Mi
sono seduto nella sala d’attesa, e quasi senza rendermene conto, il tempo se
n’è andato via, giorni e giorni senza che quasi mi sia reso conto di nulla. E’
arrivato un uomo, una persona piuttosto anziana, mi ha toccato una spalla, ha
detto: scusi, dobbiamo chiudere, bisogna che lei se ne vada. Mi sono alzato
dalla sedia, ho guardato l’ambiente mentre uscivo, mi sono reso conto che
appariva completamente diverso da quando ero arrivato. Così ho chiesto al
vecchio che cosa mai fosse accaduto, ma lui si è limitato a fare un gesto come
per spiegare che era una storia troppo complessa per poterne parlare così.
Sono
tornato sulla strada, ho osservato il portone e mi sono reso conto che
probabilmente non avevo alcuna necessità di recarmi in un posto del genere. Ciò
nonostante sono tornato il giorno seguente per osservare le persone che
frequentavano quel luogo, e il giorno dopo ancora ho fatto la medesima cosa,
fino ad iniziare a segnare su un taccuino delle brevi descrizioni dei
personaggi che mi passavano davanti andando ad affollare la sala d’attesa. Mi
pareva che ci fosse una caratteristica comune a tutti coloro che arrivavano lì,
ma era molto difficile capire quale fosse, e soprattutto appariva misterioso il
motivo per cui erano spinti in quel luogo.
Poi,
a fine giornata, sono tornato nel mio appartamento, mi sono seduto allo
scrittoio, ed ho ripreso in mano tutti i miei appunti. Ho visto che, di quelle
persone, nessuna di loro mi assomigliava, camminavano addirittura in modo
diverso dal mio, e soprattutto pareva, nel loro procedere, che fossero assorti
in pensieri piuttosto complessi, tanto da farli sembrare distratti, con la
testa dentro alle nuvole. Mi sono incuriosito di quel modo di essere, e sono
tornato davanti alla sala d’attesa per cercare di scoprire che cosa potesse
essere ad occupare la mente di ciascuno di loro.
Ho
fermato una donna, là davanti, le ho chiesto che ore fossero, tanto per
attaccare discorso, lei ha risposto che non aveva orologio, ma immaginava
fossero almeno le cinque, sicuramente non prima. Allora le ho chiesto come
potesse essere sicura di questo, e lei mi ha osservato con maggiore intensità,
ed infine ha spiegato che aveva sentito suonare da poco cinque rintocchi alla
campana della chiesa di quel nostro quartiere, perciò era sicura di ciò che
diceva. L’ho guardata con espressione dubitativa di quelle parole, e lei subito
ha aggiunto: lei quale ora vorrebbe che fosse, se non avesse certezza di ciò
che le ho detto?
Sul
momento non ho saputo che dire, ma subito dopo mi è presa la voglia di
spiegarle che per me non faceva una gran differenza, secondo me il tempo era
soltanto un luogo astratto che si allungava e accorciava a seconda delle necessità
o dei desideri. Infine la donna mi ha spiegato che doveva proprio andare, aveva
un appuntamento proprio per le cinque e trenta, e visto che ancora era presto,
avrebbe potuto sedersi nella sala d’attesa e riguardare i suoi incartamenti, in
modo da presentarli completi ed in ordine. Così ho lasciato che andasse, ma
quando, dopo un bel po’ di tempo, è tornata indietro a varcare la soglia di
quell’edificio, ha subito detto che forse avevo ragione: il tempo era solo
un’entità astratta, non c’era alcun gusto nel parcellizzare le cose usando
degli spazi assegnati per tutto; dovevamo interessarci di più di ciò che era
giusto, non vedeva alcun motivo per comportarsi in altra maniera. Ho annuito a
tutto quanto, l’ho salutata con cortesia, e infine, con tutta la calma del
mondo, ho ripreso la strada di casa.
Bruno
Magnolfi
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