La
donna si era avvicinata al cancello di ingresso, l’aveva socchiuso con un gesto
esauriente di invito a raggiungerla sul vialetto di pietre che serpeggiando
sull’erba portava fino alla sua casa, poi, senza guardarmi, mi aveva
ringraziato di essere passato da lì, e senza mezze misure mi aveva chiesto se
avevo voglia di occuparmi di quel suo giardino. Mi aveva notato già molte
volte, sapeva chi ero, disse, e si era resa ben conto, cosa questa che
rispondeva ad una verità sacrosanta, che avevo tanto di quel tempo libero da
non sapere quasi come occuparlo. Naturalmente mi avrebbe pagato, e a lei era
sufficiente che io andassi a sistemare i suoi fiori e le piante un’ora ogni
giorno, in orario pomeridiano a mia discrezione. Il giardino attorno alla casa
era grande, ma non sterminato. Mi piacevano molto le attività all’aria aperta,
e occuparmi di quel verde era per me quasi un sogno. Ciò nonostante, come per
qualsiasi altra scelta effettuata nella mia vita, mi sentii subito intenzionato
a prendere del tempo prima di decidere qualcosa, valutare bene l’offerta,
riflettere su quelle parole, considerare tutte le cose. Peraltro perdere anche
solo po’ di quel tempo libero durante il quale ogni pomeriggio mi crogiolavo in
solitudine in un vuoto completo di cose da fare o di cui preoccuparmi, era
adesso un elemento per cui provavo un dispiacere sincero, pur essendo attratto
e incuriosito dai modi della persona che mi stava davanti, e così volsi lo
sguardo in un aleatorio giro completo attorno al giardino, e mi limitai ad
abbozzare un leggero sorriso, senza dire niente. La vedova del dottore si girò
alla sua destra, come per incoraggiarmi a seguirla, e così, camminando sui
vialetti di pietre, dietro di lei, mi fece vedere i piccoli alberi e le aiuole
fiorite, considerando ad alta voce i cespugli da togliere, le erbacce da
eliminare, le ricrescite varie da contenere entro forme più definite. Si
interruppe, durante le sue spiegazioni, in un attimo qualsiasi di quel suo
monologo, si voltò verso di me, e per la prima volta da quando l’avevo veduta,
mi guardò dritto negli occhi. Fece un passo verso di me continuando a
guardarmi, lasciò una pausa sospesa, poi disse: “…mi darà una risposta domani,
in quel suo bar, verrò per l’aperitivo, alla solita ora…”. Provai un leggero
disagio, ripresi il mio leggero sorriso e dissi soltanto: “…d’accordo…”,
riflettendo tra me che il solo pensiero di quel caffè con le sue sedie di
plastica e la strada davanti, mi faceva immaginare un mondo migliore, o meglio,
un mondo che andava via via migliorando, in perfetto stile ottimistico. Le
strinsi la mano, e quel breve contatto mi piacque, poi, mentre già scivolavo
verso il cancello, mi girai verso di lei, che era rimasta là, ferma, e le
dissi: “…non conosco neanche il suo nome; come devo chiamarla?…”. Lei tornò
ancora a guardarmi, strinse una mano dentro a quell’altra, poi disse: “Mi
chiamerà signora Torrini, come c’è scritto sopra al mio campanello; salvo le
volte che saremo da soli, qui, in questo giardino, e in quei casi potrà
chiamarmi Iolanda, signor Colamonti…”. Uscii, senza riuscire a stabilire tra me
se fossi contento di quella giornata oppure no. Feci un giro, passando tra le
case di quel piccolo paese, e guardai le finestre, le recinzioni, i giardini di
tutti; poi attraversai la strada provinciale, che in quel momento lasciava
andar via un camionista svogliato che lentamente spandeva la polvere, con le
ruote pesanti di quel suo veicolo, nell’aria calda della serata: mi passò
accanto mentre io lo guardavo, e mi inviò un piccolo gesto, un saluto, forse un
accenno di scuse per la polvere o per non avermi lasciato attraversare la
strada prima di lui: come a sottolineare che non c’era bisogno di alcuna parola
per capirsi davvero, o al contrario, per non capirsi per niente, era
sufficiente uno sguardo, un accenno, una qualsiasi piccola cosa. Pareva
sottolineare, quel camionista, che non c’era bisogno di alcun impegno, era
sufficiente mettersi dalla parte di chi vuol capire i bisogni, le ragioni degli
altri, e il resto scivolava da sé, come tra persone che sanno comprendere.
Bruno
Magnolfi
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