giovedì 28 febbraio 2013

Legame col paese.




            

            Lascialo fare, è un contaminato, aveva detto il miliziano ad un uomo del popolo, indicando il corpo sdraiato la cui pelle stava velocemente scurendo. Le grandi ruspe di Stato continuavano intorno a manovrare con enorme stridio di cingoli, spianando le macerie delle case accumulatesi quasi in piccole colline, specialmente in quegli ultimi tempi, quando erano stati più massicci i bombardamenti della notte, spandendo il materiale cementizio su un enorme raggio di territorio, e andando a costituire un suolo uniforme e compattato, dove probabilmente non sarebbe più cresciuto nulla per decine d’anni, a meno che qualcuno in seguito non avesse deciso di rimuovere tutta quella polvere e quella massa immensa di calcinacci e di materiali inerti.
            Alcuni uomini del popolo vagavano da quelle parti senza una meta precisa, forse ricordando una strada in quei paraggi, o una casa, o chissà cos’altro nei dintorni di quell’attuale nulla assoluto. Un uomo spiegava ad un altro con soddisfazione di avere imparato a dormire sopra la sua spalla destra nel giaciglio, in maniera da avere sempre davanti a sé la maschera antigas di dotazione, nel caso si fosse avvicinato durante la notte qualcuno dei contaminati. Non c’era niente di male nel mettere in campo tutte le precauzioni possibili, questa era la logica, ed anche se ogni giorno i contaminati venivano caricati su appositi autocarri attrezzati e trasportati in tutta fretta in lontani luoghi di raccolta, ugualmente ogni notte ne uscivano fuori sempre dei nuovi.
            Lui in fondo si sentiva indifferente a tutto questo: se ne sarebbe andato uno di quei giorni, questo era il punto, e avrebbe raggiunto qualche parte così lontana da lì che di quegli argomenti non ne avrebbe più saputo niente. Per il momento continuava a girare nel quartiere per farsi un’idea completa di tutte le cose, per il resto si sentiva pronto, non gli pareva neanche più di far parte di un vero territorio, di un paese, una città. Anche se molte parti di quella zona erano ancora in piedi e in qualche modo funzionavano, ugualmente ogni profilo di luogo vivibile là attorno aveva perso secondo lui di credibilità, di efficacia, come ne fosse rimasta soltanto un’ombra immateriale, che se anche cercava di portare avanti le cose di sempre, pareva adesso soltanto un elemento assurdo, quasi ridicolo.
            Andarsene da lì, pensava lui per tutto il giorno, anche a rischio di trovare le stesse cose da ogni parte, perché nessuno da due anni forniva informazioni, non si sapeva cosa fosse successo in altri luoghi, e con l’esaurimento finale dei carburanti non c’era stata più una sola persona a tentare di muoversi a piedi. Ma lui si, lui lo avrebbe fatto, anzi gli pareva l’unica cosa vera da fare, il solo mezzo per scoprire cos’era successo anche in altre zone. Aveva una bussola, una penna, della carta, un paio di scarpe di ricambio, e gli pareva ormai che i tempi fossero maturi.
            Aveva raccolto tutte le informazioni che riteneva necessarie, e se anche avesse trovato sulla strada qualche miliziano poco amichevole, nessuno di loro di fatto lo avrebbe fermato veramente, convinti com’erano tutti della morte certa oltre le colline. All’alba perciò aveva sistemato la sua roba e si era appena disposto alla marcia, quando aveva messo male un piede sopra un pezzo di cemento. Era anche caduto a terra, e la caviglia gli si era subito gonfiata: distorsione, diceva la sua esperienza, la cosa più stupida che poteva accadergli. Si era steccato il piede con due tavolette di legno legate strette tra di loro, aveva strinto i denti e infine si era ugualmente incamminato, pur zoppicando vistosamente. Basta, pensava osservando quei fantasmi che vagavano ancora in mezzo alle macerie, non avrebbe resistito più neppure un’ora in quel luogo che lasciava; in fondo, rifletteva, da quelle parti lui c’era solamente nato, come tanti ci aveva vissuto tutta la sua vita fino a quel momento, ma poi, oltre queste cose, praticamente non ce n’erano neppure altre che lo legassero veramente ancora lì. Tanto valeva lasciarle indietro tutte per dimenticarsele.

            Bruno Magnolfi
            

lunedì 25 febbraio 2013

Mosche morte.


