattina, e il tergicristallo esibiva con metodo un piccolo rumore a ogni giro, quasi un lamento. Credo di non essere mai stata da queste parti, aveva detto lei come tra sé, e lui aveva annuito conservando l’espressione del viso quasi imbronciato. Infine aveva risposto qualcosa che non significava un bel niente: andiamo da un amico, aveva spiegato, prendendo per una strada ormai fuori città, costeggiando un canale e una fila di alberi vecchi e mezzi rinsecchiti.
            La ragazza aveva iniziato a provare un certo disagio, forse dato dalla paura che qualcosa le stesse sfuggendo di mano, e in fondo non aveva alcuna volontà di fare cose particolari, neppure di conoscere quell’amico di Rino. Già, Rino: se ci pensava un po’ meglio, le veniva a mente che non era neanche troppo tempo che lo frequentava; le era sembrato da subito un ragazzo come gli altri, per questo aveva accettato varie volte di uscire con lui, anche se in fondo, della sua personalità, che ne sapeva? Avevano anche parlato poco tra loro da quando avevano iniziato a vedersi, e non c’era ancora stato il tempo necessario per chiarire perfettamente i loro punti di vista, di questo era certa.
            A lei adesso sembrava addirittura di non avergli detto niente di sé, di non avergli spiegato per nulla cosa pensava davvero, il limite oltre il quale non avrebbe voluto mai andare, per esempio, e altre cose del genere. Forse lui aveva addirittura travisato qualche discorso che lei si era lasciata sfuggire, soltanto per sentirsi più grande, per darsi maggiore importanza. Adesso però le pareva il momento: avrebbe voluto dirgli qualcosa, interrompere quella corsa in auto assolutamente insensata, avrebbe desiderato con tutta se stessa che Rino voltasse la macchina, che la riportasse indietro, nel suo quartiere, dove poteva magari recarsi al solito bar, in un posto dove lei provava il senso di sicurezza, in mezzo alla gente che conosceva, dove nessuna preoccupazione le avrebbe mai sfiorato la mente, ma adesso si sentiva quasi paralizzata, non riusciva più neppure a parlare.
            Rino infine aveva accostato la macchina al bordo stradale, dopo avere rallentato gradualmente l’andatura, e si era andato a fermare proprio in prossimità di una vasta piazzola in terra battuta, accanto ad un campo scuro probabilmente arato da poco. Aveva spento il motore, si era voltato lentamente verso la ragazza, ma soltanto per dire : ecco, ti presento il mio amico, il più grosso albero di quercia che io abbia mai conosciuto. La ragazza allora aveva osservato con occhi increduli la pianta enorme vicino alla strada, ne aveva osservato il tronco larghissimo e la miriade di rami e di foglie che ne formavano la chioma, poi era tornata a volgere il suo sguardo su Rino, e le era venuto da piangere, anche se ormai non sapeva neppure spiegarsi il perché.


            Bruno Magnolfi

lunedì 12 dicembre 2011

Sovrano nel suo regno.

            

