Vi ero giunto con il
treno, in quel posto di vacanza indicatomi da un caro amico che ne aveva
tessuto le lodi, sottolineando la straordinaria tranquillità di quel luogo, ed io
avevo preso albergo in una vecchia pensione sul lago, con conduzione familiare,
un bell’edificio con la facciata di pietra e le camere spaziose, anche se senza
pretese. Avevo passeggiato a lungo in quei primi giorni, percorrendo la strada
sul lungolago e fermandomi a leggere qualche pagina dei miei libri su una delle
tante panchine di cui erano disseminati i giardini lungo la riva. Infine avevo
conosciuto una donna, per caso, solitaria e meditativa proprio come me, e dopo
le presentazioni di rito avevo parlato con lei di alcuni libri e di altri argomenti
perlopiù senza importanza, dandole infine appuntamento per il giorno seguente
in quel medesimo luogo.
All’incontro ero
arrivato per primo, e avevo evitato perfino di sedermi, preferendo attendere l’arrivo
di quella donna restando appoggiato con noncuranza al tronco di un albero di
quell’area verde, lo sguardo perso sull’acqua calma del lago, la voglia
indiscussa, anche se non evidente, di stare con lei, di farla salire su una
barca a noleggio, magari, e di portarla con me alla ricerca della nostra
reciproca conoscenza. Ma lei invece era arrivata in ritardo, quasi trafelata,
le maniere di chi è fortemente preoccupato di qualcosa di cui, chissà per quale
motivo, non intende neppure parlare, e con questi presupposti mi aveva detto
velocemente di essere dispiaciuta oltremodo, ma non le era proprio possibile
restare in mia compagnia per quel pomeriggio, e che forse era bene non cercare di
rivedersi neppure in altre o diverse occasioni.
Cercai di capire di
più, dissi: non c’è niente di male in tutto questo, secondo me; ma la donna,
interrompendomi, liquidò tutto quanto con poche parole agitate che non
indicavano niente, se non la sua semplice volontà di fuggirsene via. Chiesi una
spiegazione ulteriore, insistetti, ma lei, senza neppure tornare a guardarmi,
disse che al momento era impossibile, non avrei mai potuto comprendere la
natura di tutti i suoi affanni. Le ricordai solamente, al momento di salutarla,
la pensione dove abitavo, e lei assicurò che mi avrebbe senz’altro cercato
all’albergo, o inviato a quell’indirizzo un messaggio, o una lettera, probabilmente
già il giorno seguente, quando le cose con facilità sarebbero state più chiare,
e per lei più serene. La lasciai accontentandomi di un saluto dedicatomi in
fretta, privo di maschere false; ma proprio al momento di andarsene, quella
donna si sentì forse in dovere di spingersi soltanto per un attimo verso di me,
abbracciandomi con grande trasporto e premendo forte il viso sul mio, quasi in
un pegno, subito prima di fuggirsene via, senza neppure voltarsi, lasciando
dietro di sé quasi un alone sfumato di quel comportamento inspiegabile.
Nei giorni seguenti, alla
mia residenza, non giunse alcun tipo di messaggio, né tantomeno la donna si
fece vedere alla pensione o nelle sue circostanze, e a me parve quasi di averla
forse soltanto sognata, pur continuando a cercarla per le strade del piccolo
paese e sopra la faccia di ogni persona che riuscivo a incontrare. Infine, dopo
tre settimane, mi decisi a partire, niente mi tratteneva più in quei paraggi, e
fu allora che tornai a rincontrarla, ma da lontano, mentre appariva in
compagnia di diverse altre persone: mi aveva visto, mi guardava, ma come si
guarda qualcuno che fa parte di te, dei tuoi stessi pensieri, senza cambiare
espressione, in quella maniera profonda che si mostra dirigendo gli occhi con
intenzione, pur continuando semplicemente a guardarmi e nient’altro, senza
accennare neppure a un saluto, ad un qualsiasi seguito, o a un semplice
accenno, però come se dentro al suo sguardo già persistesse, inspiegato, tutto
ciò che eventualmente ci sarebbe stato da dire.
Bruno Magnolfi