Sono
anni che la mia gamba malata non mi permette quasi di uscire da casa. Mi
trascino per tutto il giorno dentro la stanza che i miei familiari mi hanno
assegnato, e per trascorrere il tempo continuo a mordermi sempre le unghie
delle mani, quasi fosse l’unica cosa che riesco a fare, tanto che alla fine le
mie unghie si sono ridotte semplicemente a delle piccolissime lunette. Nessun
dottore ha mai saputo spiegare che cosa abbia davvero questa mia gamba, ma per
me è soltanto come se una parte del mio corpo, fin da quando ero un ragazzo,
non avesse mai avuto voglia d’essere collaborativa col resto. Proseguo a
tirarmela dietro, giorno dopo giorno, quasi come un impaccio, un ostacolo alla
normalità, ma spesso vorrei addirittura non averla neppure, tanto riesco ad
odiarla. Per questo la maggior parte del tempo la trascorro seduto, senza
occuparmi di niente, anche se i miei familiari insistono che invece dovrei
muovermi, cercare almeno come posso di camminare, e tentare di riabituare la
gamba al suo moto spontaneo.
A me
però piace il buio, e preferisco sopra tutto starmene in casa, così tengo quasi
sempre gli scuri socchiusi alle finestre della mia stanza, e dimentico in
questa maniera le ore che passano, visto che la piccola quantità di luce del
giorno, cosi come mi appare, filtra quasi fosse sempre la medesima dalle
fessure, sia di mattina che di pomeriggio. Non voglio incontrare nessuno, e
penso che la cosa migliore sia che ognuno coltivi in disparte i propri
malesseri, e tutti coloro che come me non ce la fanno neppure a camminare,
secondo il mio parere non devono mai dare adito alla commiserazione degli
altri. I miei familiari mi lasciano in pace, alzano giusto le spalle quando
ogni tanto aprono la porta della mia stanza per darmi un’occhiata: io resto
qui, come sempre, lascio che tutto vada per conto proprio, e cerco di non dare
fastidio.
Certe volte però mi innervosisco,
ed allora mi arrabbio, la mia famiglia dice che il motivo sta nel fatto che non
mi occupo proprio di niente, ma io so come tutto derivi invece dalla
temperatura e dall'umidità delle giornate. Ci sono persone sensibili a queste
variazioni, non sono certo il primo a sostenerlo, ed io mi reputo assolutamente
tra queste. Quando va a piovere riesco ad accorgermene prima di tutti, perché
la mia gamba si dimostra subito più dolorante; e quando invece si va verso il
caldo, ecco che quella mi prude, terribilmente. Indosso una specie di guaina,
dal piede fino alla coscia, e prima di calzarla cospargo quasi sempre la pelle di
un olio specifico, o in certi casi di una polvere fatta per uno scopo più
terapeutico; ma il più delle volte massaggio i piccoli muscoli rimanenti attorno
alle ossa, semplicemente con una pomata che dovrebbe tonificarli. Non so cosa
si voglia ottenere da tutto questo, ma io mi assoggetto volentieri ai consigli dei
medici, perché so che in questa maniera i miei familiari riescono ad apprezzare
me e i miei tentativi.
Domenica scorsa mi portano fuori
per pranzo: è il compleanno di mio fratello, e così è stato riservato un lungo
tavolo solo per noi. Mi vestono bene, mi portano con loro sorreggendomi
continuamente: ridono, scherzano, anche sulle mie condizioni, e dicono a volte
che io sono il più dritto di tutti. Ci sediamo, ed io sento subito di non stare
bene: ma non vorrei rovinare la festa, così cerco di resistere, stringo i denti
e lascio che tutti facciano le loro fotografie anche a me, che sento di non
essere in grado di arrivare alla fine. Tento di alzarmi, ad un tratto, proprio
per cercare di lenire un dolore diffuso che forse nasce proprio dalla mia
gamba, ma che adesso sembra come estendersi a tutto il mio organismo. Nessuno
mi aiuta, parlano e ridono tra loro, ed io dopo un attimo vado a cadere disteso
sul pavimento, senza alcuna possibilità di reggermi in piedi. Mi rialzano,
tento di scusarmi, mi trascinano in bagno. Lasciatemi qui per favore, dico a
quelli rimasti fuori dalla porta ad aspettarmi: c'è buio a sufficienza se spengo
la luce, sto bene se resto qua dentro da solo: tornerete a prendermi, se
vorrete, giusto quando ci sarà da andar via.
Bruno Magnolfi
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