domenica 31 maggio 2009

Tutta la vita.



            Il vecchio amava sedersi sopra a un muretto e ripensare con calma alle cose del mondo. Spesso pensava a tutte le persone che aveva conosciuto, a quelle ragazze carine che gli avevano sorriso quando era in gioventù. Non c’era niente di male a ripensare con calma quei ricordi che gli emergevano da dentro alla mente, senza neanche uno sforzo, quando si trovava da solo, lì, sopra a quel vecchio muretto di pietre. Qualcuno dalla strada passava e allora gli faceva un saluto vedendolo così assorto dietro a qualcosa che nessuno di loro avrebbe mai immaginato. Il vecchio ricambiava volentieri il saluto come scendendo per un attimo assieme ai comuni mortali, poi ritornava alla svelta in quel suo paradiso. No, non c’era proprio niente di male in quella sua debolezza, riviveva le cose che aveva conosciuto durante la vita proprio così come beveva l’acqua fresca a una fonte lungo la strada di casa, e si sentiva contento, abbeverato. Gli altri avrebbero certo voluto levargli quei sogni, i ricordi, quei pensieri che sempre si spingevano dentro a quei volti e a quei gesti della sua gioventù. Ma erano suoi, erano il coronamento della sua vita, e adesso mostravano solo quello che era stato e forse anche quello che avrebbe potuto essere, se solo avesse cercato di spingere più avanti i suoi sogni, se solo ci avesse creduto di più quand’era il momento, o se gli altri gli avessero dato un po’ più di fiducia. Quando lo trovarono morto sopra a quel muro, qualcuno forse pensò che non meritava di morire da solo in un posto così anonimo e insignificante, ma il vecchio fino alla fine sapeva dentro di sé di morire contento, in mezzo alle cose che comunque erano state per lui tutta la vita.

            Bruno Magnolfi


sabato 30 maggio 2009

Rido di lui.



            Quando decisi di vendere me stesso al Demonio, immaginai che mi sarebbe rimasta comunque la possibilità, quando sarebbero andate avanti le cose, di fregarlo lo stesso con i miei modi sfuggenti e i miei lunghi silenzi incomprensibili a tutti. Avevo saputo di un libro che aveva trattato la stessa questione, ma a me non interessava per nulla. Non era per me, niente affatto, era tutto messo su ad arte per mamma e per babbo, e quella mia decisione sarebbe stata nei miei convincimenti la maniera migliore per mostrare il mio vero sentire, la mia personalità più profonda. Il dottore ai controlli scuoteva sempre la testa mentre ridevo e toccavo gli oggetti della sua scrivania. La mia mamma lasciava sempre abbondanti spazi di silenzio in mezzo alle sue pacate parole, e quello che meno riuscivo a sopportare era quel suo modo così sottomesso alle angustie del mondo, quelle maniere così rassegnate di affrontare ogni giornata, di uscire da ogni problema accettandolo con insopportabile carità cristiana. Iniziai col non rispondere più ad alcuna domanda, come se tutti coloro che si incontrava con la mamma o col babbo nelle passeggiate in paese, fossero estranei, anzi stranieri, parlassero una lingua diversa, non si rivolgessero a me, ma a qualcuno che immaginavano parlasse il loro stesso linguaggio. Mi limitavo a ridere allargando la bocca coi miei denti un po’ guasti, continuando a tenere la mano alla mamma e lasciando che tutti avessero da dire qualcosa sul fatto che io fossi più alto di lei, e che avessi più di trent’anni. Sapevo in ogni momento che c’era il Demonio con me, e che nessuno avrebbe potuto fregarmi. Poi continuai a spogliarmi di tutti i vestiti, lo facevo in ogni occasione, quando nessuno se lo aspettava, ma questo era un dispetto che mi divertiva sopra ogni cosa. Forse la mamma ed il babbo si vergognavano un poco di me, così cominciarono a portarmi in giro sempre di meno. Un giorno ebbi un attacco di tosse, ed iniziò a mancarmi il respiro mentre ero da solo. Vidi il Demonio che soffriva anche lui dentro di me, così mi versai un bicchier d’acqua e lo bevvi d’un fiato. La tosse passò poco per volta, però quel dolore e quella paura che avevo provato non riuscivo più a capire se erano da ricondurre a me stesso oppure al Demonio. Così non ebbi alcuna perplessità quando mi lanciai giù dal ponte staccando improvvisamente la mano da quella di mamma, senza che lei avesse minimamente sospettato una cosa del genere. Sapevo in quella maniera di fregare il Demonio, così in quella breve frazione di tempo prima che arrivasse lo schianto riuscii a ridere ancora, proprio di Lui.

