giovedì 31 luglio 2014

Uno per l'altro.

            
            Devo confessare di aver bevuto un po’ troppo stasera a questa festa, ma in fondo non c’era proprio altro da fare, con tutta questa gente noiosa che continuava a dire in giro sempre le medesime cose. Forse per strappare la monotonia mi sarei perfino infilato volentieri in questa bella stanza con una di quelle mogli scollate del piano di sotto, una qualsiasi, a caso, che tanto mi sono sembrate quasi tutte brutte e noiose. L’avrei fatto giusto per fare un po’ di confusione, per vedere come andava a finire la faccenda, ma adesso mi gira la testa, forse dovrei sdraiarmi, starmene qui magari per una mezz’oretta, nel silenzio, a riprendermi.
            C’è anche il cesso in questa bella camera, posso bagnarmi la faccia, sicuramente mi fa bene, penso, così entro dentro, accosto la porta, resto a luce spenta per il rispetto che devo ai miei occhi. Dopo poco avverto, dai rumori di là, che è appena entrato qualcuno dietro di me, perciò mi rannicchio dentro il vano per la doccia, quasi con una specie di improvvisa timidezza, forse solo per non farmi vedere da gente estranea, preda come sono dei troppi aperitivi, e cosi attendo immobile che chi è arrivato, presto e alla stessa maniera, se ne vada.
Ascolto raccontare invece, ponendo una certa attenzione a quelle parole, pur pronunciate sottovoce, però comprensibili, di una certa faccenda incresciosa successa a dei conoscenti per colpa di un tizio che adesso sembra se la stia spassando di sotto insieme a tutti gli altri ospiti. Si dice cioè che un tipo, poche settimane addietro, si sia intrufolato ad una serata, proprio come questa, e non conoscendo nessuno abbia bevuto a dismisura, per poi trascinare in una stanza la moglie stessa del proprietario della grande abitazione. Naturalmente appare evidente che dopo un fatto del genere tutti adesso stiano ben accorti che non abbiano a ripetersi altre cose del genere.
Mi immobilizzo ancora di più nella doccia, gli altri poco dopo escono fortunatamente dalla stanza, ed io, con circospezione, immediatamente li seguo. Adesso la mia sbornia sembra attutita, se non passata del tutto, giro senza bicchiere tra il salone ed il giardino cercando la maniera per diventare come minimo trasparente, ma soltanto fino al punto in cui uno, con la voce impastata e quasi ridendo, fermandomi dice: le voglio presentare una donna speciale; ecco Dolores, mi fa, la signora proprietaria di questa splendida villa. Stringo la mano alla signora che sembra guardarmi però con un certo sospetto, mi dice buonasera senza particolari inflessioni, ma pare contemporaneamente anche attendersi qualcosa da me.
Vorrei sfuggire immediatamente quel suo sguardo indagatore, vorrei dire qualcosa che mi togliesse da quella sfumatura di sospetto con cui mi guarda, ma alla fine riesco soltanto a momorare qualche sciocchezza. Mi guarda, mi sta vicino, non so quasi più che cosa pensare. Sorrido, cerco di assumere l'espressione di uno da non prendersi troppo sul serio, ma lei pare non abbia voglia di sorridere, e intanto tutti intorno sembrano iniziare ad osservarci. Non si preoccupi, dico alla fine stressato da tutto quel comportamento: sto andando via, vede; è proprio come se non ci fossi mai venuto in questa casa, non si preoccupi di niente; e con questo mi precipito subito verso l'uscita.


Bruno Magnolfi

venerdì 25 luglio 2014

Semplicemente solo.