            Un ronzio interno, da qualche parte, forse un fremito, non so; probabilmente soltanto una sensazione, ma di quelle forti, che ti lasciano senza parole, che stanno probabilmente ad indicare che è successo qualcosa, come se improvvisamente avesse  mutato posizione un elemento, magari semplice, marginale, ma su cui quasi certamente si appoggiavano tante altre cose. Osservo attorno e mi pare tutto stia al proprio posto, poi cerco con calma di localizzare dentro di me quel qualcosa che è cambiato, che non è più com’era prima.
            Una sciocchezza, ecco qual è il risultato di tutte le mie preoccupazioni, penso; eppure se mi fermo, se resto in ascolto di ogni inezia, se cerco di starmene completamente immobile, è come se provassi di nuovo quella inedita sensazione di prima, come fosse ancora qui, insieme a me, forse dentro di me: un componente che non conoscevo, penso, e che salta fuori all’improvviso a cambiare chissà cosa delle mie giornate. Ed è questo che mi fa veramente paura: dover cambiare, affrontare uno scenario completamente nuovo, cercando di resistere all’attacco di un’entità sconosciuta, di un’intollerabile essere che in un attimo diversifica la mia realtà.
            Mi sistemo seduto, calmo, fingo quasi indifferenza, cerco di riflettere, ma ho la fronte sudata, so perfettamente che devo reagire in qualche maniera, e questo mi procura ansia, mi predispone in maniera totalmente negativa nell’attesa di un rivolgimento a cui dovrò partecipare con tutto me stesso, così come ormai pare incontrovertibile. Non provo dolore, almeno per ora, niente di localizzato, eppure un’uggia insopportabile continua a mortificarmi, regalandomi un’irrequietezza che neppure immaginavo possibile.
            Un ronzio, forse un fremito, non so neppure definire cosa possa essere avvenuto effettivamente, ma sicuramente tutto questo è l’ambasciatore di qualcosa di grave, un depauperamento generale e improvviso di tutto il mio organismo, forse, che non è senz’altro pronto ad affrontare una cosa di quel genere. Osservo i miei oggetti di sempre e mi sembra impossibile che tutto possa rimanere così indifferentemente al proprio posto: sollevo un libro che avevo appoggiato su uno scaffale da chissà quanto tempo, per leggerlo quando mi sarebbe andato, e penso che non potrò più neanche guardarlo, probabilmente, diverrà tra breve una cosa inutile nelle mie mani, come tutto ciò che c’è all’interno di questa stanza, che mi apparirà un luogo quasi ostile .
            Poi mi scuoto, torno ad alzarmi, e passeggio nervosamente nel mio appartamento: sono perduto, penso, è evidente. Devo cercare di fare mente locale, e sistemare tutte le cose che posso, prima che sopraggiunga il peggio, l’incommensurabile, quel cambiamento che non potrà permettere più la tranquillità di cui avevo goduto fino adesso. Muovo le mani e il corpo nervosamente, non riesco a comportarmi in una maniera differente, tutto mi crolla addosso, quasi come fossi preda del mio stesso disagio. Qualcuno suona il campanello, ci mancava solo questo, penso, sarà un vicino o un conoscente a cui dovrò spiegare tutta questa situazione, un signor nessuno al quale riferire di ogni sintomo che provo, ogni dettaglio del mio claustrofobico stato d’animo, di questa maledetta sensazione che tutto sia alla fine, ormai perduto, disperso nel nostro mondo di polvere e di roccia.
            Apro, è il mio dirimpettaio: mi guarda, ci mette un secondo o due prima di parlare, poi si decide: ci scusi, dice ad occhi spalancati, come di chi sta cercando di dialogare con il diavolo, o qualcosa di quel genere. Stiamo spostando alcuni mobili, nel nostro appartamento; ci dispiace di causarle qualche piccolo disagio.


            Bruno Magnolfi  

giovedì 8 dicembre 2011

Nei pressi dello spirito libero.

           
            Non credo provi dolore quando cerca di muoversi e di camminare, è possibile che soltanto l’impedimento alla gamba paralizzata lo porti ad assumere quella posizione piegata su un fianco, che probabilmente con l’andare degli anni gli ha procurato altri problemi gravi alla schiena, alle spalle, forse anche a qualche organo interno. Eppure non si lamenta, anzi spesso sorride, cerca come di sopperire alla vista del suo corpo sgraziato con certe espressioni dolci del viso, insieme ad un modo in fondo molto tranquillo e disteso di fare e di dire le cose.
            Entra nel locale con calma, saluta cortesemente, e infine si siede, sicuramente con un certo sollievo, e poi resta lì, fermo e in silenzio, con uno sguardo che qualche volta sembra incapace persino di vedere le cose più semplici, concentrato in chissà quali pensieri, forse in riflessioni lontane, quasi irraggiungibili. Sceglie sempre, in quel nostro caffè dalle larghe vetrine, dove lavoro tutto il giorno come cameriere, un piccolo tavolino in un angolo, dove non può dare fastidio a nessuno, ma da dove, contemporaneamente, riesce quasi ad affacciarsi sul mondo, cioè sulla strada e sul largo marciapiede lì accanto, giusto per osservare con attenzione tutte le persone che si trovano a transitare, per caso o per abitudine, di là da quei vetri.
            Osserva, stringe gli occhi, muove lentamente la testa, mentre conserva quella sua posizione incredibile, tutto piegato su un fianco, poi sorseggia con calma il suo tè, e resta dentro al locale per un’ora, certe volte anche due, quasi ogni pomeriggio. In qualche occasione, quando ci sono pochi clienti, lo osservo da dietro al bancone, magari mentre asciugo qualche tazzina o sistemo i bicchieri da aperitivo: non gli dico mai niente più di quanto sia necessario, eppure sono contento quando lui è seduto al suo tavolino; è come se, con il suo sguardo particolare, guardasse le cose e le persone anche per me, che probabilmente non so neppure guardarle, almeno in quella maniera come riesce a vederle lui, io che sto lavorando, sono impegnato a seguire i clienti, non posso certo avere la sua sensibilità e neppure il suo tempo.
            Non so neanche come si chiami, però ogni volta che arriva lo servo per primo, senza mai farlo aspettare, come per una sorta di rispetto profondo, e lo chiamo signore, semplicemente, come d’altronde si conviene verso un cliente. Certe volte lo guardo e mi sembra di averlo visto da sempre, lui mi saluta, paga la sua consumazione, poi se ne va, lentamente, con il suo bastone speciale, con quell’incedere strascicato che certe volte deve risultargli insopportabile, odioso, e allora io esco da dietro al bancone, lo supero, e poi con un gesto elegante gli apro lo porta.
            Lui abita poco distante, lo vedo quando apre il portone del caseggiato un po’ anonimo che fronteggia il lato opposto di questa strada, il suo appartamento è al piano terra, non potrebbe affrontare le scale, e certe volte lo noto quando dietro le tende accende il lampadario durante la sera, e rimane dietro a quella finestra, giusto per dare timidamente un’altra sbirciata lungo la via. Non so per quale motivo, ma per me è diventato quasi un punto di riferimento, ammiro il coraggio con cui affronta la vita, senza darsi per vinto, senza lamentarsi di niente, ci sono certe volte che vorrei assomigliargli, poi mi viene da sorridere quando ci penso, e un filo di tristezza mi prende, ma non so neanche bene perché: sistemo i bicchieri e le tazzine, allora, e lascio correre via i miei pensieri, gli altri clienti non si accorgono neanche di lui, e allora allontano ogni indugio, e infine mi chiedo: perché mai proprio io dovrei essere diverso da loro?


