giovedì 30 marzo 2017

Consenso solidale.

          

Ormai sono ferma, dice lei. Spesso guardo ogni cosa con un certo distacco, e mi pare qualche volta di essere lontana da tutto. Proseguo a lavorare, certo, mi impegno ancora nelle mie attività, però con fatica, perché da qualche tempo è come se avessi perso lo slancio, se non avessi più quell'entusiasmo necessario per saltare gli ostacoli come succedeva una volta. La collega di lavoro la guarda con intensità sorseggiando la sua tisana, non c'è molta gente nel locale a quell’ora, ma il leggero brusio di sottofondo pare sia sufficiente a camuffare il senso di quelle parole pesanti e difficili. Forse vorrebbe anche farle cambiare argomento, ma lei prosegue: non so per quale motivo succede questo, forse dipende da me, o forse dalla solitudine in cui sono caduta.
Non devi preoccuparti, succede a tutti, dice in fretta la collega. Piuttosto cerca di non metterti in cattiva luce con i nostri dirigenti, perché quelli non stanno certo a guardare le cose per il lato sottile, e per metterti da una parte a loro ci vuole ben poco. Lei prende un sorso dalla sua tazza, guarda l’altra con curiosità, poi le chiede: ma tu pensi che si siano resi conto che qualcosa non va nei miei comportamenti? Passa un attimo lungo di silenzio, la collega guarda da qualche parte con finta indifferenza, poi dice soltanto: bè, se proprio devo dirlo, a me hanno chiesto qualcosa di te un paio di settimane fa, e naturalmente io ho spiegato subito che per me era tutto sotto controllo, il lavoro non stava certo risentendo per qualche tuo malumore. Ma loro non hanno risposto niente, proprio come se non mi credessero. Altro non so.
Lo sapevo, fa lei; al nostro piano di uffici ci vuole pochissimo perché qualcuno ti parli alle spalle, e figurarsi se non si trova subito qualcun altro che vada immediatamente a riferirlo alla dirigenza. In ogni caso per il momento non mi ha chiesto niente nessuno, e per quanto ne so non ci sono state delle lamentele per la mia produzione personale. No, fa la collega, però può darsi che tu sia stata messa sotto una lente di ingrandimento, e che al primo errore oppure ad una mancanza tu venga subito richiamata e forse persino trasferita al piano inferiore. Bé, fa lei, ma per questo ci vuole un collega che trami contro di me e che abbia capito quali siano i miei punti deboli. In ogni caso è tutto prematuro, dice la collega: tu cerca di stare al passo con il lavoro di sempre, e vedrai che nessuno starà lì a farti le pulci sulla tua produzione.  
Va bene, fa lei, anche se adesso non posso certo stare tranquilla, e questo va soltanto ad assommarsi a tutto il resto che non va bene e che mi rende nervosa. Mi dispiace, dice la collega, fosse un diverso periodo probabilmente potresti prenderti qualche giorno di riposo, ma proprio adesso che abbiamo da fare le consegne non credo proprio sia possibile. Lo so, dice lei, anzi ti ringrazio per avere accettato di venire qui a parlare con me dopo l’orario, ma non saprei proprio a chi rivolgermi per cercare un consiglio. Non preoccuparti, dice la collega mentre mangia una fetta di dolce, soltanto non capisco proprio in quale modo posso esserti d’aiuto: da quando è stato individualizzato il lavoro non è più possibile neppure darsi una mano. Certo, fa lei, ci hanno sistemato per bene: ognuno per sé e attenti a quelli che ti mettono in cattiva luce. Tanto più che adesso non si sa più neanche chi sia a spargere le voci di corridoio.
Già, fa la collega; ma tu non avevi una sorella che abitava poco lontano da te? Si, dice lei, ma tra me e lei c’è sempre stato un rapporto piuttosto difficile, e poi non può certo comprendere il clima che si respira in un posto di lavoro come il nostro. Questo è vero, dice la collega: certe volte mi sembra persino impossibile che si riesca a sopportare le difficoltà che si trovano ogni giorno nei nostri uffici; in alcuni momenti penso addirittura che farei qualsiasi cosa pur di non avere sempre addosso gli occhi puntati dei nostri capi.


Bruno Magnolfi

lunedì 27 marzo 2017

Note in elenco.

            

