La prima volta che la vidi passare,
di là dai vetri al piano terra dell’Istituto, ebbi la percezione netta come di
una specie di collegamento tra me e lei. Nonostante le grate di ferro, era il
mio passatempo preferito starmene ad osservare quello scorcio di marciapiede
davanti all’Istituto. Mi parevano interessanti le persone, piene di cose da
fare, di vitalità. Non avrei mai voluto essere proprio come loro, con quelle
preoccupazioni continue e tutto il resto, però mi piaceva guardare quella
gente, proprio come un visitatore osserva gli animali dello zoo. Di ognuno
immaginavo il timbro della voce, i modi di fare e anche altre cose; e questo
era il mio passatempo, perlopiù.
Dopo
qualche mattina mi accorsi che stava passando ancora sopra al marciapiede. Non
rimasi sorpreso, lo sapevo che l’avrei rivista altre volte, anzi, ne ero
sicuro; solo una leggera e nuova sensazione si diffuse lentamente dentro di me.
La mia indolenza assodata, la resistenza capricciosa ad ogni cambiamento nel
programma della mia giornata, d’improvviso parevano lasciare posto alla voglia
sottile ed inquietante di uscirmene dall’Istituto, dopo tutti quegli anni. Non
per incontrarmi con le persone, questo no; per avvicinarmi a lei, per guardarla
bene, da vicino. Quel pomeriggio ne parlai con lo psicoterapeuta, non
specificando tutto quanto, però. Dissi genericamente che mi sentivo pronto per
affrontare il mondo esterno, sia pure a piccole dosi. Conoscevo abbastanza bene
ciò che voleva sentirsi dire, e così cercai di non deluderlo. Per la settimana
seguente fu fissato un incontro collegiale dell’Istituto sul mio caso, però
senza la mia presenza. Intanto sarei stato messo “sotto osservazione”.
Al pomeriggio in genere si
passeggiava un po’ lungo i vialetti del giardino interno all’Istituto. Le
uniche variabili erano date dalla malattia o dalla pioggia. I rumori della
città non arrivavano fino lì, e quel senso di pace, tanto tenuto di conto dagli
psicoterapeuti, in realtà pareva un dispetto. I merli e i pettirossi idioti
continuavano a chiamarsi e a scacazzare dappertutto, perfino sulle panchine. Li
avrei ammazzati tutti. Gli alberi invece erano fermi e indifferenti, mi piaceva
accarezzarne il tronco, o staccarne una foglia per guardarla. Tutti i degenti
circolavano lentamente o stavano seduti. Qualcuno si torceva le mani o rideva
tra sé, chissà di cosa. Io camminavo e lasciavo che il tempo scivolasse via,
senza preoccuparmene. In genere non parlavo con nessuno, ma in quei giorni
quella nuova presenza si era introdotta dentro di me, quasi infastidendomi. La
sentivo, la mia Lucia, come ero sicuro si chiamasse, e anche se non l’avevo più
vista da qualche giorno, sapevo che era là, da qualche parte, dietro alle
sbarre dello zoo.
All’ora
di pranzo mi sedevo al tavolino assieme al Fossi. Le variabili potevano essere
molteplici. Lo psicoterapeuta non avrebbe voluto tenerci assieme, ma se ci
divideva io mi rifiutavo di mangiare. Il Fossi rimaneva sempre in silenzio e
guardava nel vuoto. Masticava lentamente con la sua espressione costituita da
completa indifferenza, e per me era il massimo. Agli altri tavoli si litigavano
le stoviglie, ridevano a voce alta senza averne mai un motivo, e poi muovevano
continuamente le mani e anche le sedie. Erano del tutto insopportabili. Il
mangiare non mi piaceva, però buttavo giù tutto, fino al piatto vuoto, proprio
per non farmi rompere le scatole.
Il
momento peggiore in assoluto era quello della conversazione. Lo psicoterapeuta
ci piazzava a sedere tutti quanti e cercava di coinvolgerci con qualche stupido
argomento. Le poche variabili a questo programma potevano essere date dalla
crisi di qualcuno, oppure da una mia indisposizione di qualche genere.
Normalmente rimanevo in fondo quasi senza ascoltare, e quando lo psicoterapeuta
mi rivolgeva le sue domande, cercavo sempre di prenderlo in considerazione,
anche se solo con dei cenni della testa.
Faceva
già caldo, la primavera era arrivata, quella mattina, ed io, dopo la doccia
collettiva e la solita colazione, mi ero fatto aprire i vetri della finestra.
