“Fino a
questo punto ti ho sempre seguito, mi pareva andasse tutto bene”, fa lui; “ma
ora parli strano, mi sembra incoerente quanto dici, con tutto quello che
abbiamo passato e con lo sforzo fatto per uscire dalla melma. Non ti seguo,
ecco”. Il mare oltre il molo foraneo del porto è una tavola azzurra: qualche
anziano prosegue nel tentativo di pescare con la canna, dopo che le paranze
sono tutte orami rientrate, restando seduto sui grandi massi sempre pronti a
frangere l’acqua in spruzzi salati e schiuma viva durante quei giorni in cui
l’onda si fa alta e impetuosa, ed il sole di fine mattina rende le spianate di
cemento attorno alle tante barche che adesso appaiono ferme, silenziose, e ormeggiate
con ordine una accanto a quell’altra, come bruciato dalla vampa del giorno,
quasi bianco di riverbero, di sale e di luce. “Lo so”, dice l’altro; “non è
facile a volte per gli altri seguire quanto mi passa dentro la testa, anche se
io lo sento preciso, semplice, del tutto definito”. I due si fermano come per
osservare una grossa fune che tira i colli ad una bitta su cui è stata fermata,
mentre la piccola nave cargo di fianco si solleva leggermente sul respiro
marino, lasciando scricchiolare leggermente i parabordi già mezzi schiacciati.
“Non mi aspetto comprensione, comunque. Mi basta che qualcuno come te sappia
cosa sto per fare”.
Quasi tre
anni sono trascorsi dopo che i due hanno iniziato il percorso tormentato degli
alcolisti anonimi, conoscendosi lì in mezzo e sostenendosi subito l’un l’altro,
traendone alla lunga anche degli ottimi risultati da quella loro amicizia.
“Adesso è semplicemente il momento di riprendere in mano le cose, ricominciando
proprio da dove le avevamo interrotte, senza fare altro, dimenticandosi del
tempo che oramai è stato già buttato via”. L’altro lo guarda, ripensa per un
attimo a tutte quelle serate trascorse a raccontare a tutti gli altri il
proprio malessere, quel dolore interno sfuggente e inafferrabile, quel bisogno
profondo di affogare il proprio guaio in una sensazione immediata di
leggerezza, e anche di quel sentirsi subito altrove, almeno per un po’, fuori
da qui, come dicono in molti, dalla normalità tremenda. “E’ il momento per
cambiare tutto, invece”, fa lui quasi parlando tra sé. “Non accettare
passivamente la quotidianità, ma salire su una nave ed andarsene, fino dove c’è
ancora un po' di mare”, prosegue mentre osserva qualcosa dentro al porto. Poi i
due voltano i loro passi tranquilli, e tornano indietro, verso i magazzini del
pesce ed i cantieri per le manutenzioni. "Devo andare", fa lui in un
soffio; "da queste parti ormai non mi ritrovo più: è come se avessi già bruciato
tutte le possibilità che potevo avere".
Dei ragazzi si chiamano per
nome mentre ridono e corrono sul molo, e la giornata, intorno alle chiazze di
colore delle magliette che indossano, appare quasi radiosa nell'accogliere quei
giochi ed il loro mostrarsi spensierati, quasi per dare una cornice adatta a
quei piedi veloci dentro le scarpe leggere, e a quelle espressioni abbronzate e
divertite all’estremo. “Ho bisogno di mettere dello spazio vero tra il passato
ed il futuro; e se in mezzo c’è anche l’acqua salata del nostro caro mare, decisamente,
è anche meglio”. L’altro lo guarda, ma quasi per un gesto nostalgico, perché tanto
ha compreso quanto non riuscirebbe mai in nessun caso a fargli cambiare
quell’idea fissa di andarsene. Tornano indietro, fino alla strada, passano
accanto ad una birreria che ambedue conoscono persino troppo bene, ma adesso non
ci gettano dentro neanche uno sguardo di sfuggita. Poi si salutano, lui
abbracciando quel suo amico con forza, con la coscienza di non rivederlo;
l’altro cercando ancora uno spiraglio di possibilità che però adesso non riesce
più neanche a vedere. Ed allora si separano, perché tutto ciò che c’era da dire
adesso è stato già detto; le prove per ricostruire le proprie aspettative sono state
tentate; ed ognuno, da ora in avanti, sa perfettamente cosa si porterà dentro.
Bruno Magnolfi
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