Sto facendo un elenco preciso di tutte le cose da fare. Continuo a segnare su un foglio ogni più piccola attività che prima o dopo voglio affrontare, ed in seguito scrivo sul margine della carta le priorità che qualcuna di queste mostra con evidenza rispetto alle altre, in modo da costruire un vero percorso definito tra tutte le mie annotazioni. Oggi sarebbe il giorno più giusto per uscire da qui, penso; magari andarmene in giro per i fatti miei ed eseguire tutto quello che mi sono appuntato; purtroppo non potrò avere la mia mattinata di libertà fino alla prossima settimana, così è stabilito dal nostro bravo direttore, sempre che nel frattempo io non faccia qualche sciocchezza tale da rinviarne la data, perciò devo soltanto avere pazienza, girare come sempre per i corridoi di questo istituto e continuare a prendere nota di tutto quello che mi è rimasto ancora da scrivere, proprio per non dimenticarmi di niente. Gli altri mi guardano storto quando impugno questa matita, ritengono forse che stia soltanto perdendo del tempo, ma è vero il contrario, perché con il mio metodo così preciso riuscirò a fare tutto quanto ho dentro la testa senza tralasciare alcunché, risparmiando le forze e soprattutto conservando per me i minuti preziosi della mia mattinata.
Ignoro tutti quelli che mi passano accanto, spesso lanciandomi sguardi pieni di sprezzo e di invidia: metto insieme poco per volta il mio percorso di cose da fare, e tutto sarà definito con esattezza alla fine delle mie annotazioni. Ognuno deve avere un futuro, ciascuno di noi può delineare poco per volta le cose che intende affrontare, non c’è niente di male, è come una strada che ciascuno di noi intende intraprendere, sappiamo perfettamente dove ci potrebbe condurre, si tratta di scegliere o meno di provare a imboccarla. Nei miei fogli ho già previsto tutto quello che è logico fare: le prime cose sono senz'altro quelle più semplici, in seguito però vanno intraprese le attività più impegnative, ma non c’è assolutamente niente di cui spaventarsi, è tutto descritto tra le mie annotazioni, si tratta soltanto di seguire il percorso.
Arriva uno degli internati con cui divido gli spazi, uno di quelli che per adesso non è iscritto tra coloro che partecipano al progetto delle mattinate di libertà, e dice che è tutta una stupidaggine, tutto sarà sempre uguale, non c'è da farsi illusioni. Lo guardo, so che per lui è completamente diverso pensare il futuro: non si proietta nel giorno seguente, neppure in quello che segue subito dopo: lui non ha niente da predisporre, non ha una mattinata con cui riempire di idee il suo presente, ha soltanto di fronte a sé una giornata qualsiasi con cui perdere tempo e gingillarsi con le sciocchezze di sempre, come un bambino che gioca. Gli dico cosa penso di lui, ma lui sorride, dice che sono io a non avere ancora capito il senso del tempo.
Sgrano gli occhi, gli dico che sto prendendo degli appunti precisi, ma lui obietta che sto soltanto perdendo il mio tempo, e che mi illudo di poter fare chissà cosa durante una stupida mattinata in cui un operatore mi porterà come un cane in giro qua attorno. Continuo a guardarlo, gli dico di smettere, non mi va di ascoltare ancora le sue parole così negative, ma lui insiste a ridere delle mie illusioni, così come le chiama, e poi mi volta le spalle come per mostrare che ha già sprecato anche troppe parole per questi discorsi. Gli chiedo di ascoltarmi, di voltarsi verso di me, ma lui se ne va, lasciandomi esterrefatto: forse ha ragione, rifletto; forse non c’è alcun motivo per cercare di essere così razionale come tento di fare ogni giorno. Inizio ad urlare, dico subito a voce alta che il direttore è un maiale, un essere che fa credere agli altri tutto quello che vuole, ma gli operatori intervengono subito e mi immobilizzano: mi sono giocato la mia mattinata, mi dicono; posso persino segnarlo sul mio taccuino.


Bruno Magnolfi  

giovedì 23 marzo 2017

Mancanze immancabili.

            

Sposta appena qualcosa che aveva lasciato sopra al tavolo, quindi si ferma, riflette con calma, poi si volta con decisione, arriva con due passi convinti fino all'ingresso del suo appartamento, ed allora getta un'occhiata nello specchio senza dargli però alcuna importanza. Torna indietro, pare stia dimenticando qualche cosa, ma dopo uno sguardo generale sopra gli arredi, decide che tutti gli eventi devono come proseguire lungo un proprio percorso. Così si trattiene ancora nelle sue stanze occupandosi di qualche sciocchezza, sorride da sola ad un tratto forse per un pensiero improvviso, ed infine esce, le chiavi nella mano, la borsa intonata naturalmente alla pelle delle sue scarpe, gli occhiali giusti, i capelli ben sistemati, ed un consueto trucco leggero attorno a quegli occhi castani. Lei non si sente attesa da nessuna parte, nessun luogo preciso dove recarsi, ciò nonostante la sua camminata è rapida, come di una persona perennemente in ritardo, pervasa dall’illusione di poter sempre recuperare almeno qualcosa, e magari anche quella di ritrovare in un percorso improvviso anche lo scopo vero del suo tragitto.
Si ferma, ad un tratto, torna indietro: acquistare qualcosa è sempre un elemento che riempie di sostanza tutto il tempo necessario, così entra in un negozio che conosce, il giovane commesso le sorride chiedendole se gli è possibile aiutarla, lei si schernisce, osserva tutti i nuovi arrivi di un abbigliamento già primaverile, soppesa ogni capo, e infine acquista una sciarpa leggera, un velo dai colori tenui che indossa subito, senza alcun ripensamento, poi paga ed infine esce di nuovo lungo la strada.
La sua borsetta è pesante, piena di cose che in un modo o nell'altro potrebbero tornarle utili prima o dopo, così cerca qualcosa, si lamenta tra sé come sempre di non trovare mai nulla, ed infine torna a camminare, proprio come prima. Una persona va verso di lei e la saluta, si fermano, scambiano alcune parole di cortesia, infine tutto riprende nella stessa maniera. C'è una nuova mostra di quadri in una galleria che a volte frequenta, così decide di dirigersi da quella parte. L’osservazione della realtà probabilmente è l’elemento che continua ad attrarre la sua attenzione più di qualsiasi altra cosa, ma la sua interpretazione il più possibile esatta è invece diventata oramai da diversi anni una propria assoluta necessità.
La piazza è abbastanza piena di gente come spesso capita in certi giorni: alcuni si trattengono a parlare e a scambiare delle opinioni, altri si guardano attorno, come a trattenere nella memoria almeno qualcosa di ciò che stanno guardando. Lei nota immediatamente questi ultimi, come per una sorta di magnetismo, quindi rallenta il suo passo, si ferma, torna a cercare qualcosa dentro la borsa, sembra quasi che qualcuno rimanga in sua attesa da qualche parte. Poi va vicino all'ingresso di quella mostra, si ferma sui piedi, si guarda attorno come per cercare un qualche salvataggio, e per dare loro importanza sorride mentre ascolta i commenti ironici di un gruppetto di persone che sta uscendo da lì, forse poco convinto di quei quadri moderni che ha visto.
Allora indietreggia: ci sarà tempo e un'altra buona occasione per andare in quella galleria, perciò si volta come per andarsene, ma un'espressione smarrita si disegna sotto ai suoi occhiali dalle lenti oscurate, e allora entra, con convinzione più che apparente, sorridendo alla cassiera mentre spiega come finalmente sia riuscita a trovare un po' di tempo libero per vedere quella mostra a cui non poteva certo mancare.