            

Non mi piace chi parla sempre di se stesso, magnificando magari ciò che pensa oppure quello che gli accade. Io sto quasi sempre da solo, forse anche per questo motivo, e vengo spesso a rifugiarmi in questo piccolo caffè, in genere restando per tutto il tempo con la faccia affondata in qualcosa da leggere, un bicchiere sopra al tavolino, e i pensieri che mi ronzano come sempre dentro la testa. Si siede un uomo vicino a me, mi fa un cenno sorridendo, dice: cosa si beve in questo posto? Io indico il mio bicchiere; è un pernod, gli faccio, senza aggiungere altro. Quello non ci riflette neanche e ne ordina subito uno anche per sé. Riprendo la lettura senza impegno, penso che adesso verrò interrotto di nuovo, ma quasi mi rammarico per non aver fatto nei confronti di quell'uomo almeno un sorriso incoraggiante, piuttosto che mostrargli il mio solito ghigno. Abbasso il giornale, mi volto proprio mentre il cameriere serve al tavolino il suo aperitivo. Alla salute, fa subito quell'uomo, ed io non posso esimermi dall'alzare il mio bicchiere ed a fare un gesto vago di convivialità, pur senza esagerare. Non frequento mai questo quartiere, fa subito lui, abito dalla parte opposta della città, e non mi capita di venire in questa zona. Mi occupo si solidarietà, aggiunge subito, ma gli uffici della mia organizzazione sono in centro.
Bene, faccio io senza dargli troppo spago, a me piace stare qui soprattutto perché ci trovo quella tranquillità a cui ambisco. Ha pienamente ragione, dice lui, e intanto guarda da qualche altra parte, come a volersi interessare d'altro e rispettare forse le mie esigenze e le mie letture. Io invece insisto: la confusione, il traffico, l’agitarsi continuo delle persone, mi sembrano qualcosa da cui sfuggire. E’ del tutto comprensibile, fa lui sorridendo. Però ha mai pensato che la maggior parte delle persone sono semplicemente delle vittime di quello che a lei pare un gusto, quasi un desiderio? Questo qua non lo sopporto proprio, rifletto mentre cerco una risposta. Certo, fo io, in ogni caso non c’è niente di male nel cercare un po’ di pace. E’ evidente, fa lui, però il problema è anche quello di immaginare che tutti lavorino soltanto per le proprie aspirazioni; spesso invece si subisce semplicemente la realtà che ci circonda, e non c’è altra possibilità.
Resto in silenzio, sicuramente quest’uomo è ben preparato su argomenti del genere, penso, ed io peraltro mi sono già messo sulla difensiva, come volessi proteggere una posizione individuale e basta. Meglio lasciar cadere l’argomento. Riprendo a leggere conservando un leggero sorriso sulla mia espressione, quasi un segno di superiorità rispetto a quei discorsi. L’altro sorseggia il suo aperitivo e osserva qualcosa fuori dai vetri. Infine si alza: adesso devo andare, mi dice, però mi ha fatto molto piacere parlare con lei, e contemporaneamente mi allunga il suo biglietto da visita, o meglio quello della sua organizzazione di volontariato. Io ringrazio e saluto, ma quello aggiunge che se cortesemente volessi telefonargli, lui probabilmente potrebbe presentarmi una realtà che forse al momento mi sfugge.
Se ne va, resto perplesso, ormai non ho più neanche voglia di riaprire il giornale; pago la mia consumazione ed esco anch’io poco dopo, mi vado ad immergere di nuovo nella polvere della strada cittadina. Cammino per un po’ rimuginando ancora tra me le parole di quel tizio: un tipo antipatico, penso; proprio il tipo di persona che sembra sappia tutto, parla soltanto di quello che fa, ed è pure disposto a criticarti se gli dai un po’ di spago. Bisogna rifletta meglio quando sorrido a qualcuno per compiacenza: è sempre pronta la possibilità di trovarsi davanti qualcuno del genere.  


Bruno Magnolfi

lunedì 21 luglio 2014

Nel silenzio di un giorno festivo.