            
            Già da un po’ di tempo avevo deciso di non morire. Troppe cose interessanti ci sono nel mondo, pensavo, troppe curiosità che ho bisogno ancora di togliere dai miei pensieri, non posso lasciare che una cosa così stupida eviti il compimento dei miei percorsi. Ma poi qualcuno degli altri con i quali siamo rinchiusi qua dentro, mi ha fatto capire che probabilmente non usciremo mai più da questa clinica, ed io anche se non ci ho creduto, poco per volta, senza affannarmi, ho cominciato a cambiare la mia idea.
            La cosa che non sopporto di questo posto, è che ci sono le mosche. Gli infermieri mi fanno tre iniezioni ogni giorno, per farmi stare tranquillo, mi dicono. Ed io dormo bene, sono contento, specialmente la notte. Ma quando mi sveglio al mattino ecco che avverto subito il ronzio tipico della mosca che avanza verso di me. Mi copro la faccia con tutto il lenzuolo, ma c’è poco da fare.
            Gli infermieri non sono cattivi, svolgono soltanto il loro mestiere, penso, però sembra proprio che a loro le mosche non diano neanche noia, come non ci fossero neppure. Perché non parli, mi chiedono quasi ogni giorno, ma io continuo a mugugnare qualcosa tra me e basta, che senso avrebbero le mie parole nello spiegare a questa gente la mia decisione di lasciarmi alla morte? Passeggio nel corridoio, e le mosche sono lì, che si scaldano al sole vicino alla vetrata. A volte mi chiedo come abbiano fatto ad entrare, visto che ci sono delle inferriate robuste alle finestre, ma poi lascio perdere, troppe domande non serviranno mai a niente.
            Adesso non so quando riuscirò a morire veramente, penso, considerato che comunque mi sento ben convinto di ciò che ho deciso, però credo che quando uno rinuncia a qualcosa, è normale poi che ci voglia del tempo prima che le cose si mettano in pari. Ma intanto queste mosche non si risparmiano, e volano, ronzano, sembra non abbiano altro da fare. Io ho trovato un giornale, l’ho arrotolato e penso che potrei utilizzarlo per scacciarle.
            L’infermiere mi sistema nel letto, mi fa l’iniezione come sempre, guarda il giornale che mi sono messo accanto e mi chiede se abbia voglia di leggere prima di prendere sonno. Può darsi, penso senza rispondere niente, ma l’infermiere credo capisca ugualmente anche se non ho detto nulla, difatti sorride e va via, ad occuparsi degli altri. Poi mi addormento.
            Quando mi sveglio sento le mosche che ronzano, allungo una mano, prendo il giornale e subito ne schiaccio una contro il muro accanto al mio letto, poi un’altra sulla coperta, e vado avanti, ormai non posso più fermare il mio impeto. Arriva l’infermiere, io mi agito ormai in piedi sul letto, ho deciso di morire, gli dico ridendo e a voce alta, voglio fare la stessa fine di queste mosche. L’infermiere mi prende per le spalle, mi sistema seduto sul letto, mi racconta qualcosa che non capisco, ma lo fa con voce garbata, come raccontasse una favola, e a me pare quasi che quelle mosche schiacciate, che adesso non infastidiscono più, all’improvviso riprendano vita, e volino via, tutte insieme, a curiosare fuori da qui, tra le cose del mondo, e in un attimo, in contraddizione evidente con quanto pensavo fino adesso, ne sono perfino contento.

            Bruno Magnolfi

venerdì 22 febbraio 2013

Quasi un pensiero politico.


           

            Sono qui da solo, sto fermo sul marciapiede nella stazione delle corriere, e penso, tanto per far passare un po’ il tempo, che la libertà consista semplicemente nell’esprimere il disaccordo con gli altri. Ci rifletto, rimugino queste parole, poi me ne sento convinto, senza altro da aggiungere.
            E’ sufficiente dire di no nel bel mezzo di una chiacchierata qualsiasi, immagino, e tutto d’improvviso diventa possibile, quasi l’apertura di un nuovo varco in un muro altrimenti invalicabile. Mi sento bene quando riesco a stare così, così libero intendo, senza preoccuparmi neppure per un attimo delle buone maniere, delle convenzioni, della facile ironia, e via dicendo. Sono convinto delle mie idee, indubbiamente certe cose stanno sotto gli occhi di tutti, ma difficilmente qualcuno si accorge della loro presenza.
            In questo luogo dove mi trovo, per esempio, ci sono diverse persone dalle facce anche troppo serie e compite, gente che molto probabilmente crede di essere nel giusto, ed è disposta ad essere d’accordo con chiunque si avvicini a loro e dica qualcosa di un argomento di cui conoscono poco, ma del quale hanno sentore, oppure ne coltivano una vaga opinione. Basta dire che la macchina che aspettano la maggior parte delle volte è in ritardo, per esempio; oppure che i viaggiatori in questa città sono  trattati sempre in maniera peggiore di quanto ci si possa aspettare, e così via.
            Mi muovo, mi avvicino ad una signora elegante con collo di pelliccia e borsetta, le dico subito che non va bene questo modo di attendere la propria corriera. Lei mi guarda con aria interrogativa, io la lascio stare un momento. Poi dico che ci vorrebbe una bella stanza riscaldata con tanto di poltroncine morbide e comode per far attendere persone come lei, è assolutamente fuori di dubbio. La signora mi guarda ancora, leggermente fa segno di si con la testa, poi dice: ha perfettamente ragione.
            E invece no, rispondo io con modi più duri; non si può affatto essere d’accordo su una cosa del genere. Quanto ci costerebbe tutta l’operazione? I biglietti indubbiamente sarebbero più cari, molta più gente verrebbe ad usufruire delle poltroncine e delle comodità, magari anche senza averne diritto. La signora non sa che pensare, però continua a guardarmi. Lei non capisce, le dico, queste sono cose che non si possono neppure pensare.
            Un uomo si accosta, considerato che ho alzato la voce sulle ultime parole che ho detto, mi chiede se ci sia qualche problema. Certo, gli dico, molti problemi. Le pare che una persona come me possa perdere del tempo con lei solo per spiegarle il mio punto di vista? Lei è uno sfacciato, gli faccio, uno per cui le parole non contano niente, tanto vale buttarle così, senza neppure pensarle.
            Poi getto un’occhiata intorno a quel marciapiede: da lontano si sta avvicinando una corriera, in diversi si fanno avanti per riuscire a salire per primi, qualcuno continua a guardarmi. Vorrei urlare qualcosa, spiegare con tre parole soltanto che non sono d’accordo con loro, qualsiasi cosa abbiano in mente di dire, ma infine lascio che tutti si accalchino allo sportello della macchina calda e polverosa che adesso si è fermata col motore ronzante in questa stazione.
            Così ficco di nuovo le mani dentro alle tasche e me ne vado per i fatti miei: non mi rivedranno facilmente, penso con convinzione: è tutta gente questa che non riesce neppure a mostrare una vera opinione, tanto vale evitarle queste persone, fingere che neppure siano mai esistite, tirare avanti con le proprie idee e lasciar perdere il resto.