Bruno Magnolfi

martedì 21 marzo 2017

Delicato incontro.

           

            Per domani mattina, tramite un breve e laconico messaggio interno, l’amministratore delegato dell’azienda per la quale lui lavora da quasi dieci anni, ha richiesto di avere un incontro a due con lui nel proprio ufficio al quarto piano; un colloquio informale, certo, ma anche insolito, sollecitato nonostante l’assenza di una qualsiasi agenda degli argomenti e anche di un normale ordine del giorno. Lui ultimamente non ha certo brillato nella propria attività, ne è più che cosciente, ed ha avuto senza dubbio dei problemi di natura sostanzialmente personale, per cui i suoi compiti operativi qualche volta sono passati in un secondo piano all’interno delle normali priorità, perciò è evidente che uno dei motivi per quella inaspettata convocazione potrebbe essere anche questo, anche se affrontare queste cose gli sembra un compito del tutto marginale nelle attività di un amministratore. E poi non è certo colpa sua d'altronde se il mercato in generale durante quegli ultimi anni abbia fatto registrare una flessione importante in quel settore: le cose si sono messe male quasi per tutti, è più che chiaro, e quindi va pur considerato questo elemento, non ci si può certo aspettare da una persona rimasta proprio da sola come lui, praticamente senza un vero aiuto aziendale, le capacità per riuscire a sfoderare dei miracoli in una situazione di quel genere.
O forse sta soltanto per iniziare un’ennesima ristrutturazione di tutto il personale all’interno dell’azienda, come già è avvenuto qualche altra volta senza averne avuto prima neanche un’avvisaglia, cosa che magari potrebbe proprio cominciare questa volta da quelle semplici figure professionali come esattamente può essere la sua, rimodellando quei compiti specifici che fino adesso sono stati estremamente difesi con le unghie e con i denti da tutti i dipendenti del suo stesso livello, sempre solamente sfiorati dai cambiamenti, anche se mai diversificati o allontanati fino ad oggi dai loro principali incarichi. Ma per una cosa di quel genere probabilmente dovrebbe essere presente all'incontro anche il capo del personale, e forse anche il capo area: una riunione allargata insomma, certamente anche a tutti coloro che svolgono le sue esatte mansioni, non l'amministratore da solo di fronte ad una semplice pedina come può essere lui.
Forse vuole soltanto conoscerti meglio, gli ha detto sua moglie a un certo punto; ma se mi avrà visto appena una volta o due lungo i corridoi, almeno fino a quest’oggi, peraltro fingendo di ignorarmi completamente, ha risposto subito lui. E poi, cosa mai può desiderare di conoscere di me un tipo abituato a masticare solo di politiche aziendali, visto che tutto quanto in quel settore viene ormai estrapolato dai dati che appaiono sopra degli schermi sempre connessi tra di loro da una scrivania e da un piano all'altro. Piuttosto c'è qualcosa di umano e personale che sembra sfuggire ad ogni mia comprensione in questo incontro, pensa ancora lui, come magari una sciocchezza qualsiasi che fino adesso neppure riesco a prendere in seria considerazione.
Forse nel passato, riflette ancora lui, c'è stato un amico perso di vista chissà quando, che adesso riveste chissà quale figura professionale, magari in un'azienda concorrente, e può essere così che l'unico tramite per contattarlo da parte dell'amministratore delegato potrebbe essere adesso esattamente la mia persona. In ogni caso non verrà mai fuori niente di buono da questo incontro, lui ne è oramai più che sicuro, per questo qualsiasi riflessione riesca a mettere insieme in questo momento non lo porta ad altro che non sia una conclusione piuttosto negativa.
Vieni a letto, gli dice sua moglie dall’altra stanza quando ormai è quasi notte fonda; così lui lascia senza voglia il suo posto a sedere davanti al tavolo, si toglie lentamente la camicia e spostandosi osserva senza interesse tutta la sua camera, dove la moglie si è già accomodata sotto alle coperte. Domani non andrò al lavoro, dice lui alla fine con freddezza: non mi sento bene, chiamerò subito il medico alle otto; e ci vorrà sicuramente una buona settimana di assenza dall'ufficio per ritrovare per me una forma almeno accettabile.


Bruno Magnolfi

sabato 18 marzo 2017

Come le onde.