            

Nell'ora torrida di questo primo pomeriggio assolato, la camera da letto, fortunatamente esposta dalla parte dei muri in ombra, rimane per tale motivo la stanza più fresca di tutta la casa, pensa lei mentre si sdraia con attenzione direttamente sopra la coperta a fiorami ben tesa. Il marito di lei prosegue ad occuparsi di qualcosa in cucina, forse sistema una mensola traballante. Non ha senso preoccuparsi di cose a lungo raggio, pensa ancora la donna, è sufficiente sapere di essere soddisfatti almeno di questa giornata, di come sono andate le cose magari durante il pranzo, o forse di quelle che sono accadute soltanto mezz'ora o un’ora prima.
E' una qualsiasi domenica, non ci sono molte cose da fare, a dire la verità, se non riposarsi, come se il riposo fosse un'attività a compendio e neutralizzazione di tutte le altre. Lei invece non riesce a dormire, a pensarci davvero non ha neppure molti motivi per cercare di prendere sonno, però ugualmente se ne sta lì con gli occhi chiusi, forse proprio per non doversi occupare di altro. Probabilmente suo marito non la raggiungerà, proseguendo ad occuparsi di qualche sciocchezza nell’altra stanza, ma se così non fosse lei è pronta subito a rimettersi in piedi e a sostenere con lui, così come è vero, che tanto non ha affatto sonno. Per la cena ho in mente di preparare del riso freddo, pensa ancora, c'è tutto il tempo che voglio, naturalmente, e magari più tardi seguirò qualche programma alla radio, forse, senza preoccuparmi di altro.
Suo marito, come previsto, infine giunge in camera, poco più tardi; apre l'armadio come a voler cercare degli abiti adatti ad uscire da casa, e smuove qualcosa stando comunque attento a non fare troppo rumore. Lei è immobile, tesa, lui dopo un po' probabilmente si volta verso la moglie ancora coricata, la guarda, lei sente quasi su di sé quello sguardo, chissà cosa mai sta pensando, riflette. Lui rimane ancora a lungo in quella posizione, ma poi finalmente si volta, torna in cucina, dopo che lei aveva già cominciato a sentirsi a disagio, tanto da decidere quasi di aprire gli occhi ed alzarsi dal letto. Non prova una vera e propria paura di suo marito, questo no; ma a volte si sente attraversare da una leggera preoccupazione. Non le farà mai del male, lei ne è più che sicura, in ogni caso durante certi giorni, proprio come sembrano questi, quando lui è silenzioso, e tiene spesso lo sguardo fisso, e i suoi gesti si fanno a tratti un po' bruschi, lei, per essere proprio sincera, non si sente del tutto tranquilla. Ho le capacità per difendermi, pensa qualche volta; poi però sorride tra sé di questi pensieri.
Alla fine si alza, va in cucina, beve un po’ d’acqua in silenzio, e accende la radio. Lui prosegue ad osservarla con sguardo severo, come non gradisse affatto quell’intrusione di musichette: lei allora abbassa il volume. Dovremo pensare qualcosa, fa lui; per domani intendo. Ma no, dice lei, non merita, vedremo al momento. Non ti importa niente di dover affrontare il nostro affittuario, e dirgli che non gli pagheremo mai l’aumento che chiede?, fa lui. Non abbiamo i soldi per dargli di più, dice lei; se insiste non gli daremo più niente, e lo cacceremo anche a pedate. Però sono sicura che non andrà neppure in questa maniera, ed allora penso sia inutile stare qui a lambiccarsi il cervello e a perderci sopra del tempo.
Forse hai ragione, dice il marito, e intanto si avvicina alla radio e la spenge del tutto. Vado fuori, le dice alla fine, così puoi ascoltare tutto quello che vuoi. A me non importa un bel niente di ascoltare la radio, fa lei; per me è sufficiente a volte rompere un po’ questo silenzio.


Bruno Magnolfi    

giovedì 17 luglio 2014

Complesse affezioni.

