venerdì 30 ottobre 2009

Un bel posto.



            La prima volta Federica non ne era stata neanche consapevole. Abitava con i suoi genitori in una casa grande e vecchia, a metà tra la periferia e la campagna, e da lì percorreva circa un chilometro di strada alberata, bianca e sassosa, prima di arrivare alla via principale. Da quando aveva compiuto gli anni per andarsene in giro da sola, lei quel tratto di strada l’aveva fatto ogni giorno, avanti e indietro, sempre rigorosamente a piedi, perché a Federica piaceva camminare, anche lentamente nelle belle giornate, e osservare le cose, ascoltare i suoi passi, respirare nel vento. Arrivava all’incrocio, dove c’era la fermata dell’autobus, e lì, accanto a quel palo, da quando era diventata una ragazzina, trascorreva quasi più tempo di quello che aveva passato da sempre in compagnia con i suoi genitori. Soprattutto perché loro non c’erano mai, sempre al lavoro nel capannone dell’allevamento dei polli, dove ce ne stavano ben cinquemila di quelle bestiacce, e nonostante un paio di persone che lavoravano lì, assieme a loro, in azienda c’era sempre qualcosa da fare. Federica odiava quei polli, avrebbe voluto andarsene da lì, al più presto possibile, via da quello starnazzare continuo e da quel puzzo onnipresente. Arrivava a quella fermata, osservava la strada asfaltata, aspettava il passaggio dell’autobus, poi lasciava che il rumore delle ruote e del motore sfumasse fino dietro la curva, e se ne ritornava lungo la strada bianca alberata. Al mattino andava a scuola, per mezzo dell’autobus, e dopo aver fatto le medie però, pur essendosi iscritta al liceo con tanti propositi dentro la testa, non aveva socializzato con nessuna compagna, e spesso, in quei primi due anni, si era ritrovata da sola, con la paura perenne di portarsi da casa l’odore dei polli intriso dentro ai vestiti. Poi aveva conosciuto un ragazzo, e per qualche mese aveva sognato. In un giorno qualsiasi, senza molte parole, era finita, il ragazzo l’aveva lasciata, e lei, poco dopo, aveva detto a suo padre che a scuola non ci sarebbe più andata. Suo padre, assolutamente in accordo con i suoi modi e con ciò che pensava, le aveva semplicemente risposto: “Va bene”, ed era normale, perché tanto nella loro piccola azienda, secondo suo padre, le braccia non bastavano mai. E da quel momento lei aveva iniziato a sognare la possibilità di andar via, in qualsiasi maniera, ma per quanti giornali con inserzioni economiche avesse guardato, non era riuscita a trovarsi nessun altro lavoro che non fosse l’accudire quei maledettissimi polli nel capannone accanto alla casa. Così, arrivata alla soglia dei vent’anni, si era ritrovata spesso da sola, a quella fermata dell’autobus, a sognare qualcuno che passando la portasse con sé. Arrivava in fondo alla strada bianca alberata della casa dei suoi genitori, e stava lì, ad aspettare che l’autobus rombasse fino oltre la curva, e nient’altro. Fu in questa maniera che un giorno, mentre era accanto a quel palo, si accostò veramente una macchina, e un ragazzo un po’ buffo si sporse dal finestrino per chiederle giusto qualcosa sulla direzione stradale, anche se era evidente il pretesto per parlare con lei. Dopo la risposta cortese di Federica, forse il ragazzo era già pronto per ripartire, ma all’improvviso parve farsi coraggio, giusto quello che serviva per dire, con titubanza: “…ma lei, quanto prende?...”. Federica sorrise, forse arrossì, e per scherzo disse una cifra qualsiasi, la prima che le venne alla mente, forse per non umiliarlo o solo per darsi un contegno da donna. Poi salì sopra la macchina, lasciò che il ragazzo facesse un pezzo di strada fino ad accostare in una piazzola deserta, e si lasciò palpeggiare, senza far niente. Quando la sera tornò verso casa si sentiva migliore, anche se non sapeva perchè. In seguito le cose furono semplici: il ragazzo tornò altre volte alla fermata dell’autobus, più o meno alla medesima ora, come ad un appuntamento fissato, fino a quando lei disse che non voleva più soldi da lui, non ce n’era bisogno, e fu allora che il ragazzo le chiese, se a lei faceva piacere, se poteva accompagnarla fino alla casa dei suoi genitori, in fondo a quella strada sterrata, che secondo quello che lui immaginava, doveva essere proprio un bel posto.


            Bruno Magnolfi

martedì 27 ottobre 2009

L'uomo di casa.

