Va
bene, le dico: sto fermo, non faccio niente, se vuole smetto persino di
pensare. Lei mi guarda con una certa serietà, peraltro inadeguata alla
mia ironia, ed aspetta ancora un po’ prima di uscire dalla stanza con tutte le
provette, probabilmente proprio per vedere se riesco davvero a rispettare le
sue regole, anche se poi sembra decidere di allontanarsi almeno di qualche
passo fuori dalla porta, tornandosene indietro subito dopo però, magari
soltanto per rendersi conto se sono rimasto ancora fermo allo stesso posto,
immobile, proprio come mi ha detto; oppure se sia il caso per lei di
intervenire più duramente, come d’altronde ha già fatto altre volte con me.
Attendo qualche minuto su questa sedia, devo lasciare agire il farmaco, mi ha
detto sia la dottoressa che la sua assistente, poi torno a guardare le mie
mani, quasi per un moto spontaneo di autocommiserazione: forse vorrei mettermi
addirittura a piangere, ma subito rifletto come non sia proprio il caso di fare
una cosa di quel genere davanti a loro due, anche perché ho ormai deciso da
tempo che non devo mai più lasciarmi andare a sensazioni così basse e prive di
personalità, che peraltro non servono a niente ed a nessuno.
Hai
visto, mi dice con voce bassa l’operatore intervenuto mentre sistema gli
attrezzi dell’ambulatorio: l’hai fatta arrabbiare, e alla dottoressa non
succede neppure di frequente. Io tengo gli occhi bassi: forse non volevo
neppure mostrarmi troppo contrariato per questa ennesima e lunga visita medica,
per quei prelievi così invadenti e fastidiosi, quell’essere trattato una volta
di più come una cosa qualsiasi, un oggetto in mano alla scienza, giusto per
lasciar comprendere a qualcuno quali saranno i prossimi pezzi di me pronti a
guastarsi, in questo organismo ormai così fragile, logorato dagli anni, in cui
tutti gli elementi sembrano preparati a rendere difficile sia la loro singola
sopravvivenza, che quella di tutto il resto del corpo. A volte non lo sento
neppure più mio, questo corpo, così asciutto, ormai, cascante e pieno di rughe,
per me irriconoscibile, anche se mi dicono tutti che non devo mai pensare cose
di quel genere.
Invece
vorrei essere ancora capace di meravigliare qualcuno in qualche maniera,
mostrare una parte di me che non sia così scontata come tutti sembra che
pensino. Eppure adesso qua dentro non conta più niente la mia vita, le mie
esperienze, i miei ricordi, le mie sensazioni passate. Vorrei tornarmene a
casa, penso certe volte, piuttosto che stare ancora in questo ospedale per
vecchi; ma anche questo pensiero non ha molto senso: sono quello che sono, mi
ripeto certe volte, in qualunque luogo io mi trovi. Poi l’operatore mi prende
sottobraccio e mi porta fuori da questa stanza orribile. Parlare con qualcuno
significa ripercorrere con i discorsi sempre le medesime cose di ogni giorno,
gli stessi argomenti consunti che non servono più a niente, e così la maggior
parte delle volte scelgo di starmene completamente in silenzio. Eppure vorrei
esprimermi, spiegare cosa sento, dire a qualche persona che abbia voglia di
ascoltarmi come sono per davvero, e come sia tutto diverso certe volte,
rispetto a ciò che appare.
Torna
la dottoressa, proprio quando mi sono spostato nel salone a rilassarmi, e mi
chiede con decisione come stiano andando le mie cose; prendo tempo, rispondo
giusto qualcosa privo quasi di un senso compiuto; ma subito dopo le sparo che
la mia testa è confusa, e non riesco più ad avere dei giudizi definitivi sulle
persone che mi circondano, tanto che in qualche caso non so proprio cosa
pensare anche di me, visto che in altri tempi normalmente avrei evitato il più
possibile qualsiasi contatto con certi individui, ma che adesso, oltre a
doverli subire, mi trovo quasi a cercarne il loro appoggio. Lei resta
perplessa, è chiara la mia provocazione, ma lei non vuole raccoglierla. Così mi
guarda, sorride leggermente, mi tocca un braccio e dopo se ne va. Non lo so,
penso, ma forse qualcosa potrebbe anche cambiare, prima o poi, tra me e questa
persona.
Bruno Magnolfi