           

Cerco qualcosa da fare. L'appartamento pare vuoto a volte,  insulso, una scatola per topi. Giro per le stanze senza trovare pace. I miei pensieri in certi casi sembrano come recitati nella mia testa da due voci stridule che si sovrappongono dicendo però le medesime cose, e le loro parole confuse, senza conclusioni, sembrano dettarmi dei comportamenti strampalati, delle idee assurde, degli irreali modi di fare.
Apro la porta, esco sul pianerottolo: c'è fresco, e mi prende una vaga sensazione di echi di voci che paiono rincorrersi lungo le scale, quasi un prolungamento esatto dei miei pensieri. Non c'è molta luce, ma a me piace stare qui,  in questo limbo nascosto, quasi immobile. Non è molto che abito queste stanze, mi pare quasi di non conoscere nessuno del vicinato, se non in maniera talmente superficiale da risultare delle semplici sfumature di estraneità.
Sento dei rumori, si apre d’improvviso il portoncino di fronte al mio, sullo stesso piccolo pianerottolo: il solito dirimpettaio che esce sempre a quest'ora, immagino subito. Lui mi guarda mentre richiude, saluta, forse vorrebbe chiedermi qualcosa, ma non lo fa. Io invece, anche per dare un senso al mio trovarmi in questa situazione, dico subito: senta, lei probabilmente potrebbe aiutarmi; basterebbe mi dedicasse un po’ del suo tempo, sarebbe sufficiente che la sera passasse da me e mi leggesse qualcosa, per esempio, giusto per farmi compagnia, la mia solitudine spesso mi spaventa.
L’altro si ferma, mi guarda con indifferenza, ascolta tutto quello che ho da dire, poi riprende il suo passo per scendere le scale. Non ho tempo, dice; ma io questo già lo immaginavo. Aspetti, insisto, basterebbero anche cinque minuti ogni tanto forse, giusto per farmi avvertire la presenza di qualcun altro tra le mura del mio appartamento. Adesso lui neanche risponde, se ne va senza rallentare minimamente, sento il rumore dei suoi passi affrettati che escono infine all’aperto, sul marciapiede dabbasso.
Sorrido, in fondo sapevo perfettamente che sarei stato trattato così. Non che sia falso ciò che gli ho riferito, piuttosto non è lui il tipo di persona che accetterebbe mai una cosa del genere. Infine controllo di avere in tasca la chiave, chiudo la porta dietro di me e cerco di seguirlo. Lungo la strada però non c’è nessuno, e il mio vicino è gia sparito, così mi piazzo con le braccia conserte davanti al portone del condominio. Arriva una ragazza che conosco di vista, buongiorno le dico, cercando di fare un sorriso. Lei risponde sottovoce al saluto, ma neppure mi guarda. 
Risalgo, non c'è nulla da fare, sono destinato a starmene in casa circondato dal niente, così entro e mi siedo, le mani alla testa, quasi disperato. Infine torno ad aprire la porta, esco di nuovo sul pianerottolo. Qualcuno parla a voce alta nel chiuso di un appartamento del piano di sopra. Salgo, mi fermo vicino al portone da dove si sentono giungere le voci, e sto in questa posizione per un po’. Alla fine esce una donna che neppure conosco, mi guarda, chiude la porta alle sue spalle, mi chiede se per caso ho necessità di qualcosa. No, le rispondo; vorrei solo parlare con qualcuno, ma nessuno ha tempo per me. Mi dispiace, fa lei, e se ne va.
Rientro in casa, vado alla finestra, guardo la strada. Sento bussare alla porta. Apro, è il mio dirimpettaio che sta rientrando. Senza dire niente mi porge un biglietto con su scritto un indirizzo e un numero di telefono. Prenda un appuntamento con questo luminare, dice: è una grande persona, vedrà che potrà fare molto per lei. Resto stupito, guardo il foglietto, sto per ribattere che non sono ammalato, che non ho bisogno di farmaci o sedute psicanalitiche, sono semplicemente una persona che si sente un po’ sola, ma quello intanto si è già voltato verso la sua porta, la apre sorridendo: arrivederci, mi dice.