            

            Era da quando aveva compiuto otto anni che la nonna aveva iniziato a rivolgersi a lui dicendo: “ecco il mio ometto…”; oppure: “eccolo qua il nostro uomo di casa…”; e Robertino quelle volte si era sentito ancora più timido di come era davvero, non all’altezza, tanto da arrossire e abbassare i suoi occhi, nonostante gli piacesse da matti sentirsi grande, importante, o forse anche proprio per questo. La mamma lavorava tutto il giorno e rientrava sempre tardi a fine giornata, sempre di corsa com’era, con quelle buste di spesa del supermercato per preparare in fretta la cena e poi dopo poco metterlo a letto. Al pomeriggio Roberto stava con lei, con la nonna, e si sentiva bene quando incontrava il suo sguardo pacato uscendo da scuola assieme ai compagni, ci trovava un senso di rassicurante in quei suoi vestiti, in quell’espressione dolce e simpatica che aveva tutta per lui. La mamma non era così, la mamma era sempre nervosa, certe volte non lasciava neanche il tempo di dire le cose. Del periodo quando il papà abitava ancora con loro, Robertino non ricordava quasi più niente, giusto qualche giorno speciale in cui era successo qualcosa di bello, una gita, un regalo, ma pochissime cose; soprattutto, se proprio doveva pensarci, ricordava le discussioni di sera con quelle stridule voci mezze gridate, e la difficoltà, nonostante il cuscino sopra la testa, nel riuscire a prendere sonno, con quelle porte sbattute che certo non erano mai un bel segnale. Poi era andato via, suo papà, quasi senza avvertirlo, ma lui era ancora piccolo, e non aveva mai detto alla mamma che quell’assenza gli sembrava terribile. La nonna gli aveva spiegato qualcosa, ma Robertino non voleva sapere, non gli interessavano gli affari dei suoi genitori, così aveva sempre cambiato discorso, non voleva saperne di niente. La nonna gli aveva anche promesso che il papà sarebbe andato spesso a trovarlo, magari all’uscita da scuola, ma era successo solo tre o quattro volte, e quelle volte suo padre era andato lì, lo aveva tenuto per mano per dieci minuti, gli aveva chiesto come gli andava, poi basta. Ma quel giorno di maggio sembrava fosse cambiato qualcosa: la mamma aveva detto che il papà avrebbe fatto un giro con lui, quel pomeriggio, lo avrebbe portato con sé, a fargli trascorrere un’ora diversa, e Robertino era rimasto in silenzio, non aveva detto niente, ma solo per paura di sbagliare parole, perché dentro di sé si era sentito contento, contento come mai prima. Era venuto a prenderlo con la sua moto nuova, il papà, la nonna gli aveva fatto un sacco di raccomandazioni, aveva coperto Roberto fino all’inverosimile, poi finalmente loro due erano partiti. Sotto di loro la moto rombava, era la prima volta che Roberto ci saliva, il vento arrivava da tutte le parti e lui si stringeva forte al papà, proprio come lui gli aveva spiegato di fare mentre lo sistemava sopra la sella. Era bello vedere le case che scappavano via, dietro le spalle, e  Roberto guardava le macchine, gli alberi lungo i viali, le persone sui marciapiedi. Era bella quella strada che facevano assieme, a Roberto piaceva tantissimo, e con la mente cercava di rallentare ogni fase, come a gustarsi più a fondo ogni particolare. Poi si erano fermati ai giardini, ad un tavolo di un chiosco all’aperto, giusto il tempo per mangiare un gelato. Non aveva parlato molto Roberto, e neanche suo padre, però si erano guardati, e forse andava bene così. Poi erano saliti di nuovo sopra la moto, e via, verso casa. Adesso Robertino si sentiva più triste, chissà quando avrebbe rivisto il papà: giurava a se stesso che nei giorni seguenti avrebbe scrutato tutte le moto lungo la strada, quando usciva da scuola, nella speranza di vederlo arrivare. Ma adesso assaporava ancora quegli ultimi attimi prima di arrivare ai saluti, e si stringeva ancora più forte sopra la moto, e pensava tra sé che non gli sarebbe importato un bel niente se la nonna non lo avesse più chiamato “l’ometto di casa”: suo papà adesso era lì, proprio con lui, stretto tra le sue braccia, e lui non lo avrebbe più voluto lasciare; ma Roberto si sentiva ancora troppo bambino, e sapeva benissimo che quelle sue braccia non erano davvero quelle di un uomo, come diceva la nonna, e per quanto avesse potuto sforzarsi, erano deboli, non sarebbero mai riuscite a tenere suo padre con sé.


            Bruno Magnolfi

venerdì 23 ottobre 2009

Come un fiume.

            