            

Generalmente seduti sopra poltroncine di vimini, loro guardano la linea dell'orizzonte segnata dal mare, quella linea netta e decisa che attraversa lo schermo ossevato da quel preciso punto di vista, anche se i loro occhi, oramai per abitudine, non la percepiscono quasi più. Bevono una birra a piccoli sorsi, si dicono qualcosa, certe volte deboli affermazioni di bassa politica, o battute scontate su argomenti già risaputi, poi ricadono sempre nel silenzio, rotto in sottofondo dalla risacca poco distante, in quel locale che durante la stagione invernale risulta quasi deserto, affacciato sul mare tanto da farli sentire a volte in mezzo alle onde, al largo, dove qualche imbarcazione più grossa sembra navigare tranquilla.
Nessuno mostra mai di annoiarsi, ed anche se qualcuno sbadiglia accavallando di nuovo le gambe, poi si limita a dire che i primi pomeriggi di sole di questa primavera gli fanno provare un gran sonno. Me ne vado, dice uno ad un certo punto, e gli altri fingono di volerlo trattenere, anche se sanno benissimo che tra breve se ne andranno anche loro. Si alzano con calma, salutano l’amico barista, e con le mani sprofondate dentro le giacche si avviano lungo la strada, meditando ancora qualcosa con voce appena percettibile. Si fermano, certe volte, per dire qualcosa maggiormente importante, oppure soltanto per far risaltare un’altra sciocchezza qualsiasi, poi ridono, ma senza mai troppa enfasi.
Quando ognuno rimane da solo nell’ultimo pezzo di strada, gli pare di essere riuscito a compiere ancora oggi qualcosa che appare quasi come il proprio dovere, inserendo la chiave nella serratura di casa insieme ad un ampio margine di soddisfazione. Non c’è niente di male, riflette, nello scambiare così le proprie opinioni ed ascoltare quelle degli altri, ed anche se sono quasi sempre le solite cose di cui si parla, alla fine anche gli argomenti più semplici vanno comunque confermati ogni tanto.
Nessuno di loro avrà mai voglia di pensare che la giornata seguente sarà pressoché simile a quella appena trascorsa, perché qualche minimo dettaglio interverrà per forza a darne una variazione fondamentale, che forse diverrà nuovo argomento di cui dare conto, ed ogni cosa già detta in tutti i giorni trascorsi dovrà sicuramente essere riconfrontata e rivista alla luce di quanto pare essere emerso. Perciò ogni giorno non sarà mai uguale ad un altro, ed anche se il mare di fronte sarà quasi sempre il medesimo, le onde là sopra saranno sempre diverse, nuove e aggiornate, quasi vive.


Bruno Magnolfi

giovedì 16 marzo 2017

Conteggi.

            

Ho impiegato molto tempo per abituarmi. Non perché il susseguirsi di queste monotone giornate fosse per me qualcosa di poco congeniale, quanto perché avevo sempre pensato a qualcosa d'altro, anche se adesso non saprei neppure dire che cosa di preciso. Sto fermo dentro a questo chiosco di giornali presso un importante incrocio di strade e di marciapiedi della mia città. Sono i miei capi naturalmente che si occupano di tutto: dei fornitori, di cosa mettere in bella vista, dei resi, ed io rimango qui soltanto durante alcune ore del giorno, quando loro sono a riposarsi oppure a fare anche altre cose che a me non merita sapere. Mi lasciano qui durante quel pugno di ore più morte, quando puoi vederti arrivare davanti giusto qualche anziano per acquistare una rivista o un giornaletto, e dopo basta. Così spesso mi annoio, e spero sempre succeda almeno qualcosa che mi faccia terminare presto il mio orario di lavoro.
Di gente se ne muove parecchia intorno a me, è sempre un turbinio di macchine davanti a questa edicola, ma di tutte queste vetture rombanti non se ne trova mai qualcuna che abbia voglia di fermarsi per acquistare qualche cosa. Così, giusto per far passare meglio il tempo, mi sono messo qualche giorno fa a contare quante vetture di colore rosso potessero riuscire a transitare nello spazio di in un'ora intera, e dopo ciò ho fatto anche il conteggio di quelle di colore bianco, poi di quelle nere, delle gialle, dei modelli più comuni, dei più rari, dei motorini, delle biciclette, e così via. Qualche cliente del chiosco, naturalmente, è arrivato sempre nel momento meno opportuno, quando tutto sembrava fatto apposta per farti perdere il conteggio, ma con qualche stratagemma sono riuscito quasi sempre a cavarmela, anche se in qualche caso ho dovuto ricominciare tutto da capo.
Un pensionato poi mi ha chiesto cosa mai stessi facendo, e lui si è subito reso disponibile per aiutarmi, perciò gli ho dato un foglio ed anche un lapis, ed ho lasciato che contasse come me anche lui i flussi del traffico. In pochi giorni i pensionati sono diventati cinque, e siccome le notizie poco importanti girano più in fretta di qualsiasi altra cosa, a decine hanno iniziato a farsi avanti per questa attività quasi senza scopo. Per ingraziarsi la mia benevolenza però tutti sono arrivati al chiosco acquistando un giornale o una rivista, e quindi le vendite nelle ore morte dell’edicola in pochi giorni hanno registrato un’impennata, tanto che per far fronte a tutti i nuovi clienti ho dovuto lasciare i miei conteggi praticamente in mano alla folla dei miei aiutanti, peraltro felici di essere utili a qualcosa.
Uno del comune poi è venuto da me per dirmi senza mezzi termini che quei conteggi sarebbero stati molto utili a loro dell’ufficio per la mobilità, così mi ha fatto un'offerta per avere i totali dei passaggi automobilistici divisi nei giorni per orari e direzione, ed io naturalmente ho accettato tutto quanto, esagerando l’importanza del mio compito e dei dati, sottolineando che solo uno come me riesce a quantificare esattamente da questa posizione di privilegio le cifre precise. Gli aiutanti sono diventati così un numero discreto, tutti dislocati intorno al chiosco, foglio di carta e lapis in mano, qualcuno portandosi una seggiola da casa, pronti a mettere una lineetta nuova ad ogni passaggio da registrare.
Naturalmente ho dovuto arrabbiarmi con qualcuno, generalmente poco preciso nel memorizzare tutte le cose, o anche poco preciso semplicemente nel segnarle sopra al foglio, perciò sono stato anche costretto a sostituirne uno o due che magari si occupavano dei furgoni chiusi, inserendo al loro posto chi forse prendeva nota solamente dei taxi, ed in questa maniera mi sono fatto un elenco esatto dei pensionati che proprio per merito potevano aspirare alle liste maggiormente ambite tra tutte le altre.
Ma alla fine sono arrivati anche i miei capi; mi hanno detto in due parole che mi ero approfittato della posizione di privilegio che mi avevano concesso, e che adesso dovevo proprio andarmene, a meno che non avessi accettato il lavoro mattiniero di scaricatore dei pacchi dei quotidiani dai furgoni. Mi sono arreso, era evidente, non avevo scelta, ma ho lasciato ai miei aiutanti il loro compito guadagnato ormai sul campo, semplicemente distanziando di qualche metro da questo chiosco ognuno di loro, così che tutto quanto alla fine pare adesso filare proprio bene, visto che per me si è anche aperto inaspettatamente un importante credito d’esperienza nei confronti del comune.  

