Oltre
le ultime case in fondo al paese, superato il fossato e qualche baracca
abbandonata, dopo il viottolo che se ne andava fino ad un capannone in disuso,
non c’era niente, se non campi a foraggio oppure a erba medica, avanti l’inizio
del bosco, che appariva laggiù, in una macchia scura e compatta. Stavo lì
fermo, certe volte, seduto alla meglio sopra una pietra o sul tronco caduto di
un albero secco, ad osservare qualcosa che mi pareva disperso nel verde, confuso
tra il cielo e le foglie, lasciato a decomporsi come tutto in mezzo alla terra.
Poi
tornavo indietro, mi fermavo con indifferenza al Caffè Centrale, e stavo lì ad
un tavolo a bere una birra, e ad osservare la gente che si muoveva dentro e fuori
da quel locale, guardando tutti con la medesima curiosità che avevo per tutte
le cose. In genere una persona o due mi salutavano, ed io in risposta alzavo la
mano, conservando la stessa espressione di sempre, evitando comunque di
incoraggiare qualsiasi discorso.
Altre
volte scivolavo nella saletta sul retro, dove c’era sempre qualcuno che giocava
al biliardo, in penombra, con le lampade forti soltanto sul tavolo, le solite
mezze frasi dette fra i denti da coloro che con calma si sfidavano quasi ogni giorno.
Mi sedevo in silenzio, con le spalle alla parete, apprezzavo quelle poche
parole che venivano scambiate là dentro, e ancora cercavo qualcosa che a tratti
mi pareva vicino, ma poi sfuggiva di nuovo, inesorabilmente.
Bruno
Magnolfi
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