            Bruno Magnolfi

mercoledì 20 febbraio 2013

Compiutezza.


            La stanza è la stessa di sempre, Corrado ancora sdraiato continua ad osservare le piccole crepe che con il tempo si sono formate in mezzo all’intonaco, imbruttendo ancora di più il già orrendo bianco ingiallito della tempera vecchia sulle pareti. Lei poco prima si è spogliata, di fretta, forse anche troppo, e Corrado, da un punto di osservazione completamente distaccato da sé, ha guardato la scena con una certa riprovazione, non tanto per ciò che subito dopo è accaduto, quanto per il vago squallore di cui si è sentito partecipe.
            Il sole caldo e piacevole del primo pomeriggio entra dalla finestra filtrato dalle tende verdine, e tutto sembra la messinscena perfetta per qualcosa di importante che nei suoi pensieri è come se ancora debba accadere, nonostante il fatto che nella realtà tutto sia stato già consumato. Improvvisamente Corrado guarda la donna, sente l’impulso forte di farle del male, forse di strangolarla, di stringerle la gola fino a vedere la sua faccia paonazza e insopportabile cercare di urlare qualcosa senza averne minimamente la capacità, ma non fa niente.
            A poco importa pensare che si conoscono da tanto tempo, che giornate come quella che stanno trascorrendo in quella camera ce ne sono state moltissime altre; la cosa fondamentale è il coraggio che serve affinché quel pomeriggio per loro sia l’ultimo. Non il coraggio di un gesto importante, quanto il piccolo impegno in qualcosa che continuano ambedue a rimandare, accarezzando l’abitudine come una vecchia gatta egoista, alla quale per indolenza è difficile rispondere male o per niente.
            Le parole da trovare poi, anche soltanto per sortire da quel momento intimo di progressivo distacco, si dimostrano sempre più ostiche ad uscire dalle loro bocche, incapaci come sono di veicolare la benché minima onesta riflessione su quello che perdurano ad essere, in quel vedersi senza futuro, incontrarsi senza riuscire a scambiarsi quasi più niente.
            Corrado si sente vecchio, ormai lontano anche da qualsiasi passione. Lei subito dopo si vergogna addirittura della sua nudità: insieme sono soltanto due poveri sciocchi senza argomenti. Infine si ricompongono, tornano in fretta ad indossare i loro vestiti, poi si avvicinano alla porta di uscita: devono salutarsi, come sempre fanno a quel punto, un bacio frettoloso e qualche ragguaglio su come rivedersi e quando risentirsi, ma c’è un attimo improvviso che cambia qualcosa in quel rito. Corrado l’abbraccia, non sa per quale motivo, però sente che deve fare così, lei se lo stringe a sé quasi sentisse perfettamente che quella è l’ultima volta, e infine, senza neppure tornare a guardarlo, lo spinge leggermente, fino a farlo uscire sul pianerottolo, e subito, pur lentamente, richiude la porta sulla sua faccia sorpresa, senza neppure una sola parola, anche se d’improvviso sa perfettamente che tutto adesso è assolutamente compiuto.  

            Bruno Magnolfi

lunedì 18 febbraio 2013

Dissolvimento di tracce.


            