Bruno Magnolfi


martedì 14 marzo 2017

Decisioni da prendere.

           

La signora alla fermata del bus si muove nervosamente, dapprima anche per controllare gli orari dei mezzi indicati sui cartelli affissi al palo su in alto, poi per rendersi conto se ci fosse mai un posto libero dove sedersi sulla panchina di attesa sotto alla pensilina. Infine, guardandosi ancora attorno, si riaccosta a suo marito, rimasto fermo sul marciapiede: avranno ambedue anche più di una settantina d'anni, forse, ma lei lo bacia con gesto consumato sopra una guancia, come una ragazzina, quasi per rassicurarlo della sua presenza e anche probabilmente del suo affetto. Poco dopo arriva il loro autobus, così salgono assieme agli altri, si piazzano seduti vicino e si guardano, forse rassicurati dal fatto che a quell’ora non c'è molta calca e che quel mezzo sembra proprio scivolare tranquillo sopra le vie di asfalto urbano.
Ci sono ancora sette fermate, fa lei d’un tratto. Siamo comunque largamente all’interno dell’orario che avevamo pattuito, mi pare, risponde lui a voce bassa. I documenti li abbiamo messi tutti insieme in una busta nella mia borsa, dice lei, adesso non è certo il caso di controllarli di nuovo, gli spiega. Va bene, fa lui, spero solo che tutto il nostro impegno vada a buon fine, e che non ci siano problemi ulteriori. Certamente, lo spero anche io, fa lei, e torna a baciarlo sopra la guancia, tranquillizzandolo e sorridendo.
Poi la signora ad un tratto, assumendo un’espressione quasi di sgomento, si ricorda improvvisamente dei biglietti di viaggio che non ha ancora obliterato, così sembra subito presa da un moto di agitazione, fruga velocemente dentro la sua borsa, infine si alza e sorreggendosi poco adeguatamente ai sostegni, arriva fino alla macchinetta elettromeccanica, che le risponde con un suono caratteristico, quasi rassicurante.
            Le cose vanno avanti così fino a quando i due scendono dall’autobus alla fermata prevista, si incamminano verso un indirizzo che forse conoscono bene, e quindi si fermano davanti al portone che stanno cercando. Ci siamo, fa lei: non resta che suonare il campanello e depositare tutti i nostri incartamenti sulla scrivania di questo notaio. Aspettiamo un momento, fa lui, forse dobbiamo pensarci ancora un po’ meglio, perché una volta che tu avrai suonato alla porta e ci verrà aperto, tutto in qualche maniera sarà ormai compiuto. Ma ne abbiamo parlato da così tanto tempo, dice lei, che non saprei più cosa dire adesso per chiarire ancora di più tutte le cose. Lo so, fa lui, mi rendo conto; e magari stiamo completamente sbagliando, forse abbiamo preso un abbaglio, e forse andrebbe lasciato tutto esattamente come sta in questo momento. La signora si avvicina e lo bacia sopra una guancia tenendogli un braccio, poi dice sottovoce: dobbiamo farci forza e fare anche questo passo. Però non c'è fretta, fa lui, possiamo tornare domani o magari il giorno ancora seguente: non cambierebbe nulla nei nostri propositi.
            Rimangono ambedue sbigottiti, quasi le loro perplessità riuscissero a paralizzargli qualsiasi movimento, e restando fermi in piedi su quel marciapiede, sembrano proprio incapaci di fare ancora una mossa. Va bene, interrompe lei il silenzio alla fine: torniamo domani. Così possiamo ancora controllare se per caso manchi qualcosa tra i documenti, qualcosa a cui fino adesso non avevamo proprio pensato. Certamente, interviene lui, però se avessimo già suonato al portone le cose avrebbero già preso una piega definitiva, e non avremmo più dovuto preoccuparci di nulla.
            Passa lungo la strada un autocarro pieno di polvere e di rumore, loro due si scansano quanto possono ad evitare la nuvola di smog, poi la signora va subito vicino a suo marito, gli stringe una mano, lo bacia sopra una guancia, e infine con calma se ne vanno, senza scambiarsi più neppure una sola parola.


