La morte di mia madre fu
preceduta da una lunga agonia. Agli inizi lei si recava in ospedale soltanto
per un giorno nell’arco di un determinato periodo. In seguito, quando le sue
condizioni si aggravarono, venne ricoverata per più giorni, anche se poi la
lasciavano ogni volta tornare a casa per almeno una settimana. Negli ultimi
tempi, invece, venne trattenuta in corsia in maniera stabile, collegata ad
alcuni impianti specifici che sicuramente le permettevano di tirare avanti, pur
lasciandola praticamente inerte dentro al suo letto, quasi in uno stato di
incoscienza. Tutti, in quel periodo, sperammo che se ne andasse in fretta,
anche perché era evidente che non sarebbe mai più stata una persona a tutti gli
effetti, ma lei invece proseguì a resistere, nei confronti anche di ogni
responso medico, e per un tempo che parve giorno dopo giorno addirittura
interminabile, quasi a stabilire che la propria presenza nel mondo avesse un
significato talmente superiore alla nostra umana sopportazione, da sfidare ogni
possibile idea del limite. Ero preparato da molto tempo perciò alla sua
dipartita, tanto che, insieme a mio padre, sempre più lontano dal senso di
famiglia che io e lui eravamo rimasti strenuamente a tenere in piedi nonostante
tutto, ci eravamo ridotti ad andare a fare visita a quel corpo quasi esanime
immerso dentro un letto e costituito solo di attenzioni infermieristiche e di
sensori elettronici perennemente in funzione, soltanto una volta a settimana, e
restando separati da lei da un paravento e ad una certa distanza, proprio per
non creare ulteriori problemi alla sua evidente debolezza, nell’arco di un
tempo non superiore ad una rapida mezz’ora e basta.
A scuola qualcuno tra i miei compagni di classe era
forse a conoscenza della situazione che stavo vivendo, tanto più che alla lunga
quasi sembrava, almeno in certe espressioni da tutti riservate proprio nei miei
confronti, che in qualche modo me la fossi meritata, opprimendo ogni mia
sensibilità con l’imposizione di un senso di colpa che difficilmente riuscivo a
scrollarmi di dosso, in considerazione delle opinioni che mi pareva di
avvertire costantemente attorno a me. Era rimasta soltanto Marta, ad un certo
punto, a rivolgermi la parola ogni tanto, commisurando la sua perenne serietà
alla mia incapacità di sorridere o di mostrare una volontà di leggerezza che
non riuscivo a provare più, in nessuna situazione. Lei si avvicinava a me ogni
tanto durante le pause tra una lezione e l’altra, ma senza mai neanche
toccarmi, o anche solo guardarmi direttamente, e mi diceva qualcosa che
appariva soltanto il tentativo, almeno così io immaginavo, di farmi pensare a
qualcos’altro, anche se certe volte pareva quasi una vera crudeltà passare
sopra a tutti i miei guai soltanto per scambiare qualche parola su cose del
tutto futili ed insignificanti. Avvertivo in me un forte cambiamento in atto,
in quei momenti, ed il senso forzato di solitudine che mi stringeva quasi in
una morsa, in realtà sembrava la condizione vera a cui da sempre pareva fossi
stato condannato. Con parole sicuramente sbagliate, cercai in un paio di casi
di spiegare questa sensazione anche a Marta, mentre uscivamo insieme
dall’edificio della scuola media di via delle matite, ma lei in quelle
occasioni rimase in silenzio, quasi che nei suoi pensieri non ci fosse alcun
rimedio a ciò che avevo da sempre probabilmente coltivato, almeno nella sua più
profonda opinione.
Mio padre, per parecchi giorni a settimana, era sempre
via con il suo autocarro, ed io, per tutto quel lungo periodo, restavo
praticamente da solo a preoccuparmi della casa e di ogni altro aspetto delle
mie giornate. Qualche volta avevo pensato di invitare Marta nell’appartamento
che abitavo, anche soltanto per un sostegno morale, ma attesi per un sacco di
tempo che fosse lei, conoscendo bene la mia situazione, che per generosità
proponesse di seguirmi, magari alla fine dell’orario scolastico, anche soltanto
per mangiare qualche cosa con me nella mia cucina, ma questo non accadde mai,
ed io smisi persino di pensarci. Venne il custode della scuola, mentre eravamo
nei nostri banchi a seguire una lezione, e disse a bassa voce che dovevo
prendere tutte le mie cose, perché nel corridoio c’era mio padre che era venuto
a prendermi. Compresi immediatamente di cosa si trattava, ma non dissi niente,
così presi i quaderni e i libri a testa bassa ed uscii dall’aula silenziosa,
quasi contento di potermene andare via, fuori dagli orari previsti. Mio padre,
in una delle pochissime volte in vita sua, mi appoggiò il suo braccio forte e
pesante sulle spalle mentre uscivamo dall’edificio, e poi mi disse che alla
fine dell’anno scolastico saremmo andati ad abitare in città, abbandonando quel
paesello, e che adesso però ci sarebbe stato il funerale della mamma, che
finalmente aveva terminato di patire. Pensai subito che quello fosse il momento
giusto per piangere mentre scendevo la scalinata, ma poi non feci niente del
genere, limitandomi soltanto ad annuire. Però pensai immediatamente che la mia
vita stesse cambiando con estrema rapidità, e che io, anche se d’ora in avanti
non mi fossi sentito del tutto pronto a quelle variazioni, fossi comunque
chiamato ad affrontare qualcosa che adesso assolutamente non potevo neppure
immaginare, ma del quale non avrei mai dovuto sentirmi in nessun modo
spaventato.
Bruno Magnolfi
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