            Il giorno in cui decisi di entrare in clandestinità, i carabinieri mi stavano ormai cercando da tutte le parti. L’unica possibilità che mi era rimasta era quella di comprare in fretta al mercato nero dei documenti fasulli e cambiare immediatamente città. Gli amici mi avevano fatto capire che dovevo sparire, tenermi fuori dal giro per almeno un anno o anche più, ed io avevo inevitabilmente seguito quel loro consiglio, e così con quei pochi soldi che avevo da parte mi ero semplicemente preso quel monolocale in affitto con un buon televisore per tenermi aggiornato.
Ero solo, e di quella città di provincia dove ero giunto con il treno, cambiando diversi convogli locali, in pratica non conoscevo un bel niente, e neppure mi incuriosiva troppo andarmene in giro lungo le strade. Niente telefono, niente contatti, niente di niente. Ma in poco tempo quella solitudine che inizialmente mi pareva quasi un rifugio, aveva iniziato a trasformarsi in una specie di condanna terribile. Il mio monolocale pareva una gabbia, e tutti i pensieri che riuscivo ad avere sembravano tramare contro di me, dimostrandosi ogni giorno un elenco sempre più corposo di paure e nient’altro.
Così iniziai ad uscire, timidamente, giusto per incontrare la gente, per sentire gli altri parlare e trovare la maniera per scambiare con normalità qualche opinione, ed anche se evitavo di entrare in locali e luoghi troppo affollati, le semplici persone che vedevo per strada o lungo i marciapiedi, mi sembravano ricche di cose da dire, forti della loro vita ordinaria. Una sera un barbone mi chiese dei soldi, ed io spontaneamente lo scansai, ma quando lo rividi, qualche sera più tardi, gli misi nella mano degli spiccioli che avevo con me. Quello mi guardò nella stessa maniera come si guarda qualcosa di stravagante, mi dette una stretta leggera e mi disse: io ti conosco; usando un modo e una determinazione che mi fecero subito tremare.
Non era vero, pensavo, non poteva essere vero, eppure qualcosa dentro ai suoi modi pareva affermare che la sua non era una stupidaggine sparata così a caso. Ritirai la mia mano e tornai sui miei passi, però il giorno seguente percorsi di nuovo quel marciapiede dove in genere stava il barbone, e lui era lì, con la stessa espressione sorniona, quasi aspettandomi. Gli chiesi se voleva qualcosa di caldo, e così lo portai dentro al bar poco lontano. Sorrideva, senza guardarmi, sembrava perso tra sé dietro chissà quali pensieri. Biascicava alcune frasi, ma come parlasse da solo, io capivo solamente qualche parola, così gli chiesi qualcosa, niente di particolarmente diretto, naturalmente. Lui continuava a sorridere, e rispondeva a suo modo con qualcosa che aveva a che fare con la sua scarsa memoria di vagabondaggio e probabilmente di alcol.
Poi si fermò, come se avesse d’improvviso trovato quello che in mezzo a chissà quante altre cose della sua vita andava cercando; mi guardava in fondo agli occhi come già aveva fatto una volta, e mi disse di nuovo: conosco il tuo viso; la tua faccia è quella di un uomo che ha paura di tutto, persino di me. So cosa significa essere in fuga. Si inizia un giorno, magari quando siamo ormai pieni di tutto, e si va via. Ma poco alla volta ci si sente sempre più soli, fino al punto in cui non è più possibile tornarsene indietro. Tu sei a quel punto, riconosco quel tuo sguardo. Del resto non so, per me non è interessante, ognuno ha un motivo per fare o non fare qualcosa, non esistono i buoni e i cattivi, esistono solo i pensieri difficili e quelli più facili, ma certe cose si sentono dentro e non si può andare contro natura, bisogna essere soltanto ciò che si è, bisogna dare fiato a ciò che sentiamo dentro di noi. Troverai anche tu la tua soluzione, sarà stasera, fra un giorno, tra un anno, anche mai, ma quando saprai finalmente che cosa vuoi dalla tua vita, tutto all’improvviso inizierà a scorrere intorno a te come un fiume, e non ci sarà più alcun bisogno di chiedere in giro, e di girare con lo sguardo perso nel vuoto.
Cercai anch’io di dire qualcosa, ma le sue parole non lasciavano molto spazio, e poi non avevo veramente niente da dire, ero vuoto, così come lui aveva appena finito di spiegarmi. Uscimmo dal bar poco dopo, lui mi salutò nella stessa maniera con cui ringraziava chi gli allungava dei soldi, ed io ritornai verso il mio monolocale, con la sensazione di sentirmi scoperto, nudo in quello che ero, ben consapevole di avere davanti delle decisioni da prendere, in fretta però, prima che l’inerzia veramente mi prendesse del tutto la mano.

            Bruno Magnolfi

lunedì 19 ottobre 2009

L'uomo a fumetti (per Claudio Lolli).

            