            Bruno Magnolfi

venerdì 10 marzo 2017

Difficile socialità.

          

Non sto bene, dice lui senza guardare in faccia nessuno. Si muove con lentezza, si siede con calma, come potesse cadere da un attimo all'altro, e poi ha sulla faccia un’espressione assente, quasi non avesse più alcun interesse a stare lì, se non riposarsi. Qualcuno tra i molti presenti, seduto vicino al biliardo dove va avanti tiro su tiro una sfida a due, gli dice scherzando, ma solo a metà, di andarsene a casa, eppure lui non gli dà alcuna importanza, ignora quei suggerimenti, e si lascia andare come gli altri ad osservare le biglie che corrono da una sponda all’altra sopra al panno verde.
In due o tre ridono mentre il gioco va avanti, altri ignorano la sua presenza, lui si piega su un fianco, forse potrebbe anche cadere, ma invece riesce, anche se con fatica, a tirarsi su, come se i suoi malesseri fossero soltanto momentanei. Infine si alza, qualcuno scansa leggermente i piedi per farlo passare, lui riesce ad arrivare fino alla soglia della sala, ed infine si affloscia a terra, come uno straccio privo del tutto di ossatura. Lo soccorrono, naturalmente, così lui si rialza, dice di stare bene e così torna a sedersi, anche se il gioco però è stato interrotto, e tutti gli chiedono a questo punto che cosa abbia voglia di fare, anche se lui sostiene subito che si sta riprendendo, e che gli bastano soltanto pochi minuti per sentirsi perfettamente.
Lo conoscono tutti là dentro, è uno di loro, forse soltanto uno tra quelli che non parlano mai, che non si concedono alle discussioni o agli scherzi, e forse nasconde qualcosa di sé, qualcosa che non si può certo chiedere, magari un segreto, oppure soltanto una forma del suo carattere venuta così, senza saperne meglio il motivo. Qualcuno si offre di accompagnarlo a casa con la sua automobile, e lui per un po’ si schernisce, infine accetta, quasi si fosse reso conto che non può fare altrimenti.
Fuori l'aria è un po’ fresca, lui si ferma sul marciapiede, guarda il cielo di questa serata, infine dice soltanto: è tutto immobile. L'altro lo guarda, forse vorrebbe anche annuire, ma non sa bene a che cosa si sia riferito, quindi resta in silenzio. Accanto c’è proprio la macchina che stanno cercando, lui si apre lo sportello con attenzione e poi sale, con calma, sistemandosi comodo senza mai dire niente.
L’altro avvia il motore, innesta la marcia, la vettura si muove, percorrono un tratto di strada, ma poi, alla prima curva, lui chiede di accostare e di fermarsi un momento. Intorno adesso non c’è più nessuno, lui scende, si appoggia alla carrozzeria e si guarda dintorno, come non avesse mai visto quello scorcio di case del suo paese. L’altro lo scruta, forse si rimprovera di essere stato anche troppo generoso, ma adesso non vuole mostrare che proverebbe un interesse maggiore per assistere a quella partita in corso sopra al biliardo, piuttosto che seguire gli stiramenti e le sofferenze di questa sua vecchia conoscenza.
Siamo amici, gli dice lui quasi leggendogli dentro il pensiero.  Anche se forse non ha più molta importanza questa parola, visto che ognuno di noi scambia con gli altri soltanto ciò che lo impegna di meno. L'altro non trova niente da dire, forse vorrebbe far comprendere a lui che adesso deve soltanto andarsene a casa, viste le sue condizioni, ma resta in silenzio, come non trovasse errori in quel suo pensiero. Poi risalgono sopra la macchina, arrivano davanti al portone dove lui abita, l’auto si ferma, lui apre lo sportello per scendere. Sono arrivato, gli dice per salutarlo; forse domani tornerò ancora per vedere qualche bella sfida al biliardo, dice in fretta come  minacciando di farlo davvero; spero soltanto  che qualcuno non trovi qualcosa da ridire, e che la mia presenza non sia soltanto un fastidio.


Bruno Magnolfi

mercoledì 8 marzo 2017

Come rompere tutto.