Bruno Magnolfi

sabato 12 luglio 2014

Cicatrici.

            

Non ricordo di preciso quando sia iniziato tutto quanto, dice lei al sacerdote del suo quartiere. Perché in fondo le cose si sono messe in questa maniera soltanto poco per volta, quasi senza che me ne accorgessi. Ma tuo marito si rende conto del dolore che ti arreca comportandosi in questo modo, trattandoti con questa superficialità? fa il parroco. Sono sicura che lo sa, risponde la donna, ma in questo momento è come se ormai non gli importasse più di nulla. Lui va avanti così, forse perché è deluso della sua vita, forse anche di me, della nostra vita che lui chiama monotona. Va bene, ma tu rammentagli di nuovo che vorrei parlargli, e appena può che passi da qui, a qualsiasi ora, e che è urgente, dice ancora il prete mentre si rimette velocemente in piedi. La donna prontamente si alza anche lei, lo segue subito verso l’uscita, poi lo saluta e lo ringrazia quasi con le lacrime agli occhi quando ormai è sulla soglia della canonica. Lei non ripassa neanche dalla chiesa lì accanto, va di fretta, prende velocemente la prima strada a destra, e scompare subito dalla piazzetta, per raggiungere il prima possibile casa sua.
Gira la chiave nel portoncino, entra, appoggia la borsa, si guarda attorno come per rendersi conto che tutto sia ancora al proprio posto, poi va a sedersi, quasi di getto, come avesse un’improvvisa necessità di riposo, di un repentino momento di calma, piazzandosi proprio su quella sedia intarsiata, antica e preziosa come poche ce ne sono, quella che le ha regalato suo padre già molti anni fa, il giorno stesso del suo matrimonio, proprio la stessa dove lei da piccola veniva allattata dalla mamma, e dove in seguito si sedeva con mille precauzioni quando era bambina. Adesso va a mettersi lì quasi per cercare un ulteriore consiglio, forse la saggezza che le serve per prendere qualche decisone, quelle decisioni necessarie a spianare il futuro per sé e per suo figlio adesso a scuola, pensa; ma nella fretta si appoggia sul sedile con troppa irruenza, non tratta quel cimelio con l'accortezza di sempre, e la sedia si rompe, o meglio, con un brutto e sinistro rumore produce una profonda incrinatura lungo lo schienale.
Lei rimane immobile per un attimo, le pare quasi impossibile che dopo tutti quegli anni proprio adesso, per impeto e per terribile superficialità, sia andata a provocare quel danno irreparabile, e non vorrebbe neanche rendersene conto del tutto, stenta perfino a girarsi per vedere la gravità dell’incrinatura di quel legno, e infatti resta lì, ferma, come anestetizzata, con il solo pensiero che la sua esistenza di colpo stia crollando. Passano in questa maniera alcuni minuti, infine lei si alza, si gira, e come forse doveva fare subito osserva con attenzione quello schienale rovinato. Vorrebbe ulteriormente disperarsi, piangere, forse gridare, ma sa che non servirebbe né a lei né alla sua sedia, così d’improvviso le torna a mente suo padre, la mamma, e tutti quegli anni spensierati della sua infanzia, vissuti attorno proprio a quella seggiola adesso da gettare via.
Gira la chiave nella serratura del portoncino, è suo marito che torna, lei lo guarda per un attimo come fosse quasi un estraneo, lui la saluta, capisce subito che qualcosa evidentemente non vada per il verso giusto, così le si ferma davanti, lei è ancora accanto alla sua sedia, e forse per lei dirgli adesso che cosa è appena successo sarebbe come ammettere che quanto accaduto è proprio la sacrosanta verità, così cerca di rallentare quanto può la porzione di quel tempo, e attende ancora, come imbambolata. Che è successo, dice l’uomo con un filo di voce, tradendo lo stupore di trovare la moglie in così strana apparenza, ma lei non dice niente, si volta, accarezza la ferita del legno e d’improvviso piange, adesso si, piange forte senza alcun ritegno. Lui si limita ad accarezzare la sedia proprio nel punto dove si è incrinata: con della buona colla è riparabile, le dice; non ci sono grossi problemi, ed anche se probabilmente non sarà più esattamente come prima, in fondo ciascuno di noi nasconde una cicatrice più o meno profonda, da qualche parte.