            Il disegnatore di fumetti generalmente partiva da un personaggio per poi costruirci attorno una storia. Era sufficiente che ne disegnasse il viso, i capelli, i vestiti, le mani, il resto veniva quasi da sé. Tutto dipendeva da pochi dettagli: stilizzava un’espressione, un gesto, la posizione, e poi tutto cominciava a ruotare, a prendere forma, come se il suo personaggio uscisse all’improvviso dal foglio di carta e si disegnasse da solo. Certe volte le storie che venivano fuori sembravano lo specchio di quello che lui aveva pensato quel giorno, o che gli era ritornato alla mente da un periodo passato per chissà quale ragione; ma in certi rari casi nessuna relazione, a striscia finita, pareva sussistere tra sé e quel suo nuovo fumetto. Ed erano questi i personaggi a cui lui si affezionava di più. I suoi fogli, disegnati e finiti, in quelle occasioni pareva prendessero vita, come se avessero voglia di parlare di se stessi, come se avessero dentro uno spirito, e lui certe volte cercava di dar seguito a questa esigenza, ma in tanti casi la stanchezza diventava fortissima, e lui si sentiva stremato, perdeva quella concentrazione di cui aveva bisogno, e tutto fermava il suo corso. Ma quella sera qualcosa era diverso. Aveva ritrovato nella confusione del suo tavolo da lavoro, una striscia che non aveva finito, e si era messo a pensare come poteva continuare la storia. Una ragazza, sopra al suo motorino, libera, lungo le strade della città. Non sapeva di molto, ma era un inizio. L’aria fresca della sera sul viso, immagini di gente sui marciapiedi, negozi scintillanti delle loro vetrine: andare incontro a qualcosa come sfuggendo a qualcos’altro che sa di saputo, voglia di nuovo, di diverso da quell’ordinario, e poi i colori, la velocità, tutto alle spalle, in una ricerca spasmodica di qualcosa che sta un po’ più avanti. Una ragazza come tutte le altre, come tutte quelle ragazze che hanno quindici, sedici anni, ma con qualcosa dentro al suo casco che non è proprio da tutti: la voglia improvvisa di sentirsi diversa, migliore, non incastrata dentro ad un ruolo egoistico, non un pensiero solo per sé, ma per tutti, come compiere un gesto che lascia gli altri di stucco, che li fa ragionare, li porti a pensare che non c’è storia per chi pensa soltanto a se stesso. Le strade, le piazze, continuano a correre inseguendo il suo motorino, quello della ragazza, e il disegnatore di fumetti cerca disperato di dar vita al suo bisogno di esistere, di essere al di fuori di sé, di un disegno finito, completato, esauriente, ma che manca ancora di spirito. Poi, l’idea finale per il suo fumetto si fa strada poco alla volta, dentro a un pensiero che diverge dal resto: la ragazza corre da lui, dal disegnatore strampalato di quei fumetti, a portargli lei stessa il finale di tutta la striscia, e lui è ancora giovane, dentro al disegno, ha la sua stessa età, può aspettarla uscire da dentro la carta, da quelle strade grigie che adesso sanno di lei, della sua libertà, e vogliono assomigliare a quel suo meraviglioso entusiasmo. Perché è di questo che la città adesso ha bisogno, della voglia di amore e di gioia che superi il grigio della gente sui marciapiedi, e dei negozi che continuano imperterriti ad ammaliarla, con le loro vetrine scintillanti e monotone che non hanno niente di nuovo, e in questo slancio oltre le cose, tutti possono di nuovo ritrovare le idee, i sentimenti più forti, l’energia, quella creatività che era venuta a mancare da tempo.


            Bruno Magnolfi

venerdì 16 ottobre 2009

Incontrarsi (seconda parte).

           

            La donna si era avvicinata al cancello di ingresso, l’aveva socchiuso con un gesto esauriente di invito a raggiungerla sul vialetto di pietre che serpeggiando sull’erba portava fino alla sua casa, poi, senza guardarmi, mi aveva ringraziato di essere passato da lì, e senza mezze misure mi aveva chiesto se avevo voglia di occuparmi di quel suo giardino. Mi aveva notato già molte volte, sapeva chi ero, disse, e si era resa ben conto, cosa questa che rispondeva ad una verità sacrosanta, che avevo tanto di quel tempo libero da non sapere quasi come occuparlo. Naturalmente mi avrebbe pagato, e a lei era sufficiente che io andassi a sistemare i suoi fiori e le piante un’ora ogni giorno, in orario pomeridiano a mia discrezione. Il giardino attorno alla casa era grande, ma non sterminato. Mi piacevano molto le attività all’aria aperta, e occuparmi di quel verde era per me quasi un sogno. Ciò nonostante, come per qualsiasi altra scelta effettuata nella mia vita, mi sentii subito intenzionato a prendere del tempo prima di decidere qualcosa, valutare bene l’offerta, riflettere su quelle parole, considerare tutte le cose. Peraltro perdere anche solo po’ di quel tempo libero durante il quale ogni pomeriggio mi crogiolavo in solitudine in un vuoto completo di cose da fare o di cui preoccuparmi, era adesso un elemento per cui provavo un dispiacere sincero, pur essendo attratto e incuriosito dai modi della persona che mi stava davanti, e così volsi lo sguardo in un aleatorio giro completo attorno al giardino, e mi limitai ad abbozzare un leggero sorriso, senza dire niente. La vedova del dottore si girò alla sua destra, come per incoraggiarmi a seguirla, e così, camminando sui vialetti di pietre, dietro di lei, mi fece vedere i piccoli alberi e le aiuole fiorite, considerando ad alta voce i cespugli da togliere, le erbacce da eliminare, le ricrescite varie da contenere entro forme più definite. Si interruppe, durante le sue spiegazioni, in un attimo qualsiasi di quel suo monologo, si voltò verso di me, e per la prima volta da quando l’avevo veduta, mi guardò dritto negli occhi. Fece un passo verso di me continuando a guardarmi, lasciò una pausa sospesa, poi disse: “…mi darà una risposta domani, in quel suo bar, verrò per l’aperitivo, alla solita ora…”. Provai un leggero disagio, ripresi il mio leggero sorriso e dissi soltanto: “…d’accordo…”, riflettendo tra me che il solo pensiero di quel caffè con le sue sedie di plastica e la strada davanti, mi faceva immaginare un mondo migliore, o meglio, un mondo che andava via via migliorando, in perfetto stile ottimistico. Le strinsi la mano, e quel breve contatto mi piacque, poi, mentre già scivolavo verso il cancello, mi girai verso di lei, che era rimasta là, ferma, e le dissi: “…non conosco neanche il suo nome; come devo chiamarla?…”. Lei tornò ancora a guardarmi, strinse una mano dentro a quell’altra, poi disse: “Mi chiamerà signora Torrini, come c’è scritto sopra al mio campanello; salvo le volte che saremo da soli, qui, in questo giardino, e in quei casi potrà chiamarmi Iolanda, signor Colamonti…”. Uscii, senza riuscire a stabilire tra me se fossi contento di quella giornata oppure no. Feci un giro, passando tra le case di quel piccolo paese, e guardai le finestre, le recinzioni, i giardini di tutti; poi attraversai la strada provinciale, che in quel momento lasciava andar via un camionista svogliato che lentamente spandeva la polvere, con le ruote pesanti di quel suo veicolo, nell’aria calda della serata: mi passò accanto mentre io lo guardavo, e mi inviò un piccolo gesto, un saluto, forse un accenno di scuse per la polvere o per non avermi lasciato attraversare la strada prima di lui: come a sottolineare che non c’era bisogno di alcuna parola per capirsi davvero, o al contrario, per non capirsi per niente, era sufficiente uno sguardo, un accenno, una qualsiasi piccola cosa. Pareva sottolineare, quel camionista, che non c’era bisogno di alcun impegno, era sufficiente mettersi dalla parte di chi vuol capire i bisogni, le ragioni degli altri, e il resto scivolava da sé, come tra persone che sanno comprendere.