      
Troppi problemi, fa lui, sorridendo con ambiguità. Lei lo guarda un momento, riprende a muoversi dentro la stanza come per occuparsi di qualcosa che le tenga impegnate le mani, ma alla fine decide di spostare appena un soprammobile, come sperando di dare a quel grosso posacenere una migliore collocazione. Sto ancora aspettando, gli fa; sono in attesa che tu dica qualcosa di più chiaro, spiega lei alla fine senza neanche guardarlo, ferma di fianco come fosse davvero in attesa di una spiegazione migliore e più esauriente. Lui allora si alza dalla poltrona, forse vorrebbe semplicemente accendere la televisione e dar termine a quel dialogo per suo parere forse privo di senso e prospettive, ma invece si trattiene, pensa solo a quando avrà finalmente superato quell'ostacolo dei chiarimenti chiesti da lei, ed una volta spiegatole ciò che in sostanza lei probabilmente vorrebbe sentirsi dire, magari dilatando e ingigantendo un po’ le proprie parole, pensa che la faccenda sarà subito a posto, ben sistemata. Insomma, sbotta al contrario, con un'espressione adesso inequivocabile: sto quasi soffocando sotto ai tuoi modi sempre più possessivi, che non lasciano mai aria per respirare. Va a chiudere la frase con enfasi calante, quasi ascoltasse per la prima volta quelle parole lui stesso, e forse ne comprendesse il significato esatto soltanto in quel preciso momento. Lei adesso resta immobile e lo guarda: la sua espressione è quasi una reazione di sfida, ma anche di sorpresa; forse non si sarebbe mai aspettata un giudizio del genere, e in ogni caso ritiene quelle parole assolutamente inadatte a descrivere le maniere e i comportamenti che ha sempre usato di norma nei suoi confronti.
Forse vorresti da me un atteggiamento più indifferente, fa lei alla fine con voce sprezzante ed una sottile dose di ironia. Lui comprende subito di avere esagerato, perciò sarebbe quasi tentato di spostare magari l'attenzione su altri argomenti, o forse smorzare il senso delle proprie parole con un atteggiamento improvvisamente del tutto mansueto ed intimista, ma alla fine riesce soltanto a rimanere in silenzio, confermando e dando ancora più valore, pur non volendo mostrare ripensamenti, a ciò che ha appena finito di spiegare. Lei torna a spostare di nuovo quello stesso soprammobile, una grossa e pesante ciotola di vetro dai colori screziati, voltandola di mezzo giro e mettendone così in bella mostra la parte che fino adesso era rimasta nascosta. Lui si sente improvvisamente nervoso, vorrebbe quasi dire qualcosa di più e di diverso, anche se è evidente come i secondi e i minuti che trascorrono quasi per inerzia, gli lasciano desiderare sempre di più che sia proprio lei a rompere quel silenzio pesante.
Lei invece va verso il tavolo, si siede, guarda qualcosa senza importanza. Lui sa che in casi come questo potrebbe persino mettersi a piangere, anche se in fondo in tutti quegli anni non è capitato quasi mai, ma riflettendo per bene pensa adesso che sarebbe quasi la soluzione migliore per trovare la possibilità di chiederle scusa e sistemare al meglio le cose. Va bene, dice lei invece alla fine, e con ciò si alza ed esce da quella stanza. Lui attende qualche momento, poi accende la televisione abbassandone subito l’audio fino al minimo, ed infine si accosta con le spalle alla finestra mentre fa scorrere con il telecomando diversi canali.
Lei torna, sembra non abbia assolutamente niente da replicare e la sua espressione appare adesso quasi distaccata, come avesse già digerito il giudizio di lui, e stesse solo cercando la maniera per andare oltre. Si accende una sigaretta, gira per la stanza senza mai guardarlo, e lascia che quel silenzio smorzato soltanto dal leggero sottofondo televisivo si spanda in aria esattamente come il fumo dalla sua bocca. Poi si avvicina al posacenere, scuote all’interno la sua sigaretta e infine la schiaccia con un gesto deciso, prendendo a quel punto con ambedue le mani quel soprammobile e scaraventandolo a terra. Qualcosa si rompe, certe volte, dice poi con grande fermezza.


Bruno Magnolfi

venerdì 3 marzo 2017

Rumori molesti.

            

Silenzio. Pur stando in ascolto con il massimo dell’attenzione, pronto ad interpretare immediatamente come un pericolo qualsiasi pur minimo rumore possa giungere alle mie orecchie da fuori, non sento nulla, se non il mio vecchio cuore che batte, ed il leggero fruscio nella testa dato dal sangue che scorre regolare all’interno delle mie vene. C’è un dentro ed un fuori, in tutte le cose, ed io me ne sto qui a passare la notte avvoltolato in questo cartone, senza che almeno per adesso mi giunga alcun rumore da qualche parte qua attorno. Lontano, perso chissà in quale contrada che non conosco neppure, solitario e forse un po’ triste, ma in questo caso quasi rassicurante come il respiro naturale della città, il fischio appena avvertibile di un treno in arrivo o in partenza, nell’aria di questa notte qualsiasi, che non mostra al momento alcuna differenza con tutte le altre notti. Sollevo leggermente le palpebre, giro gli occhi da una parte e dall’altra, guardo qualcosa senza grande interesse, in questo buio leggermente tagliato da un lampione potente, posizionato su in alto nella piazza vicina, e subito dopo mi volto su un fianco, come uno di quelli che ancora cercano di dare in qualche modo una difesa per il proprio corpo, e stanno sempre come in attesa della botta che arriverà prima o dopo, a svegliare in un lampo di dolore questo sonno strappato alla strada. 
Lieve rumore. Forse soltanto qualcuno che passa poco lontano, oppure un semplice pezzo di carta mosso dal vento, una lattina vuota che rotola sul marciapiede, chissà, magari i ragazzi dell’associazione che ti portano il tè caldo, una coperta, una pacca sopra la spalla. Niente, resto fermo, tanto che potrei forse essere morto, e penso: chissà se qualcuno da dietro mi guarda in questo stesso momento, magari ha pena di me, oppure ritiene questo fagotto una spazzatura da prendere e togliere subito, come qualcosa che dà solo disturbo, perché produce un’immagine del tutto sgradevole della città. Adesso, poco distante, stanno lavando la strada: passa una macchina che spruzza dell’acqua sotto a una spazzola, e intanto aspira ogni residuo di vita, ad annullarne le tracce.
Colpo sul muro. Poco lontano qualcosa sta succedendo: mi giro, osservo due o tre ragazzi mezzi ubriachi che si divertono a svegliare un vecchio come me apparentemente senza difese, ma io tiro su la mia testa, mostro subito l’espressione di uno che non sarà tanto facile da abbattere, e che forse ha persino un coltello nascosto da qualche parte, e magari è anche pronto ad usarlo, perché non ha molto da perdere, e forse sa persino difendersi. Gridano qualcosa, a distanza, ridendo in modo sgraziato, e poi se ne vanno, spingendo le loro facce dietro qualcosa che possa apparire più facile, più divertente, un’impresa che dia loro maggiori soddisfazioni con un impegno minore. Mi giro, tutto adesso pare più quieto: la spazzatrice stradale ha voltato verso qualche altra parte, persone a piedi non se ne vede, sento soltanto una moto ruggire lungo la via principale, e dopo più nulla.
Silenzio. È bello immaginare il quartiere immerso nel sonno, in quella fase del giorno in cui tutti appaiono uguali, e i sogni di ognuno possono essere anche i più differenti, indipendentemente da chi sta sognando. Devo cambiare abitudini, penso; trovare un giaciglio un po' più sicuro, dove non ci sia da stare sempre in allerta, ed il mio fagotto di stracci non dia tanto nell'occhio.
Rumore secco vicino. Mi volto, sono i ragazzi di prima, sono tornati con intenzioni peggiori, ridono, uno di loro sbatte una spranga di legno su un palo, per farmi capire cosa mi attende. Non cerco neppure di tirare fuori il coltello, sarebbe peggio per me, mi limito a guardarli e ad attendere. Loro si fanno vicini, sono sempre più minacciosi, stavolta non riuscirò certo a cavarmela penso, spero solo che facciano un lavoro completo, che non mi esponga a sofferenze ulteriori.
Poi, un rumore più forte. Gira dall'angolo la spazzatrice stradale, illumina tutti coi suoi fari potenti, scendono in due vestiti di arancio, i ragazzi vanno subito via, e dopo poco anche io me ne vado con le mie povere cose: questo non è un posto adeguato a dormire penso; ci sono troppi rumori.


