mercoledì 15 maggio 2024

Non c'era più.


            Stamani l’impiegata al ricevimento dell’albergo dove lavoro si è presentata come sempre puntualissima, dandomi un saluto sorridente e incoraggiante, forse anche in considerazione del fatto che trascorrere tutta la notte in questo pur vasto ingresso restando sempre sveglio e vigile, come sono chiamato a fare io, non è esattamente l’attività più esaltante tra tutte quelle che si possono compiere. Le ho risposto con il mio abituale saluto, le ho dato tutte le consegne e spiegate le scarse novità registrate durante la nottata, poi, al momento di andarmene, mentre intanto prendevano posizione i facchini ed il resto del personale della mattina, mi è venuto voglia di dirle: <<Qualche volta, io e te, si potrebbe anche vederci fuori da qui, e magari prendere un caffè senza avere addosso queste divise di lavoro>>. Clara mi ha guardato con un’espressione un po' perplessa, io e lei ci conosciamo oramai da diversi anni, però non abbiamo mai scambiato molte parole tra di noi, oltre quelle necessarie per svolgere il nostro ruolo. <<Tu sai che io sono sposata>>, mi ha detto con la sua abituale schiettezza, ed io immediatamente ho rettificato l’invito sorridendo: <<Ma certo>>, le ho detto, <<non volevo mica spingermi così avanti da proporti chissà cosa, solo scambiare due chiacchiere in un locale qualsiasi, quello che preferisci tu>>. Lei ha sollevato lo sguardo dai registri aperti sopra il banco del ricevimento, ed ha accennato ad un nuovo sorriso aperto, e poi mi ha detto: <<D’accordo, magari abbiamo anche più cose in comune di quelle che si potrebbero immaginare ad una prima impressione. Ti lascio il mio numero telefonico, così possiamo fissare il giorno migliore per tutt’e due>>.

Quindi sono uscito, dapprima con un’impressione positiva di quanto appena detto, ma subito dopo vergognandomi un po' della mia sfacciataggine. Di fatto, la vera vergogna che mi prende in casi come questi, è quella di mostrare con evidenza a qualcuno la mia solitudine, la mia scarsissima capacità di intessere delle relazioni interpersonali con gli altri. Per nessun motivo al mondo vorrei generare un moto di pena verso di me, per cui il pensiero di aver suscitato un sentimento del genere nella mia collega poco per volta mi ha fatto sentire a disagio, fuori sintonia, insomma sempre più in crisi. Così ho continuato a riflettere a lungo sulle mie parole e sulla risposta ricevuta, e addirittura avrei voluto tornare indietro per dire a Clara di dimenticare ciò che le avevo chiesto, come se non ci fosse mai stata alcuna richiesta da parte mia. Pensandoci meglio, ciò che avevo desiderato provare con lei era solamente la mia personale capacità di spiazzare gli altri, di suscitare con solo due parole una sorpresa improvvisa in chi non si aspetterebbe mai da me una cosa di quel genere. Quindi mi sono avviato lentamente verso la mia abitazione, tentando di cancellare dai miei pensieri la sicura brutta impressione generata in quella ragazza brava e dedita al proprio lavoro.

Una volta in casa mi sono seduto, e subito ho notato questo ragazzo, sopra un terrazzino che resta dirimpetto alla mia finestra. Sembrava impegnato a mettere in ordine dei vasi da fiori, e non si interessasse di nient’altro, ma quando ha alzato lo sguardo verso di me ho visto che ero io stesso, qualche decennio addietro. Occuparmi degli oggetti, più che delle persone, è sempre stata una mia prerogativa, così non mi sono affatto meravigliato che lui adesso fosse impegnato a togliere qualche foglia secca da quei gerani e a versare un po’ d’acqua nella terra. Mi sarebbe piaciuto dargli una mano, in silenzio, ed occuparmi anche io di quelle piante fiorite, così ho aperto la finestra, e nel far questo gli ho fatto un cenno di saluto. Lui, che era posizionato con un ginocchio a terra per compiere quelle piccole attività, dopo che mi ha fatto un piccolo cenno con la mano, si è subito sollevato, come se avesse ormai terminato ciò che aveva in mente di fare, e senza più guardarmi è rientrato nella propria abitazione. Io ho appoggiato i gomiti sopra al davanzale, senza decidermi a fare qualcosa di particolare, se non osservare la strada sottostante poco trafficata, quasi nell’attesa che Paolo tornasse a farsi vedere e magari mi rivolgesse la parola.

