lunedì 31 marzo 2025

Spicchio di vita.


Percorro il lungo tratto di strada senza riuscire neanche a vedere le case, le auto, le persone, praticamente niente di ciò che scorre come sempre attorno a me. Sono concentrato quasi al massimo cercando di immaginare quello che dovrò sentirmi dire trasportato dalla dolce voce di Monica, consapevole come sono che questo momento che ho di fronte sarà assolutamente un discrimine, un passaggio, il valico inevitabile di un muro, da cui deriverà soltanto e indubbiamente un prima e un dopo, e che in questo stesso momento non posso proprio fare niente per modificare gli avvenimenti in cui mi sento completamente immerso, perché il mio compito adesso è diventato solamente quello di subire le decisioni che sono già state prese per me, e probabilmente definite senza il mio parere. Potrei fermare il mio passo veloce, immobilizzarmi su di un marciapiede e riflettere meglio tutto quello che sto immaginando, ma non potrei mai impedire a ciò che sta o non sta per accadere che alla fine poi succeda. Rallento, anche se sono consapevole che qualsiasi ragionamento io possa inserire nella scarica elettrica che produce in me questa necessità di venire a conoscenza del mio destino, non cambierà mai di una virgola le sorti della mia relazione con questa donna per me meravigliosa, ma contemporaneamente dal carattere spesso del tutto incomprensibile al mio modo di essere.

Alla fine, non so neanche come, giungo davanti al locale dove ci dobbiamo incontrare, tiro un profondo respiro mentre sono ancora sulla soglia della larga porta vetrata, e poi entro, rendendomi conto immediatamente che Monica, come già peraltro immaginavo, non è ancora giunta. Non ha alcuna importanza, penso con un minimo di leggerezza, e dopo un cenno al cameriere vado a sedermi ad un tavolino abbastanza appartato, in un angolo della sala da tè praticamente vuota. Attendo, non ho neppure più voglia di pensare a cosa lei mi dirà, o a cosa magari dirò io, e a prepararmi con una maschera di indifferenza a qualsiasi parola mi troverò a dover ascoltare. Sto qui, resto qui, mi osservo con gli occhi di chi passa in questo caffè, e magari è insieme a degli amici, parla con loro, ride, scherza, si guarda in giro senza troppa curiosità. Potrei fuggire, penso; alzarmi da questa sedia e andarmene, come se non ci fosse niente d’importante da queste parti, come se non avessi mai avuto alcun appuntamento, alcun bisogno di una parola chiara atta a svelare questo periodo così contorto della mia vita. Invece resto, e Monica arriva, anche se ormai è in forte ritardo.

Si scusa, ma <<anch’io sono arrivato da poco>>, dico per non farla sentire troppo in colpa. La guardo, lei è tranquilla, dice subito che prima di cominciare ad uscire insieme a me ha avuto una breve storia con una persona, un uomo che conosce, e che adesso è incinta. Mi pietrifico, in una frase sola ha messo due contenuti che danno la mazzata definitiva alla nostra relazione già traballante, ma cerco di sostenere la bordata. <<Quindi, non è più neppure il caso di vedersi, io e te>>, dico sottovoce. Lei annuisce, dice che si sente confusa e dispiaciuta, ma in ogni caso la sua decisione è quella di portare avanti la gravidanza, anche se l’altro è sposato e probabilmente non potrà riconoscere come padre questo bambino. <<Non gli chiederò nemmeno un sacrificio del genere>>, aggiunge facendomi sentire ancora più al margine di ogni possibilità. Beve rapidamente il caffè che intanto le hanno servito, mi guarda, dice: <<Adesso però è meglio che vada. Scusami per tutto>>. Infine, si alza, riprende la sua borsa, va via, senza lasciarmi neppure la possibilità di dire niente. La porta a vetri del locale si chiude in un attimo dietro di lei, ed io mi sento completamente svuotato. Resto seduto, non vorrei compiere alcuna azione, perché qualsiasi cosa renderebbe più vero ciò che ho appena ascoltato, ed io sarei più solo, disperato, inutile, nella mia pretesa sentimentale.

Poi mi decido, pago i caffè, lentamente scivolo nella normalità della serata, anche se i miei movimenti sicuramente appaiono goffi, e quando mi ritrovo sopra al marciapiede non riesco neppure a concepire quale sia la direzione giusta che io possa prendere, e quindi verso dove dovrei dirigermi adesso, e soprattutto a quale scopo, per ottenere chissà che cosa da ciò che mi circonda, visto che le mie gambe sembrano non aver neppure voglia di camminare lungo una precisa traiettoria. Non so come, infine, giungo a casa, e d’improvviso spero con tutte le mie forze che il mio coinquilino non sia ancora rientrato, poi apro il portone dell’appartamento, sono solo, varco la soglia e vedo che dentro è proprio tutto uguale, come ogni giorno, come se niente di importante fosse mai accaduto, e la mia faccia dentro alla cornice elegante dello specchio appeso al muro dell’ingresso, si mostrasse la solita di sempre, immodificabile, come una fotografia scattata chissà quando, e resa così invariabile, quasi un documento di sottoscrizione alla mia incapacità di stare in mezzo agli altri, e di desiderare uno spicchio di vita come tutti.  

 

Bruno Magnolfi

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