            Bruno Magnolfi

mercoledì 14 ottobre 2009

Incontrarsi (prima parte).

         

            Quella bettola era l’unico posto, in mezzo a quel grumo di case nettamente separate tra loro dalla strada provinciale che solo in quel punto correva rettilinea e pianeggiante subito prima di affrontare le curve della collina, dove si poteva far passare un po’ il tempo senza sentirsi troppo oppressi dal gioco perverso della solitudine. Avevo ormai sessant’anni, poche illusioni, vivevo da solo e andavo in quel bar, durante certi pomeriggi troppo consueti, e mi sedevo ad un tavolino sorseggiando un caffè, ad ascoltare i discorsi degli altri e a pensare. Mi piaceva la presenza delle persone che ci trovavo là dentro, sempre pronte a parlare del tempo, di qualcuno che in quel momento non era lì, di qualcosa successo chissà quanti anni prima, o più semplicemente della strada, quella strada che passava di fronte, e che sembrava tagliare il paese portando con sé ogni cosa buona. Quando era bel tempo stavo fuori, con gli altri, seduto su una sedia di plastica con i braccioli, le spalle al locale, giusto per osservare la strada, le poche macchine che transitavano a velocità sempre un po’ troppo elevata, i colori delle loro carrozzerie, l’attimo in cui si notava la faccia di chi le guidava, e poi le parti di dietro delle auto che si portavano con loro tutto il rumore che avevano fatto, mentre alzavano una polvere fine e leggera che brillava per pochi secondi nell’aria, nel sole giallo e caldo di quei pomeriggi. Nessuno del locale mi chiedeva mai niente: tutti sapevano che ero taciturno, e mi lasciavano in pace, continuando con le loro discussioni infinite che non arrivavano mai a niente. Certe volte, sul tardi, passava una signora da lì, entrava dentro al caffè, andava diretta verso il bancone, e si faceva servire dal proprietario del bar un aperitivo. Lo sorseggiava con calma, si osservava i capelli dentro allo specchio che fungeva da sfondo, si tratteneva dieci minuti senza dir niente a nessuno, e poi se ne andava, con le sue scarpe col tacco che risuonavano ritmiche e secche sul cemento del marciapiede. Sentivo correre un brivido dentro, quando mi passava vicino con quel suo vago profumo e le sue gonne ampie e scure, quasi vaporose, sopra al suo corpo persino troppo magro. Era la vedova del medico, rimasta ad abitare in paese dopo la morte di lui, lei che veniva dalla città, ma che adesso, inchiodata in una casa forse troppo grande per una persona, forse si annoiava tutto il giorno da sola, e ogni tanto si faceva vedere un po’ in giro, senza mai salutare nessuno, come perennemente di corsa, lo sguardo dritto davanti e la borsetta incollata ad un braccio. Mi piaceva quella sua presenza, in un attimo rinnovava completamente l’ambiente della bettola noiosa e monotona, ed anche se si tratteneva pochissimo, quel poco era già sufficiente. Non potevo dirle niente per primo, io che avevo più o meno la sua età ma non parlavo mai con nessuno. Però mi sentivo vicino ai suoi modi, come se in qualche modo in passato li avessi già conosciuti, e quando una sera lei arrivò col suo solito passo sul marciapiede proprio davanti alla mia seggiola, forse approfittò del fatto che in quel momento non c’era nessuno vicino, così si fermò all’improvviso, come per cercare qualcosa dentro a quella sua fidata borsetta, poi, senza guardarmi, disse soltanto: “…dovremmo parlare, io e lei, se ne è già reso conto?”. Non trovai dentro di me nessuna possibilità o il tempo, né per rispondere, e neppure per farle capire che ero rimasto sorpreso. Lei era già entrata nel bar, stava già sorseggiando il suo aperitivo, ed io, completamente confuso, cercavo ancora qualcosa dentro al cervello per risponderle in maniera adeguata, almeno al momento in cui sarebbe uscita da lì. Non mi concesse neppure questa possibilità, usando l’altra porta di vetro e sparendo alla vista in un solo momento, ma io feci una cosa che solo un attimo prima mi sarebbe sembrata impossibile. Mi alzai dalla sedia, percorsi tutta la strada fino ad arrivare davanti alla casa dove abitava, appoggiai gli avambracci sopra alla recinzione di ferro del suo giardino, e aspettai che lei mi osservasse dalla finestra. Uscì, poco dopo, discese i tre gradini della sua villetta con calma, venne verso di me osservando le sue aiuole e i bellissimi fiori di rosa, giusto per darmi il tempo e la possibilità di risponderle. “Sono pronto”, dissi io, e lei, ancora senza guardarmi, aprì, facendogli fare uno scatto, il cancelletto della sua recinzione.