Niente però è successo, ma quando sono rientrato ed alla fine ho chiuso la finestra, mi sono reo conto che lui era lì, dietro di me, seduto comodamente e con lo sguardo verso la parete. <<Perché non riesco a comportarmi adeguatamente con gli altri?>>, gli ho chiesto come se fosse una sua precisa responsabilità; e Paolo allora mi ha guardato, è rimasto un attimo in silenzio, e poi, come fanno i ragazzi alla sua età, ha sollevato le spalle, a dimostrare che non aveva alcuna risposta da darmi. <<Per me è stato sempre naturale>>, ha detto dopo un po’. <<Non mi sono mai forzato ad essere diverso da come sono sempre stato>>. Io allora ho annuito, poi mi sono mosso per andare a prendere dei succhi di frutta in cucina, per me e per lui, ma quando sono tornato ho visto che Paolo ormai non c’era più.

 

Bruno Magnolfi  

domenica 12 maggio 2024

Alcuna preoccupazione.


            Credo che i miei compagni di classe potrebbero essere in certi casi anche invidiosi dei miei comportamenti, nonostante a me in fondo non interessi proprio niente dei loro pensieri. Riesco a stare da solo a mio agio e in perfetta tranquillità, mentre tutti gli altri hanno sempre bisogno di parlare con qualcuno, di ridere, scherzare, di misurare le barzellette che riescono a ricordare, ed anche persino la loro eventuale capacità di essere davvero spiritosi. Io sistemo i miei quaderni sul banco, mentre loro parlano, e li dispongo proprio come più mi piace, ad iniziare già dal primo momento in cui arrivo dentro la scuola di via delle matite, quando, subito dopo, apro l’astuccio con tutto il suo contenuto, ed alla fine mi siedo e me ne sto al mio posto in silenzio da solo, certe volte ad improvvisare qualche piccolo disegno su un lembo di una pagina, altre volte a riguardare il libro o gli esercizi eseguiti negli ultimi giorni. Non ho bisogno di altro, tantomeno parlare con qualcuno, e se per caso il mio compagno di banco mi chiede qualcosa, rispondo sempre in maniera sintetica, usando il minimo possibile delle parole che possono servire. Il mio esercitarsi continuamente alla solitudine, mi fa sentire perfettamente bene, come sapessi già da adesso che tra vent’anni o più sarà proprio il comportamento che mi tornerà maggiormente utile, e questo particolare non avere bisogno degli altri credo proprio che sin da ora che sarà sempre il tratto distintivo della mia personalità.

<<Sei un ragazzo in gamba>>, potrebbe dirmi adesso, osservandomi bene, la persona adulta che diverrò probabilmente tra molti anni. <<I tuoi modi di comportarsi di questi anni in cui frequenti ancora la scuola elementare, saranno i principi fondanti di tutta la tua vita; e non assomigliare a nessuno, e soprattutto il  fare affidamento soltanto sulle tue forze, sarà sempre in seguito la base su cui appoggiare tutto il resto>>. Io guardo con attenzione quell’uomo fatto e finito che diverrò tra un po’ di tempo, e sono sicuro che lui incarna in questo momento esattamente quello che vorrei essere da grande, quando tutte le scelte e i modi di fare di una persona adulta si saranno realizzati in maniera seria ed importante. <<Forse però>>, continua lui, <<non hai riflettuto bene sul fatto che, proseguendo ad agire in modo separato da tutti, le occasioni per intraprendere delle attività che magari ti possono anche essere piaciute, si sono ridotte drasticamente, ed il tuo startene sempre per conto proprio non ti ha lasciato mai la possibilità di incrociare individui interessanti, persone piene di idee, ragazze e giovanotti che potrebbero tornarti utili nello sviluppo dei tuoi desideri>>. Mi prende sempre un moto di fastidio a sentir parlare così, anche se, riflettendoci a fondo, riconosco che un fondo di ragione con ogni probabilità ci può indubbiamente essere in mezzo a quelle parole.