Bruno Magnolfi

sabato 5 luglio 2014

Per una volta.

            

            Esce da casa ed è ancora presto, la tuta colorata, il caschetto leggero già calzato sopra la testa, la bicicletta celeste tenuta per tutta la settimana nella rimessa, adesso al suo fianco. Il percorso, che inizia poco lontano, si snoda per parecchi chilometri lungo l’argine del grande fiume, in certi tratti attraversa  qualche centro abitato, in altri si allontana dall’acqua per passare in luoghi di aperta campagna. Ogni domenica mattina lui fa quella strada, ormai la conosce perfettamente, a menadito.
            Qualche volta ha riflettuto che potrebbe avere un malore proprio in qualche punto del tragitto dove non si incontra mai neanche un’anima, ma ha il telefono portatile con sé, e in quel caso chiamerebbe subito aiuto, darebbe l’allarme, e poi ogni altra volta, quando si è sentito stanco o affaticato, prontamente ha fatto una sosta, già diverse volte è successo, ed anche se la strada che compie forse è un po’ troppo lunga per la sua età, lui cerca, riposandosi ogni tanto, di recuperare le forze che gli servono per portare sempre a compimento tutta quanta la pedalata.
            Quando poi arriva al paesetto di Castelloro, si ferma sempre prima di tornarsene indietro, accosta la sua bicicletta al marciapiede, si siede ad un tavolino del caffè Centrale che si apre nella piazzetta, e beve qualcosa, una bibita non gassata, generalmente del tè freddo. Dopo circa un quarto d’ora riprende la sua bicicletta e se ne torna indietro. Ma in questa giornata quasi estiva forse si è un po’ distratto, forse la sua testa si è persa dietro cose leggere, e la prima pedalata con cui riprende il percorso la dà praticamente con leggerezza, con estrema noncuranza, quasi senza preoccuparsi di nulla, come se quella strada asfaltata fosse deserta, lasciata a suo uso esclusivo.
            Alla guida dell’automobile c’è un giovane, e forse non nota neanche il ciclista di una certa età che lentamente gli taglia la strada. La sua macchina va avanti, i pensieri del giovane sono tutti rivolti ad una ragazza con la quale dovrebbe uscire nel pomeriggio, ed il resto è qualcosa che quasi non lo riguarda, non ha neppure troppo a che fare con tutte le idee che gli passano dentro alla testa.
            Sono momenti, piccole frazioni di tempo mal scomponibili, ed il ciclista ad un tratto vede quell’auto sbucare davanti a sé, si rende conto con immediatezza che lui si sta trovando al centro di quella strada, e che l’attenzione dell’autista del mezzo è assorbita da qualcosa che lo fa andare avanti quasi per inerzia, come avesse la vista momentaneamente oscurata, ed ormai lui non potesse più fare un bel  niente, e se anche ne avesse il tempo e si mettesse a pensarci, non riuscirebbe neppure a decidere cosa sarebbe da sostituire in quella breve collana di attimi.
            La macchina avanza noncurante di tutto, il ciclista frena la sua bicicletta appuntando il suo sguardo atterrito oltre al parabrezza, nell’espressione indifferente di chi sta guidando quell’auto, proprio sopra la faccia di quel ragazzo così disattento, e forse pensa che ci dovrebbe essere per forza ancora il tempo per gridargli qualcosa, per attirare quell’attenzione che sembra proprio mancare, ma ormai è tutto inutile, ormai tutte le cose paiono inevitabilmente già compromesse.
            Invece quell’auto ormai a pochi metri da lui frena esattamente in quell’ultimo attimo, ed anche se lo travolge ugualmente, lo fa con una certa leggerezza; lo fa cadere, questo è vero, ma senza particolare violenza, quasi come se d’improvviso tutto avvenisse in un modo estremamente più umano di quanto sarebbe stato possibile. L’uomo prontamente si rialza, in fondo non si è fatto niente, non avverte neppure particolari dolori, il ragazzo invece scende dall’auto tremante e lo aiuta a rimettersi in piedi. E’ andata bene, si dicono ambedue sorridendo, e si stringono la mano, si scusano reciprocamente, si abbracciano quasi: per questa volta dicono, possiamo ancora essere contenti.