            Bruno Magnolfi    

martedì 6 dicembre 2011

Al margine dei pensieri correnti.

            
Sono in piedi, immobile, sopra questo cavalcavia ferroviario, e osservo le case e le strade di questo quartiere qua sotto, mentre, senza neppure volerlo, mi vengono in mente i piccoli fatti della vita quotidiana che probabilmente si stanno verificando proprio laggiù, da qualche parte. E’ pericoloso stare qui, ne sono cosciente, specialmente a quest’ora della tarda serata, quando inizia a far buio: sono già transitati due treni, i macchinisti mi hanno notato e hanno fatto fischiare forte le loro sirene; sicuramente hanno già telefonato a qualche divisa, verranno a controllare tra poco, devo sbrigarmi, non ho molto tempo.
Ho scavalcato la recinzione senza farmi notare, ho percorso lo stretto viottolo che porta fino al punto più in alto, dove lo sguardo spazia lontano, e adesso una massa di pensieri ha iniziato a martellarmi dentro la testa. Non vorrei pensare, non vorrei pensare a niente, vorrei soltanto starmene qui, respirare quest’aria densa della città, perdermi in questo tramonto sulla periferia, e osservare le luci che continuano ad accendersi, come fosse uno spettacolo unico, di una natura incontaminata da tutto, da tutte le brutture che accadono.
Mi piacerebbe scavare una nicchia nelle travature di cemento di questo posto: restarmene qui, ad osservare questo scorcio della città, lontano dalle cose di sempre, fuori dagli egoismi di tutti, distante dalla battaglia di sopravvivenza che va avanti ogni giorno. Se anche ne avessi la voglia, non saprei neppure cosa o chi portare con me qualche volta nel mio luogo segreto: probabilmente starei lì da solo, senza nient’altro, in quel piccolo spazio dove rifugiare me stesso, e questo è tutto ciò di cui avrei veramente bisogno, un buco ignoto a chiunque, una piccola tana dove ritirarmi in silenzio, in solitudine, lontano ed esterno a ogni logica.    
Non so neppure cosa mi trattenga dal gettarmi di sotto dall’alto di questo ponte: forse l’abitudine a tirare avanti in qualche maniera, forse la sottile speranza che qualcosa possa davvero cambiare. Devo andarmene da qui, verranno le divise tra poco, mi porteranno al comando per farmi la solita ramanzina, poi mi butteranno per strada quando sarà troppo tardi anche per trovare un posto dove passare la notte. Lo sanno che dopo un certo orario non resta che andarsene alla stazione, a ciondolare nelle sale d’attesa, ma non gli importa un bel niente di te, neanche di lasciarti dormire almeno qualche ora al comando.
Qualcuno mi ha detto che la gente come me è semplicemente il risultato di tanti errori sociali, ma sono soltanto parole, a me non importa un bel niente che si cerchi di fare della teoria sulla mia condizione. Però vorrei starmene qui, tutte le volte che voglio: godermi lo spettacolo delle luci che continuano ad accendersi dentro le case, e vedere le macchine che corrono lungo il viale là in fondo, immaginando che tutto sia a posto, che c’è forse un piccolo spazio per tutti, anche per chi si è ritrovato così al margine delle cose ordinarie. Non lo so perché sono qui, non cerco di provocare nessuno, neanche quei macchinisti che mi guardano e segnalano la mia posizione: vorrei stare qui come si sta dentro a una casa, con l’intimità di se stessi, e godere del senso profondo di sentirsi persona, rispettato dagli altri, elevato dai propri pensieri, da quanto si possa essere stati capaci di vivere, in un modo o nell’altro, degni di essere, oltre ogni giudizio. Nient’altro.