Poi giunge la pausa di metà mattinata. Mi guardo attorno, ogni ragazzo della mia classe vedo che si è già alzato in piedi e in pochi attimi si sono facilmente formati dei piccoli gruppi in cui tutti parlano tra loro gesticolando e ridendo. Sono l’unico rimasto seduto, e a nessuno viene mai la voglia di chiedermi qualcosa o di riferirsi a me per qualche motivo. All’improvviso, dico con voce alta e decisa: <<Voglio andarmene da qui!>>, giusto per vedere che reazione riesce ad avere un’affermazione del genere sugli altri. Si instaura subito un attimo di silenzio, tutti mi guardano per capire se a quelle parole c’è addirittura un seguito, poi forse qualcuno riflette che forse in certi casi mi torna normale sentirmi terribilmente da solo pur in mezzo a tanti coetanei. Mi viene vicino uno tra quelli meno introversi, giusto per chiedermi per quale motivo abbia detto in quel modo preciso, ma io adesso oppongo un ostinato silenzio, lasciando all’eventuale interpretazione di qualcuno la possibilità di comprendere il mio attuale stato d’animo.

Quindi le lezioni riprendono come ogni giorno, e nessuno sembra più fare caso a me, proprio perché tutti desiderano la normalità. A fine mattinata però, appena suonata la campanella del termine delle lezioni, il compagno di prima viene verso di me con i suoi libri e i suoi quaderni ormai ben allacciati tra loro da una apposita cinghia, e mi posa una mano sopra la spalla con fare quasi amichevole. <<Cosa c'è, che proprio non ti va bene>>, mi chiede con naturalezza, accompagnando le parole con un leggero sorriso, ma senza dare troppa importanza alla cosa; ed io a quel punto, che non posso certo esimermi dal dargli una qualche risposta, dico soltanto: <<A volte mi sento un po' solo>>, usando un’espressione di afflizione ed un timbro di voce appena percettibile. Lui mi guarda, poi fa: <<però sembra a tutti che tu stia bene da solo, completamente a tuo agio, e che non abbia mai alcun bisogno degli altri>>. Lo guardo a mia volta, poi ci incamminiamo verso l’uscita, ed io all’improvviso inizio a ridere, anche se in modo piuttosto pacato: <<Stavo scherzando>>, gli dico alla fine; <<Non preoccuparti per me>>.

 

Bruno Magnolfi

martedì 7 maggio 2024

Ancora una possibilità.


            Ricordo, mentre come ogni volta svolgo il mio compito di portiere di notte in questo albergo turistico, che durante gli ultimi giorni di scuola media, dopo due anni che quasi non l’avevo più vista, incontrai un pomeriggio ad una piccola festa, dentro ad un appartamento dove mi ero recato solo per fare numero, come desideravano i miei compagni di classe, ma con la ferma idea in testa di stare qualche minuto con loro e poi subito andarmene via, la mia vecchia amica Marta, adesso ben vestita e coi capelli nerissimi e sciolti sopra le spalle. Non dissi niente quando la vidi, non mi feci neppure notare, ma fu lei che, con un gran sorriso sulla faccia, venne subito verso di me, sfiorando le sue labbra con le mie e dicendo a voce alta: <<Ecco il mio amore!>>. Rimasi immobile, stregato, i miei genitori stavano già compiendo il trasloco di appartamento, ci si trasferiva in città, una volta terminato l’anno scolastico, ed io ero talmente contento di andarmene da quella cittadina dove, da quando ero nato, non ero riuscito a farmi neppure un amico, che tutti i ragazzi che mi circondavano apparivano oramai ai miei occhi quasi trasparenti, tanto riuscivo ad ignorarli.

            Quel paese era il frutto sbagliato di un piano regolatore ideato da una persona come minimo ubriaca, oppure da un pazzo: i soldi erano stati forniti a pioggia per chi aveva preso la residenza in quel luogo composto nei decenni passati soltanto da un borgo contadino, e le nuove case popolari progettate intorno a quel nucleo, tutte simili una all’altra, erano state tirate su con dei mutui individuali a fondo perduto, al punto che una volta intascati i quattrini, in molti avevano lasciato le abitazioni non terminate, volgendo le spalle a quella cittadina fantasma composta da scheletri di palazzetti e da strade tracciate alla meglio. Tutto l’intero centro abitato era poi stato pensato in funzione di una grande scuola per i bambini e per i ragazzi, l’enorme edificio di via delle matite, dove io avevo svolto fino ad allora tutti i miei studi, anche se negli ultimi anni gli studenti di ogni classe avevano iniziato a farsi sempre più scarsi. Anche la mia famiglia alla fine aveva deciso di andarsene, anche perché mio padre, con il suo duro lavoro di camionista, era riuscito a mettere da parte i soldi sufficienti per permettersi un piccolo appartamento nella vicina città, ed io, quando se ne era parlato anche con la mamma, mi ero dimostrato talmente entusiasta all’idea di lasciare per sempre quel luogo, che sarebbe stato impossibile per loro ritirare quella proposta.