            Bruno Magnolfi  

martedì 1 luglio 2014

Con Lucia

            
            E’ un giorno qualsiasi, uno di quelli che non lascia riportata, sopra al calendario attaccato alla parete di cucina, neppure una nota frettolosa, neanche un segno qualsiasi di spunta. Eppure, all’improvviso, qualcosa nell’andamento normale della sua vita è cambiato, e Lucia esce di casa da sola, cammina in fretta fino alla stazione ferroviaria, legge tutti i tabelloni che riportano orari e destinazioni, poi sale sul primo treno che passa e se ne va via.
            In quella mattina i suoi figli sono a scuola, ma sono già grandicelli, all’uscita torneranno a casa da soli, pensa, per loro ha lasciato la porta socchiusa; suo marito invece è al lavoro, come quasi sempre. Dall’ultima volta che lui l’ha picchiata non sono trascorsi molti giorni, ma lei da quel momento ha vissuto come in una campana di vetro, inarrivabile, restando spesso in silenzio. Adesso Lucia sa che deve fare così, non ha alternative.
            I bambini telefoneranno al loro padre, diranno che sono da soli, che la mamma non c’è. Qualcosa inizierà a muoversi, i vicini si incuriosiranno, verranno spese chiacchiere e telefonate, che in fondo si riveleranno del tutto inutili. Lucia, in un’altra città, utilizzerà tutto il tempo che serve, ma saranno sufficienti probabilmente appena pochi giorni, una settimana al massimo, poi prenderà una decisione sulla quale non tornerà più.
            Si è spinta in avanti, forse persino troppo, ma non ha importanza adesso, doveva fare così e così sta facendo. Non c’è nessuno ad attenderla, la sua fuga solitaria forse è persino puerile, quasi una sciocchezza, eppure di tutte quante nella sua esistenza è molto probabilmente la cosa più importante che sta mettendo in atto, il segno indicatore di qualcosa che è già profondamente cambiato dentro di lei, che mette in mostra così una persona diversa, e che è solo all’inizio di un altro tratto della sua vita che non sarà mai più come prima.
            Camminerà per le strade, si siederà in qualche caffè, prenderà una camera in un alberghetto dove non chiedono i documenti, poi, alla fine di tutto, andrà in una caserma dei carabinieri per dire, davanti ad un maresciallo, tutto quello che non riesce più a sopportare. Sicuramente la convinceranno a ritornare, ma lei aspetterà ancora, e quella denuncia intanto avrà un suo seguito, qualcosa si metterà in moto. Infine Lucia, come è giusto, tornerà a casa, nella stessa esatta maniera di come è partita, ma lo farà soltanto per amore dei propri figli.
Della sua vicenda parleranno tutti, ma la sua storia non sarà degna neppure di un articoletto di cronaca: una vicenda comune, senza significato, per la quale è inutile perfino sprecare delle parole stampate. Eppure Lucia darà una svolta importante alle cose, anche per gli altri che ne hanno soltanto parlato, indicando a tutti che lei si sente ancora una persona, adesso forse anche migliore di prima, e che il suo amor proprio non poteva permettere ulteriormente quel silenzio colpevole che molti avrebbero forse desiderato.

Bruno Magnolfi