            Bruno Magnolfi

martedì 6 ottobre 2009

Il mondo magico.

            

            Si sentiva un ronzio sordo nell’aria, come se un motore nascosto, o una fonte energetica di natura diversa, dislocata chissà dove, paragonabile ad un cuore pulsante, imprimesse vita e calore a tutto il teatro. Si allestivano le scenografie per una commedia, quella mattina, e qualcuno ai piedi del palco dirigeva i lavori rovesciando continuamente sugli operai le proprie opinioni estetiche su tutto ciò che, con una lentezza infinita, si cercava di posizionare. Due attori provavano un loro dialogo, e gli avvitatori elettrici, manovrati dai tecnici, continuavano imperterriti a disturbare e a tagliare le loro parole. L’elettricista era salito sopra il proscenio, a posizionare la luce dei faretti a seconda le scene che si intendeva ideare, e si muoveva tra i cavi e i tralicci come un trapezista di un circo. Elena era passata davanti al teatro, aveva visto una porta socchiusa e si era affacciata all’interno, in quel buio mescolato all’odore di stoffa e di polvere vecchia.  Aveva percorso un corridoio breve e si era trovata lì, da sola, tra le ultime poltrone della sala, in una zona non illuminata, e si era seduta. Non aveva più voglia di pensare a se stessa, ai suoi guai, e una volta tanto aveva avuto voglia di uscire di casa, di svagarsi, anche se non aveva l’intenzione di andare a vedere le prove, era capitata per caso da lì. Voleva dimenticarsi per un po’ dei problemi di casa, delle preoccupazioni che si tirava dietro da tempo senza riuscire a risolvere niente. Con suo marito le cose non andavano affatto, e lei si sentiva sempre più sola, senza un sostegno al quale affidarsi. Si sentiva fragile, Elena, una personcina che amava stare da sola, in un angolo. Abitava vicino al teatro, da molti anni, da quando si era sposata, e per lei quell’edificio era sacro, quasi un punto di riferimento. Le piaceva quel mondo, i palchetti, il loggione, gli attori, quel senso di sospeso e di incerto che c’era tra le quinte e il sipario. Soprattutto le piaceva star lì, non era la prima volta che andava a vedere le prove. Le pareva di assistere alla costruzione del mondo, quel piccolo mondo di stoffa e di legno che prendeva vita ogni sera, che incantava la gente, la faceva sognare, la portava via dalle loro piccole cose dei giorni qualunque. Stava lì, guardava gli attori, le luci, le scene che prendevano vita, e si sentiva felice, al cospetto di qualcosa migliore di lei. Non sapeva perché fosse attratta dal palcoscenico, lei che non aveva mai avuto talento, in nessun campo, ma quando si era sposata le era licito tantissimo aver trovato la casa dove abitare proprio vicino a quel bel teatro. Agli inizi c’erano andati, qualche volta, lei e suo marito, a vedere grandi commedie, e lei si era sentita felice. Poi quelle sere si erano diradate, fino ad annullarsi del tutto. Lei, dopo due o tre volte, non aveva più manifestato la voglia di andarci, non voleva far fare a suo marito qualcosa che a lui non piaceva, e così aveva sofferto in silenzio, limitandosi a passare dalla strada dove il teatro aveva l’entrata, e a sognare davanti ai cartelloni delle commedie. Forse era stato proprio quello il problema: non essersi mai imposta per niente con suo marito, aver sempre cercato di acconsentire alle cose che piacevano a lui, senza recriminare, assentendo in silenzio.  