            Per un minuto o anche due non riuscii a dire niente, ma lei mi abbracciò con grande calore, ed io mi ritrovai a sorriderle con l’espressione di uno stolto, completamente travolto da qualcosa di assolutamente impensabile. Sapevo che aveva avuto un ragazzo, un tipo per nulla simpatico, e si era fatta vedere in giro con questo tizio per qualche mese, fino a quando era sparita, quasi risucchiata, avevo pensato io, da quella relazione per lei estremamente esclusiva. Era normale che mi fossi disinteressato completamente di Marta, ed anche se l’anno precedente mi era sembrata ancora una ragazza verso la quale nutrire qualche speranza, in seguito ogni pensiero su di lei mi era svanito dalla mente, evaporato, quasi come se non fosse mai neppure esistita. Adesso, all’improvviso, eccola qui, con degli atteggiamenti che non mi aspettavo e dei quali non la credevo neppure capace, tanto che non sapevo proprio cosa rispondere, quale comportamento assumere per non apparire un idiota e nient’altro. Poi lei salutò qualcun altro, rise di qualche battuta di spirito che intanto era stata formulata, girò per la stanza come se fosse perfettamente a proprio agio, e in un attimo probabilmente si dimenticò del tutto della mia presenza. Sgattaiolai fuori dall’appartamento come peraltro avevo già deciso di fare, perdendo volutamente del tempo lungo le scale, nella speranza che Marta mi rincorresse, o si ricordasse all’improvviso di me, ma niente di tutto questo parve accadere, ed io mi ritrovai lungo la strada senza altra voglia se non quella di tornare alla svelta dai miei genitori.

            Forse fu il suo modo, sicuramente bizzarro, di darmi così il proprio addio, ho pensato in seguito e a lungo molte volte, anche perché non ho più avuto modo di incontrarla di nuovo, ed anche questo sembra quasi qualcosa già perfettamente deciso in precedenza, fino a lasciarmi convincere che era assolutamente meglio così piuttosto che trascinare la nostra conoscenza nei tempi a seguire. Forse fu quello il momento in cui la sentii a me più vicina, nonostante avessi, durante l’anno precedente, già riconosciuto, nei suoi comportamenti, qualcosa che non collimava affatto con la mia personalità. Però mi piacque in quell’ultimo incontro il suo gesto e la sua espressione, e devo riconoscere che, se qualche volta mi sono ricordato di Marta con un certo piacere, è stato proprio grazie a quella volta finale, come fosse stato un simpatico e completo azzeramento di ogni possibilità ancora in campo.

 

            Bruno Magnolfi              

domenica 5 maggio 2024

Misero risultato.


            Marta mi ha guardato, in silenzio, come se le sue opinioni passassero in secondo piano nei confronti dei pensieri che sembrano continuamente correre nelle nostre menti. Per un attimo mi sono sentito bene, compreso nella mia solitudine, ma lei d’improvviso si è sollevata da quel gradino su cui c’eravamo seduti, e senza più guardarmi ha detto che adesso doveva proprio andarsene. Non so perché, ma mi sono sentito ferito, come se in una frase di poche parole ci stesse tutto il crollo dei miei desideri, così ho risposto nella stessa maniera: <<Certo>>, le ho detto con modo impersonale: <<anche io ho sciupato persino troppo tempo questo pomeriggio>>. Quasi non ci siamo salutati, ed ognuno ha preso per una direzione diversa, anche se io non avevo neppure un posto dove dirigermi, se non a casa, dove però c’era mia madre ad occuparsi delle proprie cose e a mostrare il desiderio di non essere disturbata. Così ho compiuto uno dei mei giri senza una vera meta, rasentando le case grigie a due piani del paese, spesso soltanto intonacate e mai completate, in certi casi lasciate per anni con ancora i mattoni a vista. Sono andato a sedermi in un piccolo cantiere rimasto fermo da sempre, con le tavole di legno marcio e l’erba alta e secca tra i ferri arrugginiti, e sono rimasto lì a riflettere. Anche Marta è come gli altri, ho pensato. Incapace di stare davvero vicino a qualcuno, e se per qualche momento è riuscita a fingere di incuriosirsi magari per qualche particolare che non aveva mai riscontrato in qualcuno fino ad ora, in realtà il suo mondo è fatto d’altro, praticamente quasi lo stesso di tutti gli altri miei compagni di classe. A questo pensiero la mia volontà si è subito fortificata, e quando sono tornato ad alzarmi in piedi, la mia sicurezza mi ha fatto lasciare alle spalle ogni altro desiderio, conservando soltanto l’orgoglio della mia solitudine. 