            Lui e Giorgio camminano come sempre. Giorgio sostiene che non conosce i pensieri degli altri che incontra ogni giorno, anche se a volte cerca di farsene un’idea e di parlarne, però ricorda piuttosto bene quello che qualche volta gli viene riferito, le cose che normalmente gli vengono dette. Lui lo osserva in silenzio, forse non è convinto di queste affermazioni, gli pare assurdo non farsi un’idea più precisa di questi argomenti, però lascia correre. Prendono lungo il viale con la voglia di andare a sedersi al solito caffè e starsene lì per una buona mezz’ora, forse anche di più, visto che al momento non hanno niente di importante di cui occuparsi, e così in questa maniera continuano a parlare tra loro.
            Giorgio spiega ulteriormente come certe volte tutto gli appaia come una grande assurdità, e insiste dicendo che gli viene persino da ridere nel vedere quanto certe persone riescano a prendere sul serio qualsiasi argomento. Muove le mani mentre dice le cose, anche se non si sente particolarmente a suo agio, forse perché vorrebbe dire di più delle sue stesse parole, probabilmente gli piacerebbe anche spiegarsi in maniera maggiormente dettagliata, ma sa che in fondo tutto questo non gli è possibile, è la sua stessa natura che glielo nega, e in qualche maniera, proprio per questo motivo, prova anche in quello stesso momento un leggero disagio.
            Giungono infine davanti al locale, entrano e si siedono ad un tavolino. Se penso che ogni persona resta perlopiù indifferente nei confronti degli individui da cui è circondata, dice Giorgio, mi pare che il mondo sia solo una grande assurdità, anche se poi sono io stesso che non mi comporto in maniera molto dissimile da tutti gli altri. Però credo che sia come se la struttura delle cose ti ponesse normalmente in condizione di non riuscire ad essere diverso, quasi che la tua volontà riesca ad essere determinata da elementi che non entrano mai nel gioco generale, pur restando i fondamentali di tutto quanto, la base dello stesso sistema.
            Lui lo guarda senza dire niente, restando sostanzialmente in disaccordo, però ordina due birre piccole al cameriere, e forse avrebbe voglia di parlare di cose meno faticose, e anche di lasciar perdere quegli argomenti che sa perfettamente non porteranno da alcuna parte, né adesso e né in seguito. Giorgio capisce da quel silenzio il punto di vista dell’altro, e così lo guarda rivolgendogli un leggero e ironico sorriso. Bevono, e fingono per un attimo di stare sul medesimo versante, come se ci fosse una scelta vera e univoca al fondo dei loro modi di essere.
            Poi arriva Costanza, saluta i due appena sussurrando, lui la invita a sedersi, lei si schernisce, dice che ha fretta, consegna a Giorgio un piccolo foglio piegato a metà e poi esce, lasciando nell’aria un leggero saluto con la mano, e nient’altro. E’ soltanto il nome di un nuovo editore che vorrei contattare, dice Giorgio aprendo il foglietto, niente di particolare. In un attimo però sembra che tutto quanto sia pronto a cambiare, perfino l’aria stessa dentro al locale. Lui si alza dalla sua sedia guardando qualcosa avanti a sé, l’altro lo osserva, dice: se vuoi che andiamo, non c’è problema. Poi pensa meglio alle sue parole, si ritrova a guardare anche lui il medesimo punto insignificante, e infine aggiunge: siamo niente; appena usciti da qui la polvere coprirà il nostro passaggio, la nostra piccola dannazione quotidiana è destinata a svanire un attimo dopo che ce ne siamo occupati.
            Nessuno dei due, se ci pensano, saprebbe dire chi ha pronunciato davvero queste parole, però pagano in silenzio la bevuta, escono dal locale, tornano indietro, lungo il viale, ed avvertono di nuovo i dubbi di sempre che continuano a ronzare nell’aria, come inutili parole gonfie soltanto di vapore caldo che esala, senza lasciare davvero alcun tipo di traccia.

            Bruno Magnolfi    

giovedì 14 febbraio 2013

Punto d'arrivo.



            Probabilmente, anche tra un anno o due, sarò il medesimo che sono oggi, diceva Alberto con fare leggermente divertito, mentre spiluzzicava qualcosa nel suo piatto, seduto davanti a lei ad un tavolo per due, nel suo ristorante preferito. Andava quasi sempre lì, Alberto, quando voleva fare colpo su una sua nuova spasimante, vera o presunta, ed il cameriere, d’accordo con lui, proseguiva in quei casi a dargli del lei, trattandolo come un cliente di riguardo, fino a che tutto in genere scivolava via perfettamente, in pratica come da copione.  A lui piaceva parlare del suo futuro in certi termini, era sicuro di fare sempre colpo, e fingere una grande modestia e altrettanta sicurezza di sé gli pareva la sua arma migliore, fino a sfoderare una grande capacità nello stabilire perfettamente le proprie aspirazioni, come uno che in genere non si attende mai grandi cose dalla propria vita, anche se è disposto indubbiamente ad accettare qualsiasi buona opportunità.
            Ma la ragazza di turno quella sera sembrava come se conoscesse già quelle parole, quei modi di spiegarsi, di fraseggiare, quelle espressioni così condite di apparenza e non prive di chiare e differenti aspettative: aveva assunto quasi da subito un leggero sorriso sopra la sua faccia, quasi una maschera dolce e permissiva, e mantenendo un’espressione quasi indefinita lasciava raccontarsi tutto quello che la serata di Alberto prevedeva, quasi per una sorta di rispetto verso di lui, probabilmente però non affiancato da altrettanto interesse.
            Così lui dopo alcune schermaglie durante le quali si era reso conto di non riuscire ad incantare facilmente la ragazza, aveva cercato di catturare ulteriormente quella sua espressione vagamente distante che osservava dall’altro lato del tavolo, disposto come si sentiva, in termini ancora più stuzzicanti ed ingegnosi, di parlare ancora di se stesso, delle sue idee, delle sue giornate vuote ma piene di promesse. Infine però aveva iniziato a comprendere che lei non era affatto una delle solite ragazze con le quali si riusciva ad imbrogliare facilmente tratteggiando piccoli elementi finti della propria personalità, o semplicemente elaborando qualche discorso ben inanellato.
            Lo lasciava parlare, questo era l’unico dato certo, ma non per questo pareva credere neppure per un attimo qualcosa di ciò che lui proseguiva a sostenere. Poi lei aveva guardato con interesse qualcuno o qualcosa da un’altra parte del locale, e questo era stato sufficiente a spegnere del tutto l’entusiasmo in Alberto, o almeno a delineare d’improvviso una battuta d’arresto alla sua conversazione generalmente sciolta. Lui così aveva bevuto un piccolo sorso di vino, l’aveva guardata dritta cercando un rinnovato interesse, e aveva atteso che fosse lei a fare l’ulteriore mossa, chiedendosi chi fosse mai veramente la persona che si era ritrovato di fronte quella sera.
            Un uomo, avvicinatosi senza accostarsi, passando aveva salutato la ragazza con un leggero gesto della mano, e lei gli aveva sorriso con garbo, poi tutto era parso per un attimo perdere completamente di qualsiasi senso. Lei ed Alberto avevano proseguito a mangiare in silenzio ancora per tre o quattro minuti, poi la ragazza aveva detto: ci sono cose sulle quali è bene non essere mai così certi; sono d’accordo, dobbiamo scavare con impegno alla ricerca della propria vera indole, e non dobbiamo mai chiudere la porta alle possibilità. Mi piace il tuo modo di essere, anche se è evidente che non staremo mai dalla stessa parte. E’ bello essere qui a scambiarsi i propri pensieri, per me è quasi uno scoprire qualcosa che non ho mai conosciuto. Non ha importanza se tra noi due non accadrà mai niente: siamo persone, soprattutto, e stare insieme a cercare di dimostrarlo, secondo il mio parere, è già un grande punto d’arrivo.

