mercoledì 14 ottobre 2009

Incontrarsi (prima parte).

         

            Quella bettola era l’unico posto, in mezzo a quel grumo di case nettamente separate tra loro dalla strada provinciale che solo in quel punto correva rettilinea e pianeggiante subito prima di affrontare le curve della collina, dove si poteva far passare un po’ il tempo senza sentirsi troppo oppressi dal gioco perverso della solitudine. Avevo ormai sessant’anni, poche illusioni, vivevo da solo e andavo in quel bar, durante certi pomeriggi troppo consueti, e mi sedevo ad un tavolino sorseggiando un caffè, ad ascoltare i discorsi degli altri e a pensare. Mi piaceva la presenza delle persone che ci trovavo là dentro, sempre pronte a parlare del tempo, di qualcuno che in quel momento non era lì, di qualcosa successo chissà quanti anni prima, o più semplicemente della strada, quella strada che passava di fronte, e che sembrava tagliare il paese portando con sé ogni cosa buona. Quando era bel tempo stavo fuori, con gli altri, seduto su una sedia di plastica con i braccioli, le spalle al locale, giusto per osservare la strada, le poche macchine che transitavano a velocità sempre un po’ troppo elevata, i colori delle loro carrozzerie, l’attimo in cui si notava la faccia di chi le guidava, e poi le parti di dietro delle auto che si portavano con loro tutto il rumore che avevano fatto, mentre alzavano una polvere fine e leggera che brillava per pochi secondi nell’aria, nel sole giallo e caldo di quei pomeriggi. Nessuno del locale mi chiedeva mai niente: tutti sapevano che ero taciturno, e mi lasciavano in pace, continuando con le loro discussioni infinite che non arrivavano mai a niente. Certe volte, sul tardi, passava una signora da lì, entrava dentro al caffè, andava diretta verso il bancone, e si faceva servire dal proprietario del bar un aperitivo. Lo sorseggiava con calma, si osservava i capelli dentro allo specchio che fungeva da sfondo, si tratteneva dieci minuti senza dir niente a nessuno, e poi se ne andava, con le sue scarpe col tacco che risuonavano ritmiche e secche sul cemento del marciapiede. Sentivo correre un brivido dentro, quando mi passava vicino con quel suo vago profumo e le sue gonne ampie e scure, quasi vaporose, sopra al suo corpo persino troppo magro. Era la vedova del medico, rimasta ad abitare in paese dopo la morte di lui, lei che veniva dalla città, ma che adesso, inchiodata in una casa forse troppo grande per una persona, forse si annoiava tutto il giorno da sola, e ogni tanto si faceva vedere un po’ in giro, senza mai salutare nessuno, come perennemente di corsa, lo sguardo dritto davanti e la borsetta incollata ad un braccio. Mi piaceva quella sua presenza, in un attimo rinnovava completamente l’ambiente della bettola noiosa e monotona, ed anche se si tratteneva pochissimo, quel poco era già sufficiente. Non potevo dirle niente per primo, io che avevo più o meno la sua età ma non parlavo mai con nessuno. Però mi sentivo vicino ai suoi modi, come se in qualche modo in passato li avessi già conosciuti, e quando una sera lei arrivò col suo solito passo sul marciapiede proprio davanti alla mia seggiola, forse approfittò del fatto che in quel momento non c’era nessuno vicino, così si fermò all’improvviso, come per cercare qualcosa dentro a quella sua fidata borsetta, poi, senza guardarmi, disse soltanto: “…dovremmo parlare, io e lei, se ne è già reso conto?”. Non trovai dentro di me nessuna possibilità o il tempo, né per rispondere, e neppure per farle capire che ero rimasto sorpreso. Lei era già entrata nel bar, stava già sorseggiando il suo aperitivo, ed io, completamente confuso, cercavo ancora qualcosa dentro al cervello per risponderle in maniera adeguata, almeno al momento in cui sarebbe uscita da lì. Non mi concesse neppure questa possibilità, usando l’altra porta di vetro e sparendo alla vista in un solo momento, ma io feci una cosa che solo un attimo prima mi sarebbe sembrata impossibile. Mi alzai dalla sedia, percorsi tutta la strada fino ad arrivare davanti alla casa dove abitava, appoggiai gli avambracci sopra alla recinzione di ferro del suo giardino, e aspettai che lei mi osservasse dalla finestra. Uscì, poco dopo, discese i tre gradini della sua villetta con calma, venne verso di me osservando le sue aiuole e i bellissimi fiori di rosa, giusto per darmi il tempo e la possibilità di risponderle. “Sono pronto”, dissi io, e lei, ancora senza guardarmi, aprì, facendogli fare uno scatto, il cancelletto della sua recinzione.


            Bruno Magnolfi

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