            Bruno Magnolfi


giovedì 28 maggio 2009

Un nome nel vento.



            Sopra la costa rocciosa il vento si era quasi calmato, ma le onde gigantesche giù in basso continuavano imperterrite ad infrangersi sulla scogliera provocando un rumore di fondo continuo e fortissimo. Lei era uscita sulla veranda per andarsi ad appoggiare ad una delle colonne di legno, con lo sguardo rivolto sul mare. Spingendo lontano il suo sguardo, oltre l’umidità che appannava la vista, riusciva a seguire il profilo della costa Britannica di là dalla Manica, e così la immaginò silenziosa, immersa in un mare più calmo. Lui la chiamò da dentro la casa, e quel nome rimbalzato sui muri e nel vento, andò ad incrinare ogni altro pensiero; poi, non ricevendo alcuna risposta, si affacciò sulla porta della veranda, e vedendola lì, coi capelli leggermente mossi dal debole vento di mare, disse soltanto: “Certe volte la tua solitudine è più forte di qualsiasi bisogno io senta di tenerti vicina…”. Così, con queste parole, aperta la porta con la chiave più adatta, lei lasciò che lui le abbracciasse  le spalle, continuando a guardare sul mare, verso qualche punto infinito smarrito lungo la linea piatta e grigiastra dell’orizzonte di fronte, solo dicendo, ma come a se stessa: “Non dovresti permettere che la mia solitudine si frapponga tra noi. Il mio è solo un vezzo, un modo di fare qualsiasi, tramite il quale per qualche breve momento mi sento appagata, ma poi ci sei tu, ed io sono felice quando tu con sapienza assecondi i miei stati…”. Lui rimase in silenzio, conscio che non l’avrebbe mai avuta tutta per sé, ma questo era il prezzo che gli pareva giusto pagare.

            Bruno Magnolfi


lunedì 25 maggio 2009

Troppo vicini.



            Mi piace stare fermo, fingere indifferenza e intanto osservare le persone che mi rimangono distanti. Quando poi qualcuno si avvicina a me non ne sopporto più la presenza: provo un senso di fastidio, gli stessi individui attorno ai quali curiosavo fino ad un momento prima, perdono improvvisamente per i miei occhi qualsiasi attrattiva, quell’ interesse con cui guardavo verso di loro si volatilizza, e la vicinanza di chiunque mi risulta a dir poco sgradevole. Non ho mai capito perché mi venga così naturale la repulsione verso qualsiasi persona, quando questa si avvicina verso di me. Non è che provi paura o che mi paia di subire un danno in qualche maniera. No, piuttosto è un po’ quell’obbligatorietà a visionare dettagli, espressioni, rughe, difetti più o meno marcati del corpo o della pelle, che mi torna insopportabile. Si potrebbe volgere lo sguardo altrove, in quei casi, mi si potrebbe obiettare, ma non è così semplice: la presenza la subisco, ed anche se non vedo la persona vicina, magari perché sono voltato in un’altra direzione, ugualmente ne sento la vicinanza, ed immagino così l’alito pesante, l’odore della sudorazione, le mani sporche, e poi tutti quei dettagli che attraggono la mia mente lasciandola svuotata. Da lontano le persone sono migliori. Si intravedono gli arti, la testa, il colore del vestito, e poco più. Il mio luogo privilegiato è il terrazzino di casa. Da lì osservo tutti, ed affacciandosi da un primo piano sulla strada, mi permette di vedere, valutare, immaginare, senza che alcuno mi veda o si possa avvicinare. Certe volte vorrei parlare con qualcuno che magari passa spesso sotto casa mia, e qualche volta ho provato ad attrarre l’attenzione di una persona che vedo più spesso di altre, ma mia sorella in quei casi mi ha subito fatto rientrare. Non accetto in alcun modo neanche lei, mia sorella, quando con quegli insopportabili modi calmi e paternalistici, mi guarda negli occhi da una distanza che obiettivamente è troppo ravvicinata, e disarmando ogni mia intenzione mi impone la sua volontà, mi prende per un braccio e qualche volta me lo stringe, per farmi capire dove sto sbagliando, forse, oppure solo perché a lei piace avere le persone vicine, toccarle, sentirle presenti. A volte mi sono chiesto cosa farebbe mia sorella, se solo riuscissi a sfuggire alla sua presa sul mio braccio, se solo riuscissi a tenerla distante, a non permetterle di disarmarmi con la sua presenza. 