            Bruno Magnolfi     

domenica 10 febbraio 2013

Un'altra strada.


            

            Che importa queste giornate identiche, questa sensazione di ripetere continuamente gli stessi gesti, continuare a dire le medesime parole: saranno anni di scarto questi, preparatori a qualcosa che dovrà pur manifestarsi prima o dopo, come un compendio ed insieme una rivalsa di tutto ciò che è stato. Lei stava seduta sul suo autobus, lasciando scorrere le fermate, con il suo carico di gente che saliva e che scendeva, ogni volta quasi con sollievo, come se quelle soste, con il loro progredire, l’implacabile susseguirsi, servissero soltanto ad avvicinare il momento giusto, qualsiasi fosse, anche soltanto il suo punto di arrivo.
            Pensava adesso ad alcune persone che aveva visto nei pressi della stazione ferroviaria, quando aveva transitato là davanti, gente senza fissa dimora, che passava la notte in qualche angolo, a dormire sotto un cartone o chissà come, ed adesso si ritrovava immersa in quell’aria fredda e polverosa del mattino, a bere un semplice caffè di fronte ad una fila di macchine automatiche, gustandosi persino il caldo del bicchierino usa e getta tra le mani.
            Sarebbe stato tutto da annullare, pensava; niente di questo sacrificio aveva senso, se non quell’esperienza passeggera di cose brutte e tristi, da non ripetere mai più, come se tutto nella vita dovesse essere da ora in avanti soltanto un lento ma inesorabile miglioramento. E invece le cose parevano in una condizione di perenne stallo, ed ogni sforzo non portava mai niente di ciò che si era legittimamente potuto attendersi. 
            Infine era scesa dal mezzo pubblico, ed il silenzio ovattato della strada poco transitata, senza quel rumore sferragliante che le aveva riempito le orecchie fino adesso, le era parso la prova chiara del fatto che la solitudine avesse ancora un proprio fascino, e che valesse la pena andare avanti lungo le intenzioni in cui lei si era impegnata già da molto tempo. Cosa importa non avere niente, pensava ancora. Vorrei piangere ed urlare ad ogni attimo, è normale; prendermela con qualcuno che neppure conosco, forse; e invece no: lascio scorrere le cose, ammetto con leggerezza che poco per volta, senza neanche accorgersene, tutto diventa un’abitudine, e che non può pesare nulla ciò che nessuno riesce neppure a farci notare, come se tutto quello che siamo capaci d’essere avesse comunque una spiegazione accettabile, e questo basti.
            Un uomo sostava davanti al portone verde dove stavano, al terzo piano, le sue due stanze dove lei abitava e che con grande sacrificio aveva in affitto, come ad attendere proprio lei e nessun altro. L’aveva vista avvicinarsi, si era mosso, lei però non lo conosceva; l’aveva notato fare un gesto con la mano, come a rassicurarsi di avere ancora nella tasca un documento che probabilmente doveva consegnarle, lo sfratto dall’appartamento, pensava lei, o qualche altro guaio insorto vigliaccamente alle sue spalle. Con questa impressione aveva già rallentato l’andatura, aveva visto ancora l’uomo muoversi nervosamente, ma senza più guardarla, e lei si era fermata come a cercare le chiavi dentro la sua borsa, forse semplicemente per concedersi soltanto un po’ di tempo.
            Le era venuto quasi da piangere, almeno per un attimo, senza ancora sapere niente di ciò che l’attendeva, ma con coraggio aveva saputo resistere all’angoscia che pareva prenderla in modo spietato e inevitabile, e in uno spunto di orgoglio aveva soltanto dato un’occhiata generale a tutto quel tratto di strada, come a cercare una via d’uscita, qualsiasi fosse. Poi aveva voltato con decisione in una via lì accanto, senza guardare niente in giro, allontanandosi con tutta la fretta che in quel momento era stata capace di trovare nelle gambe, cercando solo di pensare ad altro.