Bruno Magnolfi

lunedì 5 ottobre 2009

Separazioni del caso

            

            Ho sempre avuto una innata predilezione ad immaginare i pensieri degli altri. Non ci vuole molto, mi dicevo alcune volte, basta osservare i gesti, l’espressione di chi sta parlando, le cose che dice e come le dice, e il resto spesso vien fuori da sé. Eravamo andati ad ascoltare una band, io e la Paola. Era una sera d’estate, io non avevo quattrini, lei sì. Ci eravamo messi assieme da poco, forse una settimana, forse due, ma con lei mi ero trovato subito bene, e mi piaceva parlarle di tutto quello che mi girava nel capo, lei sapeva ascoltare e riflettere. Conoscevo bene quel gruppo che suonava al campo sportivo in quella serata, così qualche minuto prima che i musicisti salissero sopra quel palco, avevo trascinato la Paola a curiosare tra i loro affascinanti strumenti e l’amplificazione che usavano. Mi piaceva la musica, mi piaceva quel mondo, trovavo chi sapeva stare su un palco un essere quasi superiore agli umani. Poi, non so come, eravamo scivolati, quasi per gioco, fin dietro a quel palco dove i tecnici avevano parcheggiato un paio di grossi furgoni, e in mezzo, coperti dalla vista di tutti, c’erano loro, semplicemente il gruppo degli Area. A voce alta avevo detto alla Paola: “Sai, sono loro che suonano stasera…”, e Demetrio divertito si era girato di scatto verso di me: “già che sai tutto”, aveva detto ridendo, “perché non mi apri questa bottiglia di birra?”. Così gli aprii la bottiglia spingendone il tappo su un bordo metallico, e tutti gli altri della band mi ringraziarono e mi salutarono in piena amicizia. Il concerto naturalmente fu meraviglioso. Con la Paola non durò molto tempo. Non ricordo neppure perché ci perdemmo di vista. Poi una sera, dopo un lasso di tempo di due, forse tre mesi, la rividi, in un posto qualsiasi, per un puro caso. Mi disse qualcosa, ed io le dissi qualcosa. Forse avevamo ancora voglia di stare un po’ assieme, così sembrava dalle nostre espressioni, ma lei ci mise nel suo saluto un ingrediente inconsueto che trascinava più di qualsiasi altro elemento, come se avesse sofferto qualcosa, come se mi avesse cercato o aspettato per tutto quel tempo. Rimasi colpito dal suo atteggiamento, anche se vago, non avrei mai sospettato una cosa del genere, ma naturalmente rimasi indifferente ad ogni suo modo di fare. Lei allora disse che giorni prima si era messa con un ragazzo che spesse volte avevo frequentato nel periodo prima di conoscerla, un tipo in gamba, che mi piaceva, e questo fatto, al posto di farmi ingelosire, mi parve soltanto leggermente sgradevole. Le chiesi ancora qualcosa, così, per pura curiosità, ma capivo che lei stava mettendo su tutto ad arte per cercare di smuovermi un po’. Non finsi alcuna gelosia, nei confronti di lei o del mio amico, semplicemente non mi aspettavo una cosa del genere, non ne vedevo neanche il senso per tirar fuori una cosa del genere, lei disse però che il suo nuovo ragazzo le aveva parlato male di me. Era strano, pensavo, ma lei continuò dicendomi le parole precise con cui lui mi aveva descritto: “…una persona sola, isolata, un emarginato politico e sociale…”. Mi parve una cosa brutta, però sorrisi, e la salutai quando mi accorsi che lei non pensava per niente quello che forse aveva detto il mio amico, e in più, avendo dato il meglio di sé cercando di farmi arrabbiare, era subito caduta in una situazione fortemente emotiva, e probabilmente stava anche per piangere. Ci salutammo, ed io la rimossi dai miei pensieri. Forse sarà stato per caso, diverse volte ho pensato questo tra me, non lo so perché mai sia successo, ma in vita mia non ho più incontrato la Paola, e la cosa più bella è che non ho più visto neppure il mio amico; giuro, non l’ho fatto apposta, è capitato così, come le cose che a volte ci uniscono e poi ci separano, e un po’ mi dispiace di non aver più parlato con nessuno dei due, però è capitato, così come è accaduto che io non sia riuscito neanche a chiedere a lui, a quello che sicuramente era stato un mio amico, cosa pensava veramente di me.

            Bruno Magnolfi

domenica 4 ottobre 2009

Il tempo a frutto.

            