            Per certi versi era stato meglio il periodo della scuola elementare, quando almeno ci comportavamo tutti in un modo più istintivo, meno riflettuto ed elaborato dalla mente; perché adesso che siamo alle scuole medie la nostra inevitabile crescita ci ha naturalmente portato ad essere combattuti tra mille continue scelte possibili, e all’improvviso anche le parole, i nostri gesti, e le espressioni persino appena accennate, sono divenute in qualche caso delle vere lacerazioni dello spirito. Mi sono spinto di nuovo quarant’anni più avanti allora, proprio per rendermi conto una volta di più della trasformazione che il tempo ha elaborato dentro di me, ed ho rapidamente incontrato il mio me stesso mentre stava camminando lungo una strada, semplicemente. Gli sono andato vicino, l’ho persino affiancato, e poi gli ho preso con delicatezza una mano, come a mostrare che comprendevo perfettamente il suo stato d’animo, e mi rendevo conto della radice, della vera origine degli errori commessi in tutto questo tempo. Lui non ha detto niente, ma si è sicuramente sentito bene per questa mia solidarietà inaspettata, e in questo modo abbiamo compiuto un intero tratto insieme.

<<Non mi chiedo mai se sono contento di quello che sono>>, ha detto lui alla fine. <<Probabilmente, se cerco qualcosa nelle cose che mi circondano, non è certo la felicità o il sentirmi a mio agio. Mi accontento, anche se questa parola mi pare persino offensiva al giorno d’oggi>>. Io gli ho sfilato la mia mano dalla sua, mi sono fermato sul marciapiede, e poi ho lasciato che quest’uomo di mezza età scorresse avanti, come rassegnato in sé e nelle proprie parole. Avrei voluto parlargli di Marta, del suo comportamento, ma non sono del tutto sicuro che lui mi avrebbe fornito le risposte a me necessarie. Una persona da sola è capace di sentire il mondo nelle proprie mani, nel momento in cui pensa alle proprie cose, e nessuno di noi due, anche se siamo lo stesso individuo in tempi differenti, è disposto a concedere l’evidenza di un errore commesso, se non è stato il primo a rendersene conto. Marta è sicuramente scomparsa dalla sua memoria, non c’è stato alcun motivo per trattenerne neppure il ricordo o una semplice impressione, forse soltanto perché io mi sono rapidamente disinteressato di lei quando ho compreso che per starle vicino avrei dovuto accettare anche dei compromessi con tutti gli altri ragazzini della mia stessa età.

Davanti a me, ancora fermo sopra al marciapiede, lui ad un tratto si ferma, si volta, forse si rende conto soltanto adesso che non sono più insieme a lui, e poi di colpo dice: <<Forse Marta non valeva niente, non era il tipo di ragazza adatta per noi>>. Lo guardo mentre provo il desiderio di non dare importanza a queste parole, ma lui continua: <<Per qualche tempo ha funzionato da specchio con i suoi atteggiamenti, ma la sua personalità non collimava con la richiesta impellente di vicinanza che le veniva avanzata, e forse le giungeva una semplice impressione ogni tanto, ma in un modo dal quale riusciva facilmente a districarsi rapidamente, come se alla fine troppo sforzo le fosse richiesto per un ben misero risultato>>.

 

Bruno Magnolfi

giovedì 2 maggio 2024

Accettazione della realtà.