Bruno Magnolfi

mercoledì 1 marzo 2017

Poche parole.

           

Generalmente, di sua spontanea volontà, lei non dice quasi niente; persino quando le viene rivolta direttamente qualche domanda su degli argomenti anche generici e poco impegnativi, lei si limita a sorridere e ad abbassare lo sguardo, per poi magari cambiare appena un po’ la propria espressione, quel tanto che basta per dar mostra agli altri che è vigile, comprende bene le cose, pur nelle sue condizioni; e dopo basta, senza minimamente provare neanche a rispondere a chicchessia. Spesso, quando le giornate in quella dimora sembrano addirittura infinite, si siede nella sala della refezione, osserva con attenzione le sue mani, finge di essere forse attratta da qualcuno che magari sta parlando proprio in quell’attimo, come se dovesse prendere anche lei una posizione precisa su chissà quale argomento, ma infine volge altrove il suo sguardo, mostrando al contrario che è assolutamente disinteressata di tutto, come se niente là dentro la riguardasse.
Certe volte, seduta ad uno dei tavolini immancabilmente da sola, lei sfoglia una rivista o un giornale leggendo i titoli qua e là, proprio come si trovasse semplicemente in una sala d’attesa per le visite mediche. Gli altri ovviamente restituiscono verso la sua persona una certa diffidenza, e se proprio non è necessario comportarsi diversamente, fingono addirittura di non vederla neanche. Ma quando arriva sua figlia a farle una visita, in genere verso la fine della settimana, le cose cambiano radicalmente. Una persona forse timida, quella ragazza che mostra una notevole differenza di età da sua mamma: normalmente si fa vedere all’istituto da sola, vestita in modo ordinario ma non senza cura, e si muove come cercando di non apparire una che viene da fuori. Sorride a tutti, va vicino a sua madre, le tocca un braccio con gentilezza, poi si siede con lei.
Improvvisamente lei si mostra loquace, parla con disinvoltura di tutti gli argomenti che richiedono la propria opinione, e certe volte si guarda attorno mostrandosi serena a chi le sta passando vicino. La ragazza si mette comoda sulla sua sedia, probabilmente dice alla mamma tutte le cose che le passano dentro la testa, aggiornandola con naturalezza su quanto le sia accaduto in quegli ultimi giorni. Esco con un ragazzo, le dice però questa volta, e la madre si indurisce, si ferma un momento, poi la guarda con un accenno di severità. Non c'è niente di male, cerca di rassicurarla la figlia; cerchiamo soltanto di conoscerci meglio, almeno per adesso, per il resto non c'è alcuna fretta. Si, dice la mamma dopo un lungo sospiro; sono contenta. Tu sei una brava ragazza, farai le cose che servono, senza strafare, e tutto si aggiusterà poco per volta.
Ma poi passa il tempo e la figlia non si fa più vedere. Sono diverse le settimane in cui lei rimane praticamente da sola, spersa in quella residenza protetta, in qualche angolo a meditare il medesimo comportamento di sempre, senza chiedere nulla a nessuno. Quando infine arriva la figlia, dopo quasi un mese da quell'ultima volta, si sofferma in fondo alla sala e fa vedere a tutti che non è venuta da sola: c’è un tizio con lei, un tipo che sembra subito quasi scocciato di quella visita che forse immagina soltanto doverosa. Si siedono, si presentano, lei appare subito come senza argomenti. La figlia dice che hanno deciso di andare ad abitare insieme tra qualche settimana, che si vogliono bene, e poco per volta vorrebbero formare una loro famiglia. La mamma guarda ambedue, accenna un’espressione curiosa, non chiara, e alla fine dice soltanto: brava, mi fa piacere; la solitudine dei sentimenti è quanto di peggio si debba accettare, spero che le cose per voi vadano esattamente così, proprio come le state progettando.


Bruno Magnolfi