Sul piccolo palco adesso non è rimasto nessuno. Svogliatamente sistemo i
cavi e i microfoni, ma ho ancora nelle orecchie tutta quella musica, tutto quel
ritmo, e soprattutto il suono del sassofono che stasera mi vibrava tra i denti
come poche volte è già successo, quasi andasse da sé, libero e fluido, a far
rimbalzare sopra le persone le note ora dolci ora graffianti, e a trascinare il
resto. Forse sarà solo questa, tutta la soluzione al problema, mi dico:
metterci l'anima, far tremare l’aria di ciò che sento, di quello che provo;
oppure semplicemente è accaduto soltanto che stavolta mi sono lasciato andare
un po' più di sempre, senza preoccuparmi troppo del resto.
Fra poco butterò giù un paio di birre, e forse un panino che mi hanno
sicuramente lasciato queste brave persone della sagra, ridendo e scherzando
insieme agli altri ragazzi del gruppo. Si ride, spesso, si finge ancora di
divertirci tra noi, anche se gli anni sono trascorsi e non è successo quasi
niente di quello che speravamo davvero. Si continua a suonare quasi come se
fosse ancora la prima volta, ci diamo importanza, si cerca sempre di stare al
centro dell’attenzione, e in diversi continuano a farci i complimenti, a dire
che siamo bravi, che le facciamo davvero sognare queste platee un po’ di
provincia.
Io certe volte dico che questa è soltanto la mia passione, non un secondo
mestiere; ma di fatto questa attività è semplicemente la cosa migliore, secondo
me, che sia mai riuscito a mettere assieme. Comunque adesso il sax è pulito, le
ance sono riposte dentro le scatole, l’amplificazione è ormai tutta spenta, ma
io quasi vorrei ancora suonare, vorrei ancora dire a tutti quanto ci sento per
quel suono che esce dal mio strumento in serate come questa. Vorrei piangere
per questa vita che fugge, senza che ancora io abbia capito il senso che ha.
La musica è immediatezza, vale soltanto per il momento in cui viene
suonata, si dice, poi però lascia un’eco, anche se subito si spenge, anche troppo
velocemente, e ti lascia quasi come se niente fosse successo. Il bassista mi
batte una mano sopra la spalla: ci hai dato dentro stasera, mi dice. Sorrido,
ma vorrei abbracciarlo: l’ho fatto per te, vorrei dirgli, o per qualcun altro
che era qui, insieme a noi, e provava gli stessi nostri sentimenti, questo
profondo struggimento che mai ci abbandona, almeno quando stiamo qua sopra a
riproporre il nostro magico rito.
Mi chiamano, gli altri sono già lì, ci hanno sistemato ad un tavolo, hanno
aperto una bottiglia di vino e ci servono qualcosa di caldo. Non voglio farmi
vedere dagli altri con questa amarezza dipinta sul viso: e poi non so neppure
da che cosa mi è derivata, e perché mai proprio stasera; in fondo, se qualcuno
mi chiedesse qualcosa, non saprei neppure cosa rispondere. Scendo dal palco,
sistemo certi spinotti tanto per prendere tempo, fingo anche di preoccuparmi di
un componente tecnico, ma sento il crollo dentro di me, non so più cosa fare.
Alla fine prendo coraggio, mi avvicino agli altri, mi siedo: ho un’espressione
seria adesso. Mi guardano, sorridono per incoraggiarmi, hanno delle domande
dipinte sui volti, ma nessuno si decide a chiedermi niente. Alla fine dico
soltanto: ragazzi, stasera era l’ultima volta per me.
Bruno Magnolfi
Nessun commento:
Posta un commento