Bruno Magnolfi

sabato 3 dicembre 2011

Monumento d'uomo.

            
            Per tutta la notte il dolore alla mano non mi aveva mai abbandonato. Non ero quasi riuscito a prendere sonno, e nel dormiveglia sentivo qualcosa alle dita che proprio non andava, ma ciò nonostante sapevo di aver fatto la cosa migliore, e questo mi dava ampio conforto. Rivedevo la scena in cui colpivo con un pugno ben assestato il volto di quell’imbecille, che per non dare la precedenza alla mia auto, proprio in prossimità dell’incrocio, aveva rischiato di rovinarmi la carrozzeria, e quando gli avevo presentato le mie rimostranze dal finestrino, aveva oltretutto inveito contro di me, urlando e mostrandosi subito aggressivo. Forse ero stato un po’ sbrigativo, si, certo, lo ammetto senza problemi, però non avrei potuto far altro, e poi riflettendoci, era in fondo proprio quello che si meritava.
            Rivedevo la scena, i gesti, la sua brutta espressione; risentivo quelle poche parole che ci eravamo scambiati, ripensavo tutto quanto, e mi pareva che ogni cosa si fosse svolta in maniera perfetta: l’imbecille aveva avuto la lezione che ci voleva, non si sarebbe meritato un trattamento diverso, ed io con piacere lo immaginavo al pronto soccorso a farsi curare la faccia tremendamente indolenzita. Certo che il pugno che gli avevo rifilato era stato davvero notevole, tanto che quando avevo ripreso posto sulla mia macchina, anche per evitare di doverlo colpire di nuovo, lo avevo lasciato sdraiato sopra l’asfalto, ma era evidentemente soltanto una sua scena per cercare di mettermi in qualche difficoltà.  
            Generalmente non mi piace fare il violento, trovo che le cose il più delle volte si possono aggiustare anche in altra maniera, però secondo me in certi casi proprio non si può farne a meno: agire diventa l’unico modo per sistemare le proprie faccende, ne sono assolutamente sicuro. In fondo non mi importava un bel niente di quel cretino totale, non l’avevo mai visto e sarebbe rimasto per me uno sconosciuto completo: un deficiente qualsiasi, che non sa neppure guidare una macchina, che pretende di essere dalla parte del giusto, e va in giro così, senza usare il cervello, soltanto perché gli altri sono perfino troppo buoni a permettergli cose del genere. Probabilmente era già molto tempo che qualcuno doveva dargli una bella lezione, che sia stato io oppure un altro, alla fine, è solamente un dettaglio.
            Però il mio pugno probabilmente era stato un po’ troppo forte, pensavo prima di alzarmi dal letto, come se avessi messo dentro quel gesto anche qualcosa di mio, un rancore che magari coltivavo da tempo, un nervosismo che spesso non trovava un canale preciso verso cui indirizzarsi, se non un’occasione del genere. Il dolore alle dita, per tutta la notte, era la prova evidente che avevo accettato addirittura di farmi del male, pur di riuscire a scaricare la tensione accumulata negli ultimi tempi. Pensavo che il giorno seguente non mi sarebbe importato più niente della mia mano, l’avrei tenuta a riposo per qualche tempo e tutto sarebbe tornato esattamente com’era: mi chiedevo soltanto cosa doveva essere veramente successo a quel povero scemo che avevo lasciato là a terra. Forse era riuscito ad alzarsi da solo, subito dopo; forse aveva addirittura dovuto farsi aiutare. Probabilmente gli avevo buttato giù un dente, o anche più d’uno; forse gli avevo rotto persino la mascella. Ma in fondo, alla fine di tutti i pensieri, cosa mai mi importava: ero sicuro che un uomo deve comportarsi da uomo, almeno in certe occasioni, il resto erano soltanto sciocchezze.


            Bruno Magnolfi