            Bruno Magnolfi


sabato 23 maggio 2009

L'albero.



Accanto al mio giardino è cresciuto un albero. Sugli inizi era poco più di un cespuglietto verde che si intravedeva di là dal muro di cinta. Adesso, senza che nessuno si sia accorto di quando sia accaduto, è cresciuto a dismisura, inchinandosi su un fianco verso il mio giardino e allungando i suoi larghi rami verso i miei fiori e sopra le mie aiuole curate. Ho cercato di parlarne col mio vicino, ma lui ha glissato l’argomento ed ha subito parlato di altro. Mi sento triste ogni volta che guardo il mio giardino: c’è quella presenza inquietante dell’albero che lo sovrasta, lo tiene nella sua ombra, fa cadere le sue foglie un po’ dappertutto, e in primavera spande dei piccolissimi fiori che formano una poltiglia immonda che si raddensa specialmente negli angoli. Quando ho deciso di farlo seccare sono andato di notte al suo tronco ed ho praticato un foro grosso e profondo con un trapano a mano per non fare rumore. Poi ho iniettato al suo interno non so quale veleno con una siringa, e ho richiuso quel foro con della corteccia. In poco tempo sono seccate tutte le foglie e l’albero è morto. Lo toglierà, adesso, ho pensato, ma il mio vicino non l’ha fatto, non ha fatto niente, ed ha lasciato l’albero morto così, ancora più inquietante di prima. Poco alla volta sono iniziati a cadere tutti i rametti secchi più piccoli ed io vivo nel terrore che cada qualche ramo più grosso, o tutto l’albero intero, una volta per tutte. Un giorno di questi vado dal mio vicino e l’ammazzo.

Bruno Magnolfi




venerdì 22 maggio 2009

L'uomo di potere.



La decadenza dell’uomo di potere iniziò quando nessuno se lo sarebbe aspettato. Furono le sue improvvise incertezze a decretarne il cambiamento, proprio quando serviva decisione e determinazione. Lui si era guardato in uno specchio, e si era visto invecchiare più velocemente di quanto si aspettasse, soprattutto perché aveva considerato la conduzione della sua vita sempre un po’ sopra le righe, essenzialmente al di fuori di certe logiche da persona borghese e ordinaria. Adesso si era dovuto rendere conto che qualcosa, nel suo percorso di figura di spicco e di personalità di riferimento per gli altri, per coloro con i quali era sufficiente qualche giochetto di sguardi e qualche frase azzeccata per riuscire a tenerli nel pugno, bene, qualcosa gli era sfuggito. Certo, per sua natura gli veniva istintivo ribellarsi agli accadimenti che non andavano per il verso che lui aveva voluto o previsto, però si sentì stanco, in quel preciso momento, solo, privo di quella volontà che lo aveva sempre infiammato. Uscì di casa, soprappensiero, l’uomo di potere, forse abbassando le sue difese nutrite di sospetto per chiunque, e di accortezza verso qualsiasi particolare. Entrò nella sua auto in modo meccanico, come compiendo un gesto rituale, alla stessa maniera con la quale girò la chiavetta di accensione del motore. Fu tutto in quell’attimo, proprio in quel preciso momento, quando probabilmente comprese il suo errore, la sua debolezza, la fine, proprio lo stesso momento in cui il primo giro del motore, già manomesso e minato, innescò l’esplosione dentro alla macchina, frantumando con lei il suo occupante, e sparando nell’aria tantissimi minuti coriandoli assurdi, spengendo così ogni altro pensiero e qualsiasi volontà di riscatto.

Bruno Magnolfi


martedì 19 maggio 2009

Di rosso e di nero.