Era una grossa variabile, si sentivano tutti i rumori che provenivano da fuori,
ma con il sole di quel giorno mi pareva di non poterne fare a meno. Sul
marciapiede c’era già qualche passante che trotterellava qua e là, anche se era
poca gente. Con i vetri aperti sapevo di attirare l’attenzione, ma non mi
importava. Dietro alle sbarre dello zoo la gente era libera di fare quello che
voleva, anche starsene per tutto il giorno lì fuori ad aspettare che tirassi
loro qualche nocciolina. Poi la vidi. Era là Lucia, e si muoveva svelta lungo
il marciapiede; poi, arrivata alla mia altezza, si era sentita osservata, ed
aveva girato lo sguardo su di me con i suoi occhioni chiari. Due ore dopo
l’infermiere e lo psicoterapeuta mi avevano tolto con la forza da dietro quella
grata, anche se io mi ero lasciato trascinare via quasi volentieri. Era l’ora
di pranzo o quasi, dovevo prendere posto con il Fossi, non potevo fare
altrimenti.
All’ora
della conversazione lo psicoterapeuta disse: “Ehi, Fausto, perché oggi non ci
parli delle tue interessanti osservazioni dalla finestra?”. Pensai tra me che
quella era una variabile troppo grossa per poter essere presa in considerazione
con una risposta, però starmene in silenzio poteva pregiudicare il mio futuro,
così risposi solo: “…le donne”. Lo psicoterapeuta rise di gusto, e tutte le
scimmie ammaestrate iniziarono a fare uno schiamazzo insopportabile. Quando
tornò la calma lo psicoterapeuta disse: “Bravo! Anch’io non avrei altro motivo
per starmene tutta la mattinata a una finestra”. Così mi lasciò in pace e parlò
d’altro.
Alla
sera nella sala comune si guardava tutti assieme la televisione. Consuetamente
facevo finta di guardare nello schermo, anche se non lo facevo quasi mai,
limitandomi ad osservare il muro bianco vicino. Troppi programmi diversi,
troppi cambi d’immagine, pareva una variabile continua, insopportabile. Poi
arrivava l’ora dell’iniezione e quella del letto. Era bello starsene con gli
occhi lì nel buio, a sentire che la calma distillava lentamente lungo le vene e
il sistema nervoso. Per qualche attimo arrivavano delle immagini chiare al mio
cervello, come se una coltre di veli vaporosi, rischiarati da una luce azzurra,
intensa ma non diretta, coprisse piacevolmente altre immagini nascoste. Poi
tutto si spegneva lentamente.
Fu
durante quella stessa settimana che il direttore mi fece chiamare. Non mi
piaceva quella variabile, ma poteva essere importante. Mi chiese come stavo,
poi disse: “Fausto, penso di poterti inserire nel programma delle passeggiate
all’esterno dell’Istituto”. Io lo guardai a lungo cercando sul suo viso la
possibilità secondo la quale stava semplicemente mettendomi alla prova e
nient’altro. Infine risposi: “…va bene”. Il giorno seguente, a mezza mattinata,
l’infermiere venne alla mia finestra e mi disse di mettermi la giacca perché
saremmo usciti. Io mi mostrai restio, ma lui insistette dicendo che si andava a
vedere la stessa gente che vedevo ogni giorno dalla mia finestra, ma senza le
sbarre. Lo seguii, e girammo attorno al quartiere per un paio di volte. Su ogni
viso che s’incontrava cercavo Lucia, ma non la vidi.
Dopo
qualche giorno tornammo ancora fuori, ma il giro fu diverso ed io m’innervosii
parecchio con l’infermiere. Non capiva perché io volessi rimanermene soltanto
su quel marciapiede, e continuava ad insistere e a strattonarmi. Alla fine
arrivò Lucia ed io mi sentii trasformare in un docile agnellino. Chiesi
all’infermiere se potevamo andarle dietro, ma non mi dette alcuna possibilità.
Poi andammo verso dei luoghi lì vicino, che però non conoscevo, e siccome
l’infermiere aveva detto: “vedrai che da queste parti la rincontriamo”, io mi
lasciai guidare. C’era più confusione per le strade dov’eravamo adesso, e il
traffico era veloce, le immagini cambiavano di continuo. Non mi piacevano tutte
quelle variabili, mi rendevano nervoso. Poi tornammo all’Istituto.
La
sera mi sentivo agitato. Lo psicoterapeuta disse: “Ehi, Fausto, cosa c’è?”.
Stavo sbattendo una mano con la palma aperta sopra al tavolo e non mi ero
affatto accorto di fare tutto quel baccano, così mi fermai per qualche attimo,
mi guardai attorno, e dopo un po’ risposi: “…non lo so; …sono agitato, ecco…”.
