L'ambulanza
era giunta in pochi minuti, ma forse, durante quel pigro sabato mattina, avevamo
già perso troppo tempo in casa, cercando soprattutto di capire cosa potesse
essere quel forte dolore nel petto di Achille. Marco ed io, poi, non avevamo
potuto neppure andare insieme a lui, così avevamo preso la nostra macchina ed
avevamo seguito, fino a quando ci era stato possibile, quelle lugubri sirene a
distesa e quelle luci blu intermittenti che parevano il preambolo di una
situazione spaventosa. Però, anche se eravamo arrivati trafelati in ospedale,
la nostra sicurezza era che Achille finalmente fosse nelle mani giuste.
<<Mamma>>, mi aveva detto Federico arrivando poco dopo quasi di
corsa lungo i corridoi della medicina d’urgenza, ed io lo avevo abbracciato,
dopo che mi avevano avvertito che mio marito aveva già perso conoscenza. Poi
eravamo rimasti lì a sperare qualcosa, e la faccenda era andata avanti per altri
due giorni, con me immobile nella sala dei visitatori, e ad un certo punto mi
avevano chiamata da una parte, ma solo per avvertirmi che Achille ormai era
morto. In seguito, erano trascorsi un paio di mesi, io avevo iniziato a tenere
un diario, solo per annotare i pensieri e soprattutto i ricordi che non volevo
in nessun modo andassero perduti con l’avanzare dell’età.
Federico
aveva detto poi che andava ad abitare in un’altra casa, non so neppure dove,
forse perché per lui era diventato troppo penoso vedermi ogni giorno così
ripiegata su me stessa. Uno di quei giorni, mentre stavo nel mio appartamento
da sola, avevo sentito la voce di Achille nel corridoio, così mi ero alzata, e
poi l’avevo visto, proprio davanti a me, e lui mi aveva detto che gli
dispiaceva tanto avermi fatto soffrire, che non avrebbe voluto, che era stato
egoista, che ingiustamente mi aveva forse considerato una persona poco
sensibile, incapace di mettersi nei panni degli altri. L’avevo rassicurato:
<<Sto bene>>, gli avevo detto, <<ed adesso che sei tornato
tutto va per il meglio>>. In seguito, era riapparso altre volte, nei momenti
più differenti, e poi però era arrivato un medico per una visita a domicilio.
<<Sto bene>>, avevo confermato, ma quello mi aveva posto un sacco
di domande, così come gli altri medici che erano giunti a casa qualche giorno
più tardi, e poi avevano scritto qualcosa di importante, in una busta chiusa da
consegnare nelle mani di mio figlio Marco. Sembra, secondo quelle carte, che
dovessi trascorrere un breve periodo in una clinica psichiatrica, ed io,
remissiva come sempre, avevo preparato subito una piccola valigia con i pochi
oggetti e i vestiti che mi interessavano davvero, compreso il mio diario, e poi
ero andata insieme a loro.
Da quel
momento non ricordo di essere più uscita da quel luogo, ed ho aspettato la
visita dei miei due figli una volta alla settimana, e quelle di Achille quasi
ogni giorno, anche più volte durante poche ore, in tutti i momenti in cui mi
trovavo da sola. Ho annotato ogni volta tutto sopra al mio diario, e per me è
stato importante, perché tutto poteva perdersi in un solo attimo se non avessi
avuto quelle parole ben chiare sulla carta che mi ricordavano tutto quanto ogni
volta che lo desiderassi. Eppoi, ma questo più tardi, non ricordo, forse
persino dopo qualche anno, avevo iniziato a smettere del tutto di parlare con
gli altri, persino con i miei figli quando raramente si facevano vedere per
farmi una visita, e l’unica cosa che mi teneva vigile era il mio prezioso
quaderno pieno zeppo di tutte le cose che erano successe alla mia famiglia in
tutti quegli anni, da quando io e Achille ci eravamo conosciuti. Gli altri
pazienti dell’Ospedale certe volte avevano cercato di strapparmelo via dalle
mie stesse mani, ma io avevo sempre resistito, difendendolo con le unghie e con
i denti. I medici avevano detto che andava bene che io tenessi quel diario,
anzi, era proprio quello che forse mi avrebbero chiesto di fare, se non avessi
già deciso così per conto mio. Ma loro non potevano leggerlo, nessuno avrebbe
potuto, perché quello era lo specchio della mia vita, la cosa più vicina a me,
tra quei pochi oggetti che avevo ancora e che mi ricordavano i tanti periodi
passati della mia stessa esistenza.
Per questo
nessuno comprese il momento in cui cercai di regalare quel quaderno alla
signora Marcella, la mia vecchia vicina di casa, quando un giorno era venuta a
farmi una visita. Lei non lo aveva voluto, e si era messa persino a piangere
dopo un po’, non so neppure il perché, ma io allora non avevo insistito, e
qualche giorno più tardi lo avevo gettato via, attraverso i ferri della grata
sopra una finestra, e da allora non l'avevo più trovato. <<Cosa
importa>>, pensavo spesso; <<sono io stessa i miei ricordi, almeno
fino a quando riesco ancora a passarli tutti in rassegna>>. Non era
trascorso molto tempo, forse solamente un giorno o due da quel pensiero, ed
infine non mi ero più alzata da quel letto, non per una precisa volontà, ma
perché nemmeno ci riuscivo. Così avevo capito che il mio diario, se anche
l'avessi ancora avuto insieme a me, ormai non avrebbe avuto più alcun senso, e
fu proprio in questo modo che compresi perfettamente, proprio durante quella
notte seguente, forse anche perché mi avevano imbottita di farmaci e di
tranquillanti, che non mi sarei mai più risvegliata.
Bruno
Magnolfi
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