Quando arrivai nella saletta di attesa, superata la rampa di scale di marmo, c’era solo una persona seduta sulla poltroncina di stoffa color dell’avorio. La segretaria uscì dal suo ufficio per chiedermi con chi avessi l’appuntamento, poi mi disse che c’era un po’ da aspettare. Arrivarono altre due persone, parlando tra di loro a voce alta; salutarono il terzo e poi continuarono a conversare di arte, di editoria, di direttori di riviste e di altre conoscenze che vantavano. Mi sorrisero, chiesero se volessi sedermi, poi continuarono con i loro argomenti. La saletta era chiara, il pavimento lucido, la segretaria continuava a dar corso alle sue telefonate, ed i tre a parlare e a scambiarsi opinioni e informazioni. Con i loro discorsi e i modi di fare, mi ricordavano vagamente qualcuno, una persona che avevo conosciuto tanti anni prima, un venditore di enciclopedie evoluto, come mi piaceva chiamarlo, che all’epoca trattava certi lavori di grafica, peraltro con ottimi risultati. Ricordavo che aveva un’opera di Vinicio Berti dentro al suo ufficio, un quadro spruzzato di rosso e di nero che campeggiava sul muro dietro alla sua scrivania. Dopo una buona mezz’ora fui ricevuto. L’editore fu molto simpatico, disse che si aspettava una donna, peraltro molto più giovane di me, a giudicare dai temi e da come era scritto quel mio romanzo. Spiegò che il lavoro era buono, però lui non era convinto. Parlò molto, inanellando parecchi argomenti importanti, poi, prendendosi una pausa per rispondere a una chiamata, io ebbi modo di guardare in modo più attento sul muro dietro di lui. Su quel muro c’erano tre grandi quadri; tre grafiche spruzzate di rosso e di nero, e il nome che risaltava sul fondo di ognuno era per me inconfondibile: Vinicio Berti, non poteva essere in alcun altro modo.

Bruno Magnolfi


domenica 17 maggio 2009

Il segno.



Adriano faceva il camionista da trent’anni. Aveva visto gli autotreni su cui aveva imparato il mestiere sostituiti da altri autotreni più moderni, più potenti, più comodi, più facili da guidare, ma quel suo lavoro gli sembrava non fosse cambiato mai. Affrontava due viaggi alla settimana, uno a Parigi e uno a Barcellona, invariabilmente. Soltanto il sabato e la domenica, di solito, dormiva a casa sua. Di Barcellona e Parigi non aveva mai visto niente, solo le zone industriali sparse nelle periferie delle due città, dove andava a scaricare e a caricare. Il resto era autostrada, tutta uguale. Si era fermato all’area di servizio per mangiare, aveva seguito il percorso dentro al self-service facendo scivolare il vassoio lungo il nastro metallico, aveva scelto un piatto di pasta, della frutta, del dolce e un bicchiere di vino rosso; avrebbe poi preso un caffè al banco del bar, prima di ritornarsene in cabina di guida e affrontare un’intera notte di autostrada illuminata soltanto dai fari del suo camion. Al tavolo si era seduto da solo, come da solo era abituato a trascorrere tutte le ore del suo lavoro, ma proprio di fronte a lui, ad un tavolo vicino, c’era il ragazzo che aveva intravisto nell’area di servizio dove aveva riempito il serbatoio di carburante, qualche centinaio di chilometri indietro, che in solitudine e senza neppure un cartello con su scritta la sua destinazione, come era usuale, faceva l’autostop. Lo aveva ignorato, quando lo aveva visto, come era normale nel suo lavoro, ma era rimasto colpito dal suo viso un po’ triste, un po’ dolce, dalla sua espressione rassegnata, rassegnata come a qualcosa che non poteva evitare. Gli aveva fatto un cenno, e lui aveva ricambiato il suo saluto. Avrebbe voluto chiedergli dove era diretto, forse dargli una mano in quel suo viaggio, ma troppe distanze erano di mezzo tra loro. Quando riavviò il motore del camion, dopo il caffè, dopo quel filo di coraggio che occorreva, i fari e la strada lo riassorbirono con la concentrazione di sempre alla guida, e tutto fu lasciato alle spalle. Adriano non seppe mai spiegarsi perché, ma per anni ricordò quel ragazzo, quel suo viso dolce e un po’ triste, come di una persona importante nella sua vita, che senza avergli parlato, senza avergli spiegato niente di sé, ugualmente gli aveva lasciato un suo segno.

Bruno Magnolfi




domenica 10 maggio 2009

La sequenza.