            Bruno Magnolfi  

giovedì 7 febbraio 2013

Senza ragione.


           

            Mi sono messo seduto da solo nella saletta del bar, come al solito a quest’ora, ad attendere l’arrivo degli altri ragazzi per la partita alle carte come ogni pomeriggio. Mi piace arrivare per primo qua dentro, mi sembra di poter dominare in qualche maniera i tavoli da gioco, ambientarmi nel locale per quanto possibile, e insomma stare maggiormente a mio agio. Il barista mi conosce, come arrivo mi serve la solita birra e mi lancia qualche battuta, poi lascia che io me ne stia per conto proprio a sfogliare qualche giornale sportivo.
            Così poco dopo arriva un tipo mai visto prima, e mi fa: sei tu che dici in giro su di me delle cose inventate? Io faccio di no con la testa, non ho mai visto prima quel tizio, non è mia abitudine dire cose false. Ma lui non si da affatto per vinto, e insiste: devi smetterla bello, dice con decisione, altrimenti sarà un grosso guaio per te. Io non so che dirgli, mi scappa quasi da ridere per quella situazione ridicola, ma riesco fortunatamente a restare serio e in silenzio.
            Quello continua a guardarmi fisso, si abbassa su di me e mi dà dei colpetti sul petto con la punta delle sue grosse dita. Non sono quello che credi, fa, posso dimostrartelo in qualsiasi momento. Non ho mai avuto problemi di alcun genere, non posso certo lasciare adesso che una mezza cartuccia come te mi faccia montare su il nervosismo. Perciò piantala, altrimenti ti succede qualcosa di brutto. Poi si gira ed esce dalla saletta. Incrocio lo sguardo con il barista che sta sistemando tazze e bicchieri senza preoccuparsi di altro, io mi muovo sulla mia sedia e cerco di pensare a qualcosa che possa aver relazione con il tizio che se n’è appena andato, quando quello ecco che torna. Credo abbia sbagliato persona, penso, ma non so come dirglielo, anzi, siccome è la scusa più stupida che si sia mai sentito, evito del tutto di spiegarmi con una cosa del genere.
            Adesso lui non dice più niente, però si piazza lì, da una parte, come volesse spiare i miei comportamenti. Cerco di fingere indifferenza, ma non è facile, e i ragazzi delle carte sembra che oggi non ne vogliano proprio sapere di venire a giocare su questi tavoli. Allora finisco l’ultimo sorso di birra, mi alzo con calma e vado verso il bancone, dove appoggio il bicchiere ormai vuoto. Ne vuoi un’altra, dice il barista. Faccio di no con la testa, ma sento che il tipo mi osserva, così non riesco neppure ad essere naturale, anche se non so cosa fare, oltre a starmene lì a guardare qualcosa nel vuoto come un idiota.
            Quello si muove, mi passa vicino, si fa preparare un caffè e intanto mi osserva la nuca. Ho visto di sfuggita che ha lo sguardo ancora più cattivo di prima, ed ho paura che voglia fare qualcosa, così prego dentro di me che arrivi qualcuno per togliermi da quell’imbarazzo. Il barista serve il caffè e si disinteressa di tutto, tanto da andare a prendere dello zucchero nel magazzino sul retro. Penso qualcosa, ma non sono convinto di niente. Alla fine mi giro, guardo dritto il mio uomo, ma quello mi evita, si sposta con indifferenza su e giù, poi fa un gesto col braccio, come a voler cancellare la mia presenza dal suo campo visivo.
            Mi muovo, vado verso la porta per vedere se stanno arrivando i ragazzi, e all’improvviso sento una botta alla spalla sinistra. Mi volto di scatto, il tizio mi ha colpito con qualcosa che tiene dentro una mano, poi mi scansa con una certa violenza ed esce prima di me dal locale, come avesse una fretta improvvisa. Giunge uno dei ragazzi per giocare alle carte, mi vede pallido, con l’espressione di chi non ci capisce un bel niente. Non preoccuparti, mi dice; le cose in qualche maniera si sistemeranno.

            Bruno Magnolfi 

martedì 5 febbraio 2013

Ricerca di normalità.


           