“Non sarà per il giro di stamani, Fausto, no?”. C’era silenzio nel locale e
questo acuiva le percezioni. Mi sembrava anche di sentire una mosca che
continuava a sbattere contro un vetro, e forse m’innervosiva, il suo ronzio era
insopportabile. “…forse”, risposi con sforzo. “Ci sono…troppe…variabili, là
fuori”. Lo psicoterapeuta guardò i suoi fogli, poi disse: “non preoccuparti, ti
abituerai”, ed iniziò a parlare d’altro.
La
settimana successiva l’infermiere mi accompagnò alla porta, poi disse: “vai
pure, oggi puoi farti un giro per conto tuo”. Io lo guardai sbalordito e cercai
per qualche attimo di immobilizzarmi. Quando l’infermiere richiuse il portone
disse solamente: “ricordati di tornare, Fausto, tra mezz’ora o un’ora, non più
tardi, intesi?”. Sapevo che mi avrebbe seguito ad una certa distanza, ne avevo
sentito parlare anche in altre occasioni, però non dissi niente, andava bene.
Per diverse
volte camminai lentamente su e giù per il marciapiede, poi abbandonai la strada
girando a un angolo. Infine, all’incrocio successivo, incontrai Lucia. Non
seppi che dire, mi limitai a guardarla, e forse anche lei mi osservò per
qualche istante. Le andai dietro cercando le parole per dirle qualcosa di
gentile, ma quasi simultaneamente lei aprì un portone con la chiave ed entrò
dentro.
Velocemente
raggiunsi anch’io il portone, e mentre stava per chiudere dissi: “…scusi!”. Lei
riaprì il portone di quel tanto sufficiente a farmi entrare, senza
riconoscermi, ma una volta dentro disse: “…ma lei, è dell’Istituto”. “Sono un
infermiere”, dissi prontamente, chiudendo il portone alle mie spalle. Ero
sicuro non fossi stato visto entrare dall’infermiere che mi teneva d’occhio,
così mi sentivo tranquillo, almeno per quel verso. “…Lucia”, dissi; “…lei è una
bella donna. Lo sa?”. “Ma il mio nome non è Lucia”, disse. Rimasi perplesso,
era una variabile cui non avevo riflettuto. “Perché non usciamo di nuovo sulla
strada”, continuò, “così posso indicarle dove può trovare la sua Lucia”. “…no”,
dissi; “…è lei, la mia Lucia, non…non mi confonda, per favore…”. Lei aggiunse
che aveva dimenticato qualcosa dal droghiere, ma che potevo accompagnarla, se
volevo. Capii che voleva liberarsi di me al più presto, così non mi spostai dal
portone presso cui ero rimasto.
“Aiuto!”, disse
a un tratto con voce troppo alta. La pregai di stare zitta mentre pensavo che
le variabili stavano sfuggendomi, poi le misi le mani sopra al collo per
invitarla a chiudere la bocca. La sua pelle era morbida, il tepore piacevole.
Non mi accorsi di stringerle le mani sulla gola, cercavo soltanto di
convincerla a non urlare più, ma più stringevo più lei si dibatteva. Infine era
caduta a terra, strabuzzando gli occhi. Proprio nel momento in cui avevo deciso
di lasciarla perché non volevo in nessun modo farle male, con un fracasso
terribile fu spalancato il portone, e l’infermiere mi colpì allo stomaco con un
pugno formidabile. M’immobilizzarono, in tre o quattro, e legato a una lettiga
mi riportarono velocemente all’Istituto. Il resto è facile immaginarselo.
Le mie giornate
non furono più quelle di prima. Le iniezioni divennero due durante la giornata,
e non ebbi più la possibilità di guardare fuori dalla finestra. Mi sentivo
continuamente stanco e non potevo mai abbandonare la sala comune, nemmeno
quando gli altri se ne andavano in giardino. Non parlai più con i degenti,
anche se qualcuno continuò a cercare di rivolgermi qualche semplice domanda.
Non avevo voglia di vedere gli altri attorno a me, neppure lo psicoterapeuta.
Tutto il giorno aspettavo docilmente il momento che si faceva scuro, e quando
la sera arrivava e mi lasciavo sistemare nel mio letto, mi sentivo bene, quasi
contento. Restavo lì, con gli occhi aperti persi nel vuoto, ed ogni sera dal
buio riaffioravano i miei veli azzurri, le coltri vaporose che non mi
deludevano, e adesso qualche volta si squarciavano, aprivano le loro pieghe
ignote e mostravano Lucia, la mia Lucia, e lentamente lei voltava i suoi occhi
chiari, e ancora mi guardava…
Bruno Magnolfi