            Dopo molte incertezze, intuizioni, tentativi, anche la sequenza di posizioni era stata messa insieme, ed adesso non restava che “montare” il meccanismo e riprovare tutto da capo. Quasi tutti i bambini di quella quinta classe per tutto quel periodo erano stati attenti, partecipi, propositivi, esclusi i soliti due o tre per cui quello che facevamo era una cosa assurda e basta. La sequenza ritmica era basata su suoni elementari, legno, vetro, metallo, battito delle mani, voce, esclusi due rudimentali strumenti, una scatola di latta tagliata e circondata da un filo metallico che pizzicato dava un suono ronzante e prolungato, e una scatola di cartone chiusa, dove, nel suo interno, degli elastici vibravano in modo sordo e sfumato. Le lunghe strisce di carta riportavano i simboli degli strumenti che ognuno usava, e via via che venivano fatte scorrere ogni bambino interveniva con il proprio suono, a volte accoppiato ad altri suoni, a volte sovrapposto alla voce. I cinque che battevano le mani, anche loro seguendo la sequenza come gli altri strumenti, di fatto ampliavano al massimo il loro gesto, facilitando la loro sincronizzazione e sottolineando in questo modo la cucitura di ogni fase che teneva in qualche modo insieme tutto quanto, non essendoci un ritmo riconoscibile ma solo un percorso di suoni dentro al tempo. Maurizio, che con la sua voce roca e il suo comportamento disattento e un po’ violento disturbava regolarmente tutti quanti, fu insignito del ruolo di direttore, impegnandolo a fondo in questo modo nel far rispettare il giusto tempo con cui interpretare la sequenza. La coordinazione con i sei danzatori era fondamentale. Si trattava di seguire un’altra sequenza di posizioni coordinate con i suoni, però usando movimenti plastici, morbidi, ed ottenere questo era risultato un po’ più complicato. Quando fu deciso che c’era la necessità di vestirsi con dei costumi per immedesimarsi bene nella coreografia, furono portati da casa gli involucri di carta metallizzata delle uova di pasqua appena trascorsa, e l’effetto fu meraviglioso, in quanto il fruscio continuo ed entrante che provocava la carta dette un risalto perfetto a tutto l’insieme. Quando tutto fu portato a compimento eravamo tutti soddisfatti, ma siccome era stato il percorso intrapreso che soprattutto ci era piaciuto, decidemmo di non esibirci in alcun spettacolo finale, e l’unica traccia di tutto il lavoro fu una registrazione filmata di quanto era stato fatto, e di quella ogni bambino se ne portò a casa una copia con l’avvertenza di farne esattamente quello che riteneva più opportuno.

            Bruno Magnolfi


giovedì 7 maggio 2009

Solitudine.



La donna era scesa al bar per prendersi un caffè. Con lentezza aveva osservato a lungo i presenti, poi aveva pagato ed era uscita. Lungo il marciapiede tutte le persone che incontrava le sembravano dei nemici. Non nel senso che quei passanti volessero il suo male, ma nemici con la loro indifferenza, con il distacco, con l’evidente volontà di ognuno di essere estraneo a tutti gli altri. Forse lei avrebbe avuto bisogno di parlare, di scambiare con qualcuno le sue idee, le sue preoccupazioni, ma sopra a quel marciapiede era come se fosse stata da sola. Mise la chiave nel portone e ritornò in casa, nelle sue stanze solitarie. Si sedette al tavolo e giocherellò con i fiori secchi dentro al grande vaso sopra al tavolo. Poi si alzò, prese con calma quel vaso con tutti i fiori secchi e si accostò ad una finestra. Attese l’attimo in cui non passava nessuno in strada, sopra al marciapiede, e poi lo lasciò andare. Non passò molto, e qualcuno salì le scale di corsa fino al terzo piano, ma lei, che aveva lasciato la porta socchiusa, si fece trovare seduta, tranquilla, senza un’ombra di pensiero.

Bruno Magnolfi



martedì 5 maggio 2009

L'attesa.

         

