Compio i medesimi
gesti ogni giorno, e qualche volta, quando qualcosa non va esattamente come
vorrei, mi sembra persino impossibile che questo accada proprio a me stesso,
senza che possa oppormi ad un fatto del genere, tanto che in certi casi mi
prende addirittura un tremito, quasi una febbre, che mi lascia spossato e
impossibilitato, almeno per una certa porzione di tempo, ad occuparmi di
qualcos’altro. Tremo all’idea che possa cadermi di mano un oggetto qualsiasi,
ma se in più quello è anche fragile, impazzisco al pensiero che possa rompersi sul
pavimento in mille pezzi. Per questo uso sempre la massima attenzione in ciò
che devo fare, tralasciando tutto quello che per qualche motivo non risulta
strettamente indispensabile.
Il momento migliore
per me, specialmente nelle ore in cui sono in casa, è quando resto seduto senza
fare assolutamente un bel niente, se non pensare alle mie cose, ed al massimo
parlare da solo. Per questo appoggio sul tavolo lo specchio fedele, il mio
fratello gemello, perché questo oggetto per me rappresenta tutto ciò che cerco dagli
altri: un amico sincero che ascolta ciò che ho da dire, ed al massimo fa una
debole smorfia sulla mia immagine riflessa, al momento in cui non si trova del
tutto d’accordo con le parole che esprimo. La mia è una tecnica meravigliosa,
quella per cui, qualsiasi cosa abbia in mente, passandola semplicemente al
vaglio del mio piccolo specchio, riesco in questo semplice modo a comprenderne esattamente
il valore e anche quanto possa essermi
utile. E’ sufficiente per me guardare l’immagine, e l’espressione che vedo
nella cornice mostra realmente quello che penso, e quindi evidenzia in un
attimo la verità più completa.
Tra i corridoi degli
uffici dove lavoro parlano sempre di calcio, e solo qualche volta di donne; io
naturalmente non entro mai negli argomenti dei miei colleghi, mi limito a stare
in silenzio davanti alle macchine automatiche per il caffè, e ad ascoltare
senza troppa attenzione quello che dicono tutti. Mi tengono sempre da parte,
forse perché non sono sposato, non ho una famiglia, e sanno che vivo da solo, e
soltanto per questo immaginano che io sia abituato a non dire mai niente.
Perciò mi lasciano stare, che poi è il risultato migliore che io possa ottenere
da loro, visto che non ho interessi sportivi, e di donne fino a questo momento
ne ho conosciute ben poche. Ci sono anche delle impiegate al mio piano di
uffici, ma stanno quasi sempre per conto proprio in gruppi di due o tre, e non
si fermano quasi mai a parlare con i colleghi maschili che sono certamente in
numero maggiore. Non è facile far trascorrere bene tutto il tempo dell’orario
di lavoro, ma in qualche modo sembra proprio che si possa riuscire anche in un’impresa
del genere.
Ed è proprio seduto
alla mia scrivania che i gesti consueti diventano per incanto dei veri e propri
automatismi, quasi delle azioni riflesse condizionate da una casistica di
possibilità decisamente ridotta. Aprire un cassetto, prendere la pratica a cui si
sta lavorando, individuare sulla carta gli elementi che maggiormente
interessano, tutte attività perfettamente codificate che portano l’individuo
che lavora nella pubblica amministrazione ad una alienazione completa dalle sue
attività. E’ normale, dicono gli altri, si tratta di prendere tempo, nessuno fa
fretta, tanto vale rimandare quanto è possibile, e cercare di svagarsi ogni
volta che se ne sente la necessità. Perciò ci sono altri gesti: andare in
bagno, alle macchinette per il caffè, nella stanza di qualche collega; oppure
girare per i corridoi con qualche foglio dentro una mano, concentrati su
qualcosa che neppure esiste, ed aspettare in questa maniera che anche questa
giornata lavorativa abbia termine.
Bruno Magnolfi
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