La nonna
veniva a prendermi generalmente nel primo pomeriggio. Avevo quattro o cinque
anni, e in quelle giornate assolate andavo volentieri con lei ad accompagnarla
nei suoi giri, che poi erano sempre i medesimi: una visita al cimitero, a
pulire la tomba del nonno che non avevo mai conosciuto ma che in vita si era
chiamato proprio come me; oppure in qualche vecchio negozio a far quattro
chiacchiere con qualcuno che la nonna conosceva chissà da quanto tempo, oppure
per comprare qualcosa che le serviva; e immancabilmente in chiesa, ogni giorno,
però non alla messa, ma all’ora in cui non c’era nessuno, e giusto per stare lì
in silenzio per cinque minuti o pochi di più. La chiesa era grande e i soffitti
con volte a crociera a me parevano altissimi, e nel fresco silenzio dei muri e
all’ombra del grande pronao di ghisa, rimbombava il formidabile colpo del
maglio che spaccava le loppe di minerale e di pirite nella fonderia poco
lontana. Era bello pensare in silenzio, senza alcuna fretta in mezzo a
confondermi, e quel suono profondo, quello che arrivava immancabile ogni poco
dalla fonderia, prolungato nel tempo dai muri e dagli alti soffitti, pareva una
parte costituente la chiesa, come se fosse il lavoro, il sudore dei minatori che
estraevano il minerale e degli operai che fondevano il ferro e la ghisa, a
entrare là dentro, a parlare di loro, delle difficoltà della vita, e forse
anche del nonno, morto per essere caduto da un’impalcatura mentre portava
avanti anche lui il proprio lavoro. La nonna aveva cresciuto i suoi figli ancora
piccoli tutta da sola, fin da quel giorno, chissà con quante e con quali
difficoltà, ed ora che quelli erano grandi, aveva me, che volentieri le
stringevo la mano callosa, e le facevo capire ogni volta che mi piaceva andare
con lei, ero contento di accompagnarla in tutti i suoi giri, ed io davvero sarei
andato dappertutto al suo fianco, in ogni posto dove lei avesse voluto.
Bruno Magnolfi