            Sul mare, in quella giornata di sole, tutto appariva più bello, anche i pensieri tristi, anche gli elementi spiacevoli degli ultimi tempi. Le avevano fatto una bella festa i colleghi per il suo ultimo giorno di lavoro all’ufficio postale, ormai quasi un anno fa, e spesso le tornava a mente, ma ritrovarsi in pensione con tutto quel tempo libero da riempire in qualche modo per lei era stato più difficile di quel che aveva previsto. Si era seduta su di una barca capovolta ad osservare l’orizzonte fermo, ad ascoltare quel ritmo sonnacchioso delle piccole onde di risacca, e i suoi pensieri fluivano via leggeri, come sempre. In fondo vivere da sola  aveva i suoi vantaggi, pensava. Passeggiare, riflettere, tutte cose attorno alle quali sviluppava spesso le sue giornate, attività che ormai conosceva anche troppo bene. Se n’era andata anche Ernesta, la sua amica di sempre. Suo marito era rientrato in casa e l’aveva trovata così, seduta sulla sua poltrona dove le piaceva leggere il giornale, con ancora il sorriso sulle labbra, aveva detto. Ma a quello non doveva pensarci, altrimenti le veniva la malinconia.
Il mare era bellissimo in primavera a quell’ora del mattino, quando la sabbia umida dell’arenile pareva lisciata dalla notte, e l’acqua trasparente un elemento quasi immobile, rimasto così da sempre. Lei camminava ed osservava. Abitava da sola, non aveva mai avuto un marito; e adesso quella solitudine era prepotente, le dettava tempi e modi, la faceva sentire trascinata via dalle giornate, senza che potesse farci niente. Certe volte aveva trovato qualche oggetto interessante sopra al bagnasciuga, piccole cose arrivate lì chissà da dove, portate dal vento e dalle correnti: sugheri sagomati usciti dalle reti dei pescatori, statuette di legno intagliato sciupate dall’acqua e dal sale, bottiglie di vetro vuote, senza alcun messaggio. Le piaceva trovare quegli oggetti, era come immaginare la presenza di qualcosa di vivo, un piccolo contatto con qualcuno che aveva adoperato quelle cose, e poi le aveva perse, come spesso succede nella vita.
Si sentiva importante quando lavorava all’ufficio postale, tutti la conoscevano e la salutavano, e poi c’erano quegli anziani silenziosi in fila a ritirare la pensione: non avrebbe immaginato che tutto finiva un giorno, stupidamente, con la festa dei suoi colleghi. C’era una scatola insieme ad un ciuffo d’alghe, lì sulla riva, una piccola scatola di legno forse per tenerci le matite, come si usava tanto tempo fa. Pareva un quadro surrealista, una natura morta fatta di conchiglie, sassolini colorati, fili d’alga e quel bordo bianco di spuma di mare che arrivava a tratti, lì vicino. Era bella quella scatola, ma adesso le dispiaceva sciupare quel quadro ben composto, quell’immagine così ben fatta. Pareva come la sua vita, dove ogni elemento era scorso via bene, nella maniera giusta, se non ci fosse stata quella maledetta solitudine di adesso.
Infine prese la scatola: era bella, di legno scuro, l’aprì. Non c’era niente dentro, solo un po’ d’acqua e dei granelli di sabbia, ma sotto al coperchio c’era scritto un nome, il suo. Certe volte la vita fa dei giri strani, pensò. Certe volte va a rinchiudersi in luoghi scuri, da dove sembra impossibile possa ancora avere un senso, però bisogna aprirli quei contenitori, scoprire ciò che è rimasto dentro nell’attesa. Con la mano tolse la sabbia appiccicata sopra al legno e mise via la scatola dentro la sua borsa. Guardò il mare e pensò che ormai lo conosceva bene, lo aveva osservato a lungo persino troppe volte. Doveva fare altre cose, forse dipingere, forse aiutare gli altri, trovare un senso a quel vuoto che adesso la martellava prepotentemente; questo le indicava la realtà, questo le dicevano gli oggetti attorno a sé: l’attesa era finita, ora stava a lei reagire.


            Bruno Magnolfi

domenica 3 maggio 2009

La mano vera.

            

            Fuori da qui c’è il mondo, lo so, me lo hanno già detto in tutti i modi possibili. Ma quando io guardo questa mia mano so di stare bene, di non avere più bisogno di nient’altro, neppure di uscire da questa stanza. Nella mia mano c’è tutto il potere di cui ho bisogno, nella mia mano c’è tutto il mio mondo, il resto mi è estraneo, e anche se non mi fa paura, però mi rimane indifferente. La mia mano si muove, accoglie, stringe, è capace di essere benevola, o dolce, oppure violenta, ma questo no, non si può fare. Il dottore lo ha detto tante volte, devo dimenticarmi della mia mano, devo guardarmi attorno, guardare le altre persone, le altre mani di tutti gli altri. Io sorrido, dico sempre che ha ragione, ma so che lui non ha capito, perché pensa alla mia mano come ad una mano qualsiasi, ma non è così. La mia mano è forte, ma sa anche essere dolce, accarezzare i petali dei fiori, per esempio, prendersi cura di me, dei miei oggetti, dei miei capelli, a volte, e lisciarli all’indietro in un solo gesto distensivo. Quando mi amputarono il braccio, dopo l’incidente, non lo sapevo, forse non potevo neanche immaginarlo, che quello era il braccio della mano superflua, di cui non mi interessava un bel niente. Però, fu solo in quel momento che riuscii a comprendere tutto della mia mano, di quella vera, quella da cui nessuno mi separerà mai.

    Bruno Magnolfi