Esce da casa ed è ancora presto, la
tuta colorata, il caschetto leggero già calzato sopra la testa, la bicicletta
celeste tenuta per tutta la settimana nella rimessa, adesso al suo fianco. Il
percorso, che inizia poco lontano, si snoda per parecchi chilometri lungo
l’argine del grande fiume, in certi tratti attraversa qualche centro abitato, in altri si allontana
dall’acqua per passare in luoghi di aperta campagna. Ogni domenica mattina lui fa
quella strada, ormai la conosce perfettamente, a menadito.
Qualche volta ha riflettuto che
potrebbe avere un malore proprio in qualche punto del tragitto dove non si
incontra mai neanche un’anima, ma ha il telefono portatile con sé, e in quel
caso chiamerebbe subito aiuto, darebbe l’allarme, e poi ogni altra volta, quando
si è sentito stanco o affaticato, prontamente ha fatto una sosta, già diverse
volte è successo, ed anche se la strada che compie forse è un po’ troppo lunga
per la sua età, lui cerca, riposandosi ogni tanto, di recuperare le forze che
gli servono per portare sempre a compimento tutta quanta la pedalata.
Quando poi arriva al paesetto di
Castelloro, si ferma sempre prima di tornarsene indietro, accosta la sua bicicletta
al marciapiede, si siede ad un tavolino del caffè Centrale che si apre nella
piazzetta, e beve qualcosa, una bibita non gassata, generalmente del tè freddo.
Dopo circa un quarto d’ora riprende la sua bicicletta e se ne torna indietro. Ma
in questa giornata quasi estiva forse si è un po’ distratto, forse la sua testa
si è persa dietro cose leggere, e la prima pedalata con cui riprende il
percorso la dà praticamente con leggerezza, con estrema noncuranza, quasi senza
preoccuparsi di nulla, come se quella strada asfaltata fosse deserta, lasciata
a suo uso esclusivo.
Alla guida dell’automobile c’è un
giovane, e forse non nota neanche il ciclista di una certa età che lentamente
gli taglia la strada. La sua macchina va avanti, i pensieri del giovane sono
tutti rivolti ad una ragazza con la quale dovrebbe uscire nel pomeriggio, ed il
resto è qualcosa che quasi non lo riguarda, non ha neppure troppo a che fare
con tutte le idee che gli passano dentro alla testa.
Sono momenti, piccole frazioni di
tempo mal scomponibili, ed il ciclista ad un tratto vede quell’auto sbucare davanti
a sé, si rende conto con immediatezza che lui si sta trovando al centro di quella
strada, e che l’attenzione dell’autista del mezzo è assorbita da qualcosa che
lo fa andare avanti quasi per inerzia, come avesse la vista momentaneamente
oscurata, ed ormai lui non potesse più fare un bel niente, e se anche ne avesse il tempo e si
mettesse a pensarci, non riuscirebbe neppure a decidere cosa sarebbe da
sostituire in quella breve collana di attimi.
La macchina avanza noncurante di
tutto, il ciclista frena la sua bicicletta appuntando il suo sguardo atterrito
oltre al parabrezza, nell’espressione indifferente di chi sta guidando
quell’auto, proprio sopra la faccia di quel ragazzo così disattento, e forse
pensa che ci dovrebbe essere per forza ancora il tempo per gridargli qualcosa,
per attirare quell’attenzione che sembra proprio mancare, ma ormai è tutto
inutile, ormai tutte le cose paiono inevitabilmente già compromesse.
Invece quell’auto ormai a pochi
metri da lui frena esattamente in quell’ultimo attimo, ed anche se lo travolge
ugualmente, lo fa con una certa leggerezza; lo fa cadere, questo è vero, ma
senza particolare violenza, quasi come se d’improvviso tutto avvenisse in un modo
estremamente più umano di quanto sarebbe stato possibile. L’uomo prontamente si
rialza, in fondo non si è fatto niente, non avverte neppure particolari dolori,
il ragazzo invece scende dall’auto tremante e lo aiuta a rimettersi in piedi.
E’ andata bene, si dicono ambedue sorridendo, e si stringono la mano, si
scusano reciprocamente, si abbracciano quasi: per questa volta dicono, possiamo
ancora essere contenti.
Bruno Magnolfi
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