            A lei bastava star lì, sopra una sedia, a pensare. Aveva sempre avuto talmente tante cose sulle quali riflettere, che il tempo, praticamente, non le era mai stato sufficiente per farlo, e tante volte che si era trovata a decidere qualcosa, lo aveva dovuto fare senza neanche pensarci un po’ su. Prendersi adesso un intero periodo durante il quale occuparsi soltanto di sé, era quasi un regalo, almeno per lei, una cosa della quale aveva spesso provato una pungente necessità, senza essersene mai neppure resa conto. In quel piccolo ufficio, peraltro, in mezzo ad un corridoio lungo il quale si aprivano altri uffici adibiti a magazzini e normalmente non utilizzati, lei si sentiva bene e tranquilla. Qualcuno tra i colleghi aveva parlato di mobbing, altri avevano detto che era uno scandalo tenere un’impiegata di un’azienda importante come la loro, soltanto per occuparsi di inezie. C’era stato anche chi aveva parlato di accordi politici per arrivare a dei compromessi indecenti, che non stavano né dalla parte di chi lavorava, né dalla parte dello sviluppo aziendale. Ma lei non si era preoccupata per nulla, anche se sapeva che quella per lei era una punizione arrivata dai suoi dirigenti. Sicuramente durante gli anni in cui aveva lavorato ai rapporti con il pubblico, qualcosa non era piaciuto del suo comportamento aziendale. Ma in questa nuova fase non le interessava ascoltare nessuno di quei suoi colleghi che la spingevano a rivolgersi ai sindacati: se era stato deciso così, diceva, dovevano essersi sicuramente verificati dei buoni motivi, anche se a lei erano ignoti, e questo bastava. Il suo intento era quello di resistere per tutto il tempo che sarebbe stato necessario, ed era già pronta a riempire l’orario aziendale con attività proprie, di questo era più che sicura: se era una sfida, quella che le proponeva l’azienda, lei l’accettava senz’altro. Intanto aveva un computer, anche se un vecchio modello senza collegamento ad internet, un telefono interno aziendale, ed un telefono cellulare di sua proprietà. Poteva fare tantissime cose. Trascorse i primi giorni sistemando nel miglior modo possibile quei minimi oggetti di scarsa comodità della sua nuova stanza, e iniziando subito dopo a mettere in pratica le idee che le maturavano via via nella mente in quella solitudine completa. Naturalmente aveva anche sbrigato quelle piccole cose che il suo capoufficio, un tipo scostante che lavorava al piano inferiore, le aveva chiesto di fare. Poi aveva iniziato ad annotarsi sopra un’agenda tutti i particolari che le venivano a mente. Una specie di indice di tutte le idee e le possibilità che riusciva a pensare, apportando ogni giorno modifiche ed aggiunte, correggendo e ampliando le considerazioni che prendevano forma sopra la carta. In tutti quegli anni in cui aveva svolto lavoro ai rapporti col pubblico, di cose ne aveva viste parecchie. Raggiunto un discreto archivio di materiale, non le era restato che ampliare le note aggiungendo dettagli e specificando ogni piccola cosa. Con tutto quel tempo che aveva, le erano anche tornati alla mente dei fatti del proprio passato in azienda che probabilmente all’inizio aveva rimosso, o ai quali non aveva dato importanza, ma adesso, appuntando ogni elemento su quaderni diversi, in modo da dare a quei materiali impostazioni diverse, tutto prendeva un significato diverso, e in poco tempo era arrivata ad un punto che all’ora di timbrare il cartellino ed uscire assieme agli altri dal palazzo di uffici, quasi se ne sentiva un po’ dispiaciuta. La serata e la notte la trascorreva come sempre aveva fatto, ma la sua mente continuava ad elaborare le cose da scrivere e da segnalare, così che al momento che rientrava in ufficio, ricominciava subito a prendere nota di tutto. Ogni tanto chiamava col telefono interno i suoi vecchi colleghi per chiedere loro qualche notizia su una cosa o sull’altra, e in questo modo le cose andavano avanti. Alla mensa aziendale qualcuno le aveva chiesto come procedessero le cose per lei, e lei, sempre sorridente e festosa, aveva dichiarato che stava passando uno dei periodi più belli da quando, ormai tanti anni prima, era stata assunta in azienda. Poi, con ancora più calma, aveva iniziato a trascrivere ogni cosa in appositi files nel suo computer, salvando ogni elemento e ogni modifica anche su qualche dischetto di memoria che teneva nella sua borsa, così che tutto ormai sembrava allungarsi e prendere forma. Qualche collega era anche salito da lei a farle visita, ma l’aveva trovata intenta al proprio lavoro, e lei aveva spiegato che aveva molte cose da fare, senza specificare nient’altro. Poi, un giorno, dopo quasi tre mesi, era salito fino alla stanza anche il suo capoufficio, al quale erano arrivate alle orecchie notizie diverse da quelle che si sarebbe aspettato: invece delle dimissioni presunte, pareva che quella impiegata continuasse imperterrita a svolgere la sua attività, anche se nessuno oramai le passava in concreto qualcosa da fare, e questo comportamento era il contrario di quanto era stato deciso e pianificato. Entrò nell’ufficio, la salutò in modo sgarbato, come sempre aveva fatto con lei, le chiese di che cosa si stesse occupando. Lei non provò alcuna perplessità, girò il suo monitor verso di lui e gli fece vedere tutto il lavoro, punto per punto, Gli fece leggere ogni dettaglio, laddove si spiegava così, dentro a quei files, nero su bianco, con una minuzia incredibile, tutto quello che le era successo da quando era arrivata dentro l’azienda, tutte le cose non chiare che erano passate sopra la sua scrivania, con una sottolineatura continua dei comportamenti faziosi e immorali che erano stati tenuti nei confronti degli utenti e degli impiegati. Il taglio di tutto il lavoro era di tipo giornalistico, e tutto pareva già fatto in modo da essere pubblicato su una qualche rivista a caccia di scandali. Il capoufficio, in dieci minuti, comprese il rischio a cui la sua azienda si stava esponendo, e cercò  subito di trattare con lei, promettendole di parlare con i suoi superiori, assicurandola che sarebbe stato trovato un posto più adatto alle sue competenze, ma lei fu imperterrita: si alzò dalla sua sedia, prese la borsa con i suoi documenti, ed uscendo dalla stanza disse soltanto: “Le mie dimissioni ufficiali, che probabilmente volevate strapparmi per disperazione, adesso le scriva da sé;  a me basta di andarmene, far pubblicare il mio dossier su di lei e su tutta l’azienda, il resto lo vedremo in futuro…”, e con queste parole uscì dalla stanza.


Bruno Magnolfi