            Il ragazzino è come tutti gli altri, dicono in paese. Poi però ti spiegano che se lo piazzi lì, in una stanza oscurata, e lasci che lui si concentri circondato dalle persone giuste, ecco che  all’improvviso inizia a dire delle cose che non si sono mai sentite. Come se parlasse qualcun altro al posto suo, e lui prestasse soltanto la sua voce. Storie vecchie, per la maggior parte delle volte, cose antiche, roba che nessuno conosce o si ricorda, e che sicuramente neppure lui può conoscere, ma che invece quel ragazzo sembra proprio di sapere, dicendole con chiarezza anche se con frasi contorte, spiegandosi però come se le sue parole uscissero da un’altra fonte, arrivassero da un’altra persona; lui rivela tutto come se non fosse lui a parlare, e questo succede proprio nello stesso momento in cui invece se ne rimane lì, tranquillo, a raccontare in mezzo agli altri verità stranissime, addirittura con una evidente indifferenza verso ciò che spiega e anche verso tutto il resto.
            Lo incontri per strada e naturalmente ti volti ad osservarlo: è soltanto un ragazzino, pensi, eppure sembra che abbia una luce strana che lo illumina, un’espressione sul viso che non hai mai visto, qualcosa che te lo fa sentire subito distante, differente da tutti gli altri. Ci pensi ed avresti voglia di schiacciarlo, di eliminare la sua presenza da qui, di toglierlo di torno, e che non abbia più a posare il suo sguardo di indifferenza su di noi. Lo vedi e sai perfettamente che non è uno come tutti, anche se non sai dire da che cosa dipende questo tuo giudizio, perché non c’è niente che non vada, almeno in apparenza, solo che non è uno di noi, e questo lo capisci subito.
            Però c’è anche un’altra cosa, in paese lo sanno quasi tutti: tu stai lì, certe volte, magari a bere un bicchierino al banco nello stesso locale dove per combinazione si trova anche lui; o all’ufficio postale, per esempio, in coda come gli altri, o in un negozio a comprare qualche cosa; lo vedi lì, fermo, e all’improvviso ti senti caldo addosso, un caldo da scoppiare, oppure provi un grande freddo, con dei brividi quasi innaturali. Ti sembra tutto assurdo, cerchi di scrollarti di dosso quelle sensazioni, ma non c’è niente di strano quando c’è di mezzo quell’assurdo ragazzino. E’ lui, semplicemente con la sua presenza, che sta alterando tutte le tue percezioni, e tu non puoi proprio fare niente, se non startene lì a subire quella sua influenza negativa.
            Lo guardi, e lui è immobile, con un’espressione sempre identica sopra la sua faccia, quasi come se sorridesse dentro di sé per quello che succede, o forse dei suoi strani poteri, della sua personalità così incomprensibile, almeno a noi che cerchiamo solo di mandare avanti un’esistenza normale e dignitosa. Lo lasci perdere se per caso lo incontri lungo la strada principale del paese, ma per quanto cerchi di tenertelo a debita distanza, te lo ritrovi sempre lì, a pochi passi, nelle circostanze di dove ti trovi, con la sua luce odiosa che si porta dietro, e se continui a camminare pensando ad altro o ai fatti tuoi, ti ritrovi all’improvviso sempre vicino alla casa dove abita, senza saperti spiegare come mai succede questo, e semplicemente avresti voglia di abbatterla, quella abitazione, di raderla al suolo in fretta e di sotterrarne le macerie in un’enorme buca nella terra.
            Non escludo che uno di questi giorni succeda qualche cosa: non è proprio possibile continuare a sopportare questa presenza inquietante e inammissibile. Qualcuno di noi farà qualcosa, lo so quasi con certezza; prenderanno il ragazzino e gli metteranno un cappuccio sulla testa, poi lo porteranno in qualche zona chissà dove, e gli intimeranno di non farsi più vedere nel paese. Succederà, lo so per certo, e non sarà colpa di nessuno quando accadrà qualcosa di quel genere, perché non è più sopportabile la sua presenza, e si deve pur fare qualche cosa, dobbiamo difenderci per forza da chi non ti fa mai stare tranquillo, ad occuparti delle tue cose normali.

            Bruno Magnolfi 

domenica 3 febbraio 2013

Dietro uno sguardo.


            
            Oggi se ne rimane da solo nel suo angolo, Renato, come fa sempre quando sta passando un periodo buio. Noialtri lo osserviamo, ogni tanto, ma senza un vero interesse, come se non ci si aspettasse  niente dalla sua immobilità, da quel suo rinchiudersi, dall’isolarsi in quel modo da tutto il mondo. La giornata va avanti, le cose procedono come sempre, e lui ad un tratto si alza dalla sua sedia, va a prendersi un semplice bicchiere d’acqua, guarda qualcosa fuori dalla finestra, poi torna esattamente dove era rimasto fino a quel momento.
            Rosanna si avvicina, gli dice qualcosa a voce bassa, ma lui non risponde, resta indifferente, immobile come se non avesse bisogno di nulla, degli altri meno che del resto. Ma lei non si dà per vinta, gli spiega qualcosa con tranquillità, e poi, senza insistere troppo, si allontana per qualche momento, ma infine torna lì, da lui, in silenzio, come a tenergli compagnia. Sembra soltanto testardaggine la sua, eppure non è così, lo sanno tutti.
            Certe volte Renato volge lo sguardo sopra tutti noi, e allora noi immaginiamo che ci voglia dire qualcosa, che abbia bisogno di spiegarci il suo pensiero. Lui parla, usando parole ferme, calme, come fossero state riflettute innumerevoli volte, fino a condensarsi in quelle semplici espressioni così pacate. Non c’è niente di male, pensa Rosanna, lui è così, ha bisogno dei suoi tempi per decidere come spiegarsi, cosa dire per farci capire come è fatto, che cosa gli è passato nella testa.
            Poi si alza, osserva gli altri, con una semplice occhiata fa capire a tutti noi che siamo condannati, non sarà mai possibile che le cose evolvano in maniera differente. Rosanna forse lo comprende più di tutti, per questo in certi giorni lo evita del tutto, perché sa perfettamente quando non verrà mai niente di buono dai suoi comportamenti. Lei lo guarda e riesce con semplicità ad interpretare il suo modo di essere.
            Certe volte invece Renato si dispera, come se sapesse di essere relegato nel suo corpo strambo, che non c’è per lui alcuna possibilità di farsi capire per davvero. Vaga nervosamente per i corridoi, noi non lo perdiamo mai di vista, naturalmente, e lui lo sa, lascia che i nostri sguardi lo attraversino, che forse lo accompagnino. Si muove cercando qualcosa, ma sa perfettamente che non troverà mai niente. Rosanna lo lascia perdere, certe volte; in alcuni casi però lo avvicina, cerca di cambiare qualcosa del suo umore, ma è difficile, lo sa perfettamente.
            Infine si calma, Renato, si sistema nella sua solita sedia, lascia che accanto a sé arrivi Rosanna, e infine regala un sorriso a tutti noi, come fosse il distillato della sua personalità deviata, capace di essere sensibile oltre ogni misura, fino ad immaginare realtà ed espressioni che tutti noi non riusciremo mai a comprendere, anche se non smetteremo di tentare. Chissà cosa c’è dietro ai suoi occhi, ci chiediamo a volte tra di noi; chissà che cosa ha visto mentre era assente, lontano, via da questa clinica psichiatrica.

