sabato 10 marzo 2012

Semplici soluzioni.


            
            Mi sono seduto nella sala d’attesa, e quasi senza rendermene conto, il tempo se n’è andato via, giorni e giorni senza che quasi mi sia reso conto di nulla. E’ arrivato un uomo, una persona piuttosto anziana, mi ha toccato una spalla, ha detto: scusi, dobbiamo chiudere, bisogna che lei se ne vada. Mi sono alzato dalla sedia, ho guardato l’ambiente mentre uscivo, mi sono reso conto che appariva completamente diverso da quando ero arrivato. Così ho chiesto al vecchio che cosa mai fosse accaduto, ma lui si è limitato a fare un gesto come per spiegare che era una storia troppo complessa per poterne parlare così.
            Sono tornato sulla strada, ho osservato il portone e mi sono reso conto che probabilmente non avevo alcuna necessità di recarmi in un posto del genere. Ciò nonostante sono tornato il giorno seguente per osservare le persone che frequentavano quel luogo, e il giorno dopo ancora ho fatto la medesima cosa, fino ad iniziare a segnare su un taccuino delle brevi descrizioni dei personaggi che mi passavano davanti andando ad affollare la sala d’attesa. Mi pareva che ci fosse una caratteristica comune a tutti coloro che arrivavano lì, ma era molto difficile capire quale fosse, e soprattutto appariva misterioso il motivo per cui erano spinti in quel luogo.
            Poi, a fine giornata, sono tornato nel mio appartamento, mi sono seduto allo scrittoio, ed ho ripreso in mano tutti i miei appunti. Ho visto che, di quelle persone, nessuna di loro mi assomigliava, camminavano addirittura in modo diverso dal mio, e soprattutto pareva, nel loro procedere, che fossero assorti in pensieri piuttosto complessi, tanto da farli sembrare distratti, con la testa dentro alle nuvole. Mi sono incuriosito di quel modo di essere, e sono tornato davanti alla sala d’attesa per cercare di scoprire che cosa potesse essere ad occupare la mente di ciascuno di loro.
            Ho fermato una donna, là davanti, le ho chiesto che ore fossero, tanto per attaccare discorso, lei ha risposto che non aveva orologio, ma immaginava fossero almeno le cinque, sicuramente non prima. Allora le ho chiesto come potesse essere sicura di questo, e lei mi ha osservato con maggiore intensità, ed infine ha spiegato che aveva sentito suonare da poco cinque rintocchi alla campana della chiesa di quel nostro quartiere, perciò era sicura di ciò che diceva. L’ho guardata con espressione dubitativa di quelle parole, e lei subito ha aggiunto: lei quale ora vorrebbe che fosse, se non avesse certezza di ciò che le ho detto?
            Sul momento non ho saputo che dire, ma subito dopo mi è presa la voglia di spiegarle che per me non faceva una gran differenza, secondo me il tempo era soltanto un luogo astratto che si allungava e accorciava a seconda delle necessità o dei desideri. Infine la donna mi ha spiegato che doveva proprio andare, aveva un appuntamento proprio per le cinque e trenta, e visto che ancora era presto, avrebbe potuto sedersi nella sala d’attesa e riguardare i suoi incartamenti, in modo da presentarli completi ed in ordine. Così ho lasciato che andasse, ma quando, dopo un bel po’ di tempo, è tornata indietro a varcare la soglia di quell’edificio, ha subito detto che forse avevo ragione: il tempo era solo un’entità astratta, non c’era alcun gusto nel parcellizzare le cose usando degli spazi assegnati per tutto; dovevamo interessarci di più di ciò che era giusto, non vedeva alcun motivo per comportarsi in altra maniera. Ho annuito a tutto quanto, l’ho salutata con cortesia, e infine, con tutta la calma del mondo, ho ripreso la strada di casa.

            Bruno Magnolfi  

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