Con
il mestiere che svolgo, da così tanti anni a questa parte da non ricordare
neanche più quanti ne sono passati, mi sono abituato a trascorrere la maggior
parte del mio tempo perfettamente da solo, al punto che quando per qualche
ragione mi trovo in mezzo alla gente, oppure anche soltanto a chiacchierare in
un locale con qualche conoscente, dopo un po' mi sento a disagio. Il mio orario
di lavoro inizia la sera alle undici; perciò, esco da casa già abbigliato con
la divisa prevista, fortunatamente poco vistosa, e così entro in albergo
esattamente a quell’ora, mai prima comunque, e prendo le consegne e tutte le
informazioni utili al mio lavoro dall’ultimo portiere di turno pronto a
smontare, e quindi, rimasto da solo, mi piazzo dietro al bancone per consegnare
le chiavi delle stanze a tutti gli eventuali ospiti che sono usciti fuori per
la serata. Non c’è molto altro da fare, perciò generalmente mi porto qualcosa
da leggere, e il tempo, almeno durante questa prima parte del turno di notte,
trascorre via veloce, anche perché questo è un albergo piccolo, e non c’è mai
un numero eccessivo di clienti. Dopo l’una di notte le cose si fanno parecchio
più noiose, ed anche se conosco dei colleghi di altre strutture che si aprono
una brandina sul retro, e poi cercano di dormire vestiti, così come si trovano,
a me non piace comportarmi in questa maniera poco elegante, perciò resto
sveglio tutta la notte magari a riflettere, oppure a leggere, e certe volte a
pulire e a lucidare gli oggetti sopra al bancone del ricevimento, se non a
scorrere con curiosità i nomi degli ospiti incolonnati sopra ai registri.
Ultimamente mi trovo a ripensare spesso agli anni della scuola elementare, e
questo mi piace, perché è come se vivessi di nuovo le esperienze di quando ero
piccolo, che nel silenzio completo delle ore che scorrono appaiono quasi reali.
Osservo in quei casi qualcosa fuori dalla grande porta a vetri di questo
albergo, che dà su una piccola piazza lastricata con le pietre, e subito vedo
me stesso con gli immancabili calzoni corti, lo sguardo sfuggente, e il mio
tipico atteggiamento da basso profilo in mezzo ai compagni.
<<Paolo>>,
mi dice il mio amico; <<ci scambiamo dei passaggi con il
pallone?>>. Io annuisco, qualcosa dobbiamo pur fare in questo grigio e
lento pomeriggio domenicale, penso. Siamo soltanto noi due, un numero troppo
esiguo per fare una qualsiasi altra cosa; gli altri ragazzi della nostra età
adesso stanno tutti con le proprie famiglie, ma mio padre è immerso in casa in
un completo silenzio per riposarsi dopo una dura settimana alla guida del suo
grosso autocarro, e la mamma si preoccupa soltanto di cucinare e riassettare la
casa, e poi di adempiere a mille altre faccende, mentre l’altro bambino con cui
ci incontriamo per strada sta quasi sempre coi nonni, perché i suoi genitori
sono divorziati, il padre si fa vivo solo una volta ogni tanto, e la mamma di
domenica va sempre in giro con le sue amiche, almeno così dice, perciò alla
fine lui trascorre la maggior parte del tempo in mezzo a questi cortili,
proprio come me.
<<Perché
non ci facciamo un bel giro a piedi da qualche parte?>>, fo io. E lui,
che forse è restio per la paura di far preoccupare eccessivamente i suoi nonni,
dapprima sta zitto, come per riflettere bene, poi dice che forse si può fare, e
magari arrivare fino ad un fiumiciattolo dove siamo già stati e che scorre
nella campagna aperta, a mezz’ora circa di strada in mezzo a due file di alberi
che gli ombreggiano l’acqua. Con la giornata di sole quest’oggi possiamo
sdraiarci sull’argine, e stare lì ad ascoltare il gorgoglio delle piccole onde
che scorrono veloci tra i sassi e le radici delle piante. Ci avviamo, senza
dire niente a nessuno, come sfuggendo a qualcosa o a qualcuno che nei nostri
intenti sembra vogliamo lasciare alle spalle in questo momento, almeno per
un’ora o anche due. Tutto precipita improvvisamente quando il mio amico
casualmente mette male un piede e si procura così una dolorosissima distorsione
alla caviglia. Lo aiuto, lo sostengo, lo incoraggio, insieme torniamo indietro
con grande fatica, e alla fine, con un forte ritardo su quanto avevamo
previsto, arriviamo a casa dei suoi nonni, a spiegare con parole povere tutto
l’accaduto. Ma lui invece, con un improvviso voltafaccia nei miei confronti,
dice subito che è colpa mia se ci siamo avventurati così lontano dal paese,
l’ho quasi costretto, e sembra persino, nella sua ricostruzione del tutto
fantasiosa, che io gli abbia messo fretta, ed è solo per questo se lui si è
fatto male. Mi volto, non lo saluto neanche, non ho da ribattere niente, vado dai
miei genitori, ma neanche a loro dico niente, ritengo scontato che io abbia
fatto tardi soltanto perché stavo bene nel luogo dove mi trovavo, anche se non
è del tutto vero. E tutto questo adesso lo vedo lì, fuori dall’elegante porta
vetrata di questo albergo cittadino, ed ora come allora penso che non vorrei
più trovarmi nella condizione di dovermi giustificare.
Bruno
Magnolfi
Nessun commento:
Posta un commento