            Bruno Magnolfi



            

venerdì 1 febbraio 2013

Incertezze sregolate (cortometraggio n. 2).


            

            Certe volte ho avuto la convinzione di conoscere perfettamente ciò che dovevo fare, come comportarmi, quali scelte adottare, e durante quelle volte nessuna indecisione è generalmente intervenuta ad interrompere le mie certezze. In altri casi invece è stato più difficile avere le idee chiare, e per quanto mi sia sforzata, difficilmente sono riuscita a capire come meglio comportarmi, e in altri ancora, in preda alla confusione, ho lasciato che tutto si risolvesse in modo autonomo, senza applicare affatto la mia volontà, sostanzialmente lasciando una funzione fondamentale all’eventualità e alla semplice concatenazione degli eventi.
            Con tutto questo adesso non so dire cosa sia stato meglio per me in queste differenti situazioni. Forse è stato sbagliato addirittura fin dall’inizio il riflettere esageratamente su molte di queste circostanze, lasciare approfondire la mia capacità o incapacità ad affrontare adeguatamente le giornate, indagare in modo estremo se esserne all’altezza oppure no, e via dicendo.
            Proseguo ad affrontare questi momenti e queste situazioni, a districare i segnali che spesso giungono da ogni parte, ma tutti i dati generalmente mi parlano di affanno, di difficoltà, di piccoli e grandi problemi spesso insormontabili. Così decido di andare avanti, anche se non so affatto cosa sia meglio per me. Spesso esco da casa e mi immergo in una passeggiata per le strade del quartiere al fine di svagarmi. Niente di particolare, attraverso sulle strisce pedonali, mi fermo quando sopraggiunge qualche automobile, o quando il semaforo per i passanti segnala il rosso, ed a volte mi trattengo ad osservare qualche vetrina di negozio, e in altri casi sorrido nei confronti di persone che conosco appena di vista, anche se nella maggioranza delle volte non incontro praticamente nessuno che io ricordi o che abbia già visto in precedenza.
            Poi vedo lui. Non che mi ritrovi di faccia alla sua presenza, ma è come se sentissi che lui è lì, da qualche parte, lo percepisco con chiarezza, come una bella giornata di sole, oppure proprio come se andassi incontro alle prime ombre della sera. C’è, è qui da qualche parte, e anche se non lo cerco mi sento come circondata dalla sua presenza. Mi corre un brivido lungo la schiena, forse vorrei affrettare il passo, spingermi in avanti fino a scoprire il punto esatto dove ne vedrò tutta l’espressione, potrò studiarne il modo di camminare, il portamento, accorgermi di come stia sempre con le mani in tasca e con la mente svagata, quasi distante, via da questi luoghi, assumendo il comportamento di una persona che mal digerisce il traffico e la confusione.
            Proseguo a passeggiare, sorrido, mi osservo specchiata dentro a una vetrina, vorrei apparire bella, in piena forma, anche se so che non è così. Un uomo mi nota, non è lui, però mi guarda, forse vorrebbe dirmi qualche cosa, ma io lo evito, non mi piacciono gli sfacciati, quelli che approfittano subito di una combinazione. Però mi fermo, volto le spalle per non dare importanza, guardo qualcosa nella mia borsetta, lascio che l’uomo maturi qualcosa da dire, un’espressione qualsiasi che mi lasci sorridere, ma quello non fa niente, e allora mi allontano.
            Rientro, so ancora che lui è là, da qualche parte, ne ho avvertita fino adesso la presenza, ma non mi importa affatto: deve cercarmi, penso, lo deve fare con convinzione, con impegno, testardamente, se davvero vuol riuscire ad avermi. Gli concederò qualche possibilità, credo, resterò in silenzio qualche volta, come ad attendere le sue parole, e lascerò che mi guardi, che studi i miei lineamenti, che capisca bene quanto siano flebili le mie convinzioni: oggi sarò innamorata di lui, forse; domani, non lo so, sarà tutto da scoprire.

            Bruno Magnolfi