Il mio vicino di casa mi ha avvertito: <<Dobbiamo essere tolleranti, d’accordo; ma non si può lasciare che qualcosa di insopportabile prosegua ancora ad accadere, come se noi fossimo disposti ad accettare qualsiasi sgarbo senza mai dire un bel niente>>. Lo osservo con attenzione, mentre ambedue restiamo in piedi sulla soglia del mio appartamento, e comprendo dai suoi gesti nervosi che ha ormai raggiunto una fase personale piuttosto delicata. Noi due siamo dei buoni dirimpettai di pianerottolo, e quindi ci conosciamo da un pezzo, ma non è colpa mia, rifletto, se nell’appartamento al piano superiore del nostro condominio si è installata da qualche tempo una nuova famiglia di affittuari un po' rumorosa, e in special modo durante la notte, in quelle ore in cui io fortunatamente mi trovo a lavorare in albergo, non ritenendomi perciò disturbato da loro, almeno non nella stessa maniera in cui mi riferisce questo mio conoscente. Per lui invece è una questione estremamente importante, ed adesso poi aggiunge per questo che è persino disposto a fare intervenire le forze dell’ordine. Personalmente non ho un buon rapporto con le guardie, soprattutto per i miei trascorsi; perciò, preferirei tentare di risolvere la questione in maniera meno ufficiale, cioè, facendo semplicemente presente ai confusionari che non è il caso di andare avanti ancora così. <<Ci devi parlare tu>>, fa adesso il mio vicino, <<altrimenti io perdo facilmente le staffe e va a finire che riesco a compromettere tutto>>. Annuisco, anche se non ho alcuna voglia di intraprendere una discussione su questi temi, né col mio vicino, né con la famiglia incriminata. Alla fine, riesco a rassicurare quest’uomo che mi rimane di fronte, normalmente calmo e gentile, e poi a chiudere la porta di casa alle sue spalle dopo averlo in parte convinto delle mie buone intenzioni.

Durante il giorno non ci deve essere nessuno nell’appartamento del piano di sopra, rifletto, difatti non avverto mai grossi rumori o cose del genere; però durante la tarda serata, quando tra l’altro i sensi per tutti si fanno più attenti e sensibili, ecco che questa famiglia si anima e sembra addirittura scatenarsi, urlando e muovendo mobili e oggetti sul proprio pavimento. Sorrido, alla fine è persino una cosa sciocca quella che sono chiamato a fare, però aspetto con pazienza l’ora di cena e poi mi presento all’uscio del piano superiore, bussando leggermente alla porta. Mi apre una donna in vestaglia, alle sue spalle tre o quattro bambini curiosi, e sullo sfondo intravedo un uomo piuttosto corpulento e poco rassicurante. Spiego in fretta le mie ragioni, e chiedo con cortesia la loro comprensione per tentare una convivenza condominiale il più possibile serena, ma vengo guardato in malo modo, senza che mi venga neppure offerta una vera risposta. Imbarazzato, ripeto quello che ho appena finito di dire, ma la donna abbandona la sua posizione, lasciandomi sulla soglia con i suoi bambini che mi guardano come se fossi un extraterrestre. Alla fine, lentamente, me ne vado, e dopo un attimo sento chiudere di colpo la porta alle mie spalle. Quello che dovevo fare, penso mentre scendo le due rampe di gradini, credo di averlo già fatto.

Mentre mi cambio gli abiti, preparandomi ad uscire di casa per raggiungere il mio posto di lavoro, mi rendo conto che quella famiglia del piano superiore potrebbe essere formata da alcuni dei miei parenti. Uno di quei bambini che ho visto, difatti, potrebbe tranquillamente essere mio padre, una volta fattosi grande, che difatti aveva dei fratelli, e quindi la donna che mi ha aperto l’uscio potrebbe essere tranquillamente mia nonna. Il giorno seguente, in orario comodo per me, suono il campanello del mio dirimpettaio, e gli faccio subito presente quanto è accaduto, spiegandogli però che là dentro abitano brave persone, e che noi dobbiamo essere tolleranti, perché hanno i loro guai, e che non è il caso di farne una tragedia. Lui mi guarda, poi forse decide che non è neppure il caso di ribattere, ma in quel momento io sbotto: <<Sono miei parenti, non fanno niente di male, uno dei bambini tra qualche anno diverrà mio padre, ed io sento che non posso dire o fare niente contro i miei familiari>>. Il mio vicino annuisce, e lentamente inizia chiudere la porta, senza aver pronunciato una sola parola. <<Sono brave persone>>, dico ancora a voce alta all’uscio ormai chiuso; <<sono soltanto un po' confusionari>>. Quindi mi volto e rientro nel mio appartamento. Seduto in un angolo c’è il ragazzetto che viene spesso a farmi visita, il piccolo Paolo, il me stesso di tanti anni fa. <<Stai sbagliando>>, mi spiega. <<Non è in questo modo che potrai riuscire a trovare della solidarietà, oppure addirittura a farti degli amici. Sei solo, devi esserne cosciente, e soltanto in questa maniera puoi fare fronte alla tua giornata>>. Stavolta sono io a restare in silenzio. Cosa aggiungere, peraltro, mi chiedo; tutto è già definito, posso soltanto accettare questa realtà; e nient’